mercoledì 17 gennaio 2018

Repubblica 17.1.18
Chiamalo sonno
Le donne dormono (e sognano) più degli uomini
Sei milioni di persone monitorate negli Usa con braccialetti smart: lei riposa circa sette ore a notte (24 minuti più di lui)
E per un’altra ricerca conserva negli anni la qualità del sonno
di Giuliano Aluffi


ROMA Le donne sognano di più degli uomini, dormono di più e in genere hanno una qualità del sonno migliore in un arco ininterrotto che va da dall’adolescenza alla vecchiaia, rimanendo sempre leggermente sopra alle sette ore di sonno, mentre le sette ore di sonno che gli uomini godono nell’adolescenza subiscono un calo progressivo fino a meno di sei ore dopo gli 80 anni. È il verdetto dei braccialetti traccia-sonno che, sempre più diffusi, stanno aiutando i ricercatori ad accumulare quantità di dati impossibili da raccogliere in passato. Sono dati che per la prima volta si fanno strada anche nell’accademia, fino a oggi scettica sull’attendibilità degli sleep tracker da polso: un nuovo studio pubblicato su Cell Biology dal cronobiologo Till Roenneberg dell’Università Ludwig-Maximilian di Monaco, infatti, oltre a mostrare il miglior rapporto delle donne col sonno su un campione di 573 soggetti il cui sonno è stato tracciato per 16mila notti, descrive un nuovo sistema di interpretazione dei dati raccolti dai braccialetti, basato sui periodi di immobilità, che dona loro un’attendibilità non troppo inferiore a quella dei classici “laboratori del sonno” degli ospedali, i centri di polisonnografia. «I braccialetti ci permettono oggi di analizzare il sonno in contesti più naturali, come le nostre case» spiega Roenneberg a Repubblica. «E consentono analisi su periodi lunghi, di tre-sei mesi almeno, mentre nessuno passa più di una notte attaccato agli elettrodi nel laboratorio di polisonnografia».
I grafici del nuovo studio concordano per molti versi con la prima vera applicazione dei Big Data allo studio del sonno: una ricerca del produttore di smart tracker Fitbit che, aggregando i dati resi anonimi di circa oltre sei milioni di utenti, mostra come tra i 20 e i 50 anni le donne dormano in media 30 minuti in più degli uomini. Un gap che tra i 50 e 55 anni si assottiglia e scende a 20 minuti intorno ai 60 anni. Su tutto l’arco della vita — sempre secondo Fitbit — le donne dormirebbero 24 minuti in più per notte.
«Il divario sorge nell’adolescenza come fenomeno biologico: riguarda fattori come la produzione di melatonina e anche la temperatura corporea ed è probabilmente legato agli ormoni. È per ragioni più biologiche che di altro tipo che i maschi tendono ad andare a dormire anche due ore più tardi delle coetanee, dovendo poi svegliarsi alla stessa ora per la scuola» spiega il sonnologo Ugo Faraguna, docente di fisiologia all’Università di Pisa. «Questo può influire anche sull’inferiore produttività e maggiore irritabilità dei maschi durante le prime due ore di scuola. Studi americani mostrano che spostando di qualche ora la campanella d’ingresso, i risultati scolastici migliorano. Proprio quest’anno è iniziata la prima sperimentazione italiana di ingresso alle 10, presso l’Istituto Majorana di Brindisi». Usciti dall’adolescenza, i maschi diventano meno tiratardi, ma continuano a dormire di meno e ciò diventa evidente soprattutto da anziani: «Anche perché varie patologie che che possono disturbare il sonno sono a maggiore incidenza maschile» osserva Faraguna. «Ad esempio gli eventi cardiovascolari e le insufficienze venose. Così come le apnee notturne, facilitate nell’uomo dalle dimensioni relative della laringe». Ecco perché gli uomini sono meno sognatori delle donne: «Siccome sogniamo in tutte le fasi del sonno, le donne, dormendo di più, sognano di più».
Ma i problemi del sonno possono avere anche una psicologica: «Ormai diversi studi mostrano che pensare di aver dormito poco o male porta ad avere sintomi di sonnolenza diurna anche in chi in realtà ha avuto un sonno sufficiente» osserva Faraguna. «A volte è sufficiente che il sonnologo convinca il paziente che il suo sonno è normale, perché i sintomi spariscano. E i braccialetti possono rivelarsi utili a questo scopo: per rassicurare, anche una misura non ultraprecisa può andar bene. E la mera presenza del braccialetto, al di là dei dati, è una specie di Grillo Parlante che dissuade dalle notti bianche».

Il Fatto 17.1.18
Ai cileni la scusa papale sui pedofili non basta
“Vergogna” - Il mea culpa di Bergoglio non placa le critiche sui prelati scelti per gestire lo scandalo
Botte da orbi. La polizia anti-sommossa in azione
I prelati considerati da molti cileni indegni: Juan Barros che ha coperto Fernando Karadima 

di Guido Gazzoli

“Provo dolore e vergogna per il danno irreparabile causato ai bambini vittime di abusi sessuali da parte di componenti del clero cileno”, così nel discorso nella Sala degli Aranci nel palazzo presidenziale della Moneda, a Santiago del Cile, il Santo Padre ha toccato l’argomento che costituisce il problema più grave dell’operato della Chiesa in Cile. Nazione che, nell’ambito di un cattolicissimo continente latino-americano, costituisce una eccezione dato che si tratta del Paese con il minor numero di fedeli. Sebbene le parole di Bergoglio siano state seguite da un forte e spontaneo applauso, la situazione rimane difficile. E non solo perché contemporaneamente sia a Santiago che a Concepcion ci sono state manifestazioni contro la sua visita: la problematica esiste da tempo e, più che scuse e pentimenti, la gente si attende una condanna netta e un’espulsione dei responsabili dalla Chiesa. Sono circa 80 prelati e suore accusati di abusi sessuali, secondo i dati dell’organizzazione Bishop Accountability. A tutto ciò bisogna aggiungere che i laici della diocesi di Osorno chiedono da mesi la destituzione del vescovo Juan Barros che, nominato da Bergoglio, è accusato di legami e copertura degli abusi sessuali perpetrati dal sacerdote Fernando Karadima, accusato nel 2011 dal Vaticano dichiarato colpevole e solo condannato a una vita di preghiera e penitenza.
Ma i problemi per Bergoglio vengono anche dalla sua Argentina: quello che sembrava un pettegolezzo tanguero e una faccenda interna inizia a interessare la stampa internazionale, che si chiede come mai Papa Francesco, nonostante i quasi 5 anni di pontificato e le continue visite in America Latina, ancora non sia approdato nella sua patria. Sulla questione, che ha scatenato un mare di polemiche nella sua terra natale, si sono espressi diversi “amici” argentini del Papa spacciandosi come suoi portavoce e attribuendo il fatto a una antipatia di Bergoglio nei confronti del governo Macri, prontamente smentiti dalle autorità Vaticane. Però il tanto atteso messaggio profondo e interessante, promesso durante il sorvolo del territorio Argentino sulla rotta verso il Cile, si è poi rivelato un anonimo e diplomatico telegramma di saluto e nulla più, provocando una delusione cocente e particolarmente sentita in Argentina, che attende da troppo tempo un segnale chiaro e diretto sulle ragioni di questa mancanza, ma continua a non riceverlo.

Repubblica 17.1.18
La denuncia di Biles
Gli orchi dello sport
di Emanuela Audisio


Lolite al volteggio (privato). Costrette ad esserlo. Come Simone Biles e tante altre. Lolite tradite dalla voglia di essere farfalle d’acciaio. E dallo sport. «E che ora per fortuna parlano degli orrori subiti», dice Nadia Comaneci, la prima Pretty Baby della ginnastica, che andava a letto con le bambole, ma che a 14 anni e mezzo strappò per la prima volta il voto 10 ai giudici.
Anche Simone così forte e così brava si è sentita in colpa. Ma di cosa? Di esser stata zitta, di non aver reso pubblica quella che credeva una sua privata vergogna. Perché non importa se è un allenatore, un dottore, un dirigente ad imporre violenze al tuo corpo. Ma importa che una figura istituzionale approfitti della tua voglia di volare. Importa che quando sei bambina/ o si insinui nel tuo rapporto con lo sport, che ti faccia credere che sia normale farlo se vuoi salire in cima. Importa che sia qualcuno di cui ti fidi, non un nemico, ma la persona a cui confidi paure e fragilità, e che per contratto anche morale ti debba aiutare nelle tue debolezze. Importa che tu hai sette-dieci anni, sei solo una farfalla, e l’altro è un adulto. Ti siede a fianco, indossa la tua stessa divisa, ha un ruolo che merita rispetto: lui è il dottore, il tecnico che dovrebbe curare il tuo corpo. E invece ne abusa.
La denuncia di Simone Biles verso il dottore Larry Nassar, 58 anni, ex medico della nazionale olimpica di ginnastica, non è importante ai fini giudiziari perché Nassar è già in carcere. Ma è utile perché lascia capire che certi comportamenti all’interno della federazione erano evidentemente sopportati tanto che la stessa ginnastica americana ha tardato a far intervenire l’Fbi ( c’è anche l’accusa di pedopornografia). Nasser è stato licenziato nel 2015, dopo un anno di indagini, in cui non è stato sospeso. Oltre 150 donne lo accusano, 98 hanno testimoniato in tribunale: si parla di bambine di sei anni, molestate e abusate. Con gravi conseguenze: una si è tolta la vita, il padre di un un’altra si è suicidato. « Aiutateci, dateci la vostra solidarietà » , ha pregato Ron Biles, il papà di Simone. Non importa se si è femmine o maschi, si è tutti sesso debole davanti al successo e alla lusinga di diventare numeri uno. Perfino Sugar Ray Leonard, grande campione di boxe, ha ammesso tardivamente e in parte nella sua autobiografia, di essere stato abusato a 15 anni dal suo coach di 40, che già da piccolo lo costringeva a bagni promiscui nella vasca. Quello stesso coach che prima di tirargli giù la zip dei pantaloni in un parcheggio deserto gli elencava come avrebbe potuto con i suoi consigli vincere una medaglia d’oro olimpica ai Giochi di Montreal nel ’76. E qui sta la viltà. Non degli atleti, ma di chi baratta la loro fiducia nei maestri. E delle istituzioni sportive che temono di denunciare gli scandali per non sporcare la loro immagine. Il dottor Nasser è stato lasciato libero di agire nella sua « sexual misconduct » per vent’anni, tempo che ne fa un Weinstein a lunga scadenza. Molte farfalle sono volate nonostante lui e altre si sono spezzate. Ma quattro medaglie d’oro olimpiche non sono bastate a Simone Biles per fare capriole su se stessa e sul dolore di tutte.

