giovedì 25 gennaio 2018

«Lorenzo Fioramonti, insegna economia politica e dirige il Centro per lo studio dell’innovazione nella governance all’Università di Pretoria, in Sudafrica. L’anno scorso ha pubblicato un saggio critico sul Pil per le edizioni L’Asino d’Oro, considerate molto vicine al gruppo dello scomparso psichiatra Massimo Fagioli»
il manifesto 24.1.18
Grillo si fa il suo blog. Di Maio: non è un parricidio
5Stelle. Il fondatore: inizia un’avventura straordinaria di liberazione, di mente, di fantasia. In corsa l'economista Lorenzo Fioramonti. Per la Lega il No euro Alberto Bagnai
di Giuliano Santoro


L’indiscrezione circolava già da qualche giorno ma ieri Matteo Salvini ha confermato tutto: il docente ed economista no euro Alberto Bagnai si candiderà nelle liste della Lega. La scelta è significativa, diremmo quasi paradigmatica, perché Bagnai in questi anni si è gettato nell’agone dei media e soprattutto dei social network, propagandando le sue posizioni sovraniste e, come le definisce lui, «postkeynesiane». Non si è sottratto a nessun flame, come si definiscono le gergo 2.0 le risse digitali, scivolando via via su posizioni sempre più oltranziste e guadagnandosi un piccolo seguito. Oggi Bagnai scrive sul Fatto e sul Giornale ma ieri, in conferenza stampa da Montecitorio, ci ha tenuto sottolineare la sua passata collaborazione con il manifesto: la narrazione che ha messo in campo ormai da anni prevede che si presenti come uomo di sinistra che ha trovato comprensione solamente a destra. «Ho parlato con diversi politici ma Salvini è l’unico che ha rispettato i mio lavoro», ha detto. Salvini lo salutato come l’uomo che gli ha aperto gli occhi sul fallimento della moneta unica. Sul suo blog, Bagnai ha scritto nel giorno dell’annuncio della candidatura una sentenza programmatica, a partire dallo schema che mette in concorrenza i diritti civili e quelli sociali: «In un mondo che moltiplica i diritti civili da barattarci in cambio dei nostri diritti sociali e politici – si legge nel post – credo che esista un unico modo di schierarsi a difesa di quella che Orwell chiamava la common decency, e la nostra Costituzione chiama ’un’esistenza libera e dignitosa’: essere conservatore». Prima ancora, per giustificare la via nazionalista al socialismo, teorizzava: «Il capitale nasce internazionale e il proletariato non lo diventerà mai. Quindi è opportuno che si attrezzi per fare i compiti a casa». Sarà candidato in Lazio e Abruzzo. Anche Luigi Di Maio ieri si è presentato assieme ad un economista. Si chiama Lorenzo Fioramonti, insegna economia politica e dirige il Centro per lo studio dell’innovazione nella governance all’Università di Pretoria, in Sudafrica. L’anno scorso ha pubblicato un saggio critico sul Pil per le edizioni L’Asino d’Oro, considerate molto vicine al gruppo dello scomparso psichiatra Massimo Fagioli. Fioramonti sarà candidato a Roma, è il primo degli «esterni» scelti da Di Maio per correre nei collegi uninominali. Era salito agli onori della cronaca quando, costretto a lavorare prima in Germania e poi in Sudafrica, aveva denunciato il sistema nepotistico dell’accademia italiana. Il suo volto compare sulla scena proprio nel giorno in cui Beppe Grillo lancia il sul nuovo blog, che come annunciato non verrà gestito da Casaleggio e al momento non presenta alcun riferimento al M5S. Altro segnale distintivo, che marca una differenza non da poco, il nuovo blog presenta la domiciliazione fiscale. A differenza del vecchio, che è stato prima uno dei diari online più visitati al mondo e poi il baricentro di una delle principali forze politiche italiane ma che ha sempre omesso di comunicare a chi andassero i quattrini dei banner pubblicitari che ospitava. Da ieri, tutti i contenuti del vecchio sito di Grillo sono associati al dominio www.blogdellestelle.it, al quale già da tempo l’home page rimandava. «Inizia adesso un’avventura straordinaria di liberazione, di mente, di fantasia, di utopie, di sogni, di visioni. Io andrò in cerca di folli, di artisti, mi piace avere dei punti di vista, ma di idee, perché io sono stufo delle opinioni», esordisce Grillo dando adito a diverse interpretazioni circa la sua disillusione politica. Matteo Renzi ne ha approfittato per gridare alla «scissione» in atto tra Grillo e i suoi. Di Maio esclude sia in atto un «parricidio»: «Il garante è un riconoscimento che si dà a chi ha fondato il M5S. Ma l’indirizzo politico lo danno gli eletti nelle istituzioni e il capo politico – ha spiegato dal salotto di Porta a Porta – Il segnale di Beppe che sgancia il blog è un ulteriore segno che stiamo sempre più crescendo».

il manifesto 25.1.18
Shoah, i nodi tra passato e presente
Tempi presenti. Riflessioni intorno al senso della Giornata della Memoria, tra ritualizzazione mediatica e il baratro dell'oblio alle porte
di Lia Tagliacozzo


È il diciassettesimo anno di celebrazione del giorno della memoria: giornata deputata al ricordo di quando, nel 1945, le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di sterminio di Auschwitz. La strage degli ebrei e degli altri rinchiusi in quei campi non si fermò quel giorno: per porre fine alla strage bisognò arrivare alla primavera. E qualche mese dopo, solo ad estate inoltrata, arrivò anche la fine del secondo conflitto mondiale.
Se quel 27 gennaio del 1945 sul territorio italiano non accadde una vicenda assurta a data pubblica il 27 gennaio è comunque il giorno scelto dal Parlamento per ricordare «la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati».
UN VENTAGLIO AMPIO di eventi e di soggetti da ricordare ma così recita la legge istitutiva. Delle leggi razziali ricorre quest’anno l’ottantesimo dalla promulgazione: volute dal fascismo e controfirmate da Vittorio Emanuele di Savoia la cui salma è di recente tornata in Italia accompagnata da accese polemiche.
Eppure quest’anno, più che i precedenti, sembra che passato e presente si intreccino in un’ignoranza immemore e arrogante. Il discorso pubblico sembra, sempre più spesso, abdicare a valori che si presumevano condivisi. È proprio l’intreccio tra parole del passato e nodi del presente che inquieta: come se un argine sia venuto meno e il razzismo sia diventato moneta corrente e legittima che tracima dagli stadi alla politica, dai social al linguaggio corrente. C’è da aver paura.
Una posizione molto ferma viene però dalla neo senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di sterminio di Auschwitz e Ravensbrueck: «Chi mi ha nominato si aspetta che io prosegua la mia missione di testimone – ha affermato nelle sue prime dichiarazioni – in un tempo, questo, in cui il mare si chiude sopra decine di persone che rimangono ignote, senza un nome, così come sono stati quelli che ho visto io andare al gas».
Questo non significa, ovviamente, che il Mediterraneo dei barconi e dei migranti si sia trasformato in una nuova Auschwitz, ma che quelle morti di sconosciuti anonimi ci riguardano come negli anni del nazismo e del fascismo al potere avrebbero dovuto riguardare i concittadini di allora le morti degli ebrei, degli omosessuali, dei testimoni di Geova, dei portatori di handicap, degli oppositori politici. E il nodo tra passato e presente si stringe ancora perché, come un’ eco alle parole di Liliana Segre, a Milano è stata vandalizzata un’altra pietra della memoria: uno di quei piccoli sanpietrini dorati posti dall’artista tedesco Günter Demnig di fronte alla casa da cui le persone sono state deportate e che ne reca inciso il nome, la data di nascita e, quasi sempre, quella di morte. Una «pietra di inciampo», in cui ciò che inciampa è, dovrebbe essere, l’attenzione di una cittadinanza consapevole. Invece anche le parole pubbliche perdono la memoria: Attilio Fontana, candidato del centrodestra alla Regione Lombardia, non si è vergognato mentre inneggiava alla «razza bianca». Lo stesso candidato, dopo aver azzardato scuse poco sostenibili, ha aggiunto: «La razza bianca? Mi ha portato fama e consensi». Un’enormità a cui pure è possibile credere. E con la quale sarà necessario misurarsi ad elezioni avvenute.
L’articolo 2 della Legge istitutiva prosegue: «In occasione del Giorno della Memoria sono organizzate cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado».
L’INTERO MONDO della scuola, non sempre ma spesso appassionato e partecipe, ha in questi anni letto, recitato, riflettuto anche quando, paradossalmente, le ore di studio della storia sono diminuite. Proprio le scuole sono forse il luogo dove il giorno della memoria appare meno «ritualizzato»: ogni studente e ogni classe impone ogni volta di ricominciare da capo, di leggere nuovi libri, di inventare nuovi lavori. E ogni bambino o studente formula nuove domande.
L’elenco delle questioni che pone la celebrazione oggi del giorno della memoria è infinito, quelle che seguono sono solo alcune: la relazione tra storia e memoria, il ruolo dell’arte accanto a quello della testimonianza, la scomparsa degli ultimi testimoni, la formazione degli insegnanti, la necessità di inserire la Shoah dentro la storia dell’Occidente e non farne un mausoleo a parte, decontestualizzato dalla vicenda del Novecento, l’esigenza di non lasciare il dovere della memoria del nazifascismo alle sue vittime, la riflessione sull’unicità della Shoah e sugli altri stermini che l’umanità non ha risparmiato a se stessa. E poi la necessità di trovare un nuovo equilibrio tra la ritualizzazione delle istituzioni e l’esposizione mediatica.
SEMBRA ANCHE sempre più urgente interrogarsi se la memoria porti davvero con sé qualcosa di buono o se piuttosto non rischi di diventare una pianta velenosa a fronte però di una certezza: senza il giorno della memoria la consapevolezza della Shoah in questo paese sarebbe minore. Così è stato, infatti, nella riflessione collettiva fino al momento della sua istituzione. Eppure caricarsi di una memoria tanto dolorosa ha senso solo se si riesce ad integrare nel suo racconto che è esistita perfino allora, durante la guerra e sotto il dominio totalitario, la possibilità di scegliere: se stare dalla parte dei perseguitati o dei persecutori, degli ignavi o degli amici, dei soccorritori o dei delatori. Proprio per questo, si impone una riflessione attenta, in grado di definire gli odi di ieri e quelli di oggi. Si tratta da un lato di rifiutare equiparazioni impossibili dall’altro di ricordare quello che scriveva, con tragica lucidità, Primo Levi: «A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere che ’ogni straniero sia nemico’. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come un’infezione latente. Ma quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager».

