martedì 16 gennaio 2018

il manifesto 16.1.17
Putin: il Mausoleo resta, «Lenin è come un santo»
Russia. «Comunismo come cristianesimo», dice il presidente. E per i sondaggi il fondatore dell'Urss è ancora il personaggio più popolare
di Yurii Colombo


MOSCA Vladimir Putin in un’intervista concessa per il documentario “Valaam”, andato in onda domenica sera su Rossia1, ha messo una pietra tombale – e metafora non potrebbe essere più calzante – al dibattito sulla rimozione del mausoleo di Lenin. Il mausoleo resta lì e ci resterà, almeno fino a quando ci sarà Putin.
Secondo l’inquilino del Cremlino «Lenin è stato messo in un mausoleo. In cosa ciò è diverso dalle reliquie dei santi per gli ortodossi e in generale per i cristiani? Quando mi dicono che nel cristianesimo non c’è una tradizione simile, non capisco. Guardate il monastero del monte Athos dove sono conservate le reliquie dei santi, anche da noi sono conservate le reliquie dei santi».
La venerazione dei comunisti per il «Capo» sorsero in certe condizioni storiche. «Forse dirò qualcosa ora che a qualcuno non piacerà – ha detto Putin – ma dirò quello che penso. In primo luogo, la fede, ci ha sempre accompagnato. Si rafforzò tra la gente quando nel nostro paese la vita era particolarmente dura… quando i sacerdoti venivano uccisi, quando le chiese venivano distrutte, ma al contempo venne creandosi una nuova religione», quella comunista.
Vladimir Putin non ha evitato di affrontare il tema più scottante, quello del confronto tra comunismo e cristianesimo. Secondo il presidente russo «l’ideologia comunista è sulla carta molto simile al cristianesimo, infatti valori come la libertà, l’uguaglianza, la fraternità e la giustizia si ritrovano nelle Scritture. Il codice del comunismo? È una sublimazione, si tratta di una sintesi di quanto scritto nella Bibbia, non è stato inventato nulla di nuovo».
Parole che hanno provocato, inevitabilmente, molte reazioni. Il partito comunista russo di Zyuganov ha plaudito all’intervista. Il vice presidente del comitato centrale del Pc, Ivan Melnikov, ha sostenuto che «le parole del presidente sono molto corrette e argomentate al fine di smussare gli spigoli più duri sulla questione del mausoleo. A questo proposito, la valutazione di queste tesi non può che essere positiva».
Putin si è avventurato in un tema ancora così divisivo in Russia, non certo per ingraziarsi i comunisti. I sondaggi di Pavel Grudinin, stagnano dopo la scoperta che il candidato comunista alla presidenza possiede 5 conti bancari all’estero.
Putin, ha invece sostenuto queste tesi – secondo gli analisti – da «statista super partes», per continuare quel percorso di «riappacificazione» tra russi al di là della storia sovietica. E sicuramente deve aver buttato l’occhio sui sondaggi secondo cui «Lenin resterebbe il personaggio storico più popolare in Russia», ma non già più come capo rivoluzionario, ma come “Dyadya Lenin” (nonno Lenin), fondatore della moderna Russia. E non solo: la maggioranza dei russi considererebbe ancora oggi «l’uguaglianza», il valore più importante da preservare.
Giudizio negativo invece dalla candidata liberale Xenia Sobchak, la quale ha sostenuto che «a Lenin dovrebbe essere data degna sepoltura vicino ai suoi cari» ricordando che il «70% dei russi è favorevole a tale soluzione»; ma anche dal presidente della Cecenia Razman Kadyrov, il quale non ha mai nascosto il suo viscerale anticomunismo.
Il mausoleo venne eretto nel 1924 sulla piazza Rossa ai piedi del Cremlino e contiene la salma imbalsamata del fondatore dell’Urss. Come è noto la moglie di Lenin, Nadezda Krupskaya e alcuni dirigenti bolscevichi allora si dichiararono contrari al mausoleo fortemente voluto invece da Stalin.
Tuttavia, dopo il crollo dell’Unione sovietica, il dibattito sul mausoleo ha assunto tutt’altro significato politico, unificando tutta la sinistra nella sua difesa.

il manifesto 16.1.17
Italia in armi, dal Baltico all’Africa
L’arte della guerra. La rubrica settimanale a cura di Manlio Dinucci
di Manlio Dinucci


Che cosa avverrebbe se caccia russi Sukhoi Su 35, schierati nell’aeroporto di Zurigo a una decina di minuti di volo da Milano, pattugliassero il confine con l’Italia con la motivazione di proteggere la Svizzera dall’aggressione italiana?
A Roma l’intero parlamento insorgerebbe, chiedendo immediate contromisure diplomatiche e militari.
Lo stesso parlamento, invece, sostanzialmente accetta e passa sotto silenzio la decisione Nato di schierare 8 caccia italiani Eurofighter Typhoon nella base di Amari in Estonia, a una decina di minuti di volo da San Pietroburgo, per pattugliare il confine con la Russia con la motivazione di proteggere i paesi baltici dalla «aggressione russa».
La fake news con la quale la Nato sotto comando degli Stati uniti giustifica la sempre più pericolosa escalation miitare contro la Russia in Europa. Per dislocare in Estonia gli 8 cacciabombardieri, con un personale di 250 uomini, si spendono (con denaro proveniente dalle casse pubbliche italiane) 12,5 milioni di euro da gennaio a settembre, cui si aggiungono le spese operative: un’ora di volo di un Eurofighter costa 40 mila euro, l’equivalente del salario lordo annuo di un lavoratore.
Questa è solo una delle 33 missioni militari internazionali in cui l’Italia è impegnata in 22 paesi.
A quelle condotte da tempo nei Balcani, in Libano e Afghanistan, si aggiungono le nuove missioni che – sottolinea la Deliberazione del governo – «si concentrano in un’area geografica, l’Africa, ritenuta di prioritario interesse strategico in relazione alle esigenze di sicurezza e difesa nazionali».
In Libia, gettata nel caos dalla guerra della Nato del 2011 con la partecipazione dell’Italia, l’Italia oggi «sostiene le autorità nell’azione di pacificazione e stabilizzazione del Paese e nel rafforzamento del controllo e contrasto dell’immigrazione illegale».
L’operazione, con l’impiego di 400 uomini e 130 veicoli, comporta una spesa annua di 50 milioni di euro, compresa una indennità media di missione di 5 mila euro mensili corrisposta (oltre la paga) a ciascun partecipante alla missione. In Tunisia l’Italia partecipa alla Missione Nato di supporto alle «forze di sicurezza» governative, impegnate a reprimere le manifestazioni popolari contro il peggioramento delle condizioni di vita.
In Niger l’Italia inizia nel 2018 la missione di supporto alle «forze di sicurezza» governative, «nell’ambito di uno sforzo congiunto europeo e statunitense per la stabilizzazione dell’area», comprendente anche Mali, Burkina Faso, Benin, Mauritania, Ciad, Nigeria e Repubblica Centrafricana (dove l’Italia partecipa a una missione dell’Unione europea di «supporto»).
È una delle aree più ricche di materie prime strategiche – petrolio, gas naturale, uranio, coltan, oro, diamanti, manganese, fosfati e altre – sfruttate da multinazionali statunitensi ed europee, il cui oligopolio è però ora messo a rischio dalla crescente presenza economica cinese.
Da qui la «stabilizzazione» militare dell’area, cui partecipa l’Italia inviando in Niger 470 uomini e 130 mezzi terrestri, con una spesa annua di 50 milioni di euro. A tali impegni si aggiunge quello che l’Italia ha assunto il 10 gennaio: il comando della componente terrestre della Nato Response Force, rapidamente proiettabile in qualsiasi parte del mondo. Nel 2018 è agli ordini del Comando multinazionale di Solbiate Olona (Varese), di cui l’Italia è «la nazione guida». Ma – chiarisce il Ministero della difesa – tale comando è «alle dipendenze del Comandante Supremo delle Forze Alleate in Europa», sempre nominato dal presidente degli Stati uniti.
L’Italia è quindi sì «nazione guida», ma sempre subordinata alla catena di comando del Pentagono.

Il Fatto 16.1.18
Papa apocalittico: a un passo da guerra atomica
Incubo Bomba - L’appello del pontefice: “Ho davvero paura. Adoperarsi per il disarmo”
Papa apocalittico: a un passo da guerra atomica
di Giampiero Gramaglia


Papa Francesco ha “davvero paura” d’una guerra atomica: “Sì, ho davvero paura – dice ai giornalisti sull’aereo che lo porta in visita in Cile e Perù – … Siamo al limite… Basta un incidente per innescare il conflitto. Di questo passo. la situazione rischia di precipitare. Quindi, bisogna distruggere le armi, adoperarci per il disarmo nucleare”.
Il Papa che aveva già dichiarato aperta la Terza Guerra Mondiale “a pezzi”, con focolai di guerra in Medio Oriente e Africa, Estremo Oriente e Asia sud-occidentale, teme che le esibizioni missilistico-muscolari sul fronte coreano e i rialzi di tensione su quello iraniano possano innescare, magari per errore, un conflitto.
È un monito sentito, non recitato. Prima della partenza, fa distribuire ai 70 giornalisti al seguito una foto scattata a Nagasaki poco dopo l’esplosione della seconda bomba atomica Usa, il 9 agosto 1945: dietro l’immagine, una nota di suo pugno, “Frutto della guerra”. “L’ho trovata per caso”: è un bambino che porta sulle spalle il fratellino morto e aspetta il suo turno davanti al crematorio, mordendosi le labbra a sangue per il dolore e la tensione.
A scattarla, fu un fotografo americano, Joseph Roger O’Donnell. Francesco racconta: “Mi ha commosso. Ho pensato di farla stampare e condividerla, perché un’immagine del genere emoziona più di mille parole”.
Le parole e il gesto del Papa trasmettono un’inquietante sensazione: Francesco sa più di quel che tutti sanno? Dall’altra parte dell’Atlantico, l’uomo che tiene a fare sapere di avere “il più grosso bottone nucleare”, Donald Trump, si limita a commenti generici: “Vedremo che accadrà con la Corea del Nord… Molte cose possono succedere”. Il Pentagono dice di “sperare nella diplomazia”, ma di “esser pronto alla guerra”: parole di circostanza, dopo che il falso allarme di domenica alle Hawaii ha dato misura della fragilità della situazione.
Negli Usa, il lunedì è festivo – è il Martin Luther King Day: Trump lo trascorre in Florida, mentre le due Coree tornano a vedersi e fanno ulteriori progressi sulla ‘tregua olimpica’: Pyongyang manderà ai Giochi un’orchestra di 140 elementi e c’è l’ipotesi di allestire una squadra di hockey femminile ‘pancoreana’.
Le preoccupazioni del Papa riflettono un contesto internazionale reso ulteriormente instabile e insicuro dall’imprevedibilità di alcuni dei protagonisti e dove i progressi tecnologici indeboliscono la dissuasione nucleare e accrescono le tentazioni d’uso d’ordigni atomici a impatto limitato. La diplomazia, poi, pare immemore delle lezioni del passato, al punto che tornano minacciosi sull’orizzonte europeo gli ‘euromissili’ – banditi dal 1987. All’Onu, il Trattato che proibisce in toto le armi nucleari è su un binario morto: 122 Paesi l’hanno già approvato – Vaticano in primis -, ma nessuna delle 9 potenze nucleari e dei Paesi loro alleati.
Più che sulle paure di Francesco, l’America s’interroga sui fantasmi del razzismo, che le parole del presidente evocano. Mitt Romney, candidato repubblicano alla Casa Bianca 2012 e capofila della fronda a Trump, le giudica “incoerenti con la nostra storia e antitetiche ai nostri valori”. Romney avrebbe deciso di correre a novembre per un seggio al Senato, preparandosi a scendere in campo nel 2020 contendendo al magnate la nomination repubblicana.

