Repubblica 17.1.18
Futuro
Chi ha paura della nuova fantascienza?
L’ultima
ondata di libri che immaginano mondi alternativi ci racconta emergenze
ambientali, tecno-incubi, colonie spaziali senza legge
Esasperando il catastrofismo tipico dei “classici” nati in piena Guerra fredda
di Paolo Di Paolo
Esiste un futuro che non sia stato già immaginato?
Scegliendo per un’antologia le migliori storie di fantascienza pubblicate nel 1959 — Le grandi storie della fantascienza/ 21,
appena
ristampato da Bompiani — Isaac Asimov pesca autori che tirano in ballo
tirannie politiche, olocausto nucleare, eccessi inquietanti di
corporativismo aziendale. Una freschissima serie tv, Electric Dreams,
recupera i racconti scritti da Philip K. Dick negli anni Cinquanta:
viaggi spaziali, creature sintetiche, videogame, menti sotto controllo. I
classici del genere non perdono smalto nei cataloghi editoriali:
continue ristampe per Wells, per Clarke; troneggia Margaret Atwood,
rispolverata su carta e su piccolo schermo ( Il racconto dell’ancella).
Un inclassificabile come Antoine Volodine — partito come autore di
fantascienza puro — prosegue su strade a metà fra fantastoria
radioattiva ed esotismo.
L’immaginario fantascientifico cambia
davvero, riesce a evolvere? O gira all’infinito su sé stesso? Alieni,
uomini macchina, avanzamenti tecnologici votati all’apocalisse c’erano
nelle storie d’inizio Ventesimo secolo e ci sono ancora. Se il grande
Bradbury rivendicava il tentativo costante di «scartare tutti i futuri
negativi», mostrando una certa antipatia per i catastrofisti, la gran
parte dei suoi nipoti non pare troppo disposta all’ottimismo. Per
spiegare la «felice casualità» della sua scelta di campo letteraria,
l’autore di Fahrenheit 451 tendeva un filo lunghissimo da Platone a
Rabelais, da Tommaso Moro a Swift. «I romanzi di fantascienza sono i
romanzi delle idee» chiariva in una delle interviste raccolte in Siamo
noi i marziani (Bietti).
Sociologia, psicologia e storia, «messe
insieme e inquadrate nel tempo». «Sempre e solo per presagire
l’autodistruzione umana?», domanda opportunamente l’intervistatore.
L’interrogativo
resta valido. E uno sguardo sulla produzione più recente, che è tornata
a occupare grandi spazi sui banconi delle librerie, fa pensare di dover
temere il (solito) peggio. Ecco i filoni principali.
Metropoli
sommerse dall’acqua per gli effetti del disastro climatico: Kim Stanley
Robinson, New York 2140 (Fanucci). Robinson, laureato su Dick, si mostra
più che consapevole di come in ogni racconto fantascientifico sia in
gioco una visione contemporanea: «New York non è tanto un posto, quanto
un’idea o una nevrosi». Umana, naturalmente: scrivendo delle intenzioni
poco benevole degli alieni verso la nostra specie, il cinese Cixin Liu (
Il problema dei tre corpi, Mondadori) mette in scena una guerra esterna
che si risolve in devastante guerra interna. Più che la guerra dei
mondi, utilizzata all’epoca come metafora della Guerra fredda, qui c’è
l’eterna guerra nel (nostro) mondo. Laddove fosse trapiantato — sulla
Luna, per esempio — non andrebbe meglio. Andy Weir — autore del
bestseller The Martian, diventato film per la regia di Ridley Scott — in
Artemis (Newton Compton) racconta la prima colonia umana sul nostro
satellite. Case-capsule, corridoi, ascensori e scale «esattamente
identiche a quelle sulla Terra».
Negozi che non espongono i
prezzi: «Se ti serve saperli, non ti puoi permettere la merce». I
borghesi terrestri che si regalano una vacanza — una volta sola nella
vita — «di solito soggiornano negli alberghi peggiori». Tutto (o quasi)
come sul nostro pianeta: soldi su soldi, contrabbando, criminalità. La
protagonista del romanzo è una truffatrice.
Niente di nuovo
nell’universo — almeno dove gli umani mettono piede. L’unica cosa che,
dalla colonia lunare, si può invidiare ai terrestri è la velocità di
Internet: c’è un network locale su Artemis, «ma quando si tratta di
ricerche, il tutto viene rimbalzato sui server della Terra».
Incontentabili Sapiens!
In uno dei saggi più illuminanti usciti in
italiano nell’anno appena concluso — Alieni. C’è qualcuno là fuori?
(Bollati Boringhieri) — il cosmologo Martin Rees garantisce che nei
prossimi decenni di questo secolo «esploratori robotici dotati di
un’intelligenza di livello umano» ci precederanno sulle strade
dell’universo.
L’immaginazione degli scrittori è già stata lì. Poi
magari è tornata indietro, spazientita dalla lentezza della realtà. Uno
come William Gibson, per esempio — che ha già festeggiato da un po’ i
trent’anni del suo Johnny Mnemonic mezzo umano mezzo cyborg e del
cupissimo
Neuromante, ristampato da Mondadori nei mesi scorsi —
nel 2014 aveva deciso di ambientare un nuovo romanzo fra due futuri.
Quello più prossimo, nel frattempo, è già passato. Anno 2017: Hillary
Clinton è presidente degli Stati Uniti. Dite che non è andata così? Lo
stesso Gibson è stato spiazzato dagli eventi, ma non ha voluto
modificare quanto scritto. Agency — questo il titolo — uscirà così: con
dentro un futuro superato — molto in peggio — dal presente.
Due
sostantivi — “paranoia” e “mistero” — saltano all’occhio in una rassegna
annuale di titoli fantascientifici curata dalla rivista specializzata
If. Le distopie non si contano: le più intelligenti lavorano, più che su
un futuro “ripetitivo”, su una realtà angosciosamente aumentata. Senza
confini di genere: è il caso di Exit West di Mohsin Hamid, che provoca
radicalmente il nostro presente, evitando sotterranee nostalgie e
scommettendo sul politico (lo fa pure un romanzo italiano recente, Un
attimo prima di Fabio Deotto, Einaudi). Non si adagia sul
post-apocalittico Jeff VanderMeer, lo scrittore americano del
“bizzarro”, il filone new weird, curatore con sua moglie di un’antologia
di scrittrici visionarie, tra fantasy, fantascienza e femminismo ( Le
visionarie, in uscita a febbraio per Nero Editions). Con il romanzo
Borne, in arrivo per Einaudi, «non sviluppa la distopia, ma la dà per
scontata», spiega il traduttore, Vincenzo Latronico. La creaturina
aliena che una “cacciarifiuti” trova in una discarica cresce come una
pianta, e inizia a parlare. La cacciarifiuti se ne prende cura come di
un figlio adottivo. Il romanzo sposta l’asse sull’amore materno, sulla
riluttanza della natura umana — come ha scritto il New Yorker — «ad
arrendersi al lato peggiore di sé».