Corriere 25.1.18
La stupidità del male e le idiozie sulla razza
di Gian Antonio Stella


C’è anche una stupidità del male. Leggende demenziali su ebrei con sei dita o riconoscibili dall’orecchio sinistro. Frutto di un odio razzista contro «gli altri» che ha accecato perfino pensatori e intellettuali di spicco. Come il filosofo tradizionalista Julius Evola o il grande compositore tedesco Richard Wagner. «L’ebreo manca di umorismo, ed è anzi egli stesso, dopo la sessualità, l’oggetto preferito delle barzellette», discettava nel 1903 in Sesso e carattere il filosofo Otto Weininger. Ignaro di come avrebbero riso di lui i fratelli Marx, Woody Allen, Walter Matthau, Tony Curtis e tanti altri geni dell’umorismo a partire da Charlie Chaplin…
«Ero in quinta ginnasiale. Avevo come compagna di banco una brava figliola. Questa ragazza un giorno ha detto qualcosa che mi sembrava... Allora le ho detto: “Ma guarda che anch’io sono ebrea”. E lei mi dice: “Non è vero”. “Se te lo dico io!”. “Non è vero, perché gli ebrei hanno sei dita.” Adesso fa ridere, ma è così. La mia amica Carla mi ha detto che una donna che conosceva, a Torino, era terrorizzata durante la gravidanza perché temeva che il bambino nascesse con sei dita».
Il racconto di Anna Colombo, piemontese, docente di letteratura rumena, morta anni fa a Gerusalemme e autrice del libro Gli ebrei hanno sei dita (Feltrinelli, 2005) , spiega più di mille volumi quanto sottile sia il confine fra il ridicolo e l’orrore. Nulla quanto il razzismo può accecare le intelligenze. Nulla.
Dicono tutto poche righe scritte di suo pugno nel libro del 1941 Sintesi di dottrina della razza da Julius Evola, che il Giorgio Almirante definiva «il nostro Marcuse» ed è ancora oggi uno dei punti di riferimento della destra: «Una donna, i cui rapporti sessuali con un uomo di colore sono cessati da anni, può dare alla luce un figlio di colore nella sua unione con un uomo, come lei, di razza bianca: qui una idea confittasi in condizioni speciali nella subcoscienza della madre in forma di un “complesso”, anche dopo anni ha agito formativamente sulla nascita». Gravidanze lunghe anni e anni…
C’è di tutto, nello stupidario del razzismo. C’è la tesi omofoba di San Bernardino: «Il corpo del sodomitto non è altro che puza» (di zolfo). E l’africano del popolo khoisan che Cesare Lombroso chiama «ottentotto» spiegando che «si può dire l’ornitorinco dell’umanità». E il meticcio che il giurista Médéric Louis Élie Moreau de Saint-Méry cataloga a seconda delle sue 128 gradazioni di sangue bianco o nero. Non manca neppure il marchio dell’«odore più fetido» assegnato nel 1915 dalla Société de Médecine di Parigi ai tedeschi («odore acre e tenace di cavolo e di sudore», precisò lo scienziato Edgar Bérillon) davanti all’«odore acido» degli inglesi, «rancido» dei neri e «malato» degli orientali.
Le vittime predilette dei pregiudizi più stupidi, però, sono stati gli ebrei. «L’ebreo manca di umorismo, ed è anzi egli stesso, dopo la sessualità, l’oggetto preferito delle barzellette», discetta nel 1903 in Sesso e carattere il filosofo Otto Weininger, ignaro di come avrebbero riso di lui Chico, Groucho, Harpo, Gummo e Zeppo Marx, Woody Allen, Walter Matthau, Tony Curtis e tanti altri geni dell’umorismo a partire da Charlie Chaplin, additato come ebreo nel libretto nazista Juden sehen dich an («Gli ebrei ti guardano»).
Lascia basiti rileggere L’ebraismo nella musica del grande compositore tedesco Richard Wagner: «È naturale che la congenita aridità dell’indole ebraica che ci è tanto antipatica trovi la sua massima espressione nel canto, che è la più vivace, la più autentica manifestazione del sentimento individuale». Certo, spiega Paolo Isotta, il compositore ben sapeva quanto grandi fossero Moses Mendelssohn o Jakob «Giacomo» Meyerbeer, tedeschi come lui, ma ebrei. Sapeva di scrivere una assurdità. Ma convinto com’era di una congiura giudaica nei suoi confronti, come poteva rinunciare a spargere veleni? E parliamo di musica classica. Perché l’idea che il canto sia «negato agli ebrei dalla natura stessa» cozzerebbe oggi con le storie di musicisti come Bob Dylan, Barbra Streisand, Leonard Cohen, Paul Simon e Art Garfunkel, Lou Reed, Woody Guthrie, Carole King, Neil Diamond…
Quanto agli attori, lo stesso Wagner non aveva meno pregiudizi. Lo scrisse sempre in L’ebraismo nella musica : «Ci è impossibile immaginare che un personaggio dell’antichità o dei tempi moderni, eroe o amoroso, sia rappresentato da un ebreo senza sentirci involontariamente colpiti da quanto vi è di sconveniente, anzi, di ridicolo in una rappresentazione del genere». Aggiunse: «La cosa che più ci ripugna è il particolare accento che caratterizza il parlare degli ebrei». E ancora: «Ascoltando l’ebreo che parla, noi siamo nostro malgrado urtati dal fatto di trovare il suo discorso privo di ogni espressione veramente umana». Certo, non aveva avuto modo di veder recitare Sarah Bernhardt e Lauren Bacall, Dustin Hoffman e Paul Newman, Kirk Douglas e Cary Grant, Shelley Winters e Scarlett Johansson e tanti altri... Ma come poteva, un genio qual era lui, uscirsene con scempiaggini così?
Sarebbe impossibile chiudere questa carrellata, però, senza ricordare la testimonianza di Inge Deutschkron, che dopo essere scampata ai lager nazisti sarebbe diventata una scrittrice e una testimone dell’Olocausto. E che un giorno di settembre del 1938 andò a farsi la carta d’identità. «Come ogni ragazzina di sedici anni, ero anch’io vanitosa. Quando il fotografo mi fece cenno di aggiustarmi i capelli dietro l’orecchio sinistro, mi sentii completamente turbata sull’orlo delle lacrime». Sapeva che, come ebrea, le avrebbero stampato una grande «J» (l’iniziale di Jude , «ebreo») gialla sulla copertina e una sulla prima facciata interna del documento «sicché non era possibile alcun dubbio sull’origine razziale del titolare». Ma fu quella raccomandazione sui capelli a ferirla di più.
«L’avvertenza del fotografo era di carattere tecnico, non esprimeva scherno, era un cenno professionale, nulla più. Tuttavia la sentii come un’umiliazione, quasi fosse un colpo di frusta». Dalla forma dell’orecchio sinistro infatti «sarebbe stata individuata l’appartenenza razziale. Era questa una scoperta degli scienziati della razza nazionalsocialisti. L’orecchio sinistro di un ebreo tradiva secondo loro l’origine semitica. Per questa ragione le fotografie dei passaporti degli ebrei dovevano essere prese in modo da rendere chiaramente visibile la forma dell’orecchio sinistro».
La ragazzina uscì dal negozio scossa: «In quei giorni cercai spesso a Berlino di constatare cosa distinguesse l’orecchio sinistro dei miei concittadini dal mio, quando passavo loro vicino nell’autobus o nella sotterranea. Ma non riuscii a scoprire nulla. Il mio orecchio, sottoposto centinaia di volte a esame allo specchio, era proprio uguale a quello degli ariani di Berlino».
Per anni, facendo conferenze in giro per il mondo, Inge Deutschkron ha raccontato quel momento della sua vita tra i sorrisi increduli di lettori, professori, studenti… Sì, pare impossibile. Oggi. Ma è successo. E chissà se chi avviò con burocratica solerzia alle camere a gas uomini, donne e bambini diede un’occhiata al loro orecchio sinistro...

La Stampa 25.1.18
Le scimmie clonate spaventano il Vaticano
Clonazione, nate due scimmie con la tecnica della pecora Dolly
In Cina dopo 79 tentativi. Il Vaticano: “Attentato al futuro dell’umanità”
di Valentina Arcovio


Sembrano due peluche, teneri come quelli a cui si tengono avvinghiate nelle foto scattate nel laboratorio in cui sono nate. Invece sono due scimmie vere. Solo che Zhong Zhong e Hua Hua, questo è il loro nome, sono molto speciali. Nessun primate prima di loro era stato creato con la tecnica usata per la pecora Dolly 22 anni fa.
La loro nascita, avvenuta rispettivamente otto e sei settimane fa, è stata annunciata sulla rivista «Cell» dai ricercatori dell’Istituto di neuroscienze dell’Accademia cinese delle scienze a Shanghai e apre una strada che consentirà di ridurre il numero di primati usati nella sperimentazione animale. «Questa tecnica - spiega Giuliano Grignaschi, responsabile del benessere animale presso l’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri e segretario generale di Research4life - permetterà di ottenere risultati sperimentali più affidabili e facilmente riproducibili: riducendo la variabilità e l’errore statistico si ridurrà anche il numero di animali sacrificati per ogni singolo esperimento».
La notizia ha fatto il giro del mondo. Perché nessuno prima d’ora era stato in grado di clonare allo stesso modo un primate. Diciannove anni fa nei laboratori dell’Oregon Health and Science University è stato creato una macaco femmina, Tetra, ma i ricercatori utilizzarono una tecnica nota come «splitting embrionale», che in un certo modo mima il processo che dà naturalmente origine ai gemelli identici. Con il limite di creare solo 4 cloni per volta.
I ricercatori cinesi, dopo tre anni di
lavori e 79 tentativi falliti, sono riusciti a clonare le scimmie con la tecnica del trasferimento nucleare da cellule somatiche, che prevede appunto il trasferimento del nucleo di una cellula dell’animale da «copiare» all’interno di un ovulo non fecondato e privato del suo nucleo. A differenza di quanto accaduto con altri mammiferi, come topi e bovini, nelle scimmie ogni tentativo precedente era fallito, perché nei nuclei delle loro
cellule differenziate sono presenti dei geni «spenti» che impediscono lo sviluppo dell’embrione. I ricercatori cinesi sono riusciti a riattivarli grazie a frammenti di Rna messaggero. La percentuale di successo è stata poi ulteriormente aumentata prelevando il nucleo da cellule fetali invece che da cellule di esemplari adulti. I cuccioli stanno bene e presto potrebbero avere compagnia perché a Shanghai si sta lavorando alla
clonazione di nuove scimmie.
Ma la notizia non è stata accolta solo con entusiasmo. Molti i commenti negativi - a cui i ricercatori hanno risposto assicurando che sono consapevoli dei rischi e che seguiranno standard etici severi - per via delle implicazioni etiche. Duro il Vaticano: «Se la Chiesa condanna nel modo più totale l’ipotesi di clonazione umana, su quella animale non ha finora espresso una posizione ufficiale, ma non c’è dubbio - sostiene il cardinale Elio Sgreccia, presidente emerito della pontificia Accademia per la vita - che il passaggio da Dolly alla scimmia, primate così vicino all’uomo, rappresenta un autentico attentato al futuro dell’umanità. C’è il fortissimo rischio che sia il penultimo passo prima della clonazione umana, che la Chiesa non approverà mai».

La Stampa 25.1.18
Vicini a ripeterlo con l’uomo. Ma non servirebbe a nulla”
Il genetista Novelli: “La nostra specie sparirebbeInvece ora potremo testare nuove terapie”
di Valentina Arcovio


«Tecnicamente siamo vicini alla possibilità di clonare gli esseri umani, ma farlo non ci porterà alcun vantaggio». È così che il genetista Giuseppe Novelli, rettore dell’Università Tor Vergata di Roma, risponde ai timori sollevati in seguito all’annuncio della clonazione di due scimmie utilizzando la stessa tecnica che ha permesso la clonazione della pecora Dolly.
Professore, abbiamo già gli strumenti per clonare gli esseri umani?
«Con questo lavoro pubblicato dai ricercatori cinesi possiamo dire di esserci molto vicini. Del resto le scimmie sono animali molti simili a noi. Ma attenzione: questo non significa che domani verranno clonati anche gli esseri umani».
Perché lo ritiene improbabile?
«Perché non ci sarebbe di alcuna utilità nel farlo. A cosa può servire creare esseri umani tutti identici? A niente. Non ne trarremmo alcun vantaggio, né dal punto di vista sanitario né dal punto di vita culturale. Abbiamo bisogno che la vita umana sia solo frutto dell’incontro tra due gameti. In gioco c’è la nostra stessa sopravvivenza».
In che senso?
«Creare esseri umani identici ridurrebbe la nostra variabilità genetica. E sappiamo che una riduzione della variabilità genetica può portare addirittura alla scomparsa di un’intera specie. Quindi, perché dovremmo mettere a rischio la nostra specie clonando esseri umani in laboratorio?»
Cosa ci garantisce che i ricercatori cinesi non ci sorprendano ancora, ma questa volta clonando un essere umano?
«Anche i ricercatori cinesi sanno che non ne trarrebbero alcun beneficio. Nello studio in cui descrivono come sono riusciti a utilizzare la tecnica di clonazione usata con la pecora Dolly per clonare le due scimmie hanno spiegato bene che lo hanno fatto solo per migliorare la ricerca. Il loro scopo quindi è dichiaratamente diverso da quello di creare esseri umani identici in laboratorio».
In che modo la clonazione di scimmie può aiutare la ricerca?
«Clonando le scimmie avremmo modelli di malattie umane che potremmo utilizzare per testare nuove terapie, come quella dell’editing genetico. Lo scopo è quello di cercare nuove cure contro malattie oggi incurabili. Inoltre, clonando le scimmie si avrebbe anche il vantaggio di utilizzarne sempre meno per le sperimentazioni umane, in quanto avremmo dei modelli sperimentali molto affidabili e soprattutto riproducibili. L’implicazione etica di cui dovremmo invece dovremmo discutere è un’altra: è giusto creare animali simili a noi come le scimmie per utilizzarle nelle sperimentazioni?»
Secondo lei, è giusto farlo?
«A mio avviso è giusto farlo solo se servono per sperimentare terapie contro malattie oggi incurabili. E quindi solo per salvare la vita di esseri umani. È su questo che si dovrebbe aprire un serio dibattito etico».