Repubblica 17.1.18
Jury Chechi:
“Biles e gli abusi, troppe coperture in quel centro Usa”
di Mattia Chiusano


Jury Chechi, il signore degli anelli, il giorno dopo le denunce di Simone Biles: «Una storia terribile. Per quel che è successo, per i segnali che erano chiari da tempo, per le denunce tante, troppe - nei confronti di questa persona. Strana e assurda storia, Larry Nassar aveva dei precedenti, eppure gli avevano dato un incarico con le ragazze.
Forse c’è stata poca attenzione».
Chi vuole diventare campione di ginnastica deve lasciare presto, quasi bambino, la sua casa, per essere assorbito da centri d’eccellenza in cui i genitori non mettono quasi mai piede. Il destino di Simone Biles, con le conseguenze denunciate in questi giorni. Ma anche, tra migliaia di ginnasti, da Chechi, oro agli anelli ad Atlanta nel ‘96, tredici anni dopo aver scelto lo sradicamento dalla sua famiglia.
Chechi, resterà per sempre un’ombra sulla ginnastica dopo questa vicenda?
«Credo che questo tornerà ad essere un caso isolato, nel quale bisogna andare ben in fondo. Ma d’altronde, se il Papa parla di pedofilia del mondo ecclesiastico... Le molestie esistono nel cinema, nella cultura, nella musica, dappertutto. Non tutto è marcio nella ginnastica, ci sono persone che vanno allontanate per sempre, ma il resto è pulito».
Ha mai sentito parlare di abusi?
«Solo voci, di Nadia (Comaneci, ndr) e il figlio di Ceausescu, di altre atleta ma senza prove».
Ne ha parlato con Nadia?
«Non nello specifico di quella storia. Lei mi ha raccontato tutte le difficoltà di quel periodo, prima che la Romania si liberasse».
Il distacco dalla famiglia sembra obbligatorio.
«Quando fai queste scelte, il rischio è alto. Si soffre, ma una grande passione e volontà ti può aiutare nei momenti più difficili. Io volevo lavorare con Bruno Franceschetti, che allenava a Varese. Rifarei tutto».
Come la prese la sua famiglia?
«Mia madre pianse per tutto il viaggio da Prato a Varese. Mio padre la imitò al momento di separarci. Da quel giorno, mi 4 avrebbero visto un paio di volte all’anno».
Com’era la sua vita da solo in una città sconosciuta?
«Camera due metri per tre, brandina e minuscolo bagno. La vita cambiò quando mio padre mi regalò una tv dopo un paio d’anni. La cosa più divertente era il posto che mi ospitava».
Cioè?
«Un collegio arcivescovile, gestito da sacerdoti. Tanti sacerdoti e tanti minori. Un bel colpo per i miei genitori atei: hanno fatto buon viso a cattivo gioco, come me».
Si parlava di molestie allora?
«Non era d’attualità come oggi, ma la federazione vigilava con attenzione».
La sua famiglia sarebbe stata preoccupata dopo le recenti ammissioni della Chiesa.
«Mi trovavo in un ambiente sano, nonostante situazioni ambigue e difficili».
In che senso?
«C’erano tante persone, tanti stranieri, e potevi trovare tranquillamente droghe leggere».
Nel collegio arcivescovile?
«Sì. Però di abusi non ho mai avuto sentore».
Negli Stati Uniti invece...
«Stiamo parlando della nazionale più forte del mondo. È incredibile pensare alla quantità di vittime e a quanto tempo Nassar ha avuto a disposizione. Sono evidenti le coperture, non poteva fare da solo. Dopo aver ascoltato questa storia, ci penserei due volte prima di mandare mia figlia in un centro federale».

il manifesto 17.1.18
L’antropologo: «Razza» è un errore da correggere dalla Carta
Intervista. Gianfranco Biondi, autore di un appello già tre anni fa: «I costituenti non potevano saperlo, ma è come se avessero scritto che il sole gira attorno alla terra. È dimostrato da almeno cinquant’anni che le razze umane non esistono»
di Andrea Fabozzi


«L’inesistenza della razza è dimostrata scientificamente, il razzismo è un’altra cosa e certamente togliere la parola “razza” dalla nostra carta fondamentale non basterebbe a far sparire i razzisti. Ma almeno Fontana non avrebbe potuto dire quello che ha detto, giustificando le sue affermazioni con la citazione letterale della Costituzione». L’antropologo Gianfranco Biondi ha promosso, con la collega Olga Rickards, il primo appello italiano per la cancellazione della parola «razza» dall’articolo 3, era il 2014. Da allora la proposta è diventata la posizione ufficiale dell’associazione antropologica italiana e ha il sostegno di genetisti e biologi.
Perché non si può parlare di razza?
Il termine è proprio della tassonomia, la scienza biologica che dà un nome a tutti gli organismi viventi e ne stabilisce il rapporto di parentela. È stato introdotto per ordinare la variabilità delle popolazioni all’interno delle stessa specie. Per l’antropologia classica la razza era basata sui caratteri morfologici: il colore della pelle, la costituzione fisica, la forma degli occhi e altri tratti somatici. Negli anni ’60 e ’70 due successivi esperimenti, il primo di Cavalli Sforza e Bodmer e il secondo di Lewontin, hanno dimostrato che queste differenze non hanno base genetica ma ecologica, cioè derivano dall’ambiente nel quale si vive. Sono esperimenti che hanno messo definitivamente fuori gioco – “falsificato” è il termine scientifico – l’ipotesi della razza. Confermando la ricostruzione storica della distribuzione dell’uomo sulla terra.
La nostra comune origine africana?
Dalla fine degli anni ’80 sappiamo che la nostra specie è nata in Africa 200mila anni fa e che successivamente ne è uscita per colonizzare prima il vecchio e poi il nuovo mondo. Per gli antropologi 200mila anni sono troppo pochi per dividerci in razze. Se esistessero le razze morfologia e genetica dovrebbero andare d’accordo e invece sono in contrapposizione. Questo non vuol dire che non esistono le differenze biologiche. Cavalli e Bodmer hanno scoperto che dal punto di vista morfologico le popolazioni africane erano più simili a quelle australiane e quelle europee più simili a quelle asiatiche. Mentre dal punto di vista genetico gli asiatici e gli australiani sono più vicini, invece noi europei siamo più simili agli africani: per forza, le migrazioni verso l’Europa sono successive a quelle dall’Africa verso l’oriente di circa 80mila anni fa. Per lunghissimo tempo noi europei siamo stati africani.
Come risponde a chi, condividendo questi presupposti scientifici, ritiene che cancellare la parola razza dalla Costituzione possa essere pericoloso perché toglierebbe un argine al razzismo?
Rispondo che la parola va tolta dalla Costituzione perché è sbagliata. È come se ci fosse scritto che il sole gira attorno alla terra, si immagina i fisici cosa direbbero? So benissimo che non è facile intervenire sulla Costituzione, tantopiù sui principi fondamentali. E non saprei dire se è meglio limitarsi a togliere «razza» o è meglio sostituire la parola con un altro termine, come «etnia» o «provenienza geografica». Immagino che si aprirebbero altri problemi e non è compito di noi scienziati sperimentali dare questa risposta. Penso sia compito dei politici e dei costituzionalisti. Ma quell’errore secondo noi non può restare, proprio perché la Costituzione non è un monumento ma una cosa viva. Ed è anche nostra. Se la ricerca scientifica dimostra che nel testo c’è un errore e chiede di correggerlo non per questo ne sta intaccando lo spirito e il valore. Direi anzi il contrario.

il manifesto 17.1.18
Ma nell’articolo 3 c’è l’identità del paese
di Massimo Villone


Gli antichi fantasmi mostrano una deplorevole tendenza a ritornare. Ma non era mai accaduto che un candidato di primo piano in una importante campagna elettorale facesse una esplicita affermazione razzista, come Fontana. Persino ribadita con un richiamo alla Costituzione.
Il razzismo impone un rigetto immediato, senza se e senza ma. La storia lo consegna indelebilmente segnato da ingiustizia, discriminazione, sfruttamento, violenza, persecuzioni, sangue, pulizia etnica, genocidio. Il nostro paese non ne è stato immune, e ha avuto le sue leggi a tutela della razza. Anche nelle convulsioni finali del fascismo, la costituzione della repubblica di Salò sanciva, nell’art. 1, che «nella nazione italiana compiutamente si realizza la stirpe con i suoi caratteri civili, religiosi, linguistici, giuridici, etici e culturali». Richiamava altresì, nell’art. 72, la «purità della stirpe» tra le finalità essenziali della politica demografica della repubblica. Prevedeva infine, all’art. 73, il divieto per il matrimonio di cittadini italiani con sudditi di razza ebraica, e leggi speciali per quello con sudditi di altre razze o con stranieri. Che la costituzione citata da Fontana fosse quella di Salò?
No. Se l’avesse conosciuta, avrebbe capito perché la Costituzione italiana include la razza nella forte affermazione dell’eguaglianza posta dall’art. 3: tutti hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È tra le norme che più nettamente disegnano l’identità del paese. In specie, richiamando la razza l’articolo 3 nega che possa essere assunta a legittimo fondamento di regole giuridiche. Il legislatore deve essere cieco rispetto alla razza, che non ha diritto di cittadinanza nell’ordinamento giuridico, se non in termini di sanzione nel caso si volesse dare ad essa riconoscimento. È l’esatto contrario del pensiero del candidato governatore.
Alcuni studiosi negano che esistano «razze» dal punto di vista scientifico. Potremmo dire, in una sintesi certo approssimativa, che siamo già tutti più o meno meticci. Ma dovremmo per questo espungere la parola dalla Costituzione?
Una Carta fondamentale non è un manuale universitario. In essa si leggono lo spirito e la storia di un paese, e il suo progetto di futuro. Dunque, le ragioni per cui la razza è richiamata – e deve rimanere – nell’art. 3 Cost. prescindono dal sapere scientifico in materia. È possibile ci siano in Costituzione parole per cui lo stato attuale delle conoscenze permetterebbe una modifica in chiave di aggiornamento. Ad esempio, possiamo oggi parlare di salute, di cure, di trattamento sanitario negli stessi termini di un tempo, quando la durata e la qualità di vita, e gli stessi confini con la morte, sono incisi da una incessante innovazione tecnologica? Al tempo stesso, però, è chiaro che non possiamo pensare che ogni settore del sapere porti a un conforme e continuo aggiornamento dei dettati costituzionali. E chi poi risolverebbe il contrasto – sempre possibile, ed anzi fisiologico e fondamentale – tra scuole di pensiero e tra studiosi? E se, nella specie, trovasse conferma l’ipotesi che tutte le «razze» siano derivate da un gruppo di comuni antenati, rispolvereremmo il mito della razza superiore? Dunque, no a seminari permanenti sulla Costituzione, e lasciamo all’interprete il compito di mantenere i dettati costituzionali aderenti alla realtà sempre mutevole.
Ma la scienza ci piace, e molto. Ad esempio, ci dice che tra il Dna dell’uomo e quello delle scimmie esiste una differenza di pochi punti in percentuale. L’esperienza suggerisce, però, che per alcuni uomini la differenza sia minore. E siamo certi che le scimmie abbiano un animo più generoso e gentile.

Corriere 17.1.18
Il vero senso di quella parola nell’articolo 3
di Paolo Fallai


D opo aver insanguinato la nostra civiltà per secoli, la parola «razza» continua ad essere usata con sconcertante superficialità, molto al di là delle polemiche politiche. Da decenni gli antropologi, che studiano l’uomo dal punto di vista biologico, sociale e culturale, si sgolano per ripeterci che il concetto stesso di «razza» non ha più alcun valore scientifico: gli esseri umani condividono il 99,9% del patrimonio genetico. Gianfranco Biondi e Olga Rickards, ci hanno scritto un libro fondamentale ( L’errore della razza , Carocci, 2011). Nel 2014, dopo l’ennesima campagna di polemiche «razziste», l’Assemblea nazionale francese approvò l’eliminazione della parola «razza» dalla Costituzione e da ogni altro documento pubblico. Gli antropologi italiani ci provarono anche a Roma: Biondi e Rickards scrissero una lettera aperta alle alte cariche dello Stato (su scienzainrete.it ), chiedendo di eliminare il termine dalla Carta e dai documenti amministrativi. Come è noto l’articolo 3 della nostra Costituzione recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Con tutta evidenza, i costituenti citarono la razza per ragioni anti discriminatorie, in un’epoca in cui essa, tuttavia, aveva ancora una certa vitalità scientifica. Che da molto tempo non ha più. Pochi mesi dopo su l a Lettura del Corriere altri due importanti antropologi Adriano Favole e Stefano Allovio, rilanciarono il dibattito, pur con tutto il pessimismo del caso: «L’operazione, assai improbabile nel clima politico attuale, sarebbe simbolicamente molto forte come presa di posizione contro ogni forma di razzismo, xenofobia e discriminazione», denunciando la pericolosa assenza nella scuola di un’azione culturale e formativa sui reali motivi di differenze e somiglianze tra società e culture. A quella richiesta nessuno ha mai risposto. Quel vuoto non è mai stato colmato.

il manifesto 17.1.18
Razzismo, il problema (purtroppo) non è solo Fontana
di Alessandro Dal Lago