Corriere 16.1.18
In guerra per errore
Gli Stati Uniti stanno spostando uomini e mezzi nel Pacifico. Dopo il falso allarme alle Hawaii, i rischi di un conflitto non voluto
di Guido Santevecchi


Trentotto minuti. Tanto è durato l’incubo di un attacco missilistico alle Hawaii sabato, per il falso allarme causato da un funzionario della difesa che al cambio di turno stava provando i sistemi e ha schiacciato il bottone sbagliato. «Ho pensato che il nostro paradiso sarebbe andato in pezzi», ha detto una testimone del grande panico, riemersa sotto choc dal garage nel quale si era rifugiata con la famiglia. Ma quale è stata la reazione del presidente Donald Trump che solo pochi giorni fa si è vantato di avere un «bottone nucleare più grande e potente di quello di Kim Jong-un»? E che cosa può aver pensato il Maresciallo di Pyongyang, che per mesi ha ricevuto (spesso su Twitter) notizie su piani di «decapitazione» studiati dal Pentagono?
Nel 1964 il grande Sidney Lumet diresse il film «A prova di errore»: la storia di uno stormo di bombardieri strategici americani lanciati in un folle attacco nucleare contro Mosca per una serie di falle tecniche e false deduzioni. Il presidente era impersonato da Henry Fonda, che nella Seconda guerra mondiale era stato tenente della ricognizione aerea nel Pacifico. Un attore amatissimo e molto più credibile di The Donald, ma nel copione di comandante in capo ordinava il lancio di due missili nucleari su New York, per convincere i sovietici che Mosca era stata colpita involontariamente. La pellicola apocalittica di Hollywood non mostrava gli effetti dell’errore nucleare. Ma nel 1983 non ci è stato risparmiato lo strazio dei parenti delle 269 vittime di un Boeing della Kal, abbattuto da un caccia russo dopo essere stato scambiato per un aereo spia americano. Alla Casa Bianca c’era Ronald Reagan, un altro attore, un altro personaggio più carismatico e affidabile di Trump. Ma nel clima di sfiducia reciproca della Guerra fredda, come ricorda il New York Times , Reagan non lesse il rapporto della Cia, convinto che i russi avessero agito per errore (dicono che anche Trump legga pochissimo); a Mosca pensarono che la Casa Bianca mentisse per giustificare un attacco punitivo-preventivo e si sfiorò il conflitto.
I passeggeri del Boeing Kal erano sudcoreani e la loro nazionalità ci porta drammaticamente alla crisi in atto. Kim Jong-un ha ordinato una ventina di test missilistici nel 2017. Ha minacciato di colpire Guam, le Hawaii, tutte le città degli Stati Uniti. Poi a Capodanno ha detto di avere il «bottone nucleare sulla scrivania», ma ha anche proposto ai sudcoreani di discutere sulla partecipazione nordcoreana alle Olimpiadi invernali di Pyeongchang a febbraio. Le trattative vanno bene, i nordisti al momento alzano la voce nei colloqui solo perché vogliono mandare un battaglione di majorette, bellissime ma in uniforme militare, ad allietare gli spettatori dei Giochi. Un’atmosfera tutto sommato confortante, viste le premesse.
Trump si attribuisce il merito della svolta conciliante di Kim, sostenendo che è stata la sua fermezza a procurarla (e forse ha ragione). Trump dice che sono in corso «grossi colloqui» e bisogna «aspettare e vedere». Ma molti segnali indicano che la finestra di opportunità per un negoziato è limitata: finita la «tregua olimpica», a marzo, la crisi potrebbe riaccendersi in modo definitivo. I preparativi sono in corso: il Pentagono, senza grandi fanfare, ha schierato navi, portaerei e bombardieri vicino alla penisola. A Guam sono arrivati dal Missouri 3 B-2 Spirit, i bombardieri più avanzati della US Air Force, capaci di portare armi nucleari e gli unici in grado di sganciare una MOP, la superbomba «convenzionale» da 14 mila chili che potrebbe polverizzare qualsiasi bunker di Kim.
Oggi a Vancouver, in Canada, si riuniscono 16 ministri degli Esteri guidati dall’americano Rex Tillerson per discutere di come «mettere la massima pressione» sulla Nord Corea. Non sono presenti la Cina e la Russia perché, dicono americani e canadesi, sono stati invitati solo i Paesi che parteciparono alla guerra di Corea tra il 1950 e il 1953: e in quella carneficina per difendere il Sud aggredito dal Nord, cinesi e russi erano impegnati dalla parte sbagliata del fronte. Logica da Guerra fredda, dice Pechino. Ma intanto anche l’esercito cinese si prepara al peggio: il presidente Xi Jinping ha appena ispezionato una divisione che partecipò alla guerra «contro l’aggressione degli imperialisti americani». Nella zona di confine con la Nord Corea i cinesi hanno tre corpi d’armata per complessivi 150 mila uomini. Quanti errori di calcolo sono possibili?
Che cosa sarebbe successo se Kim, in quei trentotto minuti di sabato, vedendo alla Cnn la notizia dell’allarme missile sulle Hawaii avesse pensato a una menzogna americana per giustificare un attacco preventivo? Questo mondo non è a prova di errore.

Corriere 16.1.18
«Ma attaccare Pyongyang sarebbe una vera catastrofe»
di Giuseppe Sarcina


L’incidente delle Hawaii non ha cambiato il quadro analitico degli americani sulla Corea del Nord. A Washington gli esperti dei think-tank restano sostanzialmente divisi in due correnti di pensiero. La prima è quella accolta dall’amministrazione, in particolare dalla Casa Bianca: non ci sono le condizioni per una trattativa diretta con Kim Jung-un. Il fautore più ascoltato di questa linea è Bruce Klingner, dal 1993 al 2001 agente della Cia, dove si è occupato del quadrante asiatico fino a diventare il capo delle operazioni nella penisola coreana. Klingner lavora dal 2007 per la Heritage Foundation, centro studi conservatore vicino al governo Trump. Anche in questi giorni l’ex analista dei servizi segreti ripete in tv ciò che ha spiegato in una lunga audizione, il 25 luglio del 2017, davanti alla Commissione esteri del Senato. «Non ci sarà utilità in un negoziato diretto fino a quando Pyongyang non accetterà di sospendere il suo piano di armamento nucleare». Klingner sostiene che Kim Jong-un non abbia alcuna intenzione di accettare il dialogo. E in ogni caso sarebbe impossibile controllare l’applicazione di un eventuale accordo. Concetti ripresi, alla sua maniera, da Trump in un tweet del primo ottobre 2017 rivolto al Segretario di Stato Rex Tillerson: «Non perdere tempo a negoziare». Klingner suggerisce di «applicare sanzioni sempre più stringenti alla Corea del Nord», prevedendo penalità anche per i Paesi che l’appoggiano, Cina in testa. L’impostazione alternativa, che piace a Tillerson, è sviluppata dal «38 North, Us-Korea Institute» affiliato all’Università Johns Hopkins. Il cofondatore, Joel Wit, parte da due considerazioni: «Le sanzioni difficilmente daranno i risultati sperati»; illusorio pensare che la Cina farà il massimo per arginare il dittatore nordcoreano. Bisogna, allora spezzare l’escalation e puntare al dialogo diretto con Kim Jong-un. Per fortuna su una cosa sono tutti d’accordo: un attacco militare sarebbe semplicemente «catastrofico».

La Stampa 16.1.18
Senza la bomba
Una mostra racconta l’atomica e le sue terribili conseguenze- E la fa anche sentire: un boato assordante durante la visita
di Fabrizio Accatino


Quando la bomba esplode, il boato è assordante. Un rumore fortissimo, profondo, che risuona nel cuore e fa tremare le ossa. Dura due minuti, ma sono due minuti interminabili. Il personale aveva avvisato che si trattava di una simulazione, ma l’esperienza resta choccante. Quel rumore sordo congela a orari fissi la mostra Senzatomica, da oggi nella sua tappa torinese. Ironia della sorte, a ospitare un evento che promuove la messa al bando delle armi nucleari è il Mastio della Cittadella, sede del Museo Storico Nazionale dell’Artiglieria. Una mostra sulla pace dentro il museo delle armi: un poetico corto circuito che avrebbe deliziato Giovannino Guareschi.
Nel sottotitolo - «Trasformare lo spirito umano» - riecheggia il primo paragrafo della costituzione dell’Unesco: «Poiché le guerre cominciano nelle menti degli uomini, è nelle menti degli uomini che si devono costruire le difese della Pace».
«Il vero nemico non sono le armi atomiche ma il modo di pensare che ci sta dietro» sottolinea il presidente di Senzatomica, Daniele Santi. «Il sentirsi giustificati nel poter annientare, cancellare dalla faccia della terra una persona, una città, un intero paese solo perché si frappone fra me e un mio obiettivo. Un disarmo internazionale si può ottenere soltanto partendo da un disarmo personale, interiore».
Santi ha un entusiasmo contagioso, inarrestabile. Questa mostra è una sua creatura. La segue dal 2011, da quando è nata. Da allora ha toccato 75 città, dall’inaugurazione a Firenze fino a Bari, passando per Pesaro, Milano, Bologna, Cagliari, Roma, Napoli, San Marino. Un’iniziativa che negli anni ha raccolto intorno all’ideale del disarmo nucleare oltre 330 mila visitatori, di cui più di un terzo studenti delle scuole primarie e secondarie. Il nome più illustre è Daniel Högsta, coordinatore del network internazionale Ican, vincitore lo scorso dicembre del Premio Nobel per la Pace. Sarà in visita alla mostra il primo febbraio alle 18,30. Per lui sono previsti un tour guidato e a seguire una conferenza pubblica.
Tra foto, infografiche, videoproiezioni e persino un vero Lance (un missile nucleare di sei metri in dotazione alla Nato fino agli Anni 80), il percorso multimediale si snoda per settecento metri quadrati e una quarantina di minuti. Parte con toni cupi da day after (con le video-testimonianze degli hibakusha, i sopravvissuti alle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki) ma dopo poco si apre alla speranza. La musica di sottofondo cambia e così i colori. Undici pannelli variopinti trasmettono ai bambini la trasformazione del cuore, portandoli nel giardino della pace. Si parte dal fungo atomico per raggiungere l’albero della vita.
Ad accompagnare i visitatori nella mostra quattro guide sui generis, membri dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai. Nella vita fanno tutt’altro, ma si sono preparati accuratamente per svolgere questo compito. Sono un insegnante, un astrofisico, un idraulico e un ingegnere. Accolgono tutti con un sorriso, raccontano, spiegano, si appassionano. Un valore aggiunto della mostra particolarmente gradito, che aiuta i visitatori a riflettere e a dialogare.
«L’unica risposta possibile per scongiurare un disastro nucleare è proprio il dialogo” conclude Santi. «Solo così si potranno risolvere situazioni come quella fra Kim Jong-un e Trump. Finché in circolazione esisterà anche solo un’arma nucleare, l’umanità intera sarà a rischio. Per me tutto quello che serve è racchiuso nelle parole finali del manifesto contro il nucleare firmato nel 1955 da Russell e Einstein: “Ricordiamoci della nostra umanità e scordiamo tutto il resto”».

il manifesto 16.1.17
Niger, anche la Lega di Salvini si accoda al Pd
L'Italia in Africa. La ministra Pinotti:«Non sarà una missione combat, andiamo lì per addestrare»
di Carlo Lania


