Repubblica 15.1.18
Arte e astronomia
Michelangelo precursore di Copernico
di Antonio Rocca
Alcuni
studi attestano che nel dipingere il Cristo del “Giudizio universale”
Buonarroti abbia offerto una figurazione dell’eliocentrismo. E ciò anche
per iniziativa del papa Clemente VII
Trovatosi a constatare la
stringente analogia tra la rivoluzione copernicana e la rivoluzione
iconografica con la quale Michelangelo impone un Cristo-Apollo nel cuore
del Giudizio sistino, Charles de Tolnay scrive che il Buonarroti
«giunge a una visione dell’universo curiosamente anticipante quella del
suo contemporaneo Copernico. L’idea della composizione di Michelangelo
precede di sette anni la pubblicazione dell’astronomo di Thorn (uscita a
stampa nel 1543)».
Mancano documenti ad attestare un rapporto
diretto tra l’astronomo e l’artista, pertanto Tolnay è costretto a
utilizzare il termine “curiosamente”, ma il legame è evidente e con
l’intento di colmare tale lacuna si è mossa Valerie Shrimplin. La
studiosa britannica ha ricostruito il quadro che tiene assieme i due,
sottolineando l’importanza di un episodio del 1533. In giugno Clemente
VII invita Albert Waldstadt affinché, nei giardini del Vaticano e di
fronte a un ristretto cenacolo di cardinali, gli illustri il modello
copernicano.
Quella visione eliocentrica, disposta nel solco del
neoplatonismo fiorentino, appassionò il Medici che donò al Waldstadt un
prezioso manoscritto. Secondo la Shrimplin il papa maturò allora la
decisione di realizzare il Giudizio.
La commissione al Buonarroti
si concretizzò già alla fine dell’estate del 1533 e la morte del
pontefice non bloccò il progetto, che fu immediatamente ripreso da Paolo
III Farnese.
La memoria dei processi a Giordano Bruno e Galileo
Galilei sembra gettare un’ombra sulla possibilità che due papi potessero
concepire la realizzazione di un colossale manifesto eliocentrico nel
cuore della cristianità, tuttavia dobbiamo ricordare che siamo negli
anni trenta del ‘500 e che la difesa del sistema tolemaico s’impone solo
nel secolo successivo. Il De revolutionibus orbium coelestium fu messo
all’Indice nel 1616. Avversione peraltro incerta come dimostrano le
simpatie per Galilei del cardinal Barberini, divenuto in seguito Urbano
VIII, e l’affresco di Andrea Sacchi in palazzo Barberini, che
all’eliocentrismo allude.
Ipotesi antica, quella eliocentrica, che
aveva conosciuto una fase di svolta con la pubblicazione del De Sole di
Marsilio Ficino.
Riprendiamola da questo momento, osservandola
dalla prospettiva dei protagonisti della nostra storia, allora solo tre
ragazzi. È il 1493, Copernico ha vent’anni e studia astronomia a
Cracovia, il De Sole è libro di testo; Michelangelo gode della
protezione di Piero de’ Medici, cui il De Sole è dedicato; Alessandro
Farnese, già studente di Ficino, si appresta a diventare cardinale.
Il
trattato esprime pochi concetti con grande chiarezza: il sole, immagine
di Dio, occupa una posizione centrale nell’universo e rappresenta la
giustizia divina.
«La giustizia, regina di tutte le cose», scrive
Ficino, «si diffonde attraverso il tutto a partire dal trono del Sole, e
tutto dirige, quasi sia il Sole a guidare tutte le cose».
Copernico
prese allora a cercare una via per allineare matematica, astronomia e
platonismo. Nel corso del suo pluridecennale lavoro non ottenne
risultati decisivi perché i suoi calcoli furono inficiati da assiomi
interni al platonismo. Così, a dispetto di ogni dato empirico, il
polacco non intese mai rinunciare alla perfetta circolarità delle orbite
planetarie.