Fino all’altro ieri solo poche decine di migliaia di lombardi avevano sentito parlare di Attilio Fontana, già sindaco di Varese, vicepretore onorario di Gavirate. Un avvocato, talvolta provvisto di barba e talvolta no, considerato un «leghista per bene», come dire un leghista scarsamente visibile, e infatti l’astuto Berlusconi aveva fiutato in lui un possibile perdente.
E ora, l’estremista in grisaglia è uscito con la storia della «razza bianca» da difendere contro gli immigrati invasori, una dichiarazione che persino Trump esiterebbe a twittare. Un bell’autogoal. Addirittura Gasparri ha preso le distanze dall’imprudente vicepretore onorario.
Il quale però insiste e, invece di andare a nascondersi, sostiene che persino la nostra costituzione parla di «razza». Come se, dopo un autogoal, il giocatore responsabile andasse a insultare l’arbitro.
Ovviamente il nostro vicepretore onorario avrà frequentato il corso di diritto costituzionale (alla Statale di Milano, dove si è laureato, è obbligatorio al primo anno). E quindi saprà che la parola «razza» è ricordata all’art. 3 della Carta: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
Ora, chiunque capisce che qui la parola «razza» è usata in senso antirazzista.
La nostra costituzione è del 1947, e forse, a quel tempo, i padri costituenti erano meno sensibili di noi alle sfumature lessicali. Volevano dire semplicemente che la razza non conta. Magari oggi si direbbe «tutti sono uguali davanti alla legge senza alcuna distinzione».
In ogni caso, le parole significano per l’intenzione di chi parla e soprattutto nel loro contesto (ma forse Fontana non lo sa, dato che queste cose le insegnano a Lettere).
Ora, nell’Italia di oggi, parlare di «razza bianca» a proposito di chi sarebbe minacciato dagli stranieri è razzismo puro e semplice, esattamente come nell’Italia delle leggi razziali o nel Mississippi del Ku Klux Klan.
Significa infatti dire che c’è una categoria di cittadini che non deve mescolarsi con altri cittadini o comunque soggetti tutelati dalla legge «senza distinzione», come i migranti.
Insomma Fontana vorrebbe una categoria di cittadini «pura». Ecco un’espressione esplicitamente razzista, conforme in tutto e per tutto all’ideologia del suprematismo bianco..
Detto questo, il problema vero non è certamente Fontana, ma tutta la sua parte politica, che è sì in imbarazzo per l’uscita dell’aspirante governatore, ma sotto sotto la pensa esattamente come lui o usa parole simili per qualche voto in più. Come i 500.000 immigrati delinquenti di Berlusconi.
Cifre immaginarie, iperboliche, che non significano nulla, ma che terrorizzano anziani, persone fragili e timorose, insomma un bel bacino elettorale da conquistare. Ma così facendo, non si farà che aumentare il razzismo implicito o esplicito, giustificare uscite sempre più clamorose, in una spirale senza fine.
Ovviamente, questo a Berlusconi non interessa. Ma sembra che non interessi nemmeno ai suoi supposti avversari politici.
I reati diminuiscono, ma la domanda di sicurezza cresce, ha detto ieri il presidente Gentiloni. E come spiegare, questa contraddizione così plateale? Se è una questione di percezione, perché non lavorare sulla percezione, invece di invocare maggiore sicurezza, e quindi mandare più soldati e poliziotti in giro, facendo credere ai cittadini che i reati stiano aumentando?
Misteri della politica italiana. No, il problema dell’Italia di oggi non è solo Fontana.

Repubblica 17.1.18
La Costituzione tradita
I sofismi razzisti


di Nadia Urbinati
Apprendiamo dal candidato di Forza Italia e Lega alla presidenza della Regione Lombardia che la Costituzione della Repubblica italiana giustifica il razzismo. La Costituzione sembrerebbe rivendicare, secondo la farneticante dichiarazione di Attilio Fontana, una politica razzista proprio perché contiene la parola “razza”! Potenza della ragione illogica che fa dire alla nostra Carta l’opposto di quel che dice. L’articolo 3 primo comma recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Molto chiaramente, dice l’opposto di quel che il sofista Fontana le vorrebbe far dire. Afferma infatti che tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di razza. Quindi presume che più razze possano vivere insieme e presume che l’essere per caso nato con un certo colore della pelle ( o di una certa razza) non ha rilevanza alcuna dal punto di vista della dignità sociale e della posizione di fronte alla legge, che è perfettamente uguale a chi per caso è nato con altro colore e in un’altra razza.
La Costituzione non dichiara di voler proteggere una razza come fosse una specie in via d’estinzione. Non avalla o giustifica ideologie o progetti di pulizia etnica, o di espulsione o di discriminazione per proteggere una razza (quella bianca per esempio, che tra l’altro ha un biancore diverso non appena ci si sposti a nord delle Alpi). Ora, è probabile che il candidato Fontana sappia tutte queste cose molto bene. Non vogliamo dubitare. Ma se così è la sua manipolazione è ancora più grave perché quella frase infelice che vuole associare la razza alla Carta ha tutta l’intenzione di mettere in circolo l’idea assolutamente sbagliata per cui non ci sarebbe proprio nulla di male ad essere razzisti, visto che la stessa Costituzione giustifica il ricorso al discorso della razza. Venendo l’Italia dal fascismo (e le parole di Fontana confermano quanto sia ancora vivo) che nel 1938 approvò le leggi razziali, i costituenti vollero essere puntuali e puntigliosi per non dare adito a nessun dubbio — e per non mettere una cortina di silenzio su quella vergognosa pagina della nostra storia nazionale. E hanno fatto lo stesso con le altre identità che furono per decenni ragioni di discriminazione: la classe sociale, il sesso, la religione, la minoranza linguistica, le opinioni politiche. Elencare con precisione le ragioni che avevano giustificato violenze e disciminazioni: questa era una potente strategia, per ricordare e mai dimenticare. La Carta non poteva essere più chiara.
La propaganda politica e la demagogia sono pronte a mettere in sordina la verità dei fatti — in questo caso un testo scritto — pur di confondere le idee. Certo, non vi è di che stupirsi, soprattutto in un’età come questa, nella quale il populismo è low cost e l’audience si fa sovranità diretta. Ma la politica libera e la contestazione aperta ci inducono a sorvegliare, a denunciare, a confutare: il razzismo è anti-costituzionale, e la Costituzione è la negazione del razzismo. Vi è di più: i profeti di razzismo sono a tutti gli effetti profeti di sventura perché fagocitando l’intolleranza, educano alla violenza e istigano alla tensione sociale — condizioni che non possono essere nell’interesse di una regione moderna e industriosa come la Lombardia. Si dice spesso che questo è parlare alla “ pancia del paese” — in verità, sono i procuratori di propaganda a creare quella “pancia” per poi dire di rappresentarla al meglio. I cittadini lombardi dovrebbero resistere alla rappresentazione che Fontana dà di loro: ovvero, come “ pancia” del paese peggiore, e non come “ mente e cuore” di una regione che ha aperto le porte al mondo e alle idee, ed educato il paese ai valori della convivenza.

il manifesto 17.1.18
«Nei bantustan in Sudafrica un’unica apartheid, in Palestina tante»
Intervista. Salim Vally, professore sudafricano e leader del Palestine Solidarity Committee: «Il sistema israeliano è più sofisticato: si applica in forme diverse alle diverse 'sacche' di palestinesi. E a differenza degli Afrikaners non è così dipendente dalla manodopera araba»
di Chiara Cruciati


Da anni attivisti, esperti e ricercatori studiano i parallelismi tra il Sudafrica del dominio Afrikaners e il regime che Israele ha imposto sulla popolazione palestinese. Alla base sta il concetto di apartheid che, seppur con ovvie differenze storiche, è applicato ai due sistemi e che è definito dal diritto internazionale come «regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e di dominio di un gruppo razziale su qualsiasi altro gruppo razziale».
Ma se a 20 anni dalla sconfitta dell’apartheid sudafricana come sistema legale le disuguaglianze socio-economiche tra bianchi e nere permangono, Israele porta avanti la sistematica discriminazione della popolazione palestinese sotto la propria effettiva autorità, che si tratti dei palestinesi cittadini israeliani o dei residenti nei Territori Occupati.
Ne abbiamo parlato con Salim Vally, professore all’Università di Johannesburg e direttore del Center for Education Rights and transformation, leader del Palestine Solidarity Committee sudafricano e attivista anti-apartheid di lungo corso.
A due decenni dalla fine dell’apartheid legale in Sudafrica, cosa resta del sistema di segregazione? Permane un’apartheid ufficiosa o, come la definisce un’analisi del think tank al-Shabaka, un «capitalismo razziale» nel paese?
Sono completamente d’accordo con il concetto usato dagli autori dell’analisi citata, Haidar Eid e Andy Clarno. Il capitalismo razziale è la causa dell’assenza di un reale cambiamento: il sistema di apartheid, la sua legislazione e la discriminazione legale sono stati rimossi dalle leggi dello Stato, ma non la discriminazione di classe, in termini di povertà, di proprietà. Nulla è cambiato. Ci troviamo di fronte ad un sistema liberale democratico come risultato dei negoziati dei primi anni ’90, ma non a reali cambiamenti strutturali.
È la razza che continua a definire opportunità e accesso a casa, terre, educazione, servizi. Una forma diversa e occulta di colonizzazione?
Il processo per cui alcune persone si sono arricchite e altre impoverite segue linee razziali. Usare la razza per giustificare la spoliazione della gente e l’accumulazione rapida da parte di pochi significa utilizzare linee di «colore». Le questioni di razza e classe non possono essere divise, l’intera struttura dipende da capitalismo e razzismo. Succede anche in altri paesi ma in Sudafrica in modo molto più sistematico. Tutti noi abbiamo combattuto l’apartheid e pagato un prezzo e siamo consapevoli che la situazione è migliorata, che c’è stato un avanzamento chiaro sul piano della discriminazione legale, ma è vero anche che la maggior parte dei poveri e della classe operaia non ha visto migliorare le proprie condizioni socio economiche.
Salim Vally
Perché nel Sudafrica della lotta all’apartheid e del governo ormai ventennale dell’Anc, la discriminazione non è stata sconfitta?
Perché la struttura economica della società non è stata cambiata nelle sue fondamenta. Come accaduto anche in Asia e America latina, l’indipendenza politica ha portato a nuove élite e nuove bandiere ma le principali sorgenti dello sfruttamento sono spesso rimaste le stesse. Il vero potere, quello economico, è in mano a chi lo aveva già, alla borghesia tradizionale, nel caso sudafricano quella bianca. A questa si aggiunge una piccola quota di borghesia nera, ma la maggior parte dei neri sono intrappolati in una tremenda povertà.
Inevitabile è il parallelo con il modello israeliano. Nelson Mandela disse: «La nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi». E Desmond Tutu ripete che quella israeliana è una segregazione ancora peggiore di quella degli Afrikaners. Quali i punti in comune e quali le differenze?
Ci sono molti elementi comuni, il modello israeliano è parte della «famiglia» dei regimi di apartheid. I pensieri espressi da Mandela e Tutu sono molto accurati. Chi di noi ha visitato la Palestina ha immediatamente visto le similitudini nella discriminazione quotidiana: mancata libertà di movimento, regime dei permessi, demolizioni di case, detenzioni senza processo, divisione in bantustan di Cisgiordania e Gerusalemme. Tutto questo riflette il modello operativo dell’occupazione che non esitiamo a definire stato di apartheid.
È molto importante sul piano giuridico e del diritto internazionale ricordare che l’Onu ha votato alla fine degli anni ’80, dopo lo scoppio della prima Intifada per intenderci, una risoluzione di condanna ed eliminazione dell’apartheid, ovviamente riferita all’epoca al Sudafrica ma volontariamente posta come concetto generico. L’obiettivo era riferirsi a qualsiasi possibile paese. Esperti giuridici di tutto il mondo, come John Dugand e Richard Falk, hanno detto più volte che Israele si qualifica come Stato di apartheid.
Esistono ovviamente anche significative differenze tra Israele e Sudafrica dell’apartheid. Un esempio: la classe al potere in Sudafrica dipendeva dalla forza lavoro nera a basso costo e per questo lo sviluppo dei sindacati ha permesso di resistere con più efficacia al regime semplicemente sottraendogli lavoratori e bloccando l’economia. Nel caso palestinese non accade: se inizialmente Israele ha sfruttato la manodopera palestinese, l’ha poi marginalizzata. L’economia israeliana non è dipendente dalla forza lavoro palestinese.
Il caso palestinese è inoltre caratterizzato dalla divisione in territori e conseguenti status legali diversi della popolazione (rifugiati della diaspora, residenti apolidi di Gerusalemme, comunità sotto occupazione a Gaza e in Cisgiordania e palestinesi cittadini israeliani). Forme diverse di apartheid o un unico sistema?
È come se il popolo palestinese fosse tanti popoli diversi. È fondamentale ricordarsi dei 7 milioni di profughi all’estero e dei quasi 2 milioni di palestinesi cittadini israeliani discriminati. La situazione è dunque diversa dalla segregazione sudafricana dove con il sistema dei bantustan si puntava al controllo fisico e limitato nello spazio della popolazione nera, dove però non c’erano differenze di trattamento. Il sistema di apartheid di Israele è infinitamente più sofisticato perché si applica in forme diverse alle diverse «sacche» di palestinesi. Ciò rende la loro situazione peggiore di quella che la maggior parte dei sudafricani ha sopportato.
Nel caso sudafricano, oltre alla mobilitazione interna, un ruolo centrale lo ebbe il boicottaggio internazionale. In quello palestinese il boicottaggio esiste, ha effetti concreti ma resta un’opzione elle società civili, non dei governi. Quale la chiave per aprire le stanze dei bottoni?
Nel caso sudafricano ci sono voluti decenni prima che si arrivasse al boicottaggio internazionale e che questo divenisse significativo: la prima chiamata la boicottaggio risale al 1959. Non abbiamo raggiunto questo livello con la questione palestinese, ma non significa che un movimento non esista. Significa che il supporto globale può avere effetti contro l’impunità di Israele, soprattutto in Europa, se si moltiplicano le spinte dalla base ai vertici. Ognuno di noi di fronte alle atrocità che vede deve giocare un ruolo: studenti, professori, organizzazioni, associazioni di donne e così via sono il solo mezzo di pressione sui governi al potere, che beneficiano loro stessi dell’occupazione israeliana.
Abbiamo visto in questi giorni Ibrahim Abu Thuraya, disabile, ucciso da un cecchino israeliano mentre sventolava una bandiera, un omicidio extragiudiziale; la 16enne Ahed Tamimi arrestata per uno schiaffo; due milioni di persone sotto assedio a Gaza; 500 bambini arrestati ogni anno e torturati…posso andare avanti per giorni a elencare le atrocità israeliane. E tutto avviene nel silenzio internazionale. Dobbiamo agire ora perché la repressione che subiscono i palestinesi è ora. Netanyahu, il movimento dei coloni, la gran parte del governo israeliano la vedono come la soluzione definitiva a quanto iniziato nel 1948, un genocidio in termini di presenza fisica, culturale, sociale, così come lo definisce – usando la definizione dell’Onu – Ilan Pappe. Tutto questo può spingere la gente a guardare alla solidarietà internazionale e al rafforzamento delle organizzazioni di base palestinesi come sola alternativa alla posizione dei governi.
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Salim Vally è impegnato in questi giorni in un tour in Italia, una serie di incontri sul ruolo del boicottaggio internazionale nella lotta all’apartheid. Lunedì ha parlato a Cagliari, ieri a Torino. Oggi sarà a Trieste, domani a Bologna e venerdì a Reggio Emilia. Informazioni su luoghi e orari nella pagina Facebook di Bds Italia.