La Stampa 25.1.18
Fiumi di soldi nella ricerca: così Pechino sfida gli Usa
L’esperto: “Test più economici e poche regole”
di Stefano Massarelli


Con la prima clonazione di un primate mediante la tecnica del trasferimento nucleare da cellule somatiche, la stessa usata per la pecora Dolly, la Cina compie un importante passo nel campo della ricerca scientifica e in quello che è stato definito «Sputnik 2.0», ovvero il duello biomedico tra Cina e Stati Uniti.
Nel luglio scorso, sempre gli scienziati cinesi sono stati i primi al mondo a combinare la clonazione con l’ingegneria genetica, creando il primo esemplare di cane di razza beagle mediante una delle più moderne tecnologie e con la promessa di sfruttare questo risultato per dotare le forze di polizia cinesi di una razza canina «migliorata» nelle abilità fisiche. Ma gli scienziati della Muraglia potrebbero presto compiere importanti passi in avanti anche nelle terapie mediche, utilizzando la tecnica dei bisturi molecolari, la Crispr-Cas9, per modificare le singole «lettere» del Dna a scopi curativi. Secondo quanto riportato dal «Wall Street Journal», circa 86 pazienti affetti da cancro e Hiv in Cina hanno ricevuto ufficialmente le prime terapie sperimentali con cellule «riparate» geneticamente attraverso la Crispr-Cas9 nell’ambito di un trial clinico, anche se i tentativi di sperimentazione portati avanti dai laboratori cinesi potrebbero anche essere di più.
«Gli enormi investimenti fatti dalla Cina nel campo della ricerca e della tecnologia nell’ultimo ventennio stanno cominciando a dare i loro frutti» commenta Pier Giuseppe Pelicci dell’Istituto europeo di oncologia di Milano. La Cina è infatti tra i Paesi del mondo che hanno destinato più fondi a infrastrutture di ricerca e capitale umano nel nuovo millennio. Una strategia che ha portato Pechino ad ottenere il primo posto al mondo per numero di pubblicazioni scientifiche, ponendosi per la prima volta davanti a Washington.
Ma ad alimentare il dibattito sono soprattutto le norme etiche meno stringenti della Cina rispetto al mondo occidentale, che più di una volta hanno fatto sollevare controversie. Come accaduto, ad esempio, nel 2015 con il primo editing genomico di embrioni umani da parte di scienziati cinesi, che ha attirato su di sé i riflettori di tutto il mondo, oppure con il primo uso della tecnica Crispr-Cas9 in embrioni clonati a partire da cellule adulte, avvenuta a settembre. Questo approccio «aggressivo» alle sperimentazioni, seppur aspramente criticato, sta portando i suoi frutti anche sul piano di capitali destinati alla ricerca. «Molte industrie attive nel campo biomedico - conclude Pelicci - stanno spostando i loro investimenti lì poiché i trial clinici costano meno e sono soggetti a regole meno stringenti».

Corriere 25.1.18
Scienza: la prima volta per i primati
Clonate in Cina due scimmie: più vicini all’uomo
di Edoardo Boncinelli e Luigi Ripamonti


Zhong Zhong e Hua Hua. Si chiamano così. E sono le prime due scimmie clonate con la tecnica utilizzata per la pecora Dolly. La loro nascita è stata annunciata dall’Accademia cinese delle scienze. Si tratta — per gli scienziati — di un risultato notevole perché apre la prospettiva di avere a disposizione, per gli studi, animali di questo tipo geneticamente identici, cosa che oggi è possibile con specie meno vicine all’uomo, come i topi. «Ora è più vicina la clonazione dell’uomo». Il Vaticano: «E questo è il vero pericolo».

Corriere 25.1.18
Le due scimmie clonate in Cina
di Luigi Ripamonti


Si chiamano Zhong Zhong e Hua Hua, e sono le prime due scimmie al mondo clonate con la tecnica della pecora Dolly. La loro nascita è stata annunciata sulla rivista Cell dall’Istituto di neuroscienze dell’Accademia cinese delle scienze a Shanghai. Hanno, rispettivamente, otto e sei settimane di vita. Non è la prima clonazione in assoluto di un primate. La prima fu quella di Tetra, una femmina di macaco, ottenuta negli Stati Uniti nel 1999 con la scissione dell’embrione, un procedimento che imita il processo naturale all’origine di gemelli identici.
Nel caso di Zhong Zhong e Hua Hua invece è stata usata la tecnica Scnt (Somatic Cell Nuclear Trasfer) cioè il trasferimento del nucleo prelevato da una cellula di un individuo in una cellula uovo non fecondata di un altro soggetto, privata del suo nucleo.
Finora ogni tentativo di questo tipo sulle scimmie era fallito perché i nuclei delle loro cellule differenziate (cioè già maturate) contengono geni che impediscono lo sviluppo dell’embrione. I ricercatori hanno trovato gli «interruttori» molecolari giusti per avviare il processo e portarlo a buon fine.
Si tratta di un risultato notevole sotto molti punti di vista, perché apre la prospettiva di avere a disposizione per gli studi animali di questo tipo geneticamente identici, cosa che oggi è possibile con specie meno vicine all’uomo, come i topi. Ciò servirà a escludere molte variabili su modelli precisi, rendendo disponibili termini di paragone perfetti per capire quanto incide, per esempio, una modificazione o un intervento terapeutico. In linea teorica il risultato potrebbe poi avere applicazioni anche per la preservazione di specie in via di estinzione.
«Ma l’aspetto più importante è probabilmente un altro» sottolinea Carlo Alberto Redi, genetista dell’Università di Pavia e accademico dei Lincei. «Ed è il fatto che i ricercatori cinesi sono evidentemente riusciti a identificare i meccanismi che consentono di “accendere” o “spegnere” determinati geni per fare in modo che una cellula somatica del macaco possa essere messa in condizione di “tornare” a uno stato tale da poter essere poi indirizzata a uno sviluppo diverso».
«Per la comunità scientifica avere a disposizione queste informazioni può essere molto utile» continua l’esperto, «perché l’epigenetica, cioè tutto quanto interviene sul Dna per influenzarne il comportamento, è qualcosa che riguarda tutti noi, e condiziona lo sviluppo di molte malattie. Capire in che modo l’ambiente interviene sul Dna e come lo modifica in modo tale da farci ammalare, è uno dei filoni di ricerca di maggior interesse in tutto il mondo oggi». «Per fare alcuni esempi: come fa il fumo a intervenire finemente sul Dna delle cellule per farle diventare cancerose è un problema di epigenetica» spiega Redi. «Così come lo è, ad esempio, l’azione degli inquinanti ambientali, di ciò che mangiamo, eccetera».
«Unico limite che mi sembra di ravvisare da quanto è stato comunicato finora è che il risultato è stato ottenuto a partire da fibroblasti fetali, quindi con una differenziazione probabilmente non ancora completa, ma ciò non toglie che sia un risultato importante».

Corriere 25.1.18
Più vicini all’uomo progettato a tavolino. E forse nascerà anche lui in Oriente
di Edoardo Boncinelli


Un passo dopo l’altro ci stiamo avvi-cinando al gran momento, quello in cui faremo nascere uomini con il patrimonio genetico modificato, patri-monio che potranno anche trasmettere a figli e nipoti. Se ne parla da tanto tempo, con un misto di entusiasmo e preoccupa-zione. Prepariamoci! Questa volta siamo arrivati ai macachi e l’esperimento è stato fatto in Cina, due elementi di grande no-vità. La Cina è un colosso che da qualche tempo si è potentemente organizzato per lavorare anche in campo biologico. Sem-bra ieri che apprendisti ricercatori tren-tenni venivano dalla Cina nei nostri labo-ratori per imparare il «mestiere» di bio-logi molecolari. Alloggiavano in tanti in piccoli appartamenti e... imparavano, be-ne a quanto pare, se adesso sono in gra-do di fare tantissimi esperimenti magari anche meglio di noi. Dalla prima pecora, l’immortale Dolly del 1996, alle capre, a cani e cavalli, per non parlare dei porcel-li, i ricercatori hanno dato vita a moltis-simi animali messi insieme in modo non convenzionale, ma partendo da cellule coltivate in laboratorio che possiedono un patrimonio genetico selezionato da noi. E ora siamo alle scimmie! Perché la cosa è interessante? Perché le scimmie sono animali più complessi e più simili a noi, e perché non sapevamo bene in che cosa consistesse questa nuova complica-zione. Come lo sviluppo di un embrione di mammifero richiede la conoscenza di più password dello sviluppo di un inver-tebrato, così il patrimonio genetico di una scimmia appare «più difeso» di quello di una pecora o di un suino. Per-ché? Bella domanda. Non lo sappiamo, ma ci piace credere che sia il prezzo della complessità. Può essere, ma è molto più probabile che questa particolarità sia da mettere in connessione con il numero di figli per cucciolata: meno cuccioli più protezione, anche senza considerare le dimensioni del cranio. Come si vede si imparano sempre più cose. Diceva Solo-ne: «Più invecchio e più imparo». Il pro-blema è che non basta imparare. Occor-rerebbe anche essere sempre più saggi. Facendo cosa, per esempio? Riflettendo e non dando mai nulla per scontato. Possi-bilmente senza condannare. Il compito che l’universo ci ha assegnato è dare un nome alle cose e commentarle, senza ce-dere alla nostra passione predominante: giudicare e condannare, come tanti pic-coli Minosse. Ricordiamoci che non sia-mo al centro dell’universo, e nemmeno più al centro del mondo civile. È molto ragionevole che il primo uomo «proget-tato a tavolino» abbia gli occhi a man-dorla, o indossi un sari.

Corriere 25.1.18
Il no di Sgreccia «Una minaccia per il futuro dell’umanità»
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO «Visto com’è andata a finire con la pecora Dolly, invecchiata precocemente dopo pochi mesi e poi uccisa per non farla soffrire, poveretta, si sperava che nessuno tornasse a tentare una cosa simile…».
Il cardinale Elio Sgreccia ha la voce incrinata di chi cerca, invano, di trattenere lo sconcerto. Presidente emerito della pontificia Accademia per la vita, è tra i massimi bioeticisti della Chiesa, autore di un «Manuale di bioetica» divenuto un classico del pensiero cattolico. Fu lui a guidare la ricerca per la stesura della «Dignitas Personae», l’istruzione di riferimento in tema di bioetica della Congregazione per la Dottrina della Fede. Un documento firmato nel 2008 dal prefetto William Levada e dal segretario Luis Ladaria, nominato l’anno scorso da Francesco alla guida del Sant’Uffizio.
Eminenza, che cosa la preoccupa?
«La volontà che sta dietro una ricerca simile. Ci vedo una minaccia per il futuro dell’umanità. Prima la pecora, poi la scimmia… Pare il tentativo di avvicinarsi all’uomo, come fosse un penultimo passo. Una prospettiva che la Chiesa, naturalmente, non potrà mai approvare».
Ne parla come fosse l’Homunculus del «Faust» di Goethe…
«Ecco, appunto. Se si vuole giocare con il creato devastando i livelli metafisici… Perché voler clonare una scimmia? Qual è il motivo? Vogliono riprodurre carne? Finti uomini? Questo mi fa sospettare…».
Che intende per sconvolgimento dei «livelli metafisici»?
«Il tentativo di cancellare la differenza ontologica tra l’uomo e gli animali. Dietro la volontà di clonare una scimmia si può nascondere una tendenza già emersa in altri settori di ricerca, quella di portare l’uomo verso la scimmia e la scimmia verso l’uomo e infine considerare la scimmia uguale all’uomo».
Ma non potrebbe essere, più semplicemente, un passo avanti straordinario dal punto di vista medico?
«Se si vuole fare ricerca biologica o medica non c’è bisogno di sconvolgere l’ordine naturale. Del resto, anche nell’istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede, si spiega che la distinzione tra clonazione riproduttiva e clonazione terapeutica è insostenibile».
Cosa pensa la Chiesa della clonazione animale?
«Al contrario della ipotesi di clonazione umana, sulla quale la Chiesa non può che esprimere la sua condanna più totale e ferma, sulla clonazione animale il magistero non ha finora espresso una condanna esplicita, ufficiale. Si è lasciato il tema alla valutazione degli scienziati responsabili. Comunque questa tendenza non deve essere solo un problema della Chiesa».
In che senso?
«Per un credente è inaccettabile. Ma una simile manipolazione profonda dovrebbe essere sentita da tutti come una minaccia alla persona umana, il tentativo di degradare la sua dignità».