Niger, Tunisia e Libia, ma anche il Sahel e, più in generale, il Mediterraneo. Sono queste le nuove aree prioritarie per l’Italia. A spiegarlo è stata la ministra della Difesa Roberta Pinotti intervenendo davanti alle commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato dove da ieri sono all’esame le missioni internazionali del Paese. Quella in Niger, ha spiegato Pinotti, «non sarà una missione combat, andiamo lì per addestrare le forze di sicurezza del Paese». E sempre da ieri al fronte dei favorevoli ai nuovi impegni militari, dove già sono allineati Pd, Forza Italia e Ap, si è aggiunta anche la Lega. «Io sono a favore» ha spiegato Matteo Salvini. «Ogni intervento italiano in giro per il mondo, che serve a difendere i confini o l’interesse nazionale, avrà il voto favorevole della Lega».
Dopo essere stato annunciato alla fine dell’anno dal premier Paolo Gentiloni, l’impegno africano dell’Italia comincia dunque a concretizzarsi. Contemporaneamente il governo vuole alleggerire la presenza di soldati italiani in Iraq e Afghanistan, arrivando nel primo caso fino al dimezzamento dell’attuale contingente forte di 1.500 uomini. Tutto avverrà gradualmente: i primi 250 soldati lasceranno l’Iraq entro marzo, seguiti da altri 450 entro settembre. Duecento, invece, i soldati in meno previsti in Afghanistan. Daesh, ha spiegato Pinotti, «è stato sconfitto militarmente, anche se rimane alto il pericolo di terrorismo».
Saranno invece 470 i soldati impegnati in Niger, la più importante delle nuove missioni. I primi a partire una volta avuto il via libera del parlamento saranno 130 uomini, seguiti a giugno dal resto del contingente. La missione costerà 49,5 milioni di euro per il 2018, trenta dei quali già stanziati fino a settembre.
Ma cosa faranno i soldati italiani in Niger? «Non è una missione combat – ha detto la ministra – né una missione in cui pensiamo di mettere 470 uomini come sentinelle ai confini. Il Niger ha detto di avere un problema nel controllo dei confini, ma non vogliono che li controlliamo noi. Vogliono diventare in grado di controllarli e sentono di avere bisogno di noi».
La missione avrà la sua base all’aeroporto di Niamey mentre i rifornimenti avverranno soprattutto via mare. Per questo è stato individuato come punto di imbarco e sbarco il porto di Cotonou, in Benin, a 1.300 chilometri di distanza dalla capitale nigerina. La missione potrà inoltre contare sui 130 mezzi terrestri, tra i quali anche carri Lince e due aerei per il trasporto truppe e merci. Il contingente comprenderà un gruppo di addestratori, un team sanitario e personale del genio, oltre naturalmente agli uomini addetti all sicurezza della base. «Esistono missioni europee, esiste un intervento della Francia come degli Stati uniti», ha proseguito la ministra. «Noi ci coordiniamo con la strategia che riguarda il G5 Sahel (la nuova forza militare formata da truppe di Niger, Mali, Mauritania, Burkina Faso e Ciad, ndr) ma si tratta di uan missione bilaterale». Il ministro degli esteri Angelino Alfano ha invece annunciato uno stanziamento italiano di 100 milioni di euro al Niger, che intensificherà l’azione di contrasto dei flussi di migranti diretti in Italia. «I risultati ci sono già e parlano chiaro: drastica riduzione dei flussi dai 330 mila del 2016 ai 62 mila del 2017», ha detto il titolare della Farnesina.
Per quanto riguarda la Libia, ai 370 uomini già impegnati con la missione Ippocrate (spedale a Misurata) e con la Guardai costiera libica, se ne aggiungeranno altri 30 con funzioni sempre con compiti di addestramento alle forze di sicurezza libiche. In Tunisia, invece, l’Italia parteciperà alla missione Nato e contribuirà alla costituzione di un comando di livello di brigata.
Mercoledì è previsto il voto alla Camera, mentre per il Senato sarà probabilmente sufficiente il voto espresso dalle commissioni. La decisione di riaprire le camere per consentire il voto alle missioni ha però sollevato critiche a sinistra. «Una scelta di questa natura – ha detto il vicepresidente della commissione Esteri della Camera Erasmo Palazzotto (LeU) – non può essere assunta da u parlamento che non si trovi nel pieno delle sue finzioni senza che questo determini un vulnus per la nostra democrazia».

Corriere 16.1.18
Niger, il Senato approva la missione militare italiana
di Dino Martirano


Al Senato, la ministra della Difesa Roberta Pinotti ha pure rilevato l’eccezionalità della convocazione del Parlamento a Camere sciolte ma, ha spiegato, «la deliberazione del governo sulle missioni internazionali riguarda le strategie di sicurezza che permangono anche davanti agli appuntamenti importanti della politica». Dunque, alla vigila delle elezioni, le commissioni congiunte Esteri e Difesa di Palazzo Madama hanno dato il primo via libera (la Camera vota domani, in Aula) alla deliberazione del governo che proroga per il 2018 le missioni militari all’estero e ne istituisce di nuove, compresa quella in Niger che mobiliterà fino a 470 soldati lungo le rotte dei mercanti di esseri umani in prossimità del confine meridionale dell Libia. La proposta è passata con 31 voti favorevoli (Pd e Ap più Forza Italia e due senatori di LeU), 5 contrari (M5S e uno di LeU) e un astenuto della Lega: «Al Senato abbiamo ottenuto questo risultato grazie a un buon clima tra i partiti», è il commento del presidente della commissione Difesa, Nicola Latorre, che insieme al presidente Pierferdinando Casini ha gestito al seduta. «Quella che sta per partire in Niger non è una missione combat ma di addestramento per il controllo dei confini che si coordinerà con i francesi e con gli americani», ha detto la ministra Pinotti che poi, a margine, ha spiegato: «Appena il Parlamento approverà la deliberazione sono pronti a partire 120 militari che, secondo le esigenze, potranno arrivare fino a 470». Nell’anno appena iniziato, dunque, dovrebbe continuare il graduale disimpegno dei contingenti militari italiani dall’Iraq e dall’Afghanistan che sarà compensato da una maggiore presenza in Africa. Dalla Libia al Niger, appunto: «Il 2017 della politica estera italiana segna un rientro fortissimo nel Sahel dal punto di vista dell’investimento politico», ha detto il ministro degli Esteri Angelino Alfano. La missione in Niger, che porterà i soldati italiani fino a Fort Madama (a 100 chilometri dal confine Sud della Libia), si inserisce in un quadrante delicato. Come evidenziano gli attacchi in Niger e Mali alle forze Usa e francesi rivendicati da Walid al Sahrawi, leader dello Stato islamico in Africa Occidentale.

il manifesto 16.1.17
Bonino, oggi il sì a Renzi e anche a Gori e Zingaretti
Il Pd e il rebus liste. Oggi la riunione con +Europa, poi la sigla sugli accordi anche per gli altri 'nanetti'. Al Nazareno trattative serrate per le deroghe ai parlamentari di lungo corso
di Daniela Preziosi

«Sarò candidata, non so ancora dove ma lo farò». Ieri a Cartabianca, su Raitre, Emma Bonino teneva ancora aperta la possibilità della corsa solitaria della lista +Europa. Visto dal Nazareno, però, l’accordo sembra ormai arrivato a meta. «Un’intesa è necessaria e possibile»per Piero Fassino. Che stamattina, con Lorenzo Guerini e Maurizio Martina, incontrerà Benedetto Della Vedova, Riccardo Magi e Bruno Tabacci per definire i dettagli. Bonino forse non ci sarà. E non ci sarà Renzi che a pranzo vedrà Albert Rivera, leader di Ciudadanos, riferimento anche per i radicali per il suo europeismo spinto.
Quanto ai «dettagli» dell’accordo, si fa per dire: «Il problema è se si valorizza o no l’apporto politico di +Europa», dice Bonino. Ma anche chiudere sui seggi all’uninominale: il Pd offrirebbe quattro collegi blindati, i radicali ne chiederebbero altri due e non è detto che alla fine non ne portino a casa almeno un altro. Bonino smentisce che la discussione sui numeri sia mai iniziata: «Mai parlato di seggi e spero non se ne parli mai. Il problema è un altro, tra chi vuole chiudere e chi vuole aprire il progetto europeo».
Ma la prosaica questione dei seggi per il Pd è una decisione tutt’altro che banale: dopo +Europa arriveranno a riscuotere gli ulivisti, che per ora hanno incassato tre posti (il socialista Nencini, il verdi Bonelli e il prodiano Santagata). E i i Civici popolari di Beatrice Lorenzin che, imbronciati per l’esclusione dalla coalizione del Lazio, ora ne chiedono sette (la stessa Lorenzin, Casini, Bianconi, Vicinanza, Galletti, D’Alia, Dellai e Olivero). Al Nazareno si esclude l’alleanza con Verdini e i repubblicani.
Ma in ogni caso il Pd si prende ancora qualche giorno: in attesa che i sondaggi stabilizzino il peso dei cosidetti «nanetti». Finora solo «+Europa» si avvicina al 2%. Gli altri restano piantati intorno all’1. La direzione di domani intanto approverà il regolamento per le candidature, poi una seconda riunione il 25 gennaio darà l’ok alle liste. Per quel giorno tutti i rebus dovranno essere risolti, compreso quello delle deroghe ai parlamentari in carica da più di 15 anni (sono in 25 ad averne bisogno, oltre a Gentiloni e i ministri Minniti, Franceschini e Pinotti, fra gli altri Giachetti, Realacci e Fioroni). Il termine delle candidature scade il 29.
Il sì di Bonino e compagni, poi, per il Pd vale tre. I radicali italiani sono pronti a entrare anche nelle coalizioni di Lombardia e Lazio. Stamattina a Milano Marco Cappato terrà una conferenza stampa per parlarne. Lui non si candida (né alle politiche né in Lombardia, «per poter concludere nella massima libertà il processo» dov’è imputato di aiuto al suicidio di dj Fabo), ma l’ok a Gori è praticamente cosa fatta, peraltro dopo una giornata di polemiche contro il leghista Fontana.
Anche con Zingaretti i rapporti sono buoni: qui, forti di un insediamento storico nella Capitale, valutano di correre con un simbolo più vicino alla tradizione radicale. Lo scorso giro, nel 2013, la rottura fra l’allora candidato e Marco Pannella era stata netta: il candidato dem non aveva voluto con sé i due radicali uscenti. In nome di un rinnovamento generale che in realtà serviva a far digerire al Pd il repulisti di consiglieri dalle performance non ineccepibili durante la giunta Poverini.

Il Fatto 16.1.17
Oggi il fascista se ne frega anche del Duc

di Antonio Padellaro

Il sindaco di Amatrice Sergio Pirozzi e gli odierni fascisti immaginari credono che basti una leccatina al busto del Duce per attingere voti al giacimento elettorale nero gorgogliante sotto i nostri piedi. Eh sì, quando c’era lui, caro lei, su “infrastrutture e politiche sociali c’era una visione”, dichiara petto in fuori il candidato leghista alla Regione Lazio. Che però trattiene l’italico ardore sulle “sciagurate leggi razziali” e “la guerra a fianco di Hitler”. Qui casca l’asino poiché al fascio 2.0 frega poco delle dinamiche della Seconda guerra mondiale quando invece considera “Romanista ebreo” o “Laziale ebreo” (ma anche “Juventino ebreo” o “Interista ebreo”, e via così con l’antisemitismo curvarolo) l’insulto più sanguinoso.
Poi c’è l’ammiratore a debita distanza, tipo il pidino fiorentino Maurizio Sguanci che, “fatto salvo che Mussolini è la persona più lontana da me” (ci mancherebbe) “nessuno in questo Paese ha fatto in quattro lustri quello che ha fatto lui in vent’anni”. Un’emerita fesseria destinata rapidamente ad appassire visto che l’endorsement dello Sguanci non resisterà che poche ore alla gogna di Facebook, con lui costretto all’abiura più mortificante. Ovvero: “Mussolini fu un criminale, anzi uno dei più grandi criminali della Storia. È più che assodato. È un fatto”. Conclusione di puro stampo ducesco che si sarebbe forse potuta bilanciare con un virile: “E gli puzzava l’alito” (ma non si può avere tutto). Come sempre in tema di furfanterie un tanto al voto, il primo a tracciare il solco fu Silvio Berlusconi nel 2013 (“Mussolini per tanti versi fece bene”). Banalità rieditata pochi giorni fa con un timido: “Mussolini non era proprio un dittatore”, peraltro subito ingoiata da un singulto: “Era solo una battuta”. Potremmo andare avanti a lungo con la galleria di all’armi siam fascisti o forse no se non fosse per la poco divertente commistione tra innocua nostalgia e ferocia razzista. Perché fascisti prêt-à-porter si dichiarano i manganellatori radiofonici della Zanzara, favorevoli all’annegamento in mare dei migranti e fautori delle camere a gas per i rom (più nazi che fasci dunque ma la differenza non sempre viene colta).
Un furore che alligna intorno a noi, una violenza cupa, bestiale, spesso omicida (i bengalesi ammazzati di botte a Roma, i clochard bruciati vivi da Verona a Palermo) sullo stampo della stessa disumana malvagità che concepì Marzabotto. E che forse perfino Lui non avrebbe approvato stando almeno al ritratto che ne fa il regista Luca Miniero nel film Sono tornato, a giorni nelle sale. Un dittatore redivivo, stralunato, accolto nelle strade dal saluto romano e tutto sommato più attratto dai social che dalla guerra alle plutocrazie giudaico massoniche. Nell’attuale schieramento elettorale da collocare tra Salvini e la Meloni (un pizzico più moderato del candidato leghista in Lombardia Attilio Fontana, convinto che “la razza bianca” sia in pericolo quindi “basta con gli immigrati”). Un fascismo da ridere anche se, ne siamo certi, pure al Mussolini autentico oggi quelli di Casapound negherebbero il voto.