il manifesto 17.1.18
Olp, riconoscimento Israele sospeso sino a realizzazione diritti palestinesi
Palestina . Il Consiglio Centrale ha chiesto anche l'interruzione della cooperazione di sicurezza. L'attuazione dei provvedimenti deve essere approvata dal presidente Abu Mazen. Intanto sull'Unrwa, l'agenzia dell'Onu che assiste i profughi palestinesi, grava la minaccia del taglio dei fondi Usa
di Michele Giorgio


GERUSALEMME «Niente riconoscimento di Israele senza reciprocità». È stato perentorio ieri Nabil Shaath. Ex ministro degli esteri dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Shaath è stato uno dei personaggi di spicco degli “anni di Oslo”. Fino all’inizio della seconda Intifada, nel 2000, come molti suoi colleghi di governo vendeva ai palestinesi un futuro di prosperità, libertà e indipendenza che non è stato mai raggiunto, come i critici degli accordi firmati da Israele e Olp nel 1993 avevano ampiamente previsto. Oggi Shaath è fautore della linea della fermezza nei confronti di Israele e degli Usa. «Il Consiglio centrale palestinese ha deciso di congelare il riconoscimento di Israele da parte dello Stato (palestinese) fino a quando Israele riconoscerà la Palestina come Stato», ha annunciato Shaath riferendo che con 74 favorevoli, due contrari e una dozzina di astenuti il parlamento ridotto dell’Olp ha dato «seguito concreto» al discorso pronunciato domenica da Abu Mazen. Il presidente palestinese, usando un insolito tono battagliero, ha proclamato la fine del processo nato a Oslo nel 1993, a causa delle politiche di Israele, e ribadito il secco rifiuto del piano di pace americano, noto come “L’Accordo del secolo”, dopo lo «schiaffo» dato ai palestinesi da Donald Trump con il suo riconoscimento unilaterale di Gerusalemme come capitale di Israele.
Sul «seguito concreto» la cautela è d’obbligo. Che la rabbia di Abu Mazen e del suo entourage sia genuina non ci sono dubbi. Tuttavia è bene ricordare che il Consiglio Centrale dell’Olp, ad esempio, non solo lunedì scorso ma già nel 2015 aveva approvato l’interruzione immediata del coordinamento di sicurezza tra servizi palestinesi e israeliani. Ma tale decisione non è mai stata attuata ed è rimasta congelata per decisione proprio di Abu Mazen, chiamato ora a ratificare e a rendere esecutive le richieste fatte dal Consiglio Centrale dell’Olp. Che ciò possa avvenire è difficile crederlo. Abu Mazen ha fatto la voce grossa ma non ha ordinato lo stop alla cooperazione di sicurezza, lo confermava ieri all’Ong “Israel Project” il colonnello Alon Eviatar del Cogat, l’ufficio militare che coordina le attività del governo israeliano nei Territori occupati. Il presidente palestinese inoltre si è guardato bene dal velocizzare la riconciliazione con gli islamisti di Hamas che controllano Gaza. «Abu Mazen intende tenere aperta la porta sull’Occidente e sa che riconciliandosi con Hamas in questo momento delicato in cui cerca appoggi in Europa e altri Paesi, quella porta si chiuderebbe», spiega al manifesto l’analista di Gaza Mukreim Abu Saada. Anche i contatti con gli Usa non sono stati interrotti totalmente.
Sullo sfondo di questa battaglia diplomatica fatta di proclami, dichiarazioni e minacce verbali, si consuma il dramma di milioni di profughi della Nakba palestinese (1948) e dei loro discendenti in attesa di conoscere se gli Stati Uniti, come minacciano da giorni, ridurranno drasticamente il loro contributo (355 milioni di dollari nel 2017) all’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che assiste 5,3 milioni di rifugiati palestinesi e gestisce 711 scuole e 143 cliniche. «La nostra agenzia resta impegnata a svolgere i suoi servizi vitali per i profughi palestinesi. Nonostante le intenzioni manifestate dagli Stati Uniti, continuerà a operare in Siria, Libano, Giordania, Cisgiordania e Striscia di Gaza e a Gerusalemme Est», assicura un portavoce dell’Unrwa, Sami Mashasha. L’allarme comunque è concreto. Ieri sera si attendevano le decisioni di Washington che, come ha avvertito Trump, è pronta a congelare la metà del primo contributo annuale Usa all’Unrwa di 125 milioni di dollari. In questi ultimi anni l’Unrwa ha già dovuto affrontare una riduzione delle donazioni internazionali, causata della diminuita attenzione verso i diritti dei profughi palestinesi. Israele è favore dei tagli minacciati dalla Casa Bianca. Secondo il premier Netanyahu l’Unrwa dovrebbe sparire poiché, afferma, con la sua attività assistenziale impedirebbe l’assorbimento dei profughi palestinesi nei Paesi arabi in cui si trovano e alimenterebbe il desiderio dei rifugiati al “ritorno” in Palestina.

Il Fatto 17.1.18
“La pace è morta”, e anche l’Olp non si sente tanto bene
Una leadership senza ricambio, il presidente dell’Anp Abu Mazen in declino: cresce lo scollamento con la popolazione
Abu Mazen: Israele ha messo fine agli accordi di Oslo
di Fabio Scuto


Le strade della Capitale de facto dei palestinesi sono battute da un vento freddo, piove a tratti. Manca nelle strade quella confusione che contraddistingue tutti i centri urbani arabi. Poca gente in giro e poca voglia di parlare della fine del processo di pace, “della morte degli accordi di Oslo”, come ha annunciato il presidente palestinese Abu Mazen nel suo discorso in replica alle decisioni assunte dalla Casa Bianca su Gerusalemme, dove presto gli Usa apriranno la loro ambasciata. Un discorso di rara durezza quello del presidente dell’Anp che ha assalito con rabbia l’Amministrazione Trump per la gestione del conflitto e ha annunciato di voler escludere la leadership americana da eventuali colloqui di pace. L’accordo che propongono gli americani “è lo schiaffo del secolo”, ha detto l’anziano raìs ai 90 partecipanti agli Stati generale dell’Olp. Abu Mazen non ha preso in considerazione una possibile alternativa alla “soluzione dei due Stati”, idea nella quale ha creduto anche la diplomazia internazionale ma che dopo 20 anni si dimostra quasi impossibile da attuare sul terreno, anche se ci fosse la volontà politica che invece manca.
Le sue parole sono state l’addio di un leader alla fine del suo percorso politico. A marzo Abu Mazen festeggerà il suo 83° compleanno, sarà un festa triste senza un solo risultato raggiunto. Senza una soluzione politica con Israele all’orizzonte e senza un vero accordo con Hamas, che controlla sempre la Striscia di Gaza che affoga nella disperazione economica.
La frustrazione dei delegati al Consiglio centrale dell’Olp era palpabile. Guardando i loro volti era evidente quanto l’Olp e Fatah – il partito del presidente – in questi anni si siano rifiutati di cambiare o riformare dirigenti e quadri. I leader di oggi sono gli stessi che hanno guidato l’Olp negli anni 80 in Libano e in Cisgiordania. Inoltre Abu Mazen negli anni ha ignorato le richieste di riforma e soffocato ogni tipo di critica, isolando ed epurando i suoi oppositori, da Marwan Barghouti a Mohammed Dahlan, all’ex premier Salam Fayyad. Il presidente palestinese sa che non sta andando bene nei sondaggi e che ha toccato un minimo senza precedenti. Le giovani generazioni, che non credono in questa leadership, sono deluse e rabbiose, pronte a scattare. Nonostante le sue parole dure, Abu Mazen ha ripetuto più volte che l’unica strada è il negoziato e l’unica resistenza palestinese è pacifica, non armata. Ha tracciato una linea rossa: sì alla disperazione, no a una intifada armata. La tenaglia diplomatica però si sta stringendo. L’Amministrazione Trump ha imposto una drastica riduzione dei fondi per l’Agenzia di aiuto ai profughi (Unrwa) e minaccia di ridurre l’assistenza all’Anp se non si piega ai suoi ordini.
Tra l’altro anche il sostegno arabo si sta gradualmente incrinando mentre l’Arabia Saudita si unisce all’Alleanza israelo-americana con la richiesta ad Abu Mazen di rinunciare ai principi fondamentali del nazionalismo palestinese: Gerusalemme Est come Capitale, confini del 1967, diritto al ritorno dei profughi.
È chiaro che uno Stato palestinese non nascerà a fianco di Israele. Ma cosa accadrà quando Abu Mazen non siederà più nella Mukata di Ramallah? Israele è intenzionato a preservare la situazione attuale, oppure annetterà l’area della Cisgiordania che controlla – per il 60% – e concederà l’autonomia alle città palestinesi? E il successore di Abu Mazen sarà anch’egli convinto che la soluzione sia pacifica e negoziale? Sarebbe un errore disastroso attendere. In assenza di un orizzonte diplomatico, aumenta il potere dei gruppi religiosi e dei laici secolari, il terrorismo rischia di diventare l’alternativa e la possibilità di uno scontro armato si espande, specie lungo i confini di Gaza. Come ha scritto Haaretz nel suo editoriale ieri “la disperazione palestinese non è un vantaggio per Israele”.
Abu Mazen ha annunciato di respingere la mediazione americana nel prossimo futuro, ma “nessun altro Paese può sostituire gli Stati Uniti” spiega Ghassan Khatib, analista politico di Ramallah, “quindi, non ci sarà nessun processo diplomatico nel prossimo futuro”. La prospettiva di una indipendenza si allontana ma i palestinesi faticano a riconoscere la necessità di un cambiamento di linea, come di svecchiare i quadri. “Molte parole e pochi fatti”, riassume Diana Buttu, che di Abu Mazen fu capo di gabinetto e oggi è tra i suoi critici più accesi. “Il presidente ha 83 anni e gran parte della leadership appartiene alla stessa generazione: è ora di cambiare, un movimento rivoluzionario non può avere alla guida persone che hanno superato l’età della pensione”.