Repubblica 25.1.18
Vent’anni di polemiche
Dolly, la vita quasi normale della pecora nata in provetta
“Creata” da Ian Wilmut nel 1996 a Edimburgo ebbe sei agnellini e molti acciacchi: dall’artrite al tumore
di Silvia Bencivelli


Roma Ha avuto tre madri, sei figli, quattro gemelle, e migliaia di telecamere puntate addosso: una vita breve ma intensa, quella della pecora Dolly. Quando venne alla luce, al Roslin Institute dell’Università di Edimburgo, era il 5 luglio del 1996: Dolly era il primo mammifero clonato da un altro mammifero adulto, cioè il primo nato esattamente identico a un altro già vivente, ed era perciò la dimostrazione in vello e ossa che quello che fino ad allora era fantascientifico poteva diventare reale.
Vent’anni dopo Sir Ian Wilmut, il suo “ creatore”, racconterà che si attesero mesi prima di pubblicare la notizia. Per essere precisi, fu quindi una domenica di febbraio del 1997 che Dolly diventò una star. Poco più tardi il ritratto di lei impettita col suo muso bianco cominciò a essere quello della pecora più famosa della storia. Ma il muso bianco non è un dettaglio: delle tre, solo la madre di cui Dolly era il clone, infatti, aveva questa caratteristica. Da una sua cellula era stato prelevato il nucleo, che contiene il Dna. Questo nucleo era stato trasferito in una cellula uovo svuotata del proprio, e che invece proveniva da una pecora dal muso nero. La cellula uovo era stata attivata e fatta crescere fino a un preciso stadio embrionale, per poi impiantarla nell’utero di una terza pecora, anche lei dal muso nero, che aveva fatto, diremmo oggi, da madre surrogata. Così appena i ricercatori hanno visto il colore bianco del neonato agnellino hanno subito capito che era la copia della pecora numero uno. Ed hanno anche avuto una certa ironia nello scegliere il nome: Dolly è un omaggio alla cantante country Dolly Parton, procace coniglietta di Playboy, e la cellula che aveva dato la vita alla pecora era proprio una cellula della ghiandola mammaria.
Dolly, sostiene il Roslin Institute, “ a parte qualche occasionale apparizione mediatica, ha condotto una vita normale”. Ha avuto sei agnellini con un montone di nome David: Bonnie, Sally, Rosie, Lucy, Darcy e Cotton. Ma è stata anche clonata: meno famose di lei, Daisy, Debbie, Dianna e Denise sono nate nel 2007, geneticamente uguali a lei e alla sua mamma dal muso bianco.
Però Dolly non ha mai goduto di buona salute. Quando aveva un anno ci si accorse che le sue molecole di Dna avevano le caratteristiche di molecole “ anziane”, e si temette che questo l’avrebbe fatta invecchiare precocemente. Così non fu. E anche l’artrite che la colpì nel 2001 fu curata con successo. Ma due anni dopo Dolly cominciò a tossire e la diagnosi fu implacabile: tumore al polmone. Si decise perciò di sopprimerla il giorno di San Valentino del 2003. Oggi Dolly giace, impagliata ma di nuovo fieramente in piedi, al National Museum of Scotland di Edimburgo.

Repubblica 25.1.18
Annuncio dalla Cina
Clonate due scimmie “Ora tocca all’uomo”
di Elena Dusi


ROMA Ora l’uomo è più vicino. La clonazione – partita dalla rana e transitata per topi, tori, cani, maiali e la famosa pecora Dolly, esattamente vent’anni fa – ora è arrivata alla scimmia. Due cuccioli di macachi in Cina sono nati da una provetta con un patrimonio genetico identico. Zhong Zhong e Hua Hua sono due femmine, stanno bene: giocano e sgranano gli occhioni, anche se i ricercatori dell’Accademia cinese delle scienze hanno avuto le loro belle difficoltà a vederle nascere, prima di poter pubblicare il risultato sulla rivista Cell. Oggi le scimmiette hanno sei e otto settimane. I loro nomi messi insieme formano la parola Zhonghua, che vuol dire “popolo cinese”. È la prima volta che la clonazione dà vita a un primate: l’ordine di cui fa parte anche l’uomo.
Unica eccezione: un altro macaco nato nel 1999, ma con un metodo molto diverso.
«L’efficienza della tecnica è molto bassa, tra l’1 e il 5% di nascite rispetto ai tentativi effettuati. Ma credo che clonare un uomo a questo punto sarebbe tecnicamente possibile», spiega Paolo Vezzoni, genetista dell’Istituto per le Tecnologie biomediche del Cnr e autore per Laterza del libro “Si può clonare un essere umano?”. Era il 2003 quando Vezzoni poneva la domanda.
All’epoca, fra ginecologi trasgressivi e seguaci dei realiani, ognuno sembrava pronto a presentarsi alla stampa tenendo in braccio il primo bambino clonato. Invece non accadde nulla. Anzi, l’interesse per la clonazione svanì e la tecnica venne espunta dalla lista delle priorità in biologia.
Cosa è successo? «Nel frattempo sono state trovate strade alternative», risponde Vezzoni. «Uno degli obiettivi della clonazione era procurarsi cellule staminali identiche a quelle del paziente, per provare a curare eventuali malattie. Nel corso degli anni sono emersi altri metodi per arrivare a questo obiettivo, più semplici dal punto di vista tecnico e meno controversi da quello etico». Se proprio vogliamo immaginare un’applicazione pratica della tecnica usata per la clonazione, dobbiamo cercarla in una serie di malattie genetiche rare che coinvolgono i mitocondri, organelli che si trovano all’interno della cellula e contengono una piccola frazione di Dna. «Se il Dna dei mitocondri è difettoso – spiega il ricercatore del Cnr – la madre attraverso la cellula uovo può trasmettere una malattia ai figli. Si può allora pensare di usare la tecnica utilizzata dai colleghi cinesi per prelevare il genoma della madre e inserirlo in una cellula uovo con mitocondri sani». Ma vista l’altissima percentuale di fallimenti dell’équipe di Shanghai, bisognerebbe creare tra venti e cento embrioni per ottenerne uno sano. Difficile che il gioco valga la candela.
E allora? «I primati sono ideali per studiare il funzionamento dell’organismo e sviluppare cure per le malattie umane», scrivono i ricercatori di Shanghai. Zhong Zhong, Hua Hua e le loro sorelle ancora in gestazione potrebbero dunque diventare cavie da laboratorio per studiare malattie incurabili. Avere a che fare con Dna tutti identici permetterebbe ai ricercatori di togliere dal tavolo una variabile importante, quella dell’eterogeneità dei geni. «Un’altra possibile applicazione – aggiunge Vezzoni – è quella degli xenotrapianti. I maiali si stanno confermando buoni candidati per fornire organi agli uomini.
Ma prima di pensare sul serio a un trapianto, occorre apportare alcune modificazioni genetiche. Ottenuti in vitro, questi cambiamenti potranno diventare seriali grazie alla clonazione». Di fronte a tutto questo gli occhi di Zhong Zhong e Hua Hua esprimono stupore.
E hanno le loro ragioni. Per far nascere i due cuccioli i ricercatori cinesi le hanno provate tutte. Prima prelevando cellule della pelle di un macaco adulto, isolandone il nucleo, contenente il Dna, e inserendolo in una cellula uovo (che del nucleo era stata privata in precedenza). La pratica è stata ripetute 192 volte, riuscendo a creare 181 embrioni, trasferiti nell’utero di 42 madri.
Le gravidanze sono state 22 e i cuccioli nati due: entrambi morti dopo poche ore. Gli scienziati allora hanno rifatto l’esperimento usando cellule di un feto di macaco. Cellule più giovani – più vicine dunque alla condizione biologica delle cellule embrionali – hanno dato risultati migliori. I 79 embrioni trasferiti in utero hanno innescato 6 gravidanze e due fiocchi rosa. Zhong Zhong e Hua Hua oggi stanno bene e bevono dal biberon, ma sono figli di un’odissea scientifica ancora irta di difficoltà. «Siamo riusciti a clonare una scimmia», dice oggi il capo équipe Qiang Sun. «Ma abbiamo registrato molti fallimenti». Tra le reazioni, da segnalare quella del cardinale Elio Sgreccia, ex portavoce del Vaticano sui temi della bioetica, che ha commentato: “È una minaccia per il futuro dell’uomo”.

Repubblica 25.1.18
La scienza non si ferma ma serve trasparenza
di Elena Cattaneo


Il risultato pubblicato su Cell dai ricercatori di Shanghai ha implicazioni molto tecniche: al momento è difficile valutarne portata e interesse scientifico.
L’idea che modelli animali del tutto uguali tra loro, quindi clonati, siano un vantaggio per la ricerca è molto interessante ma al contempo ha lo svantaggio di escludere la variabilità genetica di ciascuno.
Resta l’evidenza di una tecnica che, partendo dalla pecora Dolly, è stata provata con successo su animali di piccola e grossa taglia, dai topi ai tori, e oggi, con la scimmia, trova un’ulteriore conferma sperimentale di praticabilità.
Qualcuno si potrebbe chiedere: che bisogno c’era di provare che è possibile clonare delle scimmie? Dal punto di vista della scienza, interrogarsi sul bisogno o sull’utilità pratica di una nuova conquista tecnologica, di un nuovo avanzamento conoscitivo è una domanda mal posta: effetti e utilità di una ricerca spesso si chiariscono a posteriori. Quando nel 2005 i ricercatori descrivevano uno dei batteri dello yogurt, era inimmaginabile che quanto osservato, dieci anni dopo, sarebbe diventato il più potente strumento di modifica del Dna, il Crispr-Cas9.
Sull’utilità e l’eticità di una ricerca scientifica costruita su solide basi metodologiche e tecniche sono coinvolti, su più livelli di responsabilità, chi fa la ricerca, chi la valuta e il comitato etico che vigila sulla sua appropriatezza.
Vi è poi la responsabilità della comunità scientifica tutta nell’essere il primo controllore e il massimo interprete della capacità di rendere conto del lavoro dei ricercatori anche di fronte a un pubblico non esperto, spesso spaventato da scoperte che non capisce: se le spiegazioni non vengono dalla scienza, arriveranno da altri, pronti a travisare giocando su paure o sensazionalismi o, peggio, privi di scrupoli nel piegare i fatti all’ideologia. Nella scienza non esiste il principio di autorità, ma è il metodo a determinare (pubblicamente) la validità o meno di ciò che viene fatto. Questo procedimento garantisce che, nella costruzione della fiducia, tutti gli attori siano chiamati in causa.
La scienza va avanti, non fermarsi mai ma cercare sempre nuovi traguardi è implicito nel suo metodo, e si illude chi pensa che sia ancora possibile bloccare la ricerca ai confini nazionali o imporre moratorie che, peraltro, soprattutto in Paesi in cui lo Stato di diritto e la democrazia sono labili se non assenti, rischiano, come tutti i proibizionismi, di lasciare campo libero a “corsari delle regole” pronti a sottrarsi ad ogni controllo. Nella scienza, “etica” non è moratoria dalla conoscenza ma trasparenza del metodo, visibilità dei risultati e controllo diffuso, nell’interesse di tutti. Oggi, con il rafforzarsi di comunità scientifiche prima assenti, dobbiamo essere pronti a lavorare in modo sempre più integrato anche gettando ponti tra culture molto diverse.
Docente alla Statale di Milano e senatrice a vita

Il Fatto 25.1.18
La Bosken avrà il suo costoso seggio di deputata a Bolzano
Matteo Renzi si fa le liste da solo: Maria Elena Boschi spedita a Bolzano
Voleva il collegio di Firenze, è riuscita ad avere quello altoatesino blindato dalla Svp (a cui i governi dem hanno fatto ogni possibile favore)
di Wa. Ma. e Ma. Pa.