Il Fatto 16.1.17
Fontana pieno di razzismo: “Noi bianchi siamo a rischio”
Lombardia - Il candidato del centrodestra, scelto anche da Berlusconi perché “leghista moderato”, si scaglia contro l’invasione degli immigrati a Radio Padania
Fontana pieno di razzismo: “Noi bianchi siamo a rischio”
di Lorenzo Giarelli


“Non possiamo accettarli tutti”, “la nostra razza bianca deve continuare ad esistere”. Parola di Attilio Fontana, ex sindaco di Varese e candidato del centrodestra alla presidenza della Regione Lombardia alle elezioni del 4 marzo. Lo scivolone arriva domenica mattina durante un’intervista rilasciata alla trasmissione “Sulla strada della libertà”, condotta da Roberto Maggi su Radio Padania. A precisa domanda sulla gestione dei migranti, Fontana risponde: “Dire che dobbiamo accoglierli tutti è un discorso demagogico di fronte al quale dobbiamo ribellarci”. E poi la frase incriminata: “Non è questione di essere fascisti o xenofobi, ma di essere logici. Dobbiamo fare delle scelte, dobbiamo decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società deve continuare ad esistere o deve essere cancellata”.
Nel corso dell’intervista Fontana arriva a paventare il rischio d’estinzione della società italiana: “Se dovessimo accettarli tutti (i migranti, ndr) vorrebbe dire che non ci saremmo più noi come realtà etnica, perché loro sono molti piu di noi e molto più determinati nell’occupare questo territorio”. E ancora: “Se la maggioranza degli italiani dovesse decidere che vogliamo auto-eliminarci, vorrà dire che quelli che non vogliono auto-eliminarsi se ne andranno da un’altra parte”.
Affermazioni che stridono con la descrizione di “leghista moderato” con cui Fontana era stato presentato, una settimana fa, per mettere insieme la coalizione di centrodestra. Fontana, 65 anni, iscritto alla Lega Nord dal lontano 1995 e già presidente dell’Anci Lombardia, si era detto “orgoglioso” che la scelta fosse ricaduta su di lui. I sondaggi di pochi giorni fa lo accreditavano in vantaggio di almeno 6 punti percentuali nei confronti del sindaco di Bergamo Giorgio Gori, che per altro è il candidato ufficiale della coalizione di centrosinistra già da ottobre e ha potuto quindi iniziare la campagna elettorale con almeno tre mesi d’anticipo rispetto al rivale. Difficile che lo scivolone sui migranti cambi qualcosa, ma dopo le polemiche di ieri Fontana è stato costretto a scusarsi e a fare parziale marcia indietro: “È stato un lapsus, un errore espressivo, intendevo dire che dobbiamo riorganizzare un’accoglienza diversa che rispetti la nostra storia, la nostra società. Ascoltando il mio discorso per intero si capiva cosa intendevo dire”.
Ma a quel punto è troppo tardi: il fuoco incrociato del centrosinistra e del Movimento 5 Stelle è già iniziato. “Credo che Attilio Fontana in questo caso abbia detto davvero quello che pensa sui migranti”, dice Gori intervenendo alla trasmissione #cartabianca su Rai3. “É un Salvini in giacca e cravatta – aggiunge – anzi, più un Borghezio che un Salvini”, dice il sindaco di Bergamo ricordando alcune uscite colorite dell’europarlamentare leghista, già condannato per aver apostrofato con parole discriminatorie l’ex ministro per l’Integrazione Cecile Kyenge, proprio durante un’intervista radiofonica.
All’attacco anche il candidato Premier dei 5 Stelle Luigi Di Maio, che durante un’intervista a Un giorno da pecora, su Radio Uno, ironizza sulla presunta natura moderata della coalizione di centrodestra: “Berlusconi dice che loro sono moderati e noi estremisti, ma dopo la frase di Fontana sulla razza bianca siamo sicuri che siano loro i moderati? Se loro sono moderati, allora io sono Gandhi”. Il centrodestra, invece, fa quadrato intorno al candidato. “Conosco Fontana da diverso tempo, è una persona seria e moderata, non un razzista, – assicura Mariastella Gelmini, coordinatore lombardo di Forza Italia – si è trattato di una frase infelice della quale si è già scusato”. Matteo Salvini rincara la dose, riprendendo gli argomenti di Fontana: “Siamo sotto attacco, sono a rischio la nostra cultura, società, tradizioni, modo di vivere. É in corso un’invasione”.

Repubblica 16.1.18
Razzismo, la cultura al contrario
La “nostra società” ha cancellato dai suoi presupposti il concetto di “razza”, che è anticostituzionale e antiscientifico (decida Fontana quale delle due violazioni è la più grave)
di Michele Serra


La parola “razzista” è ancora carica, e per fortuna, di un’aura di violenza e di illegittimità. Quanto basta perché il candidato moderato (autodefinizione) alla Regione Lombardia, l’ex sindaco di Varese Attilio Fontana, definisca frettolosamente «un lapsus» l’avere tirato in ballo, contro l’immigrazione, la difesa della «nostra razza bianca», frase sfuggitagli di bocca nel corso di una chiacchierata a Radio Padania.
Uguale premura ha avuto Donald Trump, che una volta tanto ha mentito per decenza, negando di avere definito «cessi» una manciata di Paesi molto poveri e popolati prevalentemente da non bianchi. È lo stesso scrupolo che ha animato la decisione dell’Ukip (partito isolazionista inglese) di sospendere una sua illustre militante, la fidanzata del leader Bolton, che aveva accusato la fidanzata del principe Harry di essere «una afroamericana che macchierà con il suo seme la famiglia reale». In buona sostanza: il razzismo non è affatto sdoganato, tanto è vero che perfino partiti e persone fortemente sospettabili di suprematismo bianco, dunque di razzismo in purezza, avvertono il bisogno di ripulirsi dal sospetto di esserlo.
I nazisti dell’Illinois ( e i nazisti di Varese, che da anni festeggiano il compleanno di Hitler) rimangono dunque la ristretta schiera di coloro che possono rivendicare pubblicamente, schiettamente il loro razzismo. Gli altri, a quanto pare, a cominciare dal presidente degli Stati Uniti e per finire, nel suo piccolo, al candidato del centrodestra per la Lombardia, se ne vergognano: e questa è un’ottima notizia.
Detto questo, merita un approfondimento quanto sostenuto da Attilio Fontana. Secondo il quale l’invasione degli stranieri metterebbe a repentaglio « la nostra società e la nostra razza bianca » . Non si potrebbe concepire una frase più contraddittoria, più zoppicante: perché «la nostra società» ha drasticamente cancellato dai suoi presupposti il concetto di «razza», che è anticostituzionale e antiscientifico (decida Fontana quale delle due violazioni è la più grave). La razza bianca, semplicemente, non esiste, così come non esisteva la razza ariana, mito fondante del nazismo.
Esistono, queste sì, « la nostra società » e « la nostra cultura». E rientra nella logica delle cose, nell’istinto basico di ogni politica degna di questo nome, la preoccupazione di difenderle, di migliorarle, di tutelarne i principi fondanti, anche laddove il forte impatto dell’immigrazione le metta in discussione: è annoso e del tutto legittimo, per esempio, il dibattito sulla complicata integrazione dell’immigrazione islamica ( non tutta) in merito a una questione nevralgica, quella dell’autodeterminazione delle donne. Ma non è ovviamente « la razza », è la cultura, semmai, il terreno di confronto, e se necessario di scontro. La razza in quanto “pura” è menzogna, fantasma paranoico, invenzione propagandistica. Le cosiddette razze sono il portato di infinite contaminazioni, migrazioni, occupazioni, sottomissioni ( si pensi al meticciato sudamericano, conseguenza dell’assoggettamento e della messa in schiavitù da parte degli europei). Esistono eloquenti, clamorose ricerche scientifiche sul Dna che a quasi ciascuno di noi attribuiscono avi impensati, perché come dice quella miserabile inglesina che ha offeso la magnifica neo-principessa britannica, «il seme» è per sua vocazione vagante, promiscuo, vitale.
Il razzismo fa schifo perché è violento, ma fa pena perché è stupido. Non conosce e non impara, non sa, non memorizza, non si inchina alla potenza della vita. È scritto a chiare lettere, in ciò che noi siamo come comunità, come italiani e come europei, come storia collettiva, come società moderna e raziocinante, che non è la razza o la religione a costituire ragione di cittadinanza. È il diritto degli individui di avere uguali diritti e uguali doveri, di essere uguali e ugualmente rispettabili. In conseguenza di questo principio («la nostra società» non consente che si possa parlare di «nostra razza bianca ») siamo sicuri che il candidato Fontana, a differenza dei nazisti di Varese, vorrà operare presto e bene in favore dell’antirazzismo, e dunque in favore della difesa della nostra cultura, e della nostra comune coscienza.

il manifesto 16.1.17
Scandalo al «Sole»
Editoria. Entro fine mese i giudici di Milano decideranno sul rinvio a giudizio dell’ex direttore del Sole 24 ore Roberto Napoletano e dei due confindustriali Donatella Treu e Benito Benedini. L’accusa è falso in bilancio. Intanto i creditori e i giornalisti sono sul piede di guerra. In pochi anni gli azionisti di Confindustria hanno bruciato milioni di euro. Scetticismo in Borsa: dopo l'aumento di capitale da 50 milioni in cassa restano soltanto 7,7 milioni
di Bruno Perini


MILANO Trasparenze e vergogna. Non è soltanto il titolo di un bellissimo libro che il compianto amico Guido Rossi pubblicò per il Saggiatore nel lontano 1982 per spiegare negli anni del capitalismo rampante e senza regole le anomalie, le opacità e i vizi congeniti del mercato finanziario italiano.
TRASPARENZE E VERGOGNA potrebbero e dovrebbero essere le chiavi di lettura per spiegare la mala gestione con la quale la Confindustria, azionista di comando del Sole 24 ore, ha disastrato senza vergogna i bilanci del gruppo editoriale con perdite da capogiro e politiche industriali disastrose e opache.
Se si dà uno sguardo, infatti, a quello che è successo in questi anni in quel gruppo editoriale si scopre che i nostri confindustriali, che ogni giorno si sciacquano la bocca con la trasparenza, il libero mercato e la meritocrazia, in dieci anni hanno bruciato miliardi di capitale, raccontando un sacco di balle sulla diffusione del giornale e sulla consistenza finanziaria del gruppo con il risultato di perdere migliaia di abbonamenti, di perdere la pubblicità quando si è capito che i dati della diffusione erano falsati, di scaricare sui giornalisti l’onere della crisi attraverso tagli selvaggi e prepensionamenti e un recente tentativo di stracciare il contratto integrativo, di entrare nella black list della Consob e di falcidiare il valore del titolo il Sole 24 ore, quotato alla Borsa di Milano, che, alla faccia dei risparmiatori di cui il quotidiano dovrebbe essere il difensore, è passato da 5,7 euro al momento della quotazione a 0,8 euro. Tanto per intenderci, quei poveretti che avevano affidato i loro risparmi al quotidiano confindustriale hanno perso un sacco di quattrini.
Per evitare di portare i libri in tribunale, il cda guidato da Franco Moscetti, neo amministratore delegato del gruppo, ha varato un aumento di capitale da 50 milioni di cui 30 sottoscritti da Confindustria. Il supporto finanziario all’operazione di salvataggio del gruppo è arrivato da un’altro ex presidente della Confindustria, Luigi Abete, che alla faccia del conflitto d’interesse è al tempo stesso consigliere del Sole 24 ore e presidente della Bnl.
Un’operazione tutta in famiglia, come spesso avviene nel capitalismo nostrano.
TUTTO RISOLTO DUNQUE? Niente affatto. Intanto c’è in ballo una vertenza sindacale che per il momento ha registrato due giorni di sciopero.
L’amministratore delegato Franco Moscetti e Domenico Galasso, il direttore del personale, per il momento hanno congelato il contratto integrativo che volevano stracciare ma i giornalisti non si fidano più del management e rivendicano il loro contributo nella cacciata di Napoletano.
Quindi per il momento sul piano sindacale è tregua armata.
Durante i brindisi di natale il neo direttore Guido Gentili, l’amministratore delegato Franco Moscetti e il presidente del gruppo Giorgio Fossa, hanno detto ai giornalisti, forse per consolarli, che «il 2018 sarà l’anno della ripresa». Una frase che circolava anche nel 2017 e nel 2016 per bocca dei predecessori e degli ex presidenti di Confindustria.
MA NELLA COMUNITÀ degli affari sono in pochi a crederci. E le cifre non sono consolanti. Basti pensare che malgrado l’aumento di capitale di 50 milioni in cassa ne sono rimasti appena 7,7.
Al momento della quotazione, il cash era circa 240 milioni.
Nelle relazioni di fine anno si legge che «la variazione della posizione finanziaria netta è negativa per 28 milioni, ovvero 2,6 milioni al mese». A questo ritmo, commenta un personaggio che è stato ai vertici del gruppo, quel piccolo gruzzolo di cash che è rimasto nelle casse del gruppo dopo la devastazione degli anni precedenti verrebbe divorato.
D’altronde in un prospetto dello stesso gruppo si ammette il pericolo d’insolvenza: «Anche nel caso di buon esito dell’Operazione Formazione, dell’Aumento di Capitale e della concessione delle Linee Revolving, qualora si manifestasse un evento tale da determinare l’impossibilità di utilizzare in modalità revolving la linea di credito per la cartolarizzazione dei crediti commerciali e l’Emittente non riuscisse a finanziarsi attraverso la leva del capitale circolante netto commerciale, né riuscisse a reperire risorse di capitale e di credito aggiuntive (al momento non individuabili), verrebbe pregiudicata la continuità aziendale della Società e del Gruppo. Conseguentemente non si può escludere che l’Emittente debba far ricorso agli strumenti previsti dalla legislazione concordataria e fallimentare». Sempre a pagina 46, la Società informa che «in caso di mancata esecuzione della Manovra, il Gruppo non disporrebbe delle risorse finanziarie necessarie per effettuare il rimborso complessivo dei finanziamenti bancari» ivi indicati.
COM’ERA PREVEDIBILE, vista la lunga storia degli scandali finanziari in Italia, il pasticciaccio brutto di viale Monterosa, è finito in tribunale.
Lo scorso anno il procuratore della Repubblica di Milano Francesco Greco ha affidato al sostituto Fabio De Pasquale l’inchiesta penale contro un gruppo di dirigenti del Sole 24 ore, tra cui spiccano Benito Benedini, ex presidente Federchimica, Assolombarda e Sole 24 ore e Donatella Treu, ex amministratore delegato del gruppo editoriale e contro l’ex direttore del Sole 24 ore Roberto Napoletano, presunto deus ex machina di tutta la vicenda, accusato di una torbida operazione di occultamento delle perdite e di falso in bilancio.
Roberto Napoletano, scelto dall’ex presidente di Confindustria Emma Marcegaglia in alternativa a Fabio Tamburini che a quel tempo era direttore di Radiocor, è stato difeso e coperto fino all’ultimo dall’attuale presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia.
MA QUANDO L’EVIDENZA dei fatti e dei documenti ha preso il posto dell’opacità e i magistrati hanno cominciato a scavare dietro le quinte, anche il «padrino» di Napoletano ha mollato il suo pupillo con il modesto incentivo alle dimissioni di 700.000 euro.
NEL DECRETO DI perquisizione del Sole 24 ore e degli studi di Treu e Benedini si legge tra l’altro a proposito delle gigantesche bugie che raccontavano e scrivevano nei bilanci i signori del gruppo confindustriale: «Informazioni false, posto che le vendite delle copie digitali veicolate attraverso la DI Source Ltd erano fittizie come anche fittizie erano le vendite cartacee attraverso il canale Edifreepress S.r.l., così da fornire una rappresentazione alterata della situazione economica della società ai destinatari cui tali comunicazioni sociali erano indirizzate».
Si legge ancora nel provvedimento giudiziario: «Sono stati evidenziati nella imputazione solo alcuni dei passaggi delle Relazioni finanziarie ove maggiormente si ricava lo scostamento tra la rappresentazione della realtà economica della società e la situazione effettiva. Si è veicolato un messaggio largamente positivo sull’andamento economico (vendite crescenti e ricavi correlativamente in aumento), laddove le vendite sul digitale – tanto enfatizzate – erano false e una percentuale significativa delle copie cartacee andava dritta al macero».
Per un certo periodo, stando alle ricostruzioni dei giudici, Napoletano l’ha fatta franca. E di fronte alla crisi del quotidiano ha pensato di inventarsi cifre inesistenti. Nei salotti privati raccontava di 430.000 copie vendute contro le reali 170.000 copie e vagheggiava sul Sole 24 ore come futuro primo giornale.
Ma quando quelle stesse cifre ha cominciato a dichiararle all’Ads, gli editori concorrenti hanno cominciato a incazzarsi.
Quando Giorgio Squinzi si è insediato in Confindustria nel 2012 ci ha messo un po’ a capire che qualcosa non quadrava, ha guardato i conti e si è reso conto che le cifre di vendita erano farlocche mentre il buco di bilancio cresceva.
SQUINZI LICENZIA Donatella Treu e insedia ai vertici del Sole 24 ore Gabriele Del Torchio. Dopo un’indagine interna si scopre che c’è un buco di 90 milioni. Si rompe il rapporto di fiducia con Napoletano. Ma il direttore non molla. E con abilità si conquista la stima del nuovo presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, che gli rinnova la fiducia malgrado fossero emerse stranezze nella diffusione delle copie. Al posto di Del Torchio, colpito da infarto, arriva Franco Moscetti, l’attuale ad del Sole 24 ore.
Questa volta Vincenzo Boccia non può far nulla per coprire il suo uomo.
Moscetti fa una cosa strana: crea un comitato di vigilanza interno composto da Gherardo Colombo, ex pool mani pulite e Federico D’Andrea, ufficiale da sempre collaboratore della procura di MIlano.
Da quella specie di tribunale interno nasce l’inchiesta penale contro Roberto Napoletano, Donatella Treu e il cavalier Benito Benedini.
E in Confindustria non ne sapevano nulla di questo pasticcio? La domanda per il momento è senza risposta.
L’unica cosa che si sa è che Napoletano scarica le responsabilità sull’azienda, aggiungendo che lui poveretto era soltanto il direttore.
Se verrà rinviato a giudizio alla fine della fase istruttoria prevista per fine gennaio, non è escluso che l’ex direttore si decida a spiegare meglio. E allora per gli azionisti sarebbero guai.
NEL DISASTRO GENERALE è anche spuntato un altro problemino giudiziario: è partita la prima ingiunzione di pagamento da parte di un creditore.
L’agenzia di stampa LaPresse, di Torino ha chiesto ai giudici il sequestro cautelare di due milioni di euro a garanzia dei propri crediti verso il gruppo.
Si legge nel ricorso presentato dall’azienda torinese: «In connessione con l’emersione della abissale crisi finanziaria, Il Sole 24 Ore ha cessato di pagare i corrispettivi contrattualmente dovuti sin dalla scadenza prevista al 31 gennaio 2017, costringendo il Fornitore a richiedere l’emissione di un Decreto Ingiuntivo (Decreto Tribunale di Torino, n. 7488/2017 del 27 luglio 2017, doc. 4), per l’importo complessivo di Euro 79.718,90».
I LEGALI DI LAPRESSE sono molto duri con il loro illustre cliente e citano il giudizio della società di revisione Deloitte: «Allo stato attuale i piani dell’azienda non risultano supportati da evidenze empiriche, ma fondati su una stima del Management basata sull’esperienza del mercato e sulle performance di altri operatori di settore». I
noltre Deloitte ha evidenziato che: «Sebbene la crescita del volume d’affari ipotizzata a Piano sia contenuta e pari all’1,4% (CAGR 17- 20), considerati i recenti risultati consuntivati dalle società del Gruppo e l’incerto scenario di mercato relativo al settore in cui opera la Società, tali obiettivi potrebbero risultare sfidanti e in controtendenza».

Il Fatto 16.1.18
Siena
Mps, pubblicate le email Rossi-Viola: assolti la moglie e il giornalista del Fatto
Suicidio - Vecchi era accusato di aver violato la privacy dell’ex Ad


Assolti “perché il fatto non sussiste”, la vedova di David Rossi, Antonella Tognazzi, e il giornalista del Fatto Quotidiano, Davide Vecchi. Dopo due anni di udienze si chiude così l’unico processo celebrato a Siena e collegato alla tragica e ancora oggi misteriosa morte del manager Mps, David Rossi, avvenuta la sera del 6 marzo 2013.
Tognazzi e Vecchi erano stati indagati e rinviati a giudizio d’ufficio dalla Procura perché ritenuti responsabili della violazione della privacy di Fabrizio Viola, all’epoca Amministratore Delegato di Mps, senza che né quest’ultimo né la banca avessero mai sporto querela o si fossero costituiti parte civile nel processo.
Il 5 luglio 2013 Vecchi pubblicò sul Fatto Quotidiano lo scambio di email tra Rossi e Viola, svelando che due giorni prima di morire, David aveva chiesto aiuto all’amministratore delegato della banca.
Nonostante Vecchi abbia avvisato e interpellato Viola prima della pubblicazione dell’articolo, la Procura di Siena lo ha trascinato a processo ipotizzando addirittura di avere agito in concorso con Antonella Tognazzi. L’accusa nei confronti della vedova Rossi è umanamente infamante più che penalmente rilevante: avere consegnato al giornalista le email per ricattare la banca e speculare così sulla scomparsa del marito.
Ieri il giudice monocratico Alessio Innocenti ha stabilito che né Vecchi né Tognazzi hanno commesso alcun reato. “La sentenza, al di là delle motivazioni che leggeremo con grande attenzione, ha riconosciuto la bontà del lavoro fatto dal giornalista, escludendo che si sia prestato, come gli era stato contestato, a fare gli interessi di singoli”, ha commentato l’avvocato Caterina Malavenda difensore di Vecchi. “Si tratta, dunque, della conferma di un principio di civiltà giuridica e del diritto degli organi di informazione di diffondere tutte le notizie che ritengono rilevanti, nel rispetto dei soggetti coinvolti, ma senza chiedere il permesso a nessuno”.
Alessandro Bonasera e Emiliano Ciufegni, legali di Antonella Tognazzi, si sono detti “pienamente soddisfatti dell’esito, seppure l’innocenza degli imputati fosse palese sin da subito. È stata una vittoria ma anche una liberazione, testimoniata dalle lacrime di gioia di Antonella”.
Il giudice si è riservato il deposito della motivazione della sentenza in novanta giorni.