Corriere 17.1.18
Fondi dimezzati ai palestinesi


L’amministrazione di Donald Trump ha deciso di dimezzare i fondi per i profughi palestinesi finanziati dall’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite criticata fortemente da Israele. Gli Stati Uniti hanno deciso di trattenere 65 milioni di dollari dei 125 previsti inizialmente e hanno chiesto che l’Unrwa affronti una «sostanziale revisione» del proprio programma. I restanti 60 milioni saranno erogati per impedire che l’Unrwa finisca la liquidità entro fine mese e chiuda.

il manifesto 17.1.18
La corrente nera che scuote i tedeschi
Estrema destra. Un «sistema di pensiero» che la sconfitta di Hitler nella seconda guerra mondiale non ha cancellato. Una mostra al Centro di documentazione sul nazionalsocialismo di Monaco.
di Jacopo Rosatelli


Una foto in bianco e nero della toilette di un locale pubblico. Sulle porte le classiche figure stilizzate di ambo i sessi. Ma insieme. In alto a sinistra, una scritta accompagnata dal simbolo del partito dei Grünen: «Nuova proposta folle dei Verdi: bagni unisex!». Sotto, su rassicurante sfondo azzurro, campeggia lo slogan: «Buttiamo nel gabinetto le sconclusionate proposte del delirio gender!». Firmato Csu, l’Unione cristiano-sociale che in Baviera regna incontrastata.
L’immagine è stata diffusa in un post su twitter della formazione conservatrice, costola della Cdu della cancelliera Angela Merkel, ed è probabilmente la più importante fra quelle che si possono osservare nella mostra Estremismo di destra in Germania dal 1945, in corso (fino al 2 aprile) al Centro di documentazione sul nazionalsocialismo di Monaco (NS Dokumentationszentrum München).
IL MOTIVO DELLA RILEVANZA di tale figura è presto detto: in un museo pubblico, ultima creazione sorta nel quartiere dell’arte della capitale bavarese, la potentissima Csu è messa in relazione, pur se indirettamente, con l’ideologia del neofascismo. A testimonianza di un coraggio intellettuale che in Germania non manca quando si fanno i conti con la corrente nera che attraversa la storia di questo Paese, il suo passato, ma anche il suo presente, come insegna il successo che riscuote il movimento nazionalista e xenofobo Alternative für Deutschland (AfD). Non siamo in una piccola e semi-clandestina galleria alternativa, ma nel cuore del Kunstareal monacense, a due passi dalle ricchissime pinacoteche dove sono raccolti capolavori, da Dürer all’espressionismo, e nei paraggi di quell’Accademia musicale al centro della seconda parte della leggendaria Heimat di Edgar Reitz. Chi visita la città e non si limita alle pittoresche birrerie e allo stadio del Bayern passa certamente anche di qua.
Meritoriamente, quindi, il Centro di documentazione sul nazionalsocialismo non solo ha prodotto un’esposizione temporanea dedicata a un tema di bruciante attualità, ma ha deciso di farlo senza infingimenti. Non una narrazione consolatoria e auto-assolutoria per la società tedesca, ma decisamente disturbante. In linea, peraltro, con l’accurata sezione permanente: tre piani di installazioni che illustrano con dovizia di particolari l’ascesa del nazismo come fenomeno che raccolse ed estremizzò istanze che circolavano già in una società permeata (anche) da tradizionalismo, militarismo e antisemitismo.
Un movimento – quello guidato da Adolf Hitler -, che nacque proprio a Monaco, città che successivamente elesse a propria simbolica «capitale», teatro del fallito colpo di stato del 1923, che costò all’uomo che sarebbe diventato il Führer una pena piuttosto mite. Segno inequivocabile dell’atteggiamento benevolo dell’establishment politico e giudiziario in Baviera.
LA MOSTRA TEMPORANEA – che ha l’unico «difetto» di avere didascalie e apparato testuale solo in tedesco – si articola in due parti: la prima dedicata alla cronologia della presenza politica organizzata dell’estrema destra dal dopoguerra a oggi, la seconda tematica. Ed è in quest’ultima, che presenta l’ideologia della galassia neo-fascista, dove troviamo la riproduzione del tweet anti-gender del partito che governa la Baviera – e, in coalizione, anche il resto della Repubblica federale. Sessismo, antifemminismo e omofobia formano infatti, raggruppati insieme, una delle dieci componenti fondamentali della Weltanschauung della destra radicale.
UNA «VISIONE DEL MONDO» che, scrivono i curatori, «basa le proprie rappresentazioni su una posizione anti-illuminista e su un sistema di norme che serve alla giustificazione delle proprie azioni». Che sono state non solo genericamente violente, ma talvolta proprio omicide, come ha tragicamente mostrato, negli anni più recenti, la vicenda inquietante dell’organizzazione terroristica Nsu (Nationalsozialistischer Untergrund), responsabile della morte di dieci persone.
Attraversando pannelli di testi e immagini, riproduzioni di manifesti, volantini, ma anche di pagine di siti internet e social network, tutti riconducibili a Monaco e alla Baviera, si è confrontati con le sfaccettature del «sistema di pensiero» che la sconfitta del nazismo nella seconda guerra mondiale non ha fatto certo scomparire.
Ingredienti che possono essere cucinati anche con salse all’apparenza più digeribili, ma che sempre tradiscono la loro chiara matrice. Il nazionalismo, innanzitutto, che può facilmente stingere in un superficialmente più innocuo «amor di patria (Vaterlandsliebe)» da esibire pubblicamente ai mondiali di calcio o nei forum economici in cui si vagheggia il ritorno al caro, vecchio marco. E poi l’ostilità verso la democrazia rappresentativa e il «politicamente corretto» che porterebbe a una limitazione della libertà di espressione, il revisionismo storico, l’antisemitismo.
Quest’ultimo si accompagna spesso a teorie complottistiche secondo il paradigma dei Protocolli dei savi di Sion: è poco noto che, quasi ad imitare la propaganda della destra razzista degli Usa contro il «non-americano» Barack Obama, negli ambienti della Afd molti credono che la cancelliera Merkel «amica degli immigrati» non sia tedesca, ma una polacca ebrea, come indicherebbe l’origine del suo cognome da nubile, Kasner.
COMPLETANO IL QUADRO ideologico razzismo, xenofobia, islamofobia, odio verso sinti e rom, e – spesso sottovalutato – il darvinismo sociale, riportato in auge dal libro La Germania si autodistrugge dell’ex politico (socialdemocratico!) Thilo Sarrazin. Pubblicato nel 2010, questo poderoso volume dai toni apocalittici contiene perle come quella riportata dai curatori della mostra: «Tutti i clan hanno una lunga tradizione di endogamia e dunque conseguentemente molti handicappati. È noto che la percentuale di handicappati fra i migranti turchi e curdi è notevolmente superiore alla media». Con un milione e mezzo di copie, in Germania è il secondo saggio a contenuto «politico» più venduto del nuovo secolo.
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ANNIVERSARI.
In Germania scatta il centesimo anno dalla fine delle monarchie
Il 2018 significa, in Germania, centesimo anniversario della fine delle monarchie. La sconfitta bellica portò alla tumultuosa proclamazione della Repubblica da parte del socialdemocratico Scheidemann dal balcone del Reichstag di Berlino il 9 novembre, con il Kaiser e Re di Prussia Guglielmo II in Belgio. Un atto che seguiva o precedeva di poco la deposizione dei regnanti sugli altri territori che componevano il Reich, come la Baviera della casata Wittelsbach.
Sono previsti, per l’occasione, libri, mostre, rassegne. I segnali che indicano che nei mesi a venire la riflessione sul passato nazionale occuperà molto spazio nel dibattito pubblico ci sono già. Lo storico Norbert Frei sulla Sueddeutsche Zeitung ha messo in luce il rischio che la ricerca di attenzione pubblica porti alcuni autori a rimettere in circolazione tesi «vittimiste» circa la fine del primo conflitto mondiale. Il settimanale Die Zeit ha dedicato all’anniversario della «Rivoluzione in Germania» la copertina del primo numero del nuovo anno, all’interno del quale Susan Neiman, filosofa americana stabilitasi a Berlino, viene intervistata sul rapporto fra la società tedesca e il principio di autorità.
Come una sorta di anticipazione del centenario, a Monaco si è appena chiusa una mostra dedicata a Kurt Eisner, primo presidente della Baviera repubblicana. Quindi, anche della Baviera attuale, che si considera in continuità con lo «Stato libero (Freistaat)» proclamato cento anni fa. Da sottolineare come la figura di Eisner, ebreo, socialdemocratico pacifista e filo-soviet, poco si confaccia al ruolo di «padre della patria» dell’attuale Land ultra-conservatore.
L’esposizione dedicatagli nel Museo civico del capoluogo (governato dalla Spd) ha fatto uscire la figura di Eisner dall’ombra in cui l’auto-rappresentazione della Baviera «ufficiale» lo ha relegato sino ad ora. Le celebrazioni che si terranno il prossimo novembre diranno se e quanto il partito-stato Csu sarà disposto a tributargli i dovuti onori.

Repubblica 17.1.18
La coalizione a trazione salviniana
Migranti e neofascismo la deriva ultrà della destra
La mancata condanna del raid di Como, l’escalation sull’immigrazione e ieri a Genova il no al divieto di piazza per le formazioni estremiste
di Carmelo Lopapa