Per il candidato del collegio uninominale di Bolzano-Bassa Atesina, la Südtiroler Volkspartei (Svp) “attende dal Pd una proposta di elevata credibilità autonomista”. Così diceva una settimana fa il segretario Philipp Achammer. E i democratici l’hanno accontentato subito schierando per la Camera (in Senato corre il bellunese Gianclaudio Bressa) nientemeno che Maria Elena Boschi, autonomista al punto che alla Leopolda del 2014 l’allora ministra delle Riforme dichiarava: “Non è il momento propizio, ma sarei favorevole alla soppressione delle autonomie speciali”. Si cambia, per carità, tanto è vero che poi la sua riforma costituzionale escludeva dalla “centralizzazione” di molte competenze proprio le Regioni a statuto speciale.
È da allora che con Bolzano e Trento Boschi ha ottimi rapporti e ora ne diventerà portavoce in Parlamento. D’altronde è stata lei stessa a insistere per questa soluzione: dopo aver vigorosamente tentato, invano, di essere candidata nel collegio uninominale di Firenze, martedì il Nazareno pareva deciso a candidarla solo nei listini proporzionali. Quando ha visto la notizia sulle agenzie, però, Boschi ha animatamente protestato. Prima di tutto con Matteo Renzi: esclusa la Toscana, in cui si sarebbe finito per fare la campagna elettorale solo su Banca Etruria, il collegio di Bolzano è la soluzione più semplice. In Alto Adige il Pd è appunto alleato con la Svp e quel collegio è blindato (in quelli di Merano e Bressanone, invece, Svp corre da sola, e vincerà).
“Non abbiamo la conferma ufficiale, non siamo stati consultati – ha detto Alessandro Huber, segretario del Pd di Bolzano – noi stavamo valutando di trovare un candidato locale come ci era stato richiesto”. Però, al netto di questo, sostiene di non avere nulla in contrario alla candidatura della Boschi: “Potremmo addirittura uscire rafforzati nei rapporti con Roma, se viene un esponente di spicco del Pd come lei”, spiega, facendo intendere che le richieste degli altoatesini non si faranno attendere. D’altra parte, il nome in ballottaggio con la sottosegretaria era Graziano Delrio. Entrambi di provvedimenti in favore della provincia autonoma ne hanno fatti molti.
Quel collegio blindato dal patto di ferro con la Svp, insomma, non è costato poco al Paese. Il meccanismo del Rosatellum a Trento e Bolzano riconferma l’egemonia in Regione dei due grandi partiti autonomisti (quello sudtirolese e quello trentino appunto). Condizione imprescindibile: il cosiddetto Tedeschellum, un proporzionale puro, naufragò nel giugno scorso proprio quando quel sistema fu esteso al Trentino Alto Adige.
Gli autonomisti, d’altra parte, si sono guadagnati lo speciale trattamento concedendo una fondamentale fiducia al governo in questa legislatura, specie al Senato attraverso il Gruppo autonomie, un pugno di anime al comando del senatore altoatesino Karl Zeller, navigato gestore del suk nelle leggi di Bilancio, che ha già benedetto l’arrivo dell’ex ministra.
Nell’ultima manovra, per dare l’idea della sua potenza di fuoco contrattuale, la Svp al solito ha incassato di tutto, dalle indennità ai consiglieri di Stato residenti a Bolzano a diverse norme fiscali ad hoc per l’Alto Adige, dai fondi per l’apicoltura montana alla totale potestà delle province autonome di Trento e Bolzano sulle concessioni idroelettriche.
A novembre scorso, poi, Delrio ha regalato il prolungamento di 30 anni della concessione all’Autobrennero, 300 chilometri di strada da Modena al confine austriaco, permettendo alle province autonome e alla Regione – azionisti di controllo della società – di gestire l’A22 come “servizio pubblico” in house fino al 2048 con un guadagno di 6 miliardi netti (ma non per gli automobilisti).
Ma quello tra Svp e Pd è un legame sigillato in più atti. Detto della riforma costituzionale, che blindava l’autonomia delle Regioni speciali e concedeva al Trentino il doppio dei senatori delle Regioni analoghe, a giugno 2016 Boschi andò in visita a Bolzano per suggellare l’ok del governo al progetto che la Svp porta avanti ormai dal 2012: cancellare la toponomastica italiana in Alto Adige, ora finito nel congelatore dopo la rivolta di accademici e parlamentari.
Perfino sulle banche la “specificità” della Regione è stata tutelata: la riforma degli istituti cooperativi (le Bcc) ha infatti salvato le Casse Raiffeisen dall’obbligo di confluire nel gruppo nazionale: potranno farsene uno loro evitando di consegnarsi al mercato. Anche qui una norma benedetta da Karl Zeller. Per il Pd, insomma, tutte le Regioni autonome sono speciali, ma qualcuna lo è di più. Un amore interessato. E ora correttamente ricambiato.

Corriere 25.1.18
Pd, la minaccia di Orlando: dateci i seggi che ci spettano o alle elezioni non ci saremo
di Maria Teresa Meli


Renzi e il caso collegi: 15 i posti offerti, il ministro ne chiede 36
ROMA Matteo Renzi ieri ha passato un’altra lunga giornata chiuso al Nazareno. Il segretario infatti si occupa in prima persona delle liste. È direttamente lui a gestire collegi, deroghe e collocazione degli alleati. E perciò si è immerso in un’ennesima riunione fiume con Lotti, Guerini, Martina, Fassino e Rosato. Tanto che quando i tre leader di «Insieme», Santagata, Nencini e Bonelli, si sono presentati alla sede del Pd sono stati invitati a ripassare un altro giorno perché non c’era nessuno che potesse incontrarli.
Mentre il segretario è chiuso al Nazareno, Andrea Orlando è sul piede di guerra. Ieri sera ha riunito i suoi parlamentari e ha avuto parole durissime nei confronti di Renzi: «Se continua a comportarsi così, le liste se le fa con chi vuole ma non con noi. Noi non ci candidiamo e non facciamo campagna elettorale. Voteremo per il Pd, certo, ma faremo gli spettatori». E gli orlandiani minacciano anche di disertare per protesta pure la Direzione di domani. La tensione è al limite.
Ma qual è il motivo di tanto malcontento? Lunedì scorso il ministro e il segretario si erano visti per un’ora e mezzo al Nazareno e pareva che andasse tutto bene. Orlando ha fatto a Renzi le sue richieste: «Noi vogliamo il 20 per cento dei seggi (la percentuale ottenuta al congresso, ndr ), siamo disposti a conteggiare anche quelli contendibili, non solo quelli di fascia A. Si può pure scendere a 19, 18. E se tu, come mi dici, vuoi mettere dieci esponenti della società civile, sono pronto a farmene carico proporzionalmente». Il leader del Pd aveva definito quella del ministro «una proposta ragionevole» e lo aveva ringraziato.
La percentuale chiesta da Orlando è basata su un totale di 200 seggi che i dem dovrebbero ottenere tra Camera e Senato. È questo il calcolo che viene fatto al Pd (che per le liste e i collegi si basa su un sondaggio che dà il partito al 23,2 per cento).

Repubblica 25.1.18
Pd e Leu, nervi tesi “Basta con i big paracadutati”
Da Epifani a Lorenzin, i malumori contro i candidati imposti dalle segreterie
di Giovanna Casadio e Tommaso Ciriaco


ROMA Per sedare una dolorosa rivolta locale, il segretario del Pd di Prato ha infine contattato il Nazareno: «Corro io, altrimenti non ne usciamo». In pochi, a quelle latitudini, avevano digerito l’idea di affidare il collegio all’alleata Beatrice Lorenzin. Va così un po’ ovunque, in queste ore. Le liste si affollano di “paracadutati”, i territori si ribellano. In Sicilia, per dire, soffrono soltanto all’idea di regalare uno dei pochissimi posti garantiti nel proporzionale alla romanissima Marianna Madia. Per non parlare di Liberi e Uguali, dove il cortocircuito tra le aspirazioni dei parlamentari uscenti e i sogni della base si è trasformato in guerriglia.
Primo: difendere il collegio d’elezione. Secondo: scoraggiare i forestieri. Terzo: tagliare l’odiato paracadute degli “intrusi”, se necessario. Ecco come si consuma il braccio di ferro sotterraneo che lacera il centrosinistra. C’è chi vince e c’è ci perde, naturalmente. I bolognesi, ad esempio, hanno dovuto soccombere alle ragioni di Pier Ferdinando Casini. Lo dovranno votare, e pazienza se sotto le due Torri sostenere un diccì costa una fatica bestiale.
Piero Grasso, invece, aveva promesso di rinnovare parecchio, ma sta pagando un prezzo altissimo ai desideri dei parlamentari uscenti. Il caso di scuola è quello di Guglielmo Epifani. Era destinato a guidare un listino campano, l’hanno catapultato in Sicilia. Il bello è che per far spazio al suo “paracadute” hanno costretto il medico dei migranti di Lampedusa Pietro Bartolo a traslocare nel collegio di Pavia. «Sto pensando se correre o ritirarmi - fa sapere - sono convinto che sarei più utile nella mia terra».
Ma non è finita qui. In Campania LeU è un campo di battaglia, perché il proporzionale è saturo di leader nazionali. In Friuli il listino dovrebbe ospitare Anna Falcone: sollevazione. La marchigiana Laura Boldrini se la giocherà a Milano. Gli abruzzesi, poi, sono infuriati: i posti sicuri sono destinati ai deputati Celeste Costantino e Danilo Leva, rispettivamente calabrese e molisano. In Sardegna, poi, i vertici nazionali “invieranno” l’emiliano Claudio Grassi. «Nelle liste si è crioconservato quello che c’era prima - ironizza Pippo Civati, furibondo - Chiamiamola operazione formaldeide».
E si torna al Pd. Di Madia si è già detto. E gli altri ministri? Il centrista Gianluca Galletti non si candiderà. Per lui i dem emiliani hanno smarrito il senso di ospitalità, avendolo già consumato del tutto per accogliere Casini. Maria Elena Boschi si salverà nel collegio blindato del Trentino, grazie a un accordo che ha scosso alle fondamenta la base dell’Svp. E anche la “trasferta” di Piero Fassino nel proporzionale di Bologna indispettisce i quadri locali. Senza dimenticare la Calabria, dove i parlamentari uscenti hanno alzato le barricate per impedire l’approdo nelle liste bloccate di Andrea Orlando. Il diretto interessato neanche sapeva di essere destinato lì, ma la frittata era già fatta e la ribellione partita.
Proprio intorno al destino della corrente di Orlando, tra l’altro, si gioca l’unità del Pd. Per un giorno intero gira voce di un’offerta renziana assai penalizzante: otto seggi sicuri su un totale di 190.
Una miseria, giudicata «irricevibile» dal ministro. In realtà, Renzi ha in mente di destinare al Guardasigilli diciassette seggi (e meno della metà a Emiliano). Orlando, che ne aveva chiesti 37, non può accettare una potatura comunque brutale. «Se Matteo pensa di darci soltanto un diritto di tribuna – ha spiegato ieri ai suoi colonnelli – decide di costruire il “partito di Renzi”. Non è quello che ci siamo detti lunedì, stringendoci la mano. Ci ha assicurato il rispetto delle proporzioni congressuali». I due si rivedranno già oggi, a 24 ore dalla direzione decisiva sulle liste. E si capirà se il Nazareno dovrà fare i conti con una nuova frattura.

