il manifesto 19.1.18
La preziosa «dote» dei migranti
Idee.
L’ospite, lo straniero, può portare più soluzioni che problemi. Serve un
grande piano europeo di conversione ecologica utile a tutti, anche ai
cittadini
di Guido Viale
Accogliere è una parola
che viene dal latino: ad-cum-ligare, legare insieme. Ma più che cercare
il suo significato nel passato, dobbiamo costruirne uno nuovo, adatto
ai tempi in cui viviamo, ai problemi con cui ci confrontiamo, alle
persone che oggi sono al centro dello scontro politico e sociale: i
profughi.
Innanzitutto accogliere non ha niente a che fare con le
«rilocalizzazioni» pretese e non realizzate dalla Commissione europea
che trattano i profughi come «pezzi» (Stücke, una parola che richiama
ricordi atroci) da smistare.
E con ciò, a prescindere dalla
«selezione» (Selektion, altro termine dai rimandi atroci) con cui
l’Unione europea pretende di accettarne alcuni e di scartare gli altri,
attacca loro l’etichetta di «ingombri», problemi. Questo produce
insofferenza, rancore e razzismo e spinge i Governi a inseguire le
parole d’ordine delle destre.
Al di là delle false professioni di spirito umanitario, con i migranti la Commissione europea è più feroce di Trump.
Inserita
in questa cornice, anche la migliore «accoglienza» riservata a persone
trattate come ingombri umilia sia loro che noi: sono esseri (umani?) di
cui «non si sa che cosa fare»; Untermenschen di cui sbarazzarsi.
L’ospitalità,
che un tempo era sacra, ci può indicare un’altra strada: l’ospite, lo
«straniero», veniva trattato come un membro della famiglia (come il
naufrago Ulisse nell’isola dei Feaci); poi veniva preparato e attrezzato
per continuare il suo viaggio.
E qual è la meta del viaggio dei profughi del nostro tempo?
Le
mete possibili sono due: o la piena cittadinanza nel paese che li
ospita; ed è certamente un percorso complesso. Oppure il ritorno nel
paese da cui sono dovuti fuggire, o sono stati cacciati, e in cui per
ora non possono ritornare: un percorso ancora più difficile.
Ma
che cosa può annullare e invertire l’effetto di rilocalizzazioni così
disumanizzanti? Il fatto che l’ospite porti con sé un dono, una «dote»
più grande dei tanti problemi che pure può generare.
Perché questo
succeda, l’ospite deve essere messo in grado di valorizzare, e di fare
in modo che vengano apprezzate, la cultura, l’energia, l’esperienza e
anche il dolore di cui è portatore: perché la comprensione del dolore,
sia nostro che altrui, aiuta tutti ad affrontare meglio le circostanze
della vita.
Ma deve anche portare con sé lavoro, reddito, diritti,
salute. E non certo perché crea un po’ di lavoro per quei pochi che
oggi vengono impiegati nella gestione dell’«accoglienza»; questo è un
falso «beneficio» che costringe all’inattività e confina nell’inutilità
l’ospite e che spesso promuove nell’ospitante la speculazione e lo
sfruttamento delle altrui disgrazie.
La dote che l’ospite, lo
straniero, il profugo, deve essere messo in grado di portare con sé è un
grande piano europeo di conversione ecologica, di lavori pubblici, di
potenziamento dei servizi: un piano capace di garantire lavoro e
sicurezza sia a lui che a tutti i cittadini dei paesi dell’Unione che
sono disoccupati, o in povertà, o costretti a lavori precari e
umilianti, o senza casa.
Gli Stati membri dell’Ue che
accoglieranno i profughi avranno accesso ai fondi e ai progetti del
piano; e quanti più profughi accoglieranno, tanto più potranno
salvaguardare il proprio territorio, riconvertire la propria economia,
creare posti di lavoro sicuri e un’abitazione decente – ristrutturando
il patrimonio edilizio degradato o abbandonato – anche per i propri
disoccupati, per i propri lavoratori precari, per i propri cittadini
emarginati.
Così i profughi saranno i benvenuti, perché quanti più
saranno, maggiori saranno le occasioni di risolvere i problemi sociali
della popolazione. Mentre i paesi che non vorranno accoglierli non
avranno accesso a quei fondi.
Ma chi paga? Certo, c’è da ridurre, e
poi azzerare, la spesa militare e i suoi costi; da combattere
l’evasione e l’elusione fiscale; da mettere la parola fine alle «grandi
opere» che devastano il territorio; da porre un argine alla corruzione.
Ma non basta.
A finanziare questo piano di riconversione ecologica deve essere la Bce, la Banca centrale europea.
La
Bce ha «tirato fuori dal cappello» più di 1.000 miliardi di euro
all’anno per salvare le banche e promuovere una ripresa stentata,
precaria e in molti casi dannosa, comunque insignificante per
l’occupazione.
Per alcuni economisti quei soldi avrebbe potuto
distribuirli ai lavoratori e ai cittadini svantaggiati adottando quello
schema paradossale di sostegno alla domanda che va sotto il nome di
helicopter money: gettare soldi a piene mani da un elicottero; chi li
prende li prende. Si sarebbero, dicono, ottenuti sicuramente risultati
migliori.
Ma c’è una via di mezzo e più sensata tra questi due
modi cretini di sostenere l’economia, ed è quello di finanziare, con
altrettanto denaro (almeno 1.000 miliardi all’anno) un piano europeo di
riconversione ecologica vincolato all’accoglienza dei profughi,
legandola indissolubilmente alla salvaguardia dell’ambiente.
Poi
c’è da prendere seriamente in considerazione la seconda possibile meta
del viaggio dei profughi: il ritorno. Non con i rimpatri forzati che
equivalgono a riconsegnarli, incatenati, ai dittatori, o alle bande
armate, o alle guerre, o ai suoli abbandonati, perché ormai sterili, da
cui erano fuggiti. Bensì aiutandoli a farsi portatori di pace, di
riconciliazione, di democrazia, di risanamento sociale e ambientale
delle loro terre.
Per farlo devono potersi organizzare durante la
loro permanenza in Europa, aver voce in capitolo nelle trattative di
pace del loro paese, nella politica estera del paese ospitante, nella
destinazione dei fondi (immensi) che oggi vengono spesi per
«esternalizzare» le frontiere e fare la guerra ai migranti lungo le loro
rotte.
Niente come la partecipazione a pieno titolo alla vita
associata nei paesi «ospitanti» e la partecipazione, come lavoratori, ai
progetti di conversione ecologica di questi paesi li può preparare –
può preparare quelli di loro che lo vorranno, e saranno sicuramente
molti – a un vero ritorno, da pionieri, nei paesi da cui sono dovuti
fuggire. Così si gettano le basi di una vera grande comunità
euro-afro-mediterranea, dove la libera circolazione delle persone torni
ad essere non solo un diritto, ma anche una reale possibilità.
Vaste
programme, avrebbe detto De Gaulle. Impraticabile per chi non vede
alternative ai diktat dell’Unione europea e della Bce. Ma irrinunciabile
per chi si candida a un ruolo di vera opposizione.
Non si deve scrivere l’elenco delle cose che faremmo «se fossimo al governo». Perché al governo non ci andremo. Per ora.
Il
nostro compito è avvalorare e diffondere la prospettiva di una
inversione radicale delle priorità, sostenerla, renderla concreta con
gli esempi, individuare e affrontare gli ostacoli che si parano di
fronte.
Un programma di opposizione deve indicare la strada per arrivare: non al governo, ma a governarci.