Corriere 15.1.18
Storia e memoria Il libro autobiografico del 2001 viene riproposto da il Saggiatore con una postfazione che qui anticipiamo
Il destino di sperare nella speranza
Le «Patrie smarrite» di Corrado Stajano inseguono il carattere di una nazione
di Paolo Di Stefano
Nel
lungo percorso letterario di Corrado Stajano, Patrie smarrite , uscito
nel 2001, è il libro della svolta che segna un prima e un dopo. Prima ci
sono da una parte le grandi inchieste civili del giornalista, dal
Sovversivo (1975) a Un eroe borghese (1991), passando per Africo (1979);
dall’altra i memoriali tra reportage e saggio che culminano nel
Disordine (1993) e in Promemoria (1997), in cui si trovano anticipate
formule narrative a venire (il diario, il racconto d’atmosfera…).
Valorizzando questa prima fase della produzione di Stajano, Cesare Segre
ha scritto che «se il giornalista è l’abile raccoglitore e
organizzatore delle notizie, lo scrittore è quello che dà efficacia a un
tipo di documento civile di cui gli scrittori “laureati” non sono quasi
mai capaci».
Patrie smarrite si presenta, in copertina, come il
«Racconto di un italiano», dove l’italiano è l’autore, sdoppiato tra
Nord e Sud, tra la Noto del padre e la Cremona della madre. Il libro
stesso è diviso quasi equamente tra una prima sezione dedicata alla
Sicilia, rivissuta soprattutto nel momento dello sbarco alleato del
luglio 1943, e una seconda sezione focalizzata sul «feudo nero» dominato
da Farinacci e dalle sue lugubri squadre d’azione.
A partire da
questo libro autobiografico, in cui per la prima volta Stajano (molto
parco nell’uso della prima persona) mette in scena se stesso come io
narrante, il «racconto di un italiano» si amplia e si completa in due
tappe successive, La stanza dei fantasmi (2013) ed Eredità (2017), ma
per altri versi anche nella Città degli untori (2009).
Per
struttura mentale, Corrado Stajano è ben attento a tenersi lontano da
ogni tentazione intimistica o autoreferenziale, e se narra la propria
esperienza di vita lo fa solo in virtù della sua possibilità di
diventare esemplare, parte della più vasta autobiografia della nazione,
una approssimazione al carattere profondo degli italiani osservato nei
suoi momenti cruciali (qui il fascismo, la Seconda guerra mondiale, lo
sbarco anglo-americano; altrove anche il secolo della peste, gli albori
dell’Italia unitaria, la Grande guerra, il terrorismo, le stragi di
mafia, la corruzione di Manipulite e oltre). È l’approssimazione al
carattere degli italiani — nell’ampio repertorio tra eroismo pietà
tradimento servitù viltà — ciò che davvero interessa a Stajano, è questo
eterno interrogativo antropologico ed etico il motore di ispirazione e
di coerenza che anima tutta la sua opera, sia che si svolga in forma di
inchiesta politica sia che si svolga in forma di autonarrazione.
Narrazione:
a proposito di Patrie smarrite , Vincenzo Consolo accennava a quel tipo
di «narrazione» particolare intesa da Walter Benjamin come il racconto
proveniente dall’esperienza del narratore, esperienza che porta in sé un
consiglio, una morale. Scrive Benjamin: «Il narratore prende ciò che
narra dall’esperienza — dalla propria o da quella che gli è stata
riferita —; e lo trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua
storia». E aggiunge: «Il consiglio, incorporato nella vita vissuta, è
saggezza ». La narrazione di Stajano non solo è intenzionalmente
sollecitata da una energia testimoniale e morale, ma in quanto
esperienza diretta è inscindibile da quella morale. «Così il racconto —
precisa Benjamin — reca il segno del narratore come una tazza quella del
vasaio».
Fuori da quest’idea di racconto etico-civile, non è
semplice definire il genere cui appartengono i libri della svolta di
Stajano, ma si può affermare che essi fanno grande tesoro della prima
fase giornalistico-investigativa sostenendosi sempre su un processo
preliminare di ricerca delle fonti, di constatazione diretta e di
accertamento dei fatti per cui è fondamentale l’esperienza fisica dei
luoghi, rivisitati, indagati, riemersi, in quanto i luoghi contengono la
storia e/o i suoi fantasmi.
Fermo restando che Stajano non è uno
scrittore d’invenzione, anche considerando la vasta produzione
contemporanea che chiamiamo «non fiction novel», Patrie smarrite è una
creazione letteraria del tutto atipica, che dentro il contenitore
unificante del diario fittizio (esteso dal 30 agosto 1998 al 5 febbraio
1999) integra e armonizza materiali diversissimi: la memoria individuale
del testimone, i documenti storici privati e pubblici, i referti
inediti d’archivio, i notiziari radiofonici, i dossier parlamentari, le
cronache manoscritte individuali e gli atti testamentari, i dispacci e i
bollettini di guerra, le carte militari, i ritagli d’epoca, i resoconti
di incontri personali, le citazioni letterarie da Tucidide a
Pirandello, l’osservazione di immagini fotografiche, pittoriche
eccetera.
Di conseguenza, il tessuto mobile della scrittura,
sempre tenuto su un severo dettato classico, offre soluzioni molteplici
anche sul piano stilistico, che nel generale andamento narrativo
prendono via via sottili coloriture riflessive filosofico-morali,
descrittive, liriche, memoriali, saggistiche. E si tratta però di
passaggi quasi inavvertibili in un amalgama molto coinvolgente sia pure
all’interno di un libro doloroso.
«Pietroburgo! Ho ancora gli
indirizzi,/ Rintraccerò così le voci dei cadaveri». Sono versi di Osip
Mandel’štam, che Stajano evoca nel bel passaggio in cui ricorda le
camminate dell’amico Danilo Montaldi lungo il Po, l’amato «fiume-storia»
(come la Neva del poeta russo), «luogo di libertà, di divertimento, di
trasgressione, di insanità, di giochi mortali, con le armi e con le
bombe a mano abbandonate dai tedeschi in fuga nell’aprile del ’45». I
versi di Mandel’štam, che appartengono a una poesia, Leningrado ,
scritta nel dicembre 1930, potrebbero essere l’epigrafe d’ingresso in
Patrie smarrite , dove Stajano va a visitare i propri «indirizzi»,
quelli dei suoi luoghi d’origine, Noto e Cremona, i paesaggi dell’anima,
le «patrie smarrite» in cui reperire le voci dei morti e dei vivi, per
cercare di cogliere, nel dialogo, un senso, forse il senso di
un’appartenenza. Che purtroppo non si compie, se è vero che la prima
parte del libro si conclude con il testo del poeta arabo di Sicilia Ibn
Hamdis finito esule sognando un ritorno impossibile e la seconda (e
dunque il libro) si chiude con una ammissione di estraneità alla città
(e alla casa) della madre, che è anche la città in cui l’autore è nato:
«Mi sembra di non avere sentimenti. So soltanto che non appartengo
neppure a questa comunità».
Del resto, già Promemoria portava «Uno
straniero in patria» quale inequivocabile sottotitolo. Una sorta di
segnalazione che finisce per gettare una luce non solo sui libri che
verranno ma persino a ritroso: una luce che illumina dello stesso senso
di estraneità anche le figure dell’anarchico Franco Serantini e
dell’avvocato Giorgio Ambrosoli come di tanti altri personaggi sfiorati
ad Africo o nel «disordine» italiano anni Novanta. Estraneità,
rimozione, memoria. La «narrazione-paese» di Stajano si può intendere
come un macro promemoria, l’impegno di recuperare alla coscienza
collettiva le tragedie, le ferite, le responsabilità, i risvolti
inquietanti, soprattutto le vicende di quegli «stranieri» che hanno
smarrito la patria o che sono stati cancellati o emarginati dalla sua
storia.
Ma «nessuna madeleine proustiana», ha scritto Claudio
Magris a proposito de La stanza dei fantasmi , anima la scrittura di
Stajano, perché anche quando si parla di guerre lontane, tutto viene
reso presente, «stagliato sullo sfondo dell’eterno» anche in virtù di
uno stile controllato fino alla severità tacitiana. Al di là dei tempi
grammaticali impiegati, la «narrazione» di Stajano si sviluppa in un
presente compresso e spaesante, attraversato dal grande fiume del
passato prossimo e del passato remoto, tempi che trascinano fino a noi
cittadini di oggi le macerie entro cui si celano possibili tracce di
senso. E non è un caso se lo smarrimento più angosciante è laddove il
passato sembra non aver lasciato che esili appigli, segni sbiaditi di
sé, come paradossalmente può accadere in una terra stratificata di
storia e di storie qual è la Sicilia: «La suggestione è profonda, —
scrive Stajano quando si trova a Noto Marina sulle piste della
«battaglia mancata» dopo l’approdo delle truppe del generale Montgomery
—. La storia non ha lasciato traccia. Una scritta mussoliniana su un
casello ferroviario diroccato. Per il resto le ombre della memoria di
uomini giovani lungo i muretti a secco che ora quasi nessuno sa più
costruire».
La domanda chiave del libro arriva nel mezzo dello
sterposo paesaggio ibleo, con il fiume Anapo sullo sfondo, quando agli
occhi del narratore appare, per forza di litote e con vertiginoso
contrasto, l’altra metà di sé: «La Bassa padana è infinitamente
distante, la terra qui non sa di fieno e di latte, le zolle non sono
morbide, color cioccolato, l’acqua non gorgoglia. In questi giorni lassù
deve essere cominciato il raccolto del granoturco che ora ha perduto
anche il nome, si chiama soltanto mais». Ci sarebbe da segnalare, tra
parentesi, come i due paesaggi interiori si presentino specularmente
anche nella loro evidenza esteriore, palesandone plasticamente
l’irriducibile divergenza biologica ancora prima che antropologica (del
resto, Stajano è, oltre che un ottimo ritrattista, un grande scrittore
di vedute naturali). E la domanda? Eccola poco più sotto, carica di
amarezza e di autoironia: «Devo scomodare anche la psicoanalisi, cercare
di scavare in quel profondo che sento contraddittorio? Per tentare di
fare affiorare dalle grotte la memoria del rifiuto e della dimenticanza?
In che cosa quel tempo infinitamente lontano seguita a pesare sulla
vita degli uomini di oggi?».
La «narrazione» di Stajano è sempre
in tensione tra questi motivi dolorosi: oblio colpevole, rifiuto,
vergogna, eredità tormentosa, urto tra presente e passato,
incomprensione tra Nord e Sud, inconciliabilità storica e geografica
(dove storia e geografia interagiscono, si confondono fino a collidere).
«La città sonnolenta rifiuta il fastidio della memoria» è, più in
generale, un mondo in cui, montalianamente, «il calcolo dei dadi più non
torna».
Quel che può tornare, semmai, per quanto fragile e
baluginante, è la «speranza nella speranza»: per Stajano una forma di
resistenza consegnata alla scrittura come un prezioso messaggio in
bottiglia regalato alle generazioni che verranno.