il manifesto 25.1.18
Gorizia, polemica sulla XMas. I reduci accolti in municipio
Il caso. Inni fascisti cantati in aula mentre Casa Pound manifestava fuori. La protesta di 150 antifascisti contro il leghista Ceretta e Gentile e Ferrari (Forza Italia). Anna Di Gianantonio (Anpi) racconta la storia di una città medaglia d’oro per la Resistenza
di Ivan Grozny Compasso


Dopo essere passato agli onori delle cronache per il saluto fascista con cui risponde all’appello in ogni consiglio comunale di Gorizia, Fabio Gentile torna a far parlare di sé per le sue sempre più evidenti nostalgiche simpatie. Se il saluto romano può essere un solido indizio, sentirlo cantare l’inno della X Mas fuga ogni dubbio.
«QUEST’ANNO i reduci della X Mas non solo hanno deposto i fiori alla solita lapide, ma sono stati accolti in una sala del comune dove i consiglieri di Forza Italia Fabio Gentile e Serenella Ferrari, insieme al vice sindaco Stefano Ceretta della Lega, hanno fatto entrare i reduci con tanto di bandiere della repubblica sociale. Fuori c’era anche Casa Pound. È stato lo stesso consigliere Gentile, presentatosi con un vecchio stereo portatile, che ha fatto partire l’inno della X Mas. Lo ha cantato tutto, si vede che il testo lo conosce bene».
È ANNA Di Gianantonio, presidente Anpi di Gorizia, a raccontare di quanto accaduto nella mattinata di sabato 20 gennaio. «Questa – prosegue – è una città medaglia d’oro per la Resistenza. Qui durante il ventennio fascista prima si è colpita la folta comunità slovena, poi c’è stata la deportazione degli ebrei. È qui che si sono messe le basi per le leggi razziali». Il sindaco Ziberna, quello che ha fatto chiudere la galleria Bombi dove si riparavano i migranti, ha delegato Ceretta ma non si è espresso sull’argomento. «Tutti i morti sono uguali», ha dichiarato il vice sindaco a chi gli faceva notare la scelta inopportuna. Erano almeno 150 gli antifascisti che erano fuori dal Municipio a protestare contro la commemorazione.
C’ERANO tutte le forze del centro sinistra, in piazza. Pochi invece quelli di Casa Pound, che aveva invece annunciato una presenza numerosa. Gorizia, la medaglia d’oro per la resistenza, se l’è davvero guadagnata. Dal ’42 nel carcere vicino al comune furono prima rinchiusi centinaia di antifascisti che poi venivano uccisi nel castello.
MA QUI, nel settembre del ’43, si è pure svolta la prima battaglia partigiana, quando, per impedire la discesa dei tedeschi, un migliaio di operai ha combattuto fianco a fianco dei partigiani jugoslavi, cercando di impedire l’ineluttabile avanzata dei nazisti. Da un paio di anni a ricordarlo c’è una lapide in stazione. A Udine, anch’essa città insignita della medaglia d’oro, una mozione sottoscritta da associazioni e partiti del centro sinistra è stata presentata in aula del consiglio comunale e approvata all’unanimità.
IMPEDISCE di concedere spazi a organizzazioni e forze politiche che si richiamano al fascismo. Anche a Gorizia sarà presentato un provvedimento di questo tipo, il prossimo 5 febbraio, in consiglio. Chi sostiene che la X Mas ha combattuto per l’italianità dice una enorme bugia, perché questo territorio faceva parte della Adriatisches Küstenland e quindi era annesso al Terzo Reich tedesco. Occupato militarmente dai nazisti. Questi, quelli della X Mas intendo, hanno combattuto per loro. Se per ipotesi avessero vinto, oggi non saremmo certo Italia. Bisogna ricordarlo sia a loro che ai nostri politici che si prestano a questo tipo di operazioni.
LA X MAS era di fatto una forza collaborazionista. Da che mondo è mondo questo tipo di figure, i collaborazionisti, sono soliti prestarsi per le operazioni più sporche. Il patto del 15 settembre li porta a gestire il carcere di Palmanova, dove erano loro a praticare le torture. Venivano inoltre utilizzati contro i partigiani. Queste bande nere erano odiate dalla gente, tanto che a un certo punto furono mandati via. Gentile e la Ferrari fanno parte di Forza Italia, un partito che dovrebbe stare nell’arco costituzionale, che quindi dovrebbe smarcarsi da questo tipo di manifestazioni e di figure. Invece ci vanno a braccetto», conclude la Di Gianantonio.

La Stampa 25.1.18
Se il governo del Presidente è un miraggio
di Federico Geremicca


Chi ha memoria di qualche campagna elettorale più o meno recente, sa bene che la promessa - e spesso anche la promessa esagerata - è parte integrante della propaganda e della battaglia tra forze politiche diverse. C’è poco da scandalizzarsi, insomma: purtroppo si tratta di un fatto, e non solo italiano. Ma in questa sfida per il futuro governo del Paese, c’è una novità che i partiti farebbero male a sottovalutare: l’assoluto scetticismo con il quale la quotidiana valanga di promesse iperboliche viene accolta dal cittadino-elettore.
Più di un sondaggio ha rilevato che solo il 25% degli italiani intervistati ritiene credibile che la mole di impegni e di annunci che sta caratterizzando questa campagna elettorale possa essere realizzata. Tre cittadini su quattro, al contrario, pensano che le tante promesse elencate non verranno mai mantenute. E da tale valutazione discende, naturalmente, un giudizio assai critico sul modo di agire e sul senso di responsabilità dei partiti in competizione.
Il tutto sta dando luogo ad un eccezionale paradosso: la campagna elettorale - che avrebbe potuto segnare un riavvicinamento ed una rigenerazione del rapporto tra partiti e cittadini - sta rischiando di trasformarsi agli occhi degli elettori in una sorta di autodelegittimazione dell’intero sistema politico. E non è l’unica novità, perché in ragione dalla gran mole di annunci quotidianamente sfornati, anche il Movimento Cinque Stelle - la forza politica più nuova di tutte - è investito da una evidente crisi di credibilità. Se infine si annota che, a liste non ancora presentate, i vescovi italiani hanno definito «immorale» un tale modo di agire, il quadro si fa ancor più chiaro.
Questa sorta di «guerra delle promesse», per altro, rappresenta ottimo carburante per il durissimo scontro in atto tra i partiti e appesantisce le prospettive del dopo-voto, già rese oscure - stando ai sondaggi - dal rischio di stallo e ingovernabilità. La concreta possibilità che il 4 marzo non esca dalle urne una omogenea maggioranza di governo, avrebbe forse dovuto spingere a valutare con più attenzione - a destra come a sinistra - l’invito a «non farsi del male» avanzato da Massimo D’Alema: una raccomandazione invece subito cestinata nella convinzione che, se fosse impossibile un esecutivo di «larghe intese», ci sarebbe sempre il cosiddetto governo del Presidente a far da salvagente.
Già, un governo del Presidente, come quello di Mario Monti (2011-2013) voluto da Giorgio Napolitano per fronteggiare la drammatica crisi economica e finanziaria che travolse l’esecutivo allora guidato da Silvio Berlusconi. Parliamo di sette anni fa: un’era geologica, in politica. Lo scontro tra i partiti non aveva i toni attuali, qualche figura super partes era stata salvaguardata e la disponibilità alla collaborazione temporanea tra forze diverse non era ancora considerata una bestemmia. Ma oggi? Chi potrebbe starci e, soprattutto, chi potrebbe guidare un ipotetico governo del Presidente?
Ad un giro d’orizzonte il panorama appare desolato. La guerra senza quartiere che ha segnato questa legislatura ha lasciato cocci e macerie anche tra le cosiddette «riserve della Repubblica». Osserviamole. I presidenti di Camera e Senato sono appena scesi in battaglia perdendo ogni profilo di terzietà; il sempre evocato Mario Draghi si tiene fuori e lontano da questi incomprensibili giochi; la Banca d’Italia (sorgente perenne in caso d’emergenza: si pensi ai governi Dini e poi Ciampi) ha i vertici traballanti dopo il lavoro - chiamiamolo così - della Commissione d’inchiesta sulle banche; e la pattuglia dei senatori a vita sembra poter offrire solo i nomi di Giorgio Napolitano (93 anni) e di Mario Monti (politicamente improponibile). Restano la Corte costituzionale, i suoi ex Presidenti ed il sempreverde Giuliano Amato...
Il quadro, come si vede, non è particolarmente rassicurante. Ed è anche per questo che i partiti in guerra farebbero bene a sparare qualche balla in meno ed a recuperare qualche prudenza in più. Dopo il voto e dietro l’angolo, infatti, non ci sono ancoraggi certi e soluzioni semplici. Si tenti, almeno, di non complicarle ancor di più.

il manifesto 25.1.18
Grosse koalition d’affari, export per 25 miliardi di armi
Germania. I carri armati turchi di «Ramo d’ulivo» sono quelli della Bundeswehr girati al «Sultano». La Linke: in quattro anni di governo Merkel-Gabriel (Cdu-Spd) sostegno ai Paesi in guerra
di Sebastiano Canetta


BERLINO C’è il «contratto di coalizione» Merkel-Schulz, con lo stop alla vendita di armi per chi alimenta la guerra in Yemen. E il governo in carica, guidato dalla medesima Groko, costretto ieri dalla Linke a ufficializzare l’export-record di 25 miliardi di euro negli ultimi 4 anni. Tutto a beneficio anche di Arabia Saudita, Emirati Arabi ed Egitto. Cioè gli Stati-canaglia.
SI AGGIUNGE al finto embargo al regime di Erdogan, sempre e comunque puntellato da socialisti e democristiani. Con la prova tv della cobelligeranza tedesca nell’offensiva turca contro i curdi: i carri armati Leopard-2 sono proprio quelli dismessi dalla Bundeswehr e girati alle truppe del «sultano».
DUE SCANDALI che investono la cancelliera nel pieno della formazione del suo quarto governo. Ma anche una grana politica per i socialisti di Martin Schulz: la delega sugli armamenti, fino a marzo, apparteneva all’attuale ministro degli esteri Sigmar Gabriel. Paradossi stridenti con il pacifismo scritto nelle 28 pagine del patto d’alleanza firmato il 12 gennaio. E soprattutto pessima pubblicità per i dirigenti socialdemocratici impegnati a convincere gli iscritti (che voteranno il referendum a febbraio) della bontà di continuare a governare con Mutti fino al 2021.
TRA IL 2014 e il 2017 il governo Spd-Cdu ha venduto agli Stati extra-Ue e Nato prodotti militari per 17,8 miliardi: il 47% in più rispetto al secondo mandato di Merkel. Nell’elenco spiccano gli ordini per 1,3 miliardi dell’Algeria ma viene a galla anche il mega-business con Riyad, il Cairo e Dubai.
La “scoperta” si deve a Stefan Liebich, deputato della Linke concentrato sul rapporto ufficiale del ministro dell’economia. «Quattro anni fa la Spd aveva promesso di abbandonare l’esportazione basata sul fattore economico. Ma il canale delle armi si è aperto ancora di più» riassume Liebich sul canale Ard.
SI AGGIUNGE al doppio-gioco sulla Turchia: i video dell’operazione militare contro i curdi in Siria restituiscono la «manovra a pettine» dei Leopard-2 che un ex carrista (come chi scrive) non fatica a riconoscere. Con serventi, capicarro, piloti e cannonieri immortalati nel battesimo del fuoco del tank prodotto da Krauss-Maffei, come ben sanno i combattenti curdi che finora ne hanno distrutti una quindicina. Per questo i generali di Erdogan hanno comprato da Berlino l’aggiornamento alla versione A-6, che protegge da mine e armi contro-carro.
Anche di questo particolare sarà chiamata a rispondere la cancelliera. «Nelle prossime settimane dovrà spiegare al Bundestag la responsabilità nell’escalation in Siria» puntualizza Jan Korte della Linke.
MENTRE SI ATTENDE la giustificazione di Gabriel: la fornitura ai turchi delle nuove corazzature e di centinaia di mezzi usati dall’esercito tedesco è andata in porto grazie al suo avvallo. Per questo la portavoce del gruppo disarmo dei Verdi Agnieszka Brugger chiede a Spd e Cdu di «dichiarare chiaramente la posizione sulla guerra contro i curdi». Anche se c’è poco da dire: a settembre alla commissione parlamentare Gabriel ha già ammesso che solo nei primi 8 mesi del 2017 sono stati approvati ordini solo ad Ankara per 25 milioni di euro. Molto meno dei 69 incassati l’anno precedente, ma pur sempre un mega-stock bellico impiegato nello stesso teatro di guerra che a parole si vuole fermare.
DIECI GIORNI fa i partner della GroKo hanno messo nero su bianco lo «stop immediato alla consegna di armi ai Paesi coinvolti nel conflitto in Yemen». Con il portavoce Steffen Seibert che assicurava come la Germania «non sta prendendo decisioni fuori-linea rispetto al risultato dei colloqui». Prima dell’evidenza del deal denunciato dalla Linke.
NELLA REALTÀ l’unico fuso su cui cammina la politica sulle armi di Berlino coincide con la riga dell’interesse del made in Germany: dalla Mtu di Monaco che fabbrica i motori per gli Eurofighter alla Diehl di Norimberga che costruisce razzi per gli F-16 Usa. Dai sottomarini “italiani” di ThyssenKrupp alle munizioni perforanti di Rheinmetall. Fino all’Airbus militare del consorzio Eads. E all’annunciata partnership per costruire armi «per la difesa europea» insieme alla Francia.