Repubblica 16.1.18
La relazione
Quarant’anni di un diritto
Così la legge 194 ha fatto crollare gli aborti in Italia
di Maria Novella De Luca


ROMA «Le donne hanno smesso di morire d’aborto, basterebbe questo per dire che la legge 194 ha funzionato e funziona. E io me le ricordo, quarant’anni fa, quelle donne e ragazze che arrivavano di notte in ospedale, devastate dalle emorragie dopo le famose interruzioni con il ferro da calza.
Molte restavano mutilate per sempre. Con la legge 194 l’aborto ha smesso di essere una questione privata per diventare una questione sociale di cui lo Stato si è fatto carico. È stata una rivoluzione. Imperfetta, ma una rivoluzione». Carlo Flamigni ha 85 anni, è uno dei ginecologi più famosi d’Italia, pioniere della fecondazione assistita, ma anche protagonista di quella battaglia che negli anni Settanta ha cambiato nel profondo la nostra società, la famiglia, la maternità.
Approvata nel 1978, confermata dal referendum del 1981, la legge sull’aborto compie quarant’anni il 22 maggio prossimo.
Un tempo abbastanza lungo per fare un bilancio, come infatti suggerisce la Relazione al Parlamento sull’attuazione della 194 presentata dalla ministra Lorenzin, dove per la prima volta si tenta una “analisi storica”. E se i numeri di quest’anno confermano la drastica riduzione degli aborti, passati dai 234.801 del 1982 (l’anno in cui le “Ivg”, interruzioni volontarie di gravidanza, raggiunsero il massimo storico) ai 84.926 del 2016, nello stesso tempo si assiste a un vero e proprio boom della contraccezione d’emergenza. In particolare dell’uso della “pillola dei cinque giorni dopo” (EllaOne) le cui vendite, dopo la caduta dell’obbligo di ricetta medica per le donne maggiorenni, è passata dalle 7mila confezioni del 2012 alle 189.589 del 2016. Se dunque abbiamo imparato a non abortire (pur potendo farlo), sul fronte dell’uso di pillola e condom siamo davvero indietro. Di fatto una contraddizione.
Ma al di là dei dati di oggi, nello sguardo sui 40 anni della legge, la Relazione afferma un principio fondamentale. «L’aborto volontario, dopo una prima fase iniziale, è costantemente diminuito e non è mai stato un mezzo di controllo delle nascite».
Se pensiamo che nel 1961, come denunciò una famosa inchiesta di “Noi donne”, gli aborti clandestini superavano il numero (spaventoso) di un milione l’anno, è evidente quanto la legge del 1978 abbia segnato il passaggio da un’Italia quasi post contadina a un’ Italia moderna. Livia Turco, a lungo parlamentare del Pd, ministra delle Pari Opportunità e poi della Salute, quella stagione da giovane militante comunista se la ricorda bene. E al tema della difesa della legge 194 ha dedicato un bel libro uscito di recente: “Per non tornare nel buio”. Perché in fondo nulla è garantito. E le proposte di revisione (restrittiva) della legge si susseguono ad ogni legislatura.
«Lo scontro fu feroce e lacerante.
La Destra e una parte dei Cattolici dicevano che la legalizzazione avrebbe fatto aumentare a dismisura il numero degli aborti, banalizzandone la scelta. Invece oggi si dimostra che l’autodeterminazione delle donne ha prodotto una cultura della responsabilità e soprattutto si è arginata la piaga dell’aborto clandestino. Ma è della applicazione della 194 che bisogna tornare a parlare, uscire dal cono d’ombra». Perché l’obiezione di coscienza è ormai un dramma.
Spiega Livia Turco: «Ci sono interi ospedali dove le interruzioni non vengono praticate e le donne devono migrare di regione in regione, spesso con il rischio di superare i tempi legali. E poi i dati sul ricorso alla pillola del giorno dopo dimostrano che è sulla contraccezione che bisogna investire, pensando ai giovani, rendendola gratuita. Ma credo che una maggiore diffusione della Ru486, l’aborto farmacologico, potrebbe mitigare il ricorso all’obiezione di coscienza».
Immigrate, ragazze giovani. Sono loro le donne più a rischio. (Il 30% di tutte le interruzioni riguarda le straniere). Silenzio e solitudine i loro nemici.
Racconta Carlo Flamigni: «A 40 anni dalla sconfitta delle mammane e dei cucchiai d’oro, ci troviamo di fronte a un nuovo tipo di clandestinità che il ministero rifiuta di vedere. Avete presente quante pillole per abortire si possono comprare su Internet?
O farmaci che comunque aumentano la contrazioni uterine? La legge 194 va protetta e pubblicizzata, la contraccezione favorita in ogni modo. Altrimenti si torna indietro».
Michele Mariano è l’unico ginecologo non obiettore del Molise. Dirige un piccolo reparto di eccellenza all’ospedale “Cardarelli” di Campobasso, dove applica la legge 194. «Ormai da me arrivano donne da tutto il centro Sud. È incredibile. Dal Lazio, dall’Abruzzo, dalla Campania, perché i centri chiudono. Fanno centinaia di chilometri ma sanno che qui saranno accolte. E poi le migranti, spesso sbarcano in Italia già incinte. Ho visto troppe donne rovinate dagli aborti clandestini prima che ci fosse la legge, per questo continuo a lavorare in trincea, praticando 400 aborti l’anno. Sono orgoglioso di quello che faccio, ma sa qual è l’amarezza? A 40 anni dalla nascita di questa legge, noi che l’abbiamo voluta, siamo anche tra gli ultimi ginecologi ad applicarla, perché ormai tutti obiettano. Cosa accadrà quando andremo in pensione?».

La Stampa 16.1.18
“Napoleone III ha imbavagliato la mia Francia”
Vanno all’asta domani a New York le lettere di Tocqueville all’amico Vivien, quasi un’anticipazione dello spleen di Baudelaire
di Fabio Sindici


La Francia intera per noi, in questo momento, è come una grande prigione, in cui l’ozio forzato, l’esclusione coatta, l’assenza di emozioni, di notizie, perfino di rumori, il silenzio universale abbattono lo spirito». C’è quasi una eco di disperazione baudelairiana nelle righe che Alexis de Tocqueville verga con calligrafia stretta, soffocata, in una lettera indirizzata all’amico Alexandre-Francois Vivien, datata 14 marzo 1853. È un’eco anticipata, perché la prima edizione delle poesie dei Fiori del male va alle stampe quattro anni più tardi. E non ci sono caratteri più diversi, opinioni e umori all’apparenza più distanti di quelli dell’autore della Democrazia in America e del cantore dello spleen parigino. Ma deve essere lo spirito del tempo.
La Seconda Repubblica è defunta da pochi mesi. Luigi Napoleone Bonaparte è il nuovo imperatore dei francesi con il nome di Napoleone III. Ancora prima di dichiarare la restaurazione dell’Impero, ha conquistato un potere semiassoluto, dopo il colpo di Stato militare del 2 dicembre 1851. La stampa è sottoposta a una censura ferrea, le rivolte popolari schiantate dall’esercito, decine di migliaia di oppositori, soprattutto in provincia, vengono imprigionati senza un reale processo, con lo strumento del giudizio amministrativo, e deportati in Algeria o alla Cayenna.
Charles Baudelaire scrive, con un ghigno al cianuro: «La grande gloria di Napoleone III sarà quella di aver provato che il primo venuto può, impadronendosi del telegrafo e della stamperia nazionale, governare un grande paese». Tocqueville, nella stessa missiva a Vivien, tratta il neo imperatore come un cospiratore subdolo, «che si è finto democratico, nascondendo le proprie origini napoleoniche». Un lupo travestito da agnello. C’è una sincerità piena di angosce che non è frequente nell’aristocratico liberale che ci tiene in genere a mostrare un certo distacco dalle preoccupazioni. La lettera fa parte di un gruppo di sedici, tutte destinate a Vivien, che andrà all’asta da Sotheby’s domani a New York con una stima tra i 60 mila e gli 85 mila euro. La corrispondenza, che va dal 1839 al 1854, è stata scoperta da poco ed è inedita, affermano gli specialisti di Sotheby’s. Non è solo uno scambio di pensieri tra due amici, due intellettuali.
Tocqueville e Vivien conoscono dall’interno i segreti del mondo politico e culturale francese dell’epoca. Il primo è stato membro dell’Assemblea Costituente nel 1848 e ministro degli Affari Esteri della Seconda Repubblica; il successo della Democratie en Amerique, nel 1835, gli ha dato fama di pensatore politico e di difensore della libertà. Il secondo aveva ricoperto la carica di ministro della Giustizia sotto Luigi Filippo e dei Lavori Pubblici nella Seconda Repubblica. Dopo il colpo di stato di Napoleone si ritrovano di colpo emarginati dalla vita pubblica.
«Provo una sorta d’impotenza che assomiglia a quella della prigionia, dove la noia, lo scoraggiamento, l’assenza di fatti nuovi, concorrono a rendermi improduttivo» scrive sempre Tocqueville a Vivien nel maggio del ’53, mentre pure lavora a L’Ancien Régime et la Révolution. In prigione, nel castello di Vincennes, c’era finito sul serio, anche se per pochi giorni, quando, con altri deputati, riuniti nel decimo arrondissement di Parigi, aveva tentato di far destituire Luigi Napoleone dalla carica di presidente, nelle ore successive al coup, con l’accusa di alto tradimento. Il visconte Alexis, a Vincennes, secondo quanto racconta Victor Hugo, giace sul pavimento, senza pagliericcio, malato, avvolto solo nel suo mantello. Da quel momento soffrirà di una salute altalenante, come ripete nella corrispondenza.
Nelle lettere a Vivien si vede come la diffidenza verso Luigi Napoleone inizi già dal tempo dell’affaire Lesseps e con il tradimento verso la Repubblica Romana. Ferdinand de Lesseps era stato infatti inviato come ambasciatore a Roma per trattare una tregua e assicurare l’amicizia della Francia, mentre il generale Oudinot aspettava rinforzi per attaccare. La corruzione dell’esercito, per Tocqueville, è il primo intrigo del presidente. Il nuovo potere pare al nipote dei Lumi - più che un positivista era un erede di Voltaire e Rosseau - come goffo e terribile. È una prova concreta del totalitarismo la cui ombra lo ha spaventato fin dai giorni americani, in cui meditava sul difficile equilibrio tra libertà e uguaglianza. In realtà, la stretta del Bonaparte sulla Francia è dura soprattutto nei primi tempi. Tocqueville lo accusa di aver sfruttato la «paura del 1852», ovvero delle previste prossime elezioni, e della impossibile vittoria dei socialisti. Però non ricorda che come esponente del conservatore parti de l’ordre aveva provato la stessa paura e appoggiato le repressioni del generale Cavaignac. A Vivien confessa di temere un futuro incerto dopo la caduta dell’imperatore. Nei diari dell’economista inglese Nassau William Senior, Tocqueville lancia una frase di elegante scoramento all’amico d’oltremanica: «Dio vi preservi dagli errori che portano alle rivoluzioni e alle rivoluzioni che finiscono in mascherate». Ha un suono più letterario che politico.
L’uomo politico, nei suoi ultimi anni (muore nel ’59), pare aver perso il suo fiuto, almeno nel breve termine. Vede l’Austria sicura in Italia, la Prussia come potenza di second’ordine. È molto più fine nell’analisi del costume e della società culturale. Nel maggio del ’53, affacciato al balcone dell’appartamento di Nassau su rue de Rivoli, guardando lo spettacolo delle donne eleganti e degli splendidi equipaggi sulla via, ammette, a denti stretti, «di non aver mai visto Parigi così animata e prospera». Ma allo stesso tempo denuncia la speculazione dietro le spese folli per rifare la capitale. In un’altra lettera a Vivien nell’ottobre dello stesso anno descrive l’atteggiamento della cultura di fronte al nuovo padrone della Francia: «Il mondo letterario, per lo più, è ostile al governo attuale. Tra i grandi talenti, non conosco che Saint Beuve e Merimée che abbiano osato indossare la livrea del nuovo potere, e quanto agli uomini nuovi delle lettere non vedo nessuno che si accosti all’Impero». Victor Hugo è in esilio. Il 1857 è l’anno dei tre più clamorosi processi di censura letteraria della storia: sul banco degli imputati siedono tre libri: I Fiori del Male di Charles Baudelaire, Madame Bovary di Gustave Flaubert, i Misteri del Popolo di Eugène Sue. Il grande accusatore è il procuratore imperiale Ernest Pinard. Il «silenzio universale» di Tocqueville suona straziante come le campane urlanti e i funerali senza tamburi né bande che chiudono lo Spleen di Baudelaire.

