Repubblica 15.1.18
Così osservando l’altro riconosciamo noi stessi
di Massimo Ammaniti
Il
percorso di Jessica Benjamin, psicoanalista americana, ma anche
attivista politica e madre come lei stessa si definisce, si muove su un
terreno frastagliato che ha preso l’avvio negli anni Sessanta del secolo
scorso. In un confronto complesso e a volte problematico fra la
filosofia di Hegel e il femminismo di Simone de Beauvoir e di Nancy
Chodorow con la psicoanalisi freudiana ed intersoggettiva, sviluppatasi
quest’ultima negli ultimi decenni, prende corpo il suo pensiero come
testimonia il suo libro ormai famoso Legami d’amore (nel 1988 negli Usa,
riedito in Italia nel 2015 da Cortina).
È centrale nel suo
pensiero il conflitto fra autonomia e dipendenza nella coscienza di sé
così come viene argomentato da Hegel nella Fenomenologia dello spirito,
emblematicamente rappresentato dal rapporto “servo-signore”
(schiavo-padrone). Il desiderio di affermare l’assoluta indipendenza del
signore si scontra con il bisogno di riconoscimento da parte del servo.
A trenta anni di distanza dal precedente saggio Jessica Benjamin
pubblica ora un nuovo libro Beyond Doer and Done to (“Al di là di chi dà
e di chi riceve”, Routledge, 2018) in cui viene ulteriormente
sviluppata la trappola della mutualità obbligata e la strada verso il
reciproco riconoscimento. L’altro può essere oggetto di bisogni e
pulsioni come nella teoria psicoanalitica classica oppure una mente con
cui interagire e connettersi, attraverso il riconoscimento delle sue
intenzioni e del suo senso agente, come viene affermato dalla
psicoanalisi intersoggettiva.
Quantunque la Benjamin parli di
interpenetrazione conscia ed inconscia fra le menti che si incontrano,
la forte sottolineatura del riconoscimento va piuttosto nella direzione
della teoria della mentalizzazione che rimarca la dimensione
cognitivo-razionale. È più convincente a questo proposito la teoria
lacaniana che affronta la dinamica del desiderio inconscio nell’incontro
col desiderio dell’altro. Il reciproco riconoscimento delle menti apre
una dialettica con l’altro che è allo stesso tempo somigliante, perché è
un essere anche lui con la mente, ma è anche diverso, ossia separato ed
equivalente. Questa scoperta si colloca nell’area del terzo, come viene
definita da Jessica Benjamin, una possibile via d’uscita di fronte
all’impasse della complementarietà in cui si rischia di essere tirati
dentro in modo coercitivo o si viene spinti perdendo la propria
autonomia.
In questa formulazione la Benjamin riconosce l’eredità
dello psicoanalista inglese Donald Winnicott che parla di spazio
potenziale, in cui si oscilla nel flusso intersoggettivo fra fantasia e
realtà in “un uso di simboli che stanno al tempo stesso in luogo di
fenomeni del mondo esterno e di fenomeni della singola persona… una
terza area”. Ma non è mai un’acquisizione definitiva, come si verifica
anche nel rapporto psicoanalitico costantemente in bilico fra
complementarietà analista - paziente e costruzione di uno spazio
condiviso e di confronto in cui si è entrambi presenti con le proprie
menti, ma aggiungerei anche coi propri corpi.