il manifesto 25.1.18
Il poeta Gefen: «Ahed Tamimi come Anne Frank»
Israele. I versi postati lunedì su Instagram da Johonatan Gefen a difesa della ragazza palestinese hanno mandato su tutte le furie il ministro della difesa Lieberman che ha ordinato alla radio militare di "bannare" il poeta di sinistra da sempre contro l'establishment politico e militare
di Michele Giorgio


GERUSALEMME «Ahed Tamimi/Con i capelli rossi/Come Davide che ha schiaffeggiato Golia/Sarai menzionata nella stessa riga/Come Giovanna d’Arco, Hannah Szenes e Anne Frank».
Questi e gli altri versi della poesia postata lunedì su Instagram e dedicata alla 17enne palestinese Ahed Tamimi, sotto processo per aver schiaffeggiato due soldati a Nabi Saleh, sono costati al poeta e drammaturgo israeliano 70enne Yohonatan Gefen la scomunica senza appello del ministro della difesa Avigdor Lieberman.
Aver posto Ahed Tamimi sullo stesso piano di Anne Frank, la ragazza ebrea morta a Bergen-Belsen divenuta un simbolo della Shoah, è apparso come un sacrilegio a Lieberman che ha ordinato a Shimon Elkabetz, comandante di Galei Tzahal, la radio militare israeliana, di vietare altre interviste a Gefen e la messa in onda di programmi culturali con le sue poesie.
Il vulcanico ministro della difesa, esponente del nazionalismo più viscerale, ha «raccomandato» a tutti i mezzi d’informazione di seguire il suo «suggerimento». «Lo Stato di Israele non dove offrire un palcoscenico a un ubriacone che paragona una ragazza che è stata uccisa nell’Olocausto e un’eroina che ha combattuto il regime nazista, ad Ahed Tamimi, la ‘bambolina’ che ha attaccato un soldato», ha scritto Lieberman su Facebook, aggiungendo che il palco adeguato a Geffen è solo Al-Manar, la tv libanese che fa capo al movimento Hezbollah. Lieberman peraltro è andato su tutte le furie quando il consigliuere legale dello Stato, Avichai Mendelblit ha chiarito che il ministro della difesa non ha l’autorità per decidere cosa mandare o non mandare in onda dalle frequenze della radio militare.
Esponente più del post-sionismo che dell’antisionismo (ampiamente minoritario) in Israele, Gefen è una icona della cultura pop sin dagli anni Settanta. Le sue opere, le sue poesie e i suoi romanzi hanno spesso preso di mira l’establishment politico e il militarismo. Gefen non esita a definire pubblicamente il premier Benyamin Netanyahu un «razzista. Nel 2015 fu aggredito sotto la sua abitazione perché «traditore di sinistra». Gefen è noto anche come padre della rock star locale Aviv Gefen e della regista Shira Gefen, sposata con lo scrittore Etgar Keret.
Ora è preso di mira per aver difeso con coraggio la palestinese Ahed Tamimi, rea di aver “umiliato” l’esercito israeliano prendendo a schiaffi due soldati. Coraggio che non hanno mostrato sino ad oggi Amos Oz, Meir Shalev, David Grosman, A.B. Yehoshua, e altri famosi scrittori e poeti israeliani, pronti a firmare un appello contro la deportazione dei richiedenti asilo eritrei e sudanesi ma non a spendere una parola contro la detenzione di una ragazzina palestinese che rischia una condanna a diversi anni di carcere per un reato che in Europa verrebbe punito con una semplice ammenda.
Lo scorso 17 gennaio i giudici militari hanno deciso che Ahed Tamimi resterà in carcere – come la madre Nariman arrestata per aver postato in rete la scena dei due soldati presi a schiaffi – per tutta la durata del processo che riprenderà il 31 gennaio, proprio nel giorno del 17esimo compleanno della ragazza palestinese.

il manifesto 25.1.18
La sinistra ucraina esiste, ma è divisa sulle macerie della guerra
Intervista. «Dopo Maidan e poi il Donbass si sono create profonde divisioni sulla questione del conflitto e del nazionalismo anche all’interno del movimento femminista», incontro con Aliona Lyasheva della prestigiosa rivista di analisi «Commons»
di Yurii Colombo


KIEV Commons è oggi la rivista teorica e di analisi della sinistra ucraina più prestigiosa. La rivista viene pubblicata in formato cartaceo una volta all’anno in volume dal 2010, in collaborazione con la Fondazione Rosa Luxemburg di Kiev. Gli ultimi 2 numeri sono stati dedicati alla questione nazionale e al bilancio della Rivoluzione d’Ottobre. Sul sito (commons.com.ua), sempre aggiornato, vengono pubblicati inoltre molti altri testi in ucraino e in russo oltre che traduzioni da riviste straniere come New Left Review, Jacobin e Sentiabr. A Kiev abbiamo avuto la possibilità di incontrare Aliona Lyasheva, redattrice della rivista e dottoranda a Milano Bicocca in Urban Studies, e parlare sulla situazione della sinistra in Ucraina.
Iniziamo dalla stretta attualità. Cosa è successo il 19 gennaio?
Un commando del famigerato gruppo neonazista C14 ha attaccato la nostra manifestazione a Kiev in ricordo degli assassinii (ancora rimasti impuniti a nove anni di distanza) di Stanislav Markelov e Anastasia Baburova, due giovani giornalisti russi che avevano denunciato il ruolo dei gruppi neofascisti nel loro paese. È una manifestazione che teniamo ogni anni in contemporanea in Ucraina e Russia, un nostro piccolo impegno internazionalista. Siamo stati minacciati di morte, accusati di essere “servi di Putin” e alcuni di noi sono stati picchiati e hanno dovuto essere ricoverati in ospedale. Il tutto mentre la polizia osservava senza intervenire. Di positivo c’è che la manifestazione di Mosca è stato un grande successo: la più importante della sinistra alternativa da molti anni. Siamo contenti per i compagni russi.
Esiste oggi un movimento femminista in Ucraina?
Sì ma purtroppo dopo Maidan e poi la guerra del Donbass si sono create profonde divisioni sulla questione della guerra e del nazionalismo. Prima di allora il movimento femminista non si occupava molto di politica, ma ora purtroppo parte del movimento sostiene lo sforzo bellico e anzi chiede che ci sia un maggiore coinvolgimento delle donne nella guerra. Il movimento femminista di sinistra è molto critico verso le tendenze nazionaliste e ha iniziato a riprendere l’iniziativa da un paio di anni. La manifestazione dello scorso 8 marzo è stata all’insegna dell’antifascismo, proprio perché, sempre di più, si deve legare la questione di genere alla lotta contro le peggiori deviazioni che si stanno impadronendo della nostra società.
Quale dibattito esiste oggi all’interno della sinistra ucraina sulla questione del Donbass?
Al nostro interno in linea di massima abbiamo una posizione antimilitarista ma purtroppo non siamo stati in grado di prendere una posizione comune. Personalmente credo che questa guerra sia stata causata sia dall’aggressione russa ma anche dalle contraddizioni interne alla società ucraina. Ma ora il governo ucraino non ha nessuna intenzione di fermare il conflitto – anche se l’Unione Europea sta spingendo per una soluzione – perché è diventato un grande affare per i nostri oligarchi e permette di tenere il fronte interno sotto controllo.
Quanto incide la profonda crisi economica ucraina sul vostro dibattito?
La gente è molto intimorita dalla situazione economica del paese. Molti temono che arrivino dei nuovi anni ’90 e del resto ce ne sono tutte le premesse. Il governo potrebbe assumere da un momento all’altro nuove misure shock in chiave neo-liberale come chiede il Fmi. «Riforme» della sanità, dell’istruzione e delle pensioni. E il fatto stesso che il governo abbia cessato di difendere la grivna sul mercato valutario ha prodotto una pesante riduzione reale dei salari (la grivna ha perso il 350% del suo valore in 4 anni, ndr) Ma le conseguenze di queste “riforme” si inizieranno a sentire tra qualche anno e questa è forse la cosa più scoraggiante.
Abbiamo assistito negli ultimi mesi a una significativa ripresa dell’estrema destra nel paese. Cosa puoi dirmi a proposito?
Complessivamente la destra è molto forte nel paese, e ovviamente non si tratta solo di quella neofascista. Si respira un clima di destra: sta aumentando la sua influenza nei mass-media, riceve finanziamenti occulti. L’estrema destra da sempre pratica il terrore e l’intimidazione nelle strade contro i militanti di sinistra, le femministe, gli lgbt. Ma tutto ciò è sempre avvenuto, ci siamo abituati. La cosa più drammatica è che ora dirigono la loro violenza anche contro i giornalisti che sostengono posizioni contro la guerra. Si esce dallo scontro delle sub-culture giovanili e si passa al crimine politico mirato contro chi ha una qualche influenza sociale.
Qual’è la situazione della sinistra “storica”, che fino a pochi anni fa aveva un grande consenso elettorale nel paese, raggiungendo talvolta il 40% dei voti?
Il partito comunista è quasi scomparso. Ma già da tempo aveva abbandonato la retorica comunista e la parola «uguaglianza» era sparita dal suo vocabolario. Del resto i loro eletti in parlamento erano oligarchi che si erano arricchiti grazie alle privatizzazioni e alla distruzione dell’economia sovietica. Sono riusciti a screditare completamente il comunismo tra la gente. Inoltre, certo, sul loro declino ha inciso la legge sulla «decomunistizzazione» che li ha messi formalmente fuorilegge. Per quanto riguarda i socialisti, la faccenda è persino divertente perché ultimamente il partito è stato preso in mano da Ilya Kiva, un clown omofobo e sessista che in Italia si è fatto fotografare con in mano dei testi di Mussolini.
Esiste un dibattito sulla possibilità di giungere a costituire un’unica forza di sinistra in Ucraina?
Certo, esiste un’iniziativa che sta andando avanti per raggiungere questo obbiettivo. Il Movimento Sociale, sta raccogliendo le firme per potersi registrare come partito ufficialmente per poter partecipare alle elezioni. Anche se anche questa iniziativa da sola non sarà in grado di rispondere agli immensi compiti che abbiamo in Ucraina.