Corriere 16.1.18
Novecento L’opera educativa di un giovane della Galizia orientale, arruolato nell’esercito britannico, viene ricostruita in un saggio di Sergio Luzzatto (Einaudi)
Gli orfani che costruirono Israele
Ragazzi sfuggiti alla Shoah furono restituiti alla vita sui monti di Bergamo da Moshe Zeiri
di Pierluigi Battista


Era il 1945 e lui, Moshe Zeiri, il giovane ebreo della Galizia orientale che già anni prima aveva lasciato il mondo antico dello shtetl in lingua yiddish per inseguire il sogno della rigenerazione ebraica in Palestina, raccolse tra i monti di Selvino, non lontano da Bergamo, gli «orfani della Shoah». Orfani di tutto, scampati allo sterminio dei loro genitori e dell’intera loro famiglia, in fuga dalla deportazione, dalla morte, dall’orrore, dalla devastazione del mondo schiacciato dalle orde naziste. Centinaia di orfani, laceri e affamati, che Moshe Zeiri, soldato volontario nel Genio militare britannico che aveva attraversato l’Italia dalla Puglia fino al Nord per combattere i tedeschi, aveva restituito a nuova vita per prepararli alla aliyah , alla «risalita» in terra di Israele, dove si forgiava l’ebreo «nuovo», combattente, vigoroso, sicuro di sé. È la storia, appassionante e sconvolgente insieme, che Sergio Luzzatto racconta nel suo nuovo libro I bambini di Moshe in uscita oggi per Einaudi.
Selvino non è località molto conosciuta. Ma neanche la storia degli «orfani della Shoah» lo Eppure è sorprendente che qui in Italia, in un edificio chiamato «la casa di Mussolini», centinaia di bambini provenienti dal cuore dell’inferno siano stati restituiti alla vita, rifocillati, istruiti, educati in attesa che una nave li portasse in Israele: che in quegli anni non era ancora lo Stato di Israele riconosciuto da una risoluzione Onu che ne autorizzava la costruzione assieme a uno Stato palestinese, risoluzione che gli ebrei di Palestina riconosceranno, ma gli arabi no. Non era ancora Stato di Israele e i britannici che avevano il mandato in Palestina con la dissoluzione dell’Impero ottomano avevano fissato quote severissime per l’arrivo degli ebrei europei sopravvissuti all’Olocausto (come è testimoniato dalla vicenda della nave «Exodus», conosciutissima anche per via del film che ne ha immortalato la storia).
Una storia che ha dell’incredibile, ma che pure testimonia dell’irriducibile complessità di un percorso di dolore estremo e di redenzione che intreccia inesorabilmente tragedie e rinascite, orrori e ideali, disperazione e senso di una nuova missione.
La storia dello stesso Moshe, per cominciare. Luzzatto ha trovato nella ricca documentazione che la figlia di Moshe ha consegnato alle cure preziose e meticolose dello Yad Vashem, il museo che a Gerusalemme custodisce le memorie dello sterminio, fotografie e testimonianze di un’antica famiglia ebrea della Galizia orientale, con quei vestiti, quegli sguardi che raccontano un mondo lontano e svanito. Una vicenda umana ed esistenziale, un’archeologia del sionismo, che ricalca in modo impressionante quella scolpita nella memoria di chi ha letto Storia di amore e di tenebra , il capolavoro di Amos Oz. La vicenda di una tradizione che i giovani nati agli albori del Novecento sentivano come una prigione angusta e che, infiammati dal mito palingenetico sionista coniato da Theodor Herzl, volevano lasciarsi alle spalle in una terra da redimere con il lavoro, la fatica, la comunità. Era la mitologia, prima ancora dell’ideologia, del kibbutz , che ha plasmato il sionismo e ha spinto tanti giovani imbevuti di patriottismo ebraico, stanchi di persecuzioni e rassegnazioni, ad avventurarsi nel mondo nuovo, che poi era il mondo antico da rievocare attraverso lo spirito di missione.
Un mondo duro e aspro. Nella comunità dei sabra , degli ebrei nati nelle terre che poi costituiranno il nerbo dello Stato di Israele, si coltivava una certa diffidenza verso il mondo della diaspora che non aveva saputo opporsi alla discriminazione e alla persecuzione, ai pogrom e ai mille soprusi che gli ebrei, specialmente dell’Est europeo, subivano e che avevano scatenato l’impulso sionista di Herzl. E si arrivò, proprio nel mezzo della tempesta dell’Olocausto, a diffidare se non addirittura a disprezzare gli ebrei che non avevano combattuto e che si erano fatti portare al macello come docili pecore. Luzzatto sottolinea come spesso in quella terribile temperie della storia venisse usata, con una durezza che lascia senza fiato, l’espressione «materiale umano», generalmente ritenuto scadente, degli ebrei europei che dopo l’apocalisse si sarebbero recati in terra di Israele.
Chi ha letto gli scritti di Aharon Appelfeld, scomparso il 3 gennaio scorso, ha già avuto modo di conoscere il senso di angoscia e persino di vergogna che ha agitato i superstiti dell’Olocausto nella retorica bellica della nuova Israele, che stava plasmando il nuovo ebreo reso più forte dal lavoro e dal fucile. La scuola degli «orfani della Shoah» di Moshe è stata anche una scuola per educare quei bambini, schiacciati dal peso insopportabile della storia, al senso di una nuova vita, completamente differente da quella, costellata di macerie e di lutti, lasciata nella catastrofe europea. Grazie a quei bambini e al «materiale umano» sopravvissuto alla Shoah, Israele potè rinvigorire la sua presenza nelle terre della storia ebraica. E quando scoppiò il conflitto con gli Stati arabi che avevano spinto i palestinesi a rifiutare il doppio insediamento statale in quelle terre, quei ragazzi, quei sopravvissuti diedero un contributo anche militare decisivo. E poiché in quella guerra ci furono atrocità, villaggi rasi al suolo, morti tra i civili, tentazioni di pulizia etnica, anche chi era venuto dall’Europa fu protagonista di eroismi, ma anche di molti orrori, che Luzzatto elenca con freddezza non indulgente.
Nella scuola di Moshe si insegnò agli orfani della Shoah la ricostruzione di un’identità infranta, la salvaguardia di una cultura che non era svanita nelle camere a gas, lo studio dei testi e la lingua di un popolo che aveva attraversato i millenni, la necessità del lavoro duro, la forza della coesione socialista attraverso i kibbutz , ma anche l’etica dell’autodifesa, il vincolo di un «mai più» che spiega tante caratteristiche degli ebrei che nel loro Stato hanno riconosciuto il baluardo per non vedere altri «orfani della Shoah», raccolti e salvati da Moshe Zeiri, una vita spesa per gli ideali del sionismo.

Corriere 16.1.18
Antisemitismo Il Giorno del Memoria occasione per sottolineare la corresponsabilità dei Savoia col fascismo
Una firma che non si cancella Le leggi razziali e il genocidio
di Paolo Conti


«L’ indifferenza è il male maggiore. Non provare più sdegno perché la tragedia della Shoah si allontana nel tempo è un primo segno di debolezza. Di fronte a episodi molto gravi che hanno visto protagonisti alcuni nostri concittadini, il dovere della memoria è ancora più attuale». La sottosegretaria alla presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi, presenta il vasto calendario di iniziative del Comitato di coordinamento per le celebrazioni in ricordo della Shoah, patrocinate da Palazzo Chigi per il Giorno della Memoria, che si celebra ogni anno il 27 gennaio in ricordo dell’apertura dei cancelli di Auschwitz nel 1945.
Boschi insiste più volte sull’espressione «vergogna delle leggi razziali» perché il 2018 rappresenta un tragico anniversario che coinvolge la storia passata delle nostre istituzioni statali: gli ottant’anni dall’entrata in vigore delle leggi razziali (molti intellettuali ebrei vorrebbero adottare ufficialmente il termine «razziste») volute nel 1938 dal regime fascista su imitazione delle feroci persecuzioni naziste allora già cominciate, e sottoscritte per la promulgazione da re Vittorio Emanuele III. Una ferita atroce e indelebile nella storia di questo nostro Paese.
Del penultimo sovrano di casa Savoia, che affidò a Mussolini l’incarico di formare il governo dopo la marcia su Roma nell’ottobre 1922, scegliendo di non proclamare lo stato d’assedio, si è discusso recentemente: poco prima di Natale la sua salma e quella di sua moglie, la regina Elena, sono rientrate in Italia e sono state sepolte nel santuario di Vicoforte, in provincia di Cuneo. Il mondo ebraico ha protestato duramente, sottolineando la coincidenza con l’anniversario. Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei), ieri ha annunciato che la parola chiave degli appuntamenti del 2018 «sarà la “corresponsabilità”. Quel che accade era tutto perfettamente legale e corrispondente al formalismo del principio della legalità, ma contrario al diritto naturale». Nel segno di questa «corresponsabilità» delle istituzioni nell’indegno capitolo delle leggi razziali, Vittorio Emanuele III sarà formalmente processato dopodomani, giovedì 18 gennaio, per quella sua firma durante una rappresentazione teatrale nella sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica. «Il Processo», un progetto di Viviana Kasam e Marilena Citelli Francese, per la regia di Angelo Bucarelli, con la voce narrante di Marco Baliani e a cura di Elisa Greco, prevede un vero dibattimento. Re Vittorio Emanuele III sarà interpretato dall’avvocato Umberto Ambrosoli, il procuratore militare Marco De Paolis sarà il pubblico ministero, l’avvocato Giorgio Sacerdoti incarnerà la parte civile, la Corte sarà composta dall’ex ministro Paola Severino, oggi rettore della Luiss, dal componente togato del Consiglio superiore della magistratura Rosario Spina e dal magistrato Giuseppe Ayala. E poi i testimoni: Piera Levi Montalcini, Federico Carli, Annita Garibaldi, Carla Perugi a Della Rocca, Lorenzo Del Boca, Enrico Giovannini, Matias Manco, Giovanni Rucellai, e il direttore de «La Stampa» Maurizio Molinari.
Sarà insomma un processo a quella parte della società civile italiana che prima emarginò i cittadini ebrei e poi favorì la loro deportazione e morte nei campi di sterminio. «Il Processo» comincerà con la prima mondiale della Ballata di Mario Castelnuovo Tedesco, costretto a emigrare negli Usa per le leggi razziali, interpretata dalla violinista Francesca Dego e dalla pianista Francesca Leonardi. «Il Processo» ha avuto il contributo del gruppo Salini-Impregilo, di Acea, della Fondazione Gariwo e del Cidim.
Tra gli altri appuntamenti del Giorno della Memoria, la mostra sulla persecuzione degli ebrei in Italia alla Camera di commercio di Napoli, i due appuntamenti — a Roma e a Milano — sul negazionismo dalla Shoah a Internet, la rappresentazione al conservatorio «Giuseppe Verdi» di Milano dello spettacolo Destinatario sconosciuto per la regia di Rosario Tedesco, la Corsa per la Memoria a Bologna il 28 gennaio. Il calendario completo si trova sul sito ucei.it.

Corriere 16.1.18
Arte e nazismo: disputa su Munch


Una litografia di Edvard Munch e 120 stampe: secondo gli eredi, Curt Glaser, ebreo, dovette venderle dopo le leggi naziste del 1933. La famiglia ne chiede ora la restituzione al Basel Art Museum (dopo un primo tentativo respinto nel 2008). Nuove carte hanno fatto riaprire il caso: e il museo ha annunciato una task force e un possibile incontro con la famiglia.

Repubblica 16.1.18
On Trump si passa oltre la soluzione dei due stati
di Federico Rampini


L’asse fra Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu, con in più la sponda dell’Arabia saudita, sta reggendo. Pence andrà quindi a raccogliere gli applausi del governo israeliano e buona parte della sua opinione pubblica, che considera l’annuncio su Gerusalemme la presa d’atto di una realtà. Nelle altre due tappe – in Egitto e in Giordania – il vicepresidente degli Stati Uniti potrà misurare la tenuta delle allenze americane in un’area dove di recente l’avanzata dell’influenza russa è la vera novità.
Il profilo di Pence
Il profilo ultra-religioso di Pence è utile per capire il patto di ferro tra il partito repubblicano e la destra israeliana. Oltre alle considerazioni strategiche e geopolitiche, si è saldata da tempo un’intesa stretta fra i cristiani evangelici e Israele.
Gli evangelici, che sono una constituency fedele del partito repubblicano (entrarono nella “maggioranza silenziosa” ai tempi di Ronald Reagan, ne sono diventati una colonna portante sotto George Bush Junior), nella loro interpretazione letterale della Bibbia trovano riferimenti alla situazione attuale del Medio Oriente, sposano senza riserve gli insediamenti dei coloni israeliani nei territori occupati.
Ma a quale esito puntano la destra americana e quella israeliana? Trump, imbeccato dal genero Jared Kushner a cui lui delega il futuro piano di pace americano, ha accennato al superamento possibile dello scenario dei due Stati. Anche dentro il governo Netanyahu questa ipotesi non è più un tabù.
Paradossalmente, però, trova una sponda in alcuni dirigenti palestinesi. Perché se si abbandona la prospettiva dei due Stati, e la totalità dei territori viene di fatto annessa nello Stato d’Israele, viene al pettine la questione dei diritti politici dei palestinesi. Una volta annessi anche loro, dovrebbero poter votare. E allora Israele può dirigersi verso equilibri politici molto diversi.
L’alternativa è l’apartheid.
Prima o poi le teste pensanti della destra americana e israeliana dovranno pronunciarsi.