ROMA Finisce coi consiglieri del Pd in piedi a intonare “Bella ciao”. In aula i loro colleghi di maggioranza (Forza Italia e Lega) hanno appena impedito la discussione del provvedimento che avrebbe vietato di concedere spazi pubblici a movimenti e associazioni di estrema destra.
Quelli del M5S seduti e silenti. È successo ieri, in consiglio regionale a Genova, città medaglia d’oro alla Resistenza in cui pochi giorni fa era stato accoltellato un ragazzo da militanti di Casapound. «Non abbiamo bisogno di lezioni da questo Pd», ha tagliato corto il governatore berlusconiano Giovanni Toti. Ha le spalle ben coperte, del resto.
Tra rigurgiti giustificazionisti e slogan anti-immigrati, è ormai un’escalation da parte dei suoi leader di riferimento, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Si contendono a suon di slogan il voto della famosa “pancia” del Paese, in un precipitoso smottamento a destra. Addio al «partito dell’amore», ecco la coalizione del rancore, della rabbia, della paura.
Così, il leader di Forza Italia che pure due giorni fa faceva filtrare in privato il disappunto per la sortita dell’aspirante governatore leghista Attilio Fontana, in pubblico adesso gli garantisce la piena copertura politica per la «frase infelice», il vero «rischio è che l’Europa perda la sua identità, la sua civiltà», ha ammonito ieri in un’intervista a Qn. Fa il paio con la scontata difesa di Matteo Salvini al suo uomo («Il vero problema non è la razza ma l’invasione fuori controllo»). Non è che lo stesso Cavaliere parlando domenica su Canale5 sia stato da meno, alludendo al «mezzo milione di migranti in Italia per delinquere».
Un pallino, ormai, il suo. Già il 14 dicembre a Tgcom 24 parla dell’urgenza di un Piano Marshall per l’Africa per evitare che «sei miliardi di persone che vivono nella miseria ci invadano». I sondaggi gli dicono del resto che la paura dell’invasione - a dispetto del crollo degli sbarchi da 180 a 119 mila nel 2017 - potrebbe pesare per il 30 per cento sul voto del 4 marzo. E allora tanto vale spararla, dalla barzelletta alla kermesse di Ischia in ottobre («Con il bidet ho insegnato agli africani i preliminari») all’affondo più serio contro lo Ius soli, il 26 novembre davanti alle telecamere di Fabio Fazio: «Alcuni immigrati odiano i cristiani, gli ebrei, lo Stato italiano, non si può dare loro la cittadinanza solo perché hanno frequentato una scuola». Sortita che pochi minuti dopo negli stessi camerini gli procura il rimprovero di Fabio Volo: «Non è una cosa figa quella che ha detto, lei deve allargare le teste delle persone, non stringerle». Berlusconi, che non ama i richiami, sorride, si alza e se ne va. Avrebbe fatto lo stesso Matteo Salvini, che sulla chiusura agli immigrati sta costruendo mezza campagna elettorale. La cancellazione dei visti umanitari, per sua volontà, è già nel programma del centrodestra.
Quando ad agosto un prete di Pistoia, don Massimo Biancalani, ha osato portare un gruppo di immigrati suoi ospiti in piscina, il leader della Lega lo ha bollato come «anti italiano». Era l’estate calda in cui l’aspirante premier aveva portato invece la sua solidarietà al titolare della spiaggia fascista di Chioggia, Gianni Scarpa, al grido di «non processiamo le idee». Per Salvini «l’apologia del fascismo è da abolire» assieme alla leggi Fiano e Mancino, «robe da Urss», come ha urlato dal prato di Pontida il 17 settembre. Legge Fiano che, va detto, alla Camera poco prima, il 12 settembre, era passata con 261 sì e 122 no tra i quali quelli di Lega, Forza Italia e M5S. «Quattro ragazzi, il problema non sono loro ma l’immigrazione», è stata a novembre l’assoluzione del capo leghista per i naziskin dell’irruzione al centro pro-migranti di Como. Mentre Berlusconi e Fi si erano trincerati dietro un complice silenzio.
Passano pochi giorni e a dicembre, presentando il libro di Bruno Vespa, il leader forzista torna alla sua vecchia passione: «Mussolini, che forse un dittatore proprio non era». E che, come diceva già nel lontano settembre 2003, «non ha mai ammazzato nessuno e mandava la gente in vacanza al confino». È un ping-pong tra i due che andrà avanti così fino al 4 marzo. Con buona pace della distinzione moderati-populisti. Al tavolo delle candidature, ieri sera, Ghedini (Fi), Giorgetti (Lega) e La Russa (Fdi) hanno pure chiuso la spartizione dei collegi: 155 Fi, 129 Lega, 51 Fdi e 13 Noi con l’Italia. La quadra del cerchio per puntare al 40 per cento , vincere le elezioni e occuparsi di immigrati e ostinati antifascisti.

il manifesto 17.1.18
Caro candidato, che farai se eletto con un Rosatellum incostituzionale?
Verso le elezioni. All’appello di votare solo quei candidati che si impegneranno a non cambiare la Costituzione, va aggiunta la promessa di dimettersi se la legge elettorale sarà bocciata
di Enzo Paolini


Il «Patto per la Costituzione», cioè l’appello/impegno a votare solo quei candidati che dichiarino formalmente e solennemente di astenersi da manomissioni della Costituzione per lavorare alla sua attuazione concreta, è un bel messaggio che sta trovando terreno fertile.
E ciò nonostante il tentativo di perseguirne la revisione come un fatto opportuno se non necessario (Calenda dixit) è voluto da molti, a dispetto di una vuota retorica di immutabilità costituzionale (Galli della Loggia sul Corsera).
Al contrario, Gaetano Azzariti (il manifesto, 14 gennaio) ha ben spiegato come i teorici del «revisionismo – quale – che – sia», non tengano in alcun conto le ripetute bocciature parlamentari e referendarie. Un atto di arroganza intellettuale, soprattutto se si riflette sul fatto che le procedure per la manutenzione costituzionale esistono, previste nella medesima Carta, che per questo motivo, si presenta moderna ed aperta ai cambiamenti. Purché siano coerenti, logici, intelligenti ed in sintonia con il senso comune.
Ecco quindi il perché della proposta di un Patto per la Costituzione: perché il prossimo Parlamento – o almeno una parte di esso – sia rispettoso del pensiero e dell’opera dei costituenti e della volontà popolare sinora così chiaramente espressa.-
Tuttavia – dobbiamo dircelo chiaramente per prefigurarci lo scenario dei prossimi mesi – il «Patto» reca con sé un peccato originale, costituito dalla composizione dell’assemblea sulla base di una legge che, con tutta probabilità, potrebbe essere dichiarata incostituzionale (e sarebbe la terza di seguito, record mondiale).-
Mettiamola così: tra i doveri di un parlamentare che volesse dare attuazione ai principi ed al dettato costituzionale, oltre all’impegno sul ripudio della guerra, sulla effettività del lavoro, sull’uguaglianza, sulle concrete pari opportunità, sulla tutela del patrimonio ambientale e culturale e così via per un lungo – ed inattuato – rosario, c’è anche quello pregiudiziale (perché finalizzato a realizzare il principio di rappresentanza democratica, senza il quale viene meno la legittimazione dei decisori e la legittimità delle decisioni) di assicurare – secondo l’art. 48 – che il voto dei cittadini sia «personale ed uguale, libero e segreto».
Ora, è molto probabile che il sistema congegnato dalla L. 165/2017, cosiddetto «Rosatellum» risulti, ad approfondita analisi della Consulta, non del tutto personale (le regole per consentire il voto dei cittadini italiani residenti all’estero non sembrano rassicuranti sul punto), e palesemente non eguale (vale evidentemente di più il voto dell’elettore di una lista in coalizione beneficiata dal premio di maggioranza e/o dalla attribuzione proporzionale dei voti delle liste in coalizione che, ottenuto almeno l’1%, non dovessero però raggiungere il 3%, rispetto al voto semplice di altro elettore).
Così come non si presenta libero (per il semplice motivo che il voto nel collegio uninominale si riflette automaticamente sul listino proporzionale vigendo il divieto di voto disgiunto).
L’unico requisito costituzionale formalmente mantenuto, potrebbe essere considerata la segretezza ma è la foglia di fico che copre l’indecenza, dal momento che anche in regimi totalitari il voto è segreto ma la manipolazione delle regole d’ingaggio ne consente la sterilizzazione con il controllo preventivo del consenso: in altre parole, se tu voti in un senso ma poi io decido che il tuo voto serve per incrementare il voto di un altro, ho istituito un regime.
Qui, oggi, in Italia si dice, tanto per essere chiari: i cittadini eleggono un parlamento quasi interamente scelto, prima del voto dai (soliti o nuovi non importa) cinque/sei capipartito che impongono nomi e scelgono i collegi. E da venti anni formano insieme leggi elettorali che comportano questi meccanismi. E se la Corte Costituzionale le dichiara illegittime se ne infischiano. Ne fanno altre ancora più incostituzionali, tanto – nonostante la pronuncia della Corte – i parlamentari abusivi rimangono in carica lo stesso.
Con buona pace della Consulta, del Presidente della Repubblica, dei sacri principi e della Resistenza.
Il problema è enorme da tanti punti di vista, perché la scelta di comporre l’aula parlamentare in questo modo non può che riflettersi sulla qualità di una classe dirigente dipendente dall’investitura dei capi.
Dunque per confidare che il «Patto per la Costituzione» possa avere un effetto significativo e concretamente incisivo per la rigenerazione delle nostre Istituzioni dovremmo aggiungere un’ulteriore richiesta ai candidati che sul rispetto della Carta
Fondamentale volessero impegnarsi ed è la seguente: qualora – come probabile – la Corte Costituzionale dovesse dichiarare l’incostituzionalità anche della attuale, e vigente, legge elettorale, così che anche il veniente Parlamento fosse da considerarsi non legittimato politicamente, questi nominati e componenti dell’assemblea in maniera non conforme alla Costituzione si batteranno per l’adozione di una legge elettorale solo proporzionale e per l’immediato scioglimento delle Camere?
Magari non vi riusciranno perché potrebbero essere una sparuta minoranza, ma almeno avranno gettato un seme di dignità istituzionale e dato un senso al nostro voto.

Il Fatto 17.1.18
Consip, Woodcock-Sciarelli: nessuna fuga di notizie
Il gip archivia tutto - L’inchiesta sugli scoop del Fatto che dal dicembre 2016 svelarono le indagini sul comandante dell’Arma e sul ministro Lotti
di Valeria Pacelli


Archiviate le posizioni del pm Henry John Woodcock e della conduttrice di Chi l’ha visto?, Federica Sciarelli, indagati dalla Procura di Roma in un filone dell’inchiesta Consip. Il gip ha accolto la richiesta di archiviazione dei pm Paolo Ielo e Mario Palazzi. E così, mentre si chiude una spiacevole vicenda giudiziaria, per il magistrato partenopeo resta aperto il fronte del Csm, dove è in corso un procedimento disciplinare.
La scorsa estate il pm napoletano viene indagato a Roma per rivelazione di segreto d’ufficio, in seguito alla fuga di notizie per l’articolo del 21 dicembre 2016, firmato da Marco Lillo, con il quale il Fatto svela l’inchiesta Consip. Nei due giorni seguenti, Lillo rivela anche l’iscrizione dell’ex comandante generale dei carabinieri, Tullio Del Sette, e quella del ministro dello Sport, Luca Lotti, per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento.
Inizialmente i pm romani si convincono che Woodcock abbia passato, attraverso la Sciarelli, notizie a Lillo, il quale ha sempre negato la circostanza. Gli elementi in mano ai magistrati: le celle telefoniche dei cellulari di Lillo e Sciarelli che, il 20 dicembre 2016, agganciano entrambi a piazza Mazzini a Roma. Circostanza spiegata dal semplice fatto che la sede lavorativa della Sciarelli e l’abitazione di Lillo si trovano nella stessa zona. Poi ci sono i contatti telefonici tra i due, sempre il 20 dicembre, giorno in cui Lillo scrive il primo articolo sulle perquisizioni in Consip, pubblicato il giorno dopo. In realtà, come ha spiegato Lillo, quel giorno chiama la Sciarelli solo per sapere dove si trovasse Woodcook e avere un ulteriore riscontro della sua presenza a Roma. Nulla di più. La conduttrice di Chi l’ha visto? a quel punto richiama Lillo per dirgli che il pm le aveva riferito di non essere a Roma. Quando viene interrogato, il 7 luglio, Woodcock nega di essere la fonte. Poi spiega che il 20 dicembre, dopo esser stato chiamato dal maggiore del Noe Gianpaolo Scafarto, arriva a Roma alle nove di sera. Il maggiore gli riferisce che l’ex Ad di Consip, Luigi Marroni, aveva iniziato a rispondere agli investigatori. Si recano nella sede del Noe e continuano l’interrogatorio. Poi il pm torna a Napoli e – solo l’indomani – iscrive nel registro degli indagati Del Sette e Lotti. Ritorna così a Roma per consegnare il fascicolo ai colleghi, ai quali, nel frattempo ha trasferito l’inchiesta per competenza. Dagli accertamenti della Procura emerge che mai, in questi due giorni, vi siano stati contatti con Lillo.
Woodcock archiviato anche per il concorso in falso con Scafarto nella parte d’informativa del 9 gennaio, quella che riguarda i servizi segreti, dove – nonostante gli accertamenti avessero già smentito la circostanza – era stata accreditata la presenza di 007 davanti agli uffici della Romeo Gestioni. Il pm napoletano, durante l’interrogatorio, ha spiegato ai colleghi di aver suggerito alla polizia giudiziaria di scrivere un capitolo sui servizi segreti, ma di non aver saputo che gli accertamenti ne avevano escluso la presenza.
L’archiviazione del pm è stata inviata dalla Procura anche al Csm, dove sono due le contestazioni mosse a Woodcock. La prima riguarda la mancata iscrizione, nel registro degli indagati, di Filippo Vannoni, presidente della fiorentina Publiacqua, indicato da Luigi Marroni tra gli autori della fuga di notizie verso i vertici della Consip. A differenza di Vannoni, infatti, gli altri nomi citati da Marroni (Lotti, i generali Del Sette e Saltalamacchia) vengono iscritti. E così Vannoni, a Napoli, non viene interrogato da indagato, ma come persona informata sui fatti, in assenza di difensore. A Roma sarà invece iscritto per favoreggiamento. La seconda accusa riguarda invece un articolo pubblicato il 13 aprile 2016 da Repubblica nel quale si riportava un commento virgolettato del pm su un episodio di falso che, la procura di Roma, ha contestato a Scafarto.