Concetti pitagorici che Copernico insegnava nelle sue
lezioni romane del 1500, cui pare partecipassero anche Michelangelo e
Alessandro Farnese. Col senno di poi, sapendo che Paolo III sarà il
committente finale del Giudizio e che a lui è dedicato il De
revolutionibus, si è portati a ritenere che sin da allora, sin dal
principio del secolo, tra i tre si fossero instaurati dei rapporti
diretti. Troppo stretti i giri, nella Roma agostiniana e neoplatonica,
per immaginare che simili personaggi s’ignorassero, tuttavia ciò che qui
interessa è osservare come l’artista, lo scienziato e l’uomo di chiesa,
abbiano saputo inverare concetti astratti appresi in gioventù.
Diventati
anziani uomini di successo, il Farnese, Michelangelo e Copernico
declinarono i principi ficiniani, attribuendogli sostanza e creando un
panorama culturale coerente. Intanto, però, tutto era cambiato. Il
Giudizio e il De revolutionibus sono inattuali, nascono già vecchi o
pregni di un futuro che li rende incomprensibili. Nel presentare il suo
lavoro, Ficino aveva scritto che il libro andava letto in modo
allegorico e anagogico, non dogmatico. La traduzione in immagine di quel
testo vedeva la luce nel momento in cui la chiesa di Roma puntava a
bandire modelli di lettura figurale, a vantaggio di una precisa
rappresentazione dei dogmi formulati a Trento.
Il conflitto era
inevitabile, sia sul piano formale che su quello del merito.
Michelangelo aveva posto tra i beati una donna che esibisce un copricapo
ebreo, due indios e una coppia d’infedeli, afferrati da un angelo per
mezzo di un rosario a cento grani, tipico dei musulmani. Decisamente
troppo per Paolo IV, il pontefice del ghetto, dell’indice dei libri
proibiti e dell’Inquisizione.
Fortunatamente l’affresco restò
intatto, seppure dovette subire qualche limitato intervento censorio.
Integro ma incompreso, reso opaco e preso a tenaglia da pedanti
cattolici e dalle favole protestanti di una Roma pagana, nella quale gli
idoli greci avevano preso il posto di Dio. Del resto cosa poteva
apprezzare un uomo come Lutero, vagamente iconoclasta e avversario di
Copernico?
Ma ciò che ha fatto più danno è stata la Modernità o,
meglio, la ricostruzione apologetica delle origini della Rivoluzione
scientifica. Progresso scientifico e anticlericalismo col tempo presero a
divenire quasi sinonimi.
Si ricostruì la narrazione di una
faticosa e costante riemersione alla luce ottenuta per mezzo della lotta
contro l’oscurantismo cattolico, fatto di libri proibiti, processi,
abiure, torture e condanne. Episodi reali, ma infilati su di un percorso
unilineare nel quale sono trascurati l’eliocentrismo del vescovo
Cusano, del sacerdote Ficino e l’ortodossia del canonico agostiniano
Copernico. Tutti loro, come il domenicano Bruno, osservavano la volta
celeste perché, come recita il Salmo 18, «i cieli narrano la gloria del
Signore». Oltre la Modernità, dopo aver preso congedo dai miti solari di
ogni Illuminismo, è più facile riconoscere che il Giudizio non è
un’incongrua esaltazione della bellezza pagana e che Copernico non era
un precursore del libero pensiero. Leggiamo nel De revolutionibus: «La
macchina dell’universo è stata creata per noi dal migliore e più
perfetto artefice (…) E in mezzo a tutto sta il Sole.
Chi infatti,
in tale splendido tempio, disporrebbe questa lampada in un altro posto o
in un posto migliore, da cui poter illuminare contemporaneamente ogni
cosa? Non a sproposito quindi taluni lo chiamano lucerna del mondo,
altri mente, altri regolatore. Trismegisto lo definisce il dio visibile,
l’Elettra di Sofocle colui che vede tutte le cose. Così il Sole,
sedendo in verità come su un trono regale, governa la famiglia degli
astri che gli fa da corona». La Cappella Sistina, che ha le stesse
dimensioni del tempio di Gerusalemme, è quel tempio.