Repubblica 16.1.18
L’ira di Abu Mazen cancella Oslo e gli Usa come mediatori
“Gli accordi sono morti li ha uccisi Israele”
Poi il leader dell’Anp va contro Washington per Gerusalemme
di Alberto Stabile


BEIRUT Un Mahmud Abbas (o Abu Mazen, secondo il suo nome de guerre) così furente non s’era mai visto. È come se il presidente dell’Autorità Palestinese avesse scelto la riunione del comitato direttivo dell’Olp per sfogare tutta la rabbia e la frustrazione accumulate in 13 anni al vertice di quello che avrebbe dovuto essere il germoglio del futuro Stato palestinese, e invece si rivela essere soltanto « un’Autorità senza autorità e un’Occupazione senza conseguenze » . Oggi, ha proclamato « è il giorno in cui gli accordi di Oslo sono morti, uccisi da Israele».
In realtà nel mirino del leader palestinese non c’era tanto Netanyahu ( che gli ha subito risposto ironicamente riconoscendogli di aver reso un servizio a Israele rivelando una ben nota «verità») quanto Donald Trump e il riconoscimento da parte del presidente americano di Gerusalemme capitale dello Stato ebraico, senza alcuna accenno alla rispettiva rivendicazione dei palestinesi verso Gerusalemme Est come capitale del futuro Stato nazionale. Una mossa che agli occhi di Abu Mazen toglie agli Stati Uniti qualsiasi credibilità di mediatore. Davanti alla direzione convocata per discutere proprio della scelta americana, Abu Mazen ha fatto il viso dell’arme, pronunciando parole insolitamente durissime con tono spesso catastrofico e ricorrendo, altra novità rispetto al suo lessico abituale, a citazioni coraniche. Come quando ha detto che « il fedele non si fa mordere due volte dallo stesso animale».
Dunque, basta con la favola degli Stati Uniti nella parte dell’“ honest broker”. La mediazione non c’è stata ( « quando mai Trump mi ha offerto di riprendere il negoziato? ») e quello che era stato annunciato come il piano di pace che avrebbe dovuto condurre all’accordo del secolo tra israeliani e palestinesi «s’è rivelato lo schiaffo del secolo, ma noi questo schiaffo lo restituiremo » . E non vale certo ad attenuare il dolore la proposta di stabilire la capitale del futuro stato palestinese ad Abu Dis, una borgata nei pressi di Gerusalemme sotto il controllo dell’Autorità Palestinese, che Abu Mazen ha sdegnosamente respinto. Di conseguenza, i rapporti tra Ramallah e Washington sono congelati. Abu Mazen resta fermo nel suo rifiuto di incontrare il vicepresidente americano, Pence, in visita nei prossimi giorni in Israele. Tuttavia, il presidente palestinese, ha evitato di porre una pietra tombale sul negoziato, né ha dichiarato la fine della collaborazione tra servizi palestinesi e israeliani, frutto degli accordi di Oslo ( settembre 1993). Così come resta legato alla soluzione dei due Stati, come la più idonea per porre fine al conflitto in corso da 70 anni. Ma qui si rivela tutta la fragilità della sua strategia. Abu Mzen ritiene che sia sufficiente cambiare il mediatore per rilanciare il negoziato e non è un caso che Netanyahu si sia subito affrettato a dire che «non c’è nessun altro mediatore, a parte gli Stati Uniti».
Così è prevedibile che il vuoto negoziale, già evidente nel secondo mandato di Obama, continuerà. Con la regione sempre più in subbuglio e, come ha delineato l’analisi della situazione strategica per il 2018 dell’Esercito israeliano, con «i rischi di guerra » fatalmente destinati ad aumentare lungo due possibili scenari: come risposta ad una iniziativa militare israeliana simile a quelle intraprese in questi anni per bloccare l’armamento destinato ad Hezbollah, o la creazione di basi militari iraniane in Siria; o come conseguenza del divampare del “fronte palestinese”.

Corriere 16.1.18
Guerre Andrea Santangelo passa in rassegna (Longanesi) i numerosi episodi bellici che hanno interessato la nostra penisola nel corso dei secoli
L’apocalisse su Montecassino, non una ma tre volte
di Lorenzo Cremonesi


Contro il falso mito degli «italiani brava gente» e a contrastare le dimenticanze nazionali rispetto alla millenaria tradizione bellica della penisola, arriva in libreria un più che godibile lavoro di «rinfresco» delle nostre memorie collettive. «Da un recente sondaggio condotto tra gli italiani in età compresa tra i 15 e 19 anni, risulta che solo poco più del 20 per cento degli interpellati è a conoscenza delle distruzioni subite dal nostro Paese nel corso della Seconda guerra mondiale», osserva Andrea Santangelo nell’incipit del suo libro L’Italia va in guerra (Longanesi) .
Il dato è perlomeno curioso, visto che siamo letteralmente assediati da modi di pensare, di dire, da film, libri, immagini in rete e sui social media, che direttamente o indirettamente si riferiscono all’universo della guerra e alla violenza che lo caratterizza. Strano no? Parliamo continuamente di guerra a proposito e non (vedi per esempio espressioni tipo «guerra tra i sessi», «guerra al terrorismo», «guerra di religione», «guerra commerciale», «guerra all’olio di palma»), ma in verità non la conosciamo, pochi ormai possono dire di averla vissuta sulla propria pelle.
La spiegazione del resto è evidente: dal 1945 (il tempo di almeno due generazioni) il nostro Paese e gran parte dell’Europa occidentale non sono investiti da un conflitto rilevante. Una situazione rara di pace permanente, che ha fatto dimenticare quanto sino a un passato molto recente la guerra fosse invece una realtà quotidiana, pericolosa per larga parte delle popolazioni.
Osserva Santangelo: «Da quando esistono le fonti scritte, cioè più o meno 5.500 anni, sono state calcolate circa 14.700 guerre». E di queste tante hanno devastato l’Italia, che ha così visto impresse nel suo territorio le tracce indelebili di una lunghissima tradizione bellica. Solo per fare un esempio: l’abbazia di Montecassino fu distrutta tra il 577 e il 589 dai Longobardi, tre secoli dopo dai Saraceni e nel 1944 dagli Alleati. Ma è sin dall’Età del ferro, nel 1200 avanti Cristo, che le prime città fortificate marchiano per sempre la geografia italiana. Mille anni dopo, Roma insegna al mondo a fare la guerra. Le sue legioni sono invincibili per secoli. Agli inizi del Rinascimento saranno gli architetti italiani a esportare le tecniche di difesa contro le nuove armi da fuoco.
La storia dei conflitti si dipana di epoca in epoca, sino a diventare un avvertimento: la pace è un’eccezione, occorre saper prevedere le guerre del futuro.

Corriere 16.1.18
Il volume di Roberto Mussapi sull’«esaltazione dello spirito»
Dioniso indecifrabile e impetuoso Il mito più moderno della Grecia
È il dio ibrido che assegna alle donne un ruolo dominante nei suoi riti
Ha ispirato Nietzsche, Dino Campana, Ungaretti, Mario Luzi e Pasolini
di Franco Manzoni


Affascinante, contraddittorio, ibrido, indecifrabile, ubiquo. Una sensuale divinità maschile ma di femminile indole, istintivo, misterico, ludico, irrazionale, con la doppia natura di demone crudele, spietato, selvaggio, e di dominatore salvifico, benevolo, dolcissimo come il miele. È l’eterno adolescente, l’androgino Dioniso, chiamato anche Bacco (l’epiteto Bàkchos significa «colui che lancia l’urlo»), a sovrintendere il rito collettivo del simposio, l’offerta del vino, la perdita della ragione, l’ebbrezza che libera da ogni senso etico, le orge sessuali promiscue.
Le rappresentazioni iniziatiche prevedevano che i suoi fedeli cacciassero a mani nude un animale, sbranandolo e ingoiandolo a brandelli sanguinante e caldo. Un dio che penetra nel corpo umano con il sangue dell’uva e tutto lo pervade, agitandolo attraverso il ritmo della danza, scandito dai tamburi e costellato dai gemiti di piacere senza limiti dei seguaci. Un corteo, soprattutto di donne, il tiaso delle menadi, raggiunge così l’esaltazione sacra collettiva con il rapimento della mente.
Nelle Baccanti di Euripide l’aspetto di un Dioniso vendicativo è trasferito alle sue invasate, mentre egli assume sembianze femminee, seguendo il senso della diversità ermafrodita. Le donne sono fondamentali per la ritualità dionisiaca, lo statuto femminile è dominante: sono loro a guidare il tiaso, a diffonderlo e a gestire le iniziazioni. Dioniso è il vero liberatore delle donne. Grazie a lui sono affrancate dal patriarcato, abbandonano spola e telaio per provare estasi di ogni tipo, avvicinandosi alla natura, correndo per i monti vestite di pelle di animali, nel trasgredire ogni norma e le differenze delle specie, raffigurate nell’atto di allattare cerbiatti, caprioli, lupacchiotti. Al contempo sanno uccidere e sbranare, ripercorrendo il destino mitico del loro signore.
Un dio universale ed egualitario, che annulla differenze sociali e fisiche. Dioniso crea una comunità di simili, liberi da vincoli di famiglia e di patria, in cui tutte le razze possono riconoscersi. È inoltre la divinità dello smembramento, del sentirsi lacerato in mille pezzi. La vitalità di colpo si interrompe con la sua morte. Fatto a pezzi, viene comunque ricomposto e ridestato. La tomba di Dioniso si trovava nel santuario di Apollo a Delfi, ove veniva adorato ogni anno come il fanciullo risvegliato ad altra vita: il dio della trasformazione, della finale rinascita e ascesa all’Olimpo per sedere alla destra del padre Zeus. Un tema che richiama l’egizio Osiride e sembra preludere alla figura di Cristo.
Dioniso è l’emblema della divinità in perenne movimento per reclutare nuovi adepti. Nel mito torna in Grecia dopo lunghi periodi passati in Oriente, e giunge a Tebe, sua città d’origine, per punire chi non credeva alla sua natura divina. Pur essendo considerato il dio del desiderio, è indicativo che le baccanti, officianti il suo culto, a volte rifiutino ogni rapporto sessuale, come testimoniano le arti figurative. Altre volte le menadi provano pulsioni sessuali incontenibili, come irrefrenabile è il loro dio, manifestazione di vitalità sessuale e generativa, che si evidenzia nell’esaltazione del fallo, elemento cerimoniale onnipresente.
Tra gli epiteti di Dioniso incontriamo Omestès , «colui che si ciba di carne cruda»; Orthòs , «dritto», che allude alla sua prorompente continua capacità di erezione, Dimètor , «colui che ha due madri», che rimanda alla sua nascita duplice, poiché nel momento stesso in cui Semele muore folgorata dall’epifania di Zeus, la suprema divinità estrae dal grembo della donna il feto di sei mesi e se lo cuce nella coscia, un’incubatrice, finché il piccolo non è pronto a nascere. Uno e molteplice, Dioniso incarna pure il simbolo di sofferenza, persecuzione, stato allucinatorio, follia e la genesi del teatro.
Ma perché Dioniso ritorna nella cultura moderna? Tutto sta nel suo potere destabilizzante, la capacità di oltrepassare qualsiasi confine, di suggerire nuove forme di relazione e offrire libertà assoluta. Ricordando Dante e il celebre sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io dedicato all’amico Cavalcanti, oppure Leopardi ne Il sabato del villaggio o seguendo Nietzsche e la sua rivisitazione mistica e sensuale del mito e della nascita della tragedia, occorre sottolineare i numerosi poeti del Novecento che convivono con Dioniso: Dino Campana e i suoi Canti orfici , Mario Luzi in A l fuoco della controversia , Gabriella Cinti, performer che modula in greco antico il coro delle Baccanti , autrice di Madre del respiro e di un saggio dal titolo I l dio del labirinto sulla presenza dionisiaca a Creta e l’inedita commistione con Shiva, la divinità principale dell’induismo. E ancora il primo Ungaretti de L’allegria , Vittorio Sereni in Diario d’Algeria e ne Gli strumenti umani , Pasolini con il suo romanzo e film Teorema , dove Dioniso incarna la figura de L’Ospite, che si congiunge carnalmente con tutti i membri di una famiglia borghese fino a farla implodere con la sua scomparsa. La sola che si salverà sarà Emilia, la domestica, donna dei campi che, cibandosi solo di ortiche, si farà alla fine seppellire viva per poter ritornare alla Madre Terra da cui è venuta.