La Stampa 17.1.18
Addio al tema letterario, la scuola infrange l’ultimo tabù
di Andrea Gavosto


Il ministero dell’Istruzione ha presentato le nuove linee guida per la prova di italiano nell’esame di terza media; presto seguiranno indicazioni simili per la maturità. Le linee guida, che sono il frutto del lavoro di una commissione guidata da uno dei nostri migliori esperti, Luca Serianni, infrangono uno degli ultimi tabù della nostra scuola: il tema letterario, da sempre principale cimento per tutti gli studenti. Il gruppo di lavoro propone infatti di sostituirlo con tre tipi di prova: una sintesi ragionata degli elementi essenziali di un testo; una narrazione costruita a partire da elementi forniti dal docente (ad esempio, un incipit o un breve racconto da variare, reinterpretare o arricchire); l’argomentazione di una o più tesi, magari fra loro contrapposte. Si tratta, appunto, di suggerimenti, che le commissioni d’esame dovranno poi declinare nella pratica e su cui i docenti delle medie (e, domani, delle superiori) dovranno costruire la preparazione degli studenti durante l’anno: ponendo una fortissima enfasi sulla corretta comprensione dei testi, premessa indispensabile di qualsiasi esercizio di pensiero e di scrittura, oggi troppo spesso trascurata, come dimostrano le rilevazioni internazionali.
Le linee guida consolidano tendenze già in atto: si pensi alla nuova forma della prova di italiano della maturità, che ha affiancato testi sintetici e commenti al classico tema - che rimane comunque l’opzione preferita dagli studenti. È facile prevedere che le novità saranno accolte dal solito fuoco di sbarramento di chi ritiene intoccabile la scuola che ha frequentato quarant’anni fa e difende un’astrattissima visione della creazione linguistica. Sarebbe però un errore non cogliere la portata delle idee proposte dalla commissione ministeriale. Lo svolgimento dei temi - su soggetti spesso ampi e mal definiti - rispecchia infatti una scuola che privilegia la capacità di scrittura letteraria, l’erudizione, l’argomentazione retorica. Questo tipo di scuola è stata sicuramente capace di generare grandi scrittori e scienziati, letterati, giornalisti di spicco: ma si è trattato di minoranze esigue. Quanti hanno utilizzato la forma del tema nel loro lavoro e nella vita quotidiana? Molto pochi, c’è da scommettere, anche fra coloro che della scrittura creativa hanno fatto una professione
Per contro, riuscire a sintetizzare un discorso, un testo, cogliendone i nessi fondamentali, è una competenza essenziale al mondo d’oggi, in cui prevale una (eccessiva) tendenza alla semplificazione di questioni complesse. Analogamente, a meno che uno non sia Joyce, «creare» testi nel rispetto di una serie di vincoli è assai più difficile e oggi utile che scrivere seguendo liberamente il flusso dei propri pensieri. Infine, ed è forse la parte più preziosa della proposta ministeriale, riuscire ad argomentare logicamente date determinate premesse - anche quando non si è d’accordo con la tesi - e capire che, se mutano le premesse, si modificano anche le tesi è una delle aree in cui la scuola italiana è più carente. In altri sistemi scolastici sono diffuse le lezioni di logica argomentativa, le debating chambers, in cui gli studenti si confrontano su tesi opposte, dissezionando i vari passaggi del discorso, valutandone la plausibilità e la correttezza, proponendo argomentazioni contrarie o alternative. Pars destruens e pars construens. Da noi prevale l’idea di didattica trasmissiva, per cui quello che sostiene il docente è una verità ricevuta: non ci si allena ad analizzare criticamente tutto quello che viene insegnato. Certo, l’argomentazione logica spesso richiede di essere rivestita di una capacità retorica, di convincimento, in cui la nostra scuola ancora eccelle: ma senza il rigore critico sottostante, rischia di restare vuota o - peggio - ingannevole.
Ben vengano dunque le nuove prove di italiano, in un’epoca in cui siamo circondati da fake news e false retoriche: se i docenti sapranno seguire le indicazioni, avremo compiuto un passo avanti nello sviluppare la coscienza critica dei ragazzi.

Corriere 17.1.18
La campagna elettorale
Promesse su tutto ma nessuno pensa alla scuola
di Marco Imarisio


La scuola deve pensare a tutto, ma nessuno pensa alla scuola: non, almeno, i politici in campagna elettorale. Per i partiti, è ormai evidente, non si tratta di una priorità: nemmeno come pretesto di litigio. Come se investire più risorse e attenzioni non significasse investire sul nostro futuro.
La scuola deve pensare a tutto ma nessuno pensa alla scuola. Non troppo, almeno. In campagna elettorale c’è anche lei, ogni tanto fa qualche fugace apparizione, ma sempre in secondo piano. Non si vede, non si sente. Dal rumore di fondo che ci accompagnerà fino al 4 marzo emerge un dato chiaro. La scuola non è una priorità. Ma «scuola» è parola salvifica per qualunque candidato chiamato a dire la sua sull’attualità. I ragazzi perduti e le baby gang di Napoli? Il rimedio è la scuola. Legalizzare o no le droghe leggere? La scuola deve creare consapevolezza nei giovani. Il razzismo strisciante? L’educazione alla tolleranza comincia a scuola. Eppure il ruolo di comparsa le assegna giusto una nota a margine anche nel catalogo delle promesse, via la Fornero, via il Jobs act, via questo e quello, e infine, ma solo dopo tutto il resto, via le tasse universitarie e la Buona scuola. Siamo pur sempre il Paese che investe di meno, un punto sotto la media europea, ma è nelle prime posizioni della classifica sulla dispersione scolastica, al 14 per cento. Gli argomenti di discussione ci sarebbero, anche quelli da usare contro l’avversario politico, ovvero nell’unica modalità percepita negli attuali confronti. Chi contesta la riforma Renzi-Giannini potrebbe sostenere che le assunzioni in massa dei docenti precari non sono conseguenza diretta di quella legge, la 107, ma di una sentenza della Corte di giustizia europea che ci obbligava a farlo in assenza perpetua di nuovi concorsi per l’immissione in ruolo. E poi i bonus da 500 euro, e il ruolo dei dirigenti didattici. Dall’altra parte si potrebbe invece replicare che la Buona scuola è pur sempre meglio dei tagli per 8,4 miliardi di euro nel triennio 2008-2011. Litigano o fingono di litigare su tutto, lo facessero anche su qualcosa che conta davvero.
Invece niente. I figli non interessano per ragioni anagrafiche, i genitori sono categoria fluida e generica, gli insegnanti hanno sempre meno peso. Ne parliamo dopo, magari con la nuova proposta di riforma, consueto rito di passaggio per ogni nuovo governo. Come se fare nuove e più avanzate proposte non fosse vitale. Come se investire maggiore attenzione e risorse nella scuola non significasse investire sul nostro futuro.

La Stampa 17.1.18
L’illuminismo di Allah
Piccoli islam laici crescono
Un libro a più mani di intellettuali musulmani decisi a fare i conti con la modernità, un approccio che parla anche a noi
di Francesca Paci


Si fa preso a dire riformismo islamico. Ogni volta che un attentato tipo Bataclan scuote l’assuefazione alla paura delle città occidentali si torna regolarmente a chiedere l’ausilio apotropaico dei musulmani moderati, quelli deputati a dissociarsi dalla violenza e mostrare così la compatibilità tra Corano e modernità. Che sia un approccio ingenuo o pragmatico, la questione è spinosa perché tira in ballo quell’emancipazione edipica dal sacro che per noi si chiama Illuminismo e per la umma resta ancora un problematico dover essere.
A quando - è la domanda diffusa - l’irriverenza di un Voltaire musulmano? In realtà, racconta l’interessante volumetto Islam des Lumières (Rosenberg&Sellier), l’islam s’interroga da decenni sul suo rapporto con il presente ma a partire dal 2015, annus horribilis iniziato con il massacro di Charlie Hebdo, la voce degli intellettuali disorganici si è fatta via via meno timida rivelando un’inquietudine esistenziale che stride con l’immagine di una tetragona.
Finora, spiega la curatrice e semiologa Alessandra Luciano, la maggioranza dei riformisti, da Averroé a Ali Abd al-Raziq all’antropologo Malek Chebel, si era mossa all’interno di una cornice religiosa che non metteva in discussione la necessità di Dio. L’avvento dello Stato Islamico e il cortocircuito delle diaspore hanno cambiato le carte in tavola portando con urgenza alla ribalta il pensiero di chi vuole ridiscutere in modo radicale il rapporto tra credente e dogma.
«Caro mondo musulmano ti vedo in una condizione di miseria», scriveva il filosofo Abdennour Bidar tre anni fa, mentre il web si riempiva di #JeSuisCharlie, sostenendo che l’islam, «malato» d’integralismo come già aveva sentenziato il compianto Abdelwahab Meddeb, non potesse più ritardare la distinzione tra dimensione politica e religiosa. Nel libro, di cui firma uno dei contributi, Bidar si spinge oltre. Prima di lui lo studioso franco-algerino Mohammed Arkoun aveva affermato che il mito del Corano - l’esperienza orale di Maometto piegata da una costruzione storica a legittimare politicamente i suoi successori - si fonda su una mistificazione a tutto danno della dimensione spirituale dell’islam. Un terremoto concettuale. Ma se Arkoun, con irriverenza nietzschiana, ha destinato ad Allah la sorte del Dio occidentale, cosa resta dopo? Altro terremoto concettuale. Resta l’uomo, replica Abdennour Bidar ricorrendo nientepopodimeno che ai testi sacri.
Sì, perché, spiega il filosofo, sebbene la parola araba «khalifa» (da cui Califfo) sia stata tradotta finora come «rappresentante, vicario di Dio» significa anche «successore di Dio», significa l’uomo che rimpiazza Dio e, privo di senso di colpa, ne raccoglie l’eredità assumendo prerogative divine. Macerie totali.
Chi cercava un approccio illuminista all’islam (o un approccio musulmano all’illuminismo) è servito. E non vale l’argomentazione polemica di un dibattito limitato a pochi intellettuali, perché anche la vis dialettica di Diderot e D’Alembert non si esercitava in piazza ma nel salotto di Madame Geoffrin. Bidar dunque, sulle orme di un grande riformista del secolo scorso come Muhammad Iqbal, si concentra sul dopo la morte di Dio, quando l’islam non rappresenterà più né la sottomissione teologica né un fatto sociale e potrà tornare in campo come libertà personale.
Il futuro è d’obbligo perché, ammesso che sia segnata, la strada non è certo in discesa. Le cronache della umma ci raccontano a vari livelli lo smottamento di un sistema che ha resistito a lungo al disfacimento dell’impero ottomano. Nella Tunisia post 2011, dove il leader dei Fratelli Musulmani locali Ghannouchi dedica infine il X congresso del movimento a ritrattare l’antica convinzione d’una sovrapposizione totale di ruoli tra Stato e moschee. Nell’Egitto del presidente al Sisi, dove l’università islamica al Ahzar si affanna a sconfessare a colpi di fatwa i terroristi nel nome di Allah. In tutti i regimi militari o teocratici della regione, dove, da sempre, il potere politico si sostiene su un’investitura religiosa e la religione puntella con motivi religiosi l’ordine socio-politico.
La campana suona per tutti, compreso l’occidente, che archiviato il nemico comunista si è ritrovato davanti quello islamico e come già all’epoca dell’Urss lo guarda scorgendovi riflesse le proprie contraddizioni. Gli esponenti dell’Islam des Lumières - chiosa nel libro il sociologo Luigi Berzano - si chiedono se la loro religione, politica per definizione stessa di Khomeini, sia compatibile con la modernità e quale rivoluzione spirituale possa consentirlo. È l’estremo terremoto in un mondo assai shakerato, con le religioni che rifioriscono un po’ dovunque perché l’uomo non ha rimpiazzato il loro ruolo di fornitrici di senso. L’islam ci riguarda più che mai insomma e, secondo Bidar, potrebbe addirittura dare una mano.