La Stampa TuttoLibri 20.1.18
Gli artisti della Rivoluzione tra impegno e disincanto
Al Mambo le opere di autori come Chagall, Malevich e Kandinsky Ma la vera sorpresa sono gli sconosciuti che raccontano la Russia
di Bruno Ventavoli


Quel titolo, «Revolutija», non casualmente abbinato ai cent’anni del trionfo bolscevico, induce ad aspettarsi un tripudio di falci e martelli. Ma nella magnifica mostra curata da Evgenjia Petrova, al Mambo di Bologna, si scoprono invece autori che dalla rivoluzione furono delusi, traditi, silenziati, più attenti alla sperimentazione estetica che alla celebrazione delle masse, e magari sensibili all’ufficiale zarista che muore in trincea o al nudo neoclassicheggiante. Le tele sono oltre 70, «Da Chagall a Malevich, da Repin a Kandisky». Il sottotitolo, ovviamente, accentua i nomoni (e di Chagall c’è la bellissima Passeggiata, con l’amata che vola in aria come un palloncino a sottolineare l’ottimismo che il pittore ebreo nutriva per i nuovi tempi). La sorpresa però vien dagli altri, quasi sconosciuti al pubblico italiano. Che rendono l’idea del ribollire di genialità che avvenne all’inizio del ’900 quando la pittura russa, dopo secoli dedicati quasi esclusivamente alle icone, si confronta con le avanguardie europee, dal cubismo al futurismo, elaborando strade originali.
La bellissima tela di Il’ja Repin, Che vastità!, racconta due giovani in riva al mare. Le onde impetuose che li lambiscono simboleggiano le tensioni che sfoceranno nella prima rivoluzione del 1905, ma loro, gioiosi, eleganti, aristocratici non hanno nulla della rabbia proletaria che travolgerà lo zar. E proprio quell’anima democratico-socialista, che fu brutalmente repressa, viene celebrata dallo stesso Repin in 17 ottobre 1905 con una folla tumultuosa e gentile, fin festante, che richiama l’occhio soprattutto sulla fanciulla con elegante cappello bianco, sui mazzi di fiori, su azzimati travet degni di un racconto di Gogol.
La seconda rivoluzione, quella che invece durerà, è più fiancheggiata che raccontata dagli artisti. «Non è possibile prenderla come soggetto nell’epoca in cui sta avvenendo» disse Belyi. Senza contare che alcuni entusiasti della prima ora si raffreddano, come Kustodiev, che dipinge una gigantesca Festa in onore del II congresso dell’internazionale comunista del 19 luglio 1920 con centinaia di personaggi riprodotti con accurato pennello. Certo, c’è in prima fila un pensoso lettore della Pravda, e un arringatore su un’auto. Ma i marinaretti felici con le loro ganze sotto braccio sembrano più adatti a una foto di Eisenstaedt in Times Square che alla Corazzata Potemkin. Ancora più ambiguo e amaro è il gigantesco Bolscevico (1920) che scavalca fiero palazzi lillipuziani come se dovesse calpestarli, quasi un simbolo della forza brutale che sta sopraffacendo la Russia divisa dalla guerra civile. Grigoriev si dedica invece ai contadini, anima eterna della Russia, mostrando volti tesi, dolenti, scavati dalla fame, come se per loro nulla fosse cambiato nella malora.
Malevich, il più rivoluzionario degli innovatori, fin dal 1915, proclama la «supremazia» della forma e del colore sulla realtà. Dipinge cerchi, quadrati, icone di un’arte pura e assoluta che non ha a che fare con nulla, nemmeno con la politica. Poi si spinge a disegnare sagome di atleti, ragazze nei campi, lavoratori. Ma il partito lo guarda con sospetto, soprattutto dopo che Stalin ne ha preso la guida, dopo la morte di Lenin, vuole arte comprensibile, educativa, non manichini pseudo metafisici. Malevich si sforza di glorificare la Cavalleria rossa in una tela magnifica del 1932, i vittoriosi guerrieri al galoppo sono tuttavia ridotti a esilissimi arabeschi sanguigni, schiacciati tra la terra multicolore e il gelido cielo, come a dire che ogni armata, persino quella rivoluzionaria che rinnova il mondo, è insignificante rispetto all’immensità della natura e della materia. Siamo più vicini alla celebrazione con Vladimir Malagis che ritrae una famiglia radunata intorno al radioricevitore in ascolto di Stalin; o con il brulichio immenso di compagni tutti di spalle che in un campo vicino a Mosca ricevono la bandiera dei comunardi parigini dipinto da Brodskij. Ma in quei primi Anni 30 c’è sempre qualche luce, qualche libertà stilistica, qualche guizzo di fantasia, che apre brecce nel proletariamente corretto o nel canone del «realismo socialista» (che viene ufficialmente varato nel 1932). I giovani comunisti del Komsomol di Samochvalov, per esempio, si allenano con ginnastica e fucile, fieri, dinamici, pronti a difendere il comunismo. Eppure le ragazze sdraiate in terra, bionde bellissime, come modelle, maneggiano i fucili ma son vestite con abiti vezzosamente colorati come se fossero a un garden party.
L’esempio forse più doloroso dello scollamento tra ispirazione e politica è nella vicenda di Filonov. Da sempre sensibile alle sofferenze degli umili, presentì nel 1913 la tragedia del primo conflitto mondiale con un terrificante Banchetto dei re, popolato da grotteschi, cupi, famelici burattinai di immensi massacri, e poi li raffigurò nella Guerra germanica con centinaia di corpi frantumati in schegge di piedi, occhi, arti, riuniti come cristalli. La sua pittura rivoluzionaria veniva però malamente compresa. E negli Anni 20, privato di sussidi, fu costretto a sopravvivere grazie al salario della moglie. Ogni tanto dipinse il lavoro - l’officina dei trattori nella fabbrica Putilovo, stacanoviste alla macchina da cucire - ma nonostante i titoli corretti, la sua realtà è arida, nient’affatto celebrativa e le tele venivano respinte. Cedendo agli amici, nel ’32 si cimentò anche con il volto di Stalin. È perfetto nella sua spietata glacialità. Senza un barlume di adulazione. Chi lo vide si spaventò. E la tela rimase in un magazzino. Filonov non ci provò più con l’arte di regime. E per il resto della vita, nella propria cameretta, si dedicò a visioni del cosmo e di animali.

Il Fatto 25.1.18
Censurare Céline non ferma il razzismo
di Daniela Ranieri


La decisione della casa editrice francese Gallimard di non pubblicare più gli Scritti polemici di Louis-Ferdinand Céline dopo la gragnola di polemiche che ne sono seguite non è, a nostro avviso, un coscienzioso atto di profilassi anti-antisemita, bensì un grave sintomo dei tempi.
Gli scritti, che contengono i pamphlet più virulenti di Céline (Bagatelle per un massacro, del 1937, La scuola dei cadaveri del ’38 e La bella rogna del ’41) finora conservati dalla vedova ultracentenaria Lucette e mai pubblicati, sono stati ritenuti troppo scandalosi per essere stampati e venduti nelle librerie di Francia. I sopravvissuti alla Shoah li hanno definiti “un’incitazione all’odio razziale”, e il governo, nella persona del delegato interministeriale contro il razzismo, ha convocato l’editore, che è stato costretto ad annunciare la “mancanza delle condizioni di serenità” per lavorare su una materia tanto incandescente. E così, contrariamente a quanto avvenuto in Germania nel 2016 quando uscì l’edizione critica del Mein Kampf di Hitler, gli scritti odiosi e radicali di Céline non vedranno la luce.
È vero: Bagatelle per un massacro è un libro pieno d’odio. Per Céline, gli ebrei sono “quelli che contano”, “non i decoratori, i giardinieri, i facchini, gli sterratori, i fabbri, i mutilati, i portinai… insomma… la manovalanza… No! Ma tutti quelli che ordinano… che decidono… che intascano… affaristi, direttori, tutti giudei… completamente, semi, un quarto di giudei”. (Come si vede, è facile procurarsi una copia non autorizzata del libro anche senza il permesso dall’alto). La sua è una farneticante rivolta contro “il potere”, scritta tre anni prima che i nazisti annunciassero “la soluzione finale”. Ma quale logica sottende la scelta di equiparare l’espressione dell’odio, fosse anche la più ributtante, all’azione d’odio, che esistono leggi per perseguire e galere per contenere? Quale, se non quella di ammettere che le istituzioni democratiche (e in esse la scuola) hanno fallito la loro missione e temono che le parole di uno scrittore possano farle crollare? Che non hanno più gli strumenti per insegnare la Storia se non quello della messa all’indice dei libri sgraditi, versione sterile e “corretta” dei roghi nazisti?
Pensare che inibire la conoscenza di Céline possa frenare i rigurgiti di antisemitismo presuppone la considerazione dei lettori come di eterni fanciulli ai quali vadano vietate le letture oscene. È la pratica preferita dall’Inquisizione, e non ha mai significato progresso. La messa al bando si fonda sulla tesi del contagio: chiunque tocchi il maledetto Céline, ne inala l’infezione e la porta nel mondo.
Sennonché i libri di Céline, da Viaggio al termine della notte a Rigodon, sono di una incontroversa grandezza, veri capolavori di rigore, fantasia allucinatoria, abiezione e cristalizzazione ossessiva. Gli scritti che Gallimard rinuncia a pubblicare sono un documento che appartiene all’umanità, davanti al quale si prova incanto, repulsione e vertigine. Perché privare il lettore dell’esperienza etica e estetica di venire in contatto e se necessario alle mani con esso?
Martin Heidegger, il filosofo tedesco che giurò fedeltà al Terzo Reich, era antisemita. I quaderni neri ne sono una testimonianza agghiacciante. Vietiamo il suo insegnamento nelle università? Richard Wagner organizzava con la moglie Cosima cene con i peggiori editori di fine Ottocento (disprezzati da Nietzsche) per discettare di quanto fossero pericolosi gli ebrei. Distruggiamo il Lohengrin? Lo Shylock di Shakespeare è un usuraio ebreo di fine Cinquecento pronto a tagliare “una libbra esatta della bella carne” dal corpo di Antonio per riscuotere un debito. Chiediamo a Nardella di trasformare Shylock in un norvergese luterano, in un cubano sincretico, in un musulmano? (Dio ne scampi).
Difficile credere che i fascistelli che oggi impestano le città occidentali, per avere forza dei loro non-argomenti, leggano Céline traendo ispirazione dalla sua scrittura sublime e oscena. O che dopo la lettura de La bella rogna una persona sana di mente vada in giro a negare o giustificare i campi di sterminio. O che l’ignorante candidato della Lega Fontana, che farnetica di “razza bianca”, sia un acuto compendiatore di Céline.
La strada per un rifiuto eterno dell’antisemitismo non è la censura, né l’oblio a cui non la scelta libera dei lettori, ma una censura “dall’alto” vuole consegnare le opere antisemite. Al contrario, la strada per formare una coscienza critica nelle generazioni a venire è la conoscenza. La letteratura non è edificante, non è la somma dei manuali di educazione civica di una società. È sperimentazione, affronto, effrazione; è il tentativo di descrivere l’esperienza del limite, e compito dell’arte più grande è metterci di fronte a ciò che c’è di abissale in noi, proprio perché sia chiaro, anche nel modo più violento, che niente di ciò che umano ci è estraneo.

Il Fatto 25.1.18
“La cecità umana crea l’Inferno in Terra”
L’Olocausto. Julia Vysotskaya: la principessa russa che salva due bambini ebrei
di Federico Pontiggia


Regista scomodo e potente insieme, l’ottantenne maestro russo Andrei Konchalovsky col suo ultimo lavoro, Paradise, ha vinto il Leone d’Argento di Venezia 2016. Girato in bianco e nero, ambientato tra Terzo Reich e Vichy, rastrellamenti nei ghetti e campi di sterminio, ha per protagonisti un poliziotto francese collaborazionista (Philippe Duquesne); una principessa russa arrestata per aver protetto due bambini ebrei (Julia Vysotskaya); un alto ufficiale delle SS (Christian Clauß). Konchalovsky li inquadra frontalmente, a mezzo busto, come per un interrogatorio al cospetto dell’umanità tutta.
Konchalovsky, il suo Paradise arriva oggi nelle nostre sale. La Giornata della Memoria è alle porte, ma perché l’ennesimo film sull’Olocausto?
Devo correggerla: ‘Andrei, perché fai un film sul male e la morte?’. Il male c’è da sempre, esiste in ogni momento, l’Olocausto ne è stata una manifestazione molto peculiare: il male estremo della Shoah è venuto dalla domanda puntuale, dall’esigenza precisa, dal sogno di una società perfetta cullato dai nazisti. Una società che avrebbe contemplato la sola razza ariana, e dalla quale gli ebