mercoledì 31 gennaio 2018

Repubblica 13.1.18
La sentenza
Gesù e Maria testimonial sul mercato
di Marino Niola


Marino Niola è antropologo della contemporaneità Insegna all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Il suo libro più recente è “Il presente in poche parole” (Bompiani, 2016)

Gesù e Maria testimonial del dio mercato? È cosa buona e giusta. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha legittimato l’uso dei simboli religiosi in pubblicità e condannato la Lituania per aver multato un’azienda che nel 2012 aveva usato le immagini di Cristo e della Vergine per una campagna promozionale. Lui in jeans attillatissimi, tatuaggi al punto giusto, un po’ hippie un po’ hipster. Lei, coronata di fiori, con un candido vestitino bon ton, un rosario fra le mani mentre fissa l’obiettivo con incanto virginale. Gli slogan, in verità, suonano più scemi che blasfemi. “Gesù, che pantaloni!”, “Cara Maria, che vestito!”. Per finire con “Gesù e Maria, cosa indossate!”. Una giaculatoria commerciale per far desiderare un jeans da dio e un abito della Madonna.
La pubblicità aveva suscitato proteste, coinvolgendo anche la Conferenza episcopale lituana e l’Agenzia nazionale per la difesa dei diritti dei consumatori.
Che aveva condannato l’azienda a 580 euro di multa per violazione della morale pubblica e offesa alla religione.
Ma il verdetto della Repubblica baltica ieri è stato ribaltato dalla Corte europea.
I giudici di Strasburgo hanno sentenziato che le immagini dei sacri testimonial «non sembrano essere gratuitamente offensive o profane». Né incitano all’odio.
E ancor meno sono contrarie alla morale pubblica. I togati della Comunità hanno criticato le autorità di Vilnius per aver affermato che le pubblicità «promuovevano uno stile di vita incompatibile con i principi di una persona religiosa». Ma, in realtà, non hanno spiegato in cosa consista questo stile di vita. Né dove sia l’incompatibilità con i principi dell’homo religiosus.
Un profilo peraltro difficile da definire.
E qui i giurati europei hanno affondato il colpo, rilevando che il solo gruppo religioso consultato per dire la sua sul caso è stato quello cattolico. Trasformato così nel paradigma unico per definire l’ortodossia, pubblicitaria e non.
La questione è solo apparentemente frivola. Perché in realtà non si tratta solo di fashion. In fondo per l’azienda sarebbe stato più facile pagare quella bazzecola di ammenda. Invece in difesa del designer Kalinkin è sceso in campo lo Human rights monitoring institute. Che ne ha fatto una questione di principio per affermare la libertà di espressione. Dimostrando che abiti e abitudini sono fatti della stessa stoffa. Sia gli uni che le altre, infatti, sono la forma materiale di un habitus mentale.
E proprio per questo sono destinati a cambiare foggia e disegno, peso e misura di pari passo con il cambiamento dei valori sociali, delle sensibilità morali, delle istanze culturali. Esattamente quel che successe negli anni Settanta, quando il manifesto pubblicitario dei jeans Jesus, ideato da quel genio della provocazione che risponde al nome di Oliviero Toscani fece drizzare i capelli ai benpensanti e scatenò un’autentica guerra di religione.
Mobilitando liturgia e ideologia.
L’immagine resta insuperata. Un lato B provocante con una scritta evangelicamente irriverente. “Chi mi ama mi segua”. Era un cortocircuito incendiario tra religione e trasgressione che compendiava lo spirito dissacrante di quegli anni pieni di adrenalina. Quando il referendum sul divorzio, il femminismo e la liberazione sessuale agitavano le intelligenze e le coscienze. Certo la bomba di Toscani era di gran lunga più devastante. Ma in compenso questi Gesù e Maria griffati fanno giurisprudenza.
Perché le libertà all’inizio si scrivono sui corpi. E poi si trascrivono sui Codici.