Repubblica 17.1.18
Futuro
Chi ha paura della nuova fantascienza?
L’ultima ondata di libri che immaginano mondi alternativi ci racconta emergenze ambientali, tecno-incubi, colonie spaziali senza legge
Esasperando il catastrofismo tipico dei “classici” nati in piena Guerra fredda
di Paolo Di Paolo


Esiste un futuro che non sia stato già immaginato?
Scegliendo per un’antologia le migliori storie di fantascienza pubblicate nel 1959 — Le grandi storie della fantascienza/ 21,
appena ristampato da Bompiani — Isaac Asimov pesca autori che tirano in ballo tirannie politiche, olocausto nucleare, eccessi inquietanti di corporativismo aziendale. Una freschissima serie tv, Electric Dreams, recupera i racconti scritti da Philip K. Dick negli anni Cinquanta: viaggi spaziali, creature sintetiche, videogame, menti sotto controllo. I classici del genere non perdono smalto nei cataloghi editoriali: continue ristampe per Wells, per Clarke; troneggia Margaret Atwood, rispolverata su carta e su piccolo schermo ( Il racconto dell’ancella). Un inclassificabile come Antoine Volodine — partito come autore di fantascienza puro — prosegue su strade a metà fra fantastoria radioattiva ed esotismo.
L’immaginario fantascientifico cambia davvero, riesce a evolvere? O gira all’infinito su sé stesso? Alieni, uomini macchina, avanzamenti tecnologici votati all’apocalisse c’erano nelle storie d’inizio Ventesimo secolo e ci sono ancora. Se il grande Bradbury rivendicava il tentativo costante di «scartare tutti i futuri negativi», mostrando una certa antipatia per i catastrofisti, la gran parte dei suoi nipoti non pare troppo disposta all’ottimismo. Per spiegare la «felice casualità» della sua scelta di campo letteraria, l’autore di Fahrenheit 451 tendeva un filo lunghissimo da Platone a Rabelais, da Tommaso Moro a Swift. «I romanzi di fantascienza sono i romanzi delle idee» chiariva in una delle interviste raccolte in Siamo noi i marziani (Bietti).
Sociologia, psicologia e storia, «messe insieme e inquadrate nel tempo». «Sempre e solo per presagire l’autodistruzione umana?», domanda opportunamente l’intervistatore.
L’interrogativo resta valido. E uno sguardo sulla produzione più recente, che è tornata a occupare grandi spazi sui banconi delle librerie, fa pensare di dover temere il (solito) peggio. Ecco i filoni principali.
Metropoli sommerse dall’acqua per gli effetti del disastro climatico: Kim Stanley Robinson, New York 2140 (Fanucci). Robinson, laureato su Dick, si mostra più che consapevole di come in ogni racconto fantascientifico sia in gioco una visione contemporanea: «New York non è tanto un posto, quanto un’idea o una nevrosi». Umana, naturalmente: scrivendo delle intenzioni poco benevole degli alieni verso la nostra specie, il cinese Cixin Liu ( Il problema dei tre corpi, Mondadori) mette in scena una guerra esterna che si risolve in devastante guerra interna. Più che la guerra dei mondi, utilizzata all’epoca come metafora della Guerra fredda, qui c’è l’eterna guerra nel (nostro) mondo. Laddove fosse trapiantato — sulla Luna, per esempio — non andrebbe meglio. Andy Weir — autore del bestseller The Martian, diventato film per la regia di Ridley Scott — in Artemis (Newton Compton) racconta la prima colonia umana sul nostro satellite. Case-capsule, corridoi, ascensori e scale «esattamente identiche a quelle sulla Terra».
Negozi che non espongono i prezzi: «Se ti serve saperli, non ti puoi permettere la merce». I borghesi terrestri che si regalano una vacanza — una volta sola nella vita — «di solito soggiornano negli alberghi peggiori». Tutto (o quasi) come sul nostro pianeta: soldi su soldi, contrabbando, criminalità. La protagonista del romanzo è una truffatrice.
Niente di nuovo nell’universo — almeno dove gli umani mettono piede. L’unica cosa che, dalla colonia lunare, si può invidiare ai terrestri è la velocità di Internet: c’è un network locale su Artemis, «ma quando si tratta di ricerche, il tutto viene rimbalzato sui server della Terra». Incontentabili Sapiens!
In uno dei saggi più illuminanti usciti in italiano nell’anno appena concluso — Alieni. C’è qualcuno là fuori? (Bollati Boringhieri) — il cosmologo Martin Rees garantisce che nei prossimi decenni di questo secolo «esploratori robotici dotati di un’intelligenza di livello umano» ci precederanno sulle strade dell’universo.
L’immaginazione degli scrittori è già stata lì. Poi magari è tornata indietro, spazientita dalla lentezza della realtà. Uno come William Gibson, per esempio — che ha già festeggiato da un po’ i trent’anni del suo Johnny Mnemonic mezzo umano mezzo cyborg e del cupissimo
Neuromante, ristampato da Mondadori nei mesi scorsi — nel 2014 aveva deciso di ambientare un nuovo romanzo fra due futuri. Quello più prossimo, nel frattempo, è già passato. Anno 2017: Hillary Clinton è presidente degli Stati Uniti. Dite che non è andata così? Lo stesso Gibson è stato spiazzato dagli eventi, ma non ha voluto modificare quanto scritto. Agency — questo il titolo — uscirà così: con dentro un futuro superato — molto in peggio — dal presente.
Due sostantivi — “paranoia” e “mistero” — saltano all’occhio in una rassegna annuale di titoli fantascientifici curata dalla rivista specializzata If. Le distopie non si contano: le più intelligenti lavorano, più che su un futuro “ripetitivo”, su una realtà angosciosamente aumentata. Senza confini di genere: è il caso di Exit West di Mohsin Hamid, che provoca radicalmente il nostro presente, evitando sotterranee nostalgie e scommettendo sul politico (lo fa pure un romanzo italiano recente, Un attimo prima di Fabio Deotto, Einaudi). Non si adagia sul post-apocalittico Jeff VanderMeer, lo scrittore americano del “bizzarro”, il filone new weird, curatore con sua moglie di un’antologia di scrittrici visionarie, tra fantasy, fantascienza e femminismo ( Le visionarie, in uscita a febbraio per Nero Editions). Con il romanzo Borne, in arrivo per Einaudi, «non sviluppa la distopia, ma la dà per scontata», spiega il traduttore, Vincenzo Latronico. La creaturina aliena che una “cacciarifiuti” trova in una discarica cresce come una pianta, e inizia a parlare. La cacciarifiuti se ne prende cura come di un figlio adottivo. Il romanzo sposta l’asse sull’amore materno, sulla riluttanza della natura umana — come ha scritto il New Yorker — «ad arrendersi al lato peggiore di sé».

Il Sole 17.1.18
La Cina declassa gli Usa: «Debito insostenibile»
L’agenzia Dagong rivede il giudizio da A- a BBB+
di Marco Valsania


New York Rullano tamburi di guerra economica - o quantomeno di pericolose schermaglie - tra Stati Uniti e Cina. L’ultimo atto si è consumato sul debito sovrano americano: l’agenzia di rating cinese Dagong ha deciso di declassarlo, portandolo a BBB+ da A-, accusando Washington di un’economia delle cambiali i cui rischi sono adesso «ulteriormente esacerbati» dall’impatto di una riforma delle tasse che dovrebbe far lievitare l'indebitamento di 1.400 miliardi in dieci anni.
Le grandi agenzie internazionali di valutazione del credito mantengono giudizi molto più solidi e stabili su Washington, con Moody’s e Fitch che gli affidano il massimo di Tripla A e Standard &  Poor’s che lo preserva ad AA+ dal 2011. Ma l’annuncio di Dagong è diventato un nuovo sintomo di preoccupazioni assai poco accademiche e tecniche e molto politiche per operatori e investitori. Il segnale più recente di instabilità e malessere nei rapporti tra due grandi potenze mondiali, protagoniste di una danza di tensioni commerciali e politiche.
Il drammatico nodo della Corea del Nord e del suo arsenale nucleare, seppur tra spiragli di dialogo, è tuttora irrisolto, con la Casa Bianca che preme su Pechino per maggior aggressività nei confronti della «vicina» Pyongyang e, al contrario, minor espansionismo militare nel resto della regione asiatica. Il timore è però anzitutto che tra l’amministrazione Trump di America First e la Cina più determinata di Xi Jinping emerga oggi una escalation a colpi di sanzioni e rappresaglie, su terreni che concettualmente vanno da violazioni dalla proprietà intellettuale a dumping e sicurezza nazionale e praticamente dai pannelli solari all’acciaio, da elettrodomestici ad hi-tech. Un conflitto, per il mondo, potenzialmente molto più grave di passati scontri economici con un alleato asiatico quale il Giappone.
I toni nei rapporti di interscambio si sono decisamente raffreddati dopo i costruttivi summit iniziali tra Trump e Xi, che avevano promesso risoluzioni di contenziosi e aperture di mercati per riequilibrare il passivo commerciale di Washington, nel 2017 al record di 275,8 miliardi. «Insostenibile» ha detto Trump durante una telefonata a Xi. Nel corso degli ultimi mesi l’indurimento dell’atteggiamento americano è filtrato dal fronte aziendale. Le autorità statunitensi hanno bocciato due operazioni miliardarie targate Cina, l’acquisizione del produttore di semiconduttori Lattice da parte di Canyon Bridge e quella del gruppo di servizi di pagamento elettronici MoneyGram da parte di Jack Ma, fondatore del colosso dell’e-commerce Alibaba. In entrambi i casi hanno citato la national security, la protezione dati e di trasferimenti di tecnologia delicata. Dal Congresso si alzano intanto ancora voci affinché AT&T rompa con Huawei sugli smartphone e perché venga respinto l’ingresso negli Usa dell’operatore mobile China Mobile. In poco tempo, secondo alcune stime, si sarebbero arenati deal cinesi per almeno cinque miliardi sulle sponde statunitensi.
L’allarme, a detta degli esperti, riflette più in generale i dilemmi di una Cina in ascesa a fronte di un’America in parziale ritirata dal palcoscenico globale sull’onda di una «dottrina» che Trump dovrebbe riaffermare al forum di Davos davanti a executive e politici la prossima settimana. Un deterioramento che minaccia di imprigionare le relazioni bilaterali tra Washington e Pechino in un clima irrequieto e incerto. Nel caso del debito, indiscrezioni poi smentite avevano già scosso nei giorni scorsi il mercato. Bloomberg aveva riportato che funzionari incaricati di esaminare i giganteschi investimenti delle riserve in valuta estera della Cina stavano considerando frenate o blocchi degli acquisti di titoli del Tesoro americani, dei quali il Paese è il maggior detentore con oltre 1.100 miliardi di dollari.
Dagong ha adesso messo ufficialmente in chiaro che, con un debito federale Usa già a ventimila miliardi e continue controversie sul budget, «la virtuale solvibilità del governo potrebbe probabilmente diventare il detonatore della prossima crisi finanziaria». Molteplici tasselli contribuiscono alla valutazione. «Carenze nell’attuale ‘ecologia' politica statunitense rendono difficile un’efficiente gestione del governo, quindi lo sviluppo economico può deragliare». Mentre i «giganteschi tagli delle imposte riducono direttamente le fonti per ripagare il debito, indebolendo ancor più» la posizione del governo per fare i conti con la sfida.