Repubblica 13.1.18
La sentenza
Gesù e Maria testimonial sul mercato
di Marino Niola
Marino
Niola è antropologo della contemporaneità Insegna all’Università Suor
Orsola Benincasa di Napoli. Il suo libro più recente è “Il presente in
poche parole” (Bompiani, 2016)
Gesù e Maria testimonial
del dio mercato? È cosa buona e giusta. Lo ha stabilito la Corte
europea dei diritti umani che ha legittimato l’uso dei simboli religiosi
in pubblicità e condannato la Lituania per aver multato un’azienda che
nel 2012 aveva usato le immagini di Cristo e della Vergine per una
campagna promozionale. Lui in jeans attillatissimi, tatuaggi al punto
giusto, un po’ hippie un po’ hipster. Lei, coronata di fiori, con un
candido vestitino bon ton, un rosario fra le mani mentre fissa
l’obiettivo con incanto virginale. Gli slogan, in verità, suonano più
scemi che blasfemi. “Gesù, che pantaloni!”, “Cara Maria, che vestito!”.
Per finire con “Gesù e Maria, cosa indossate!”. Una giaculatoria
commerciale per far desiderare un jeans da dio e un abito della Madonna.
La
pubblicità aveva suscitato proteste, coinvolgendo anche la Conferenza
episcopale lituana e l’Agenzia nazionale per la difesa dei diritti dei
consumatori.
Che aveva condannato l’azienda a 580 euro di multa per violazione della morale pubblica e offesa alla religione.
Ma il verdetto della Repubblica baltica ieri è stato ribaltato dalla Corte europea.
I
giudici di Strasburgo hanno sentenziato che le immagini dei sacri
testimonial «non sembrano essere gratuitamente offensive o profane». Né
incitano all’odio.
E ancor meno sono contrarie alla morale
pubblica. I togati della Comunità hanno criticato le autorità di Vilnius
per aver affermato che le pubblicità «promuovevano uno stile di vita
incompatibile con i principi di una persona religiosa». Ma, in realtà,
non hanno spiegato in cosa consista questo stile di vita. Né dove sia
l’incompatibilità con i principi dell’homo religiosus.
Un profilo peraltro difficile da definire.
E
qui i giurati europei hanno affondato il colpo, rilevando che il solo
gruppo religioso consultato per dire la sua sul caso è stato quello
cattolico. Trasformato così nel paradigma unico per definire
l’ortodossia, pubblicitaria e non.
La questione è solo
apparentemente frivola. Perché in realtà non si tratta solo di fashion.
In fondo per l’azienda sarebbe stato più facile pagare quella bazzecola
di ammenda. Invece in difesa del designer Kalinkin è sceso in campo lo
Human rights monitoring institute. Che ne ha fatto una questione di
principio per affermare la libertà di espressione. Dimostrando che abiti
e abitudini sono fatti della stessa stoffa. Sia gli uni che le altre,
infatti, sono la forma materiale di un habitus mentale.
E proprio
per questo sono destinati a cambiare foggia e disegno, peso e misura di
pari passo con il cambiamento dei valori sociali, delle sensibilità
morali, delle istanze culturali. Esattamente quel che successe negli
anni Settanta, quando il manifesto pubblicitario dei jeans Jesus, ideato
da quel genio della provocazione che risponde al nome di Oliviero
Toscani fece drizzare i capelli ai benpensanti e scatenò un’autentica
guerra di religione.
Mobilitando liturgia e ideologia.
L’immagine
resta insuperata. Un lato B provocante con una scritta evangelicamente
irriverente. “Chi mi ama mi segua”. Era un cortocircuito incendiario tra
religione e trasgressione che compendiava lo spirito dissacrante di
quegli anni pieni di adrenalina. Quando il referendum sul divorzio, il
femminismo e la liberazione sessuale agitavano le intelligenze e le
coscienze. Certo la bomba di Toscani era di gran lunga più devastante.
Ma in compenso questi Gesù e Maria griffati fanno giurisprudenza.
Perché le libertà all’inizio si scrivono sui corpi. E poi si trascrivono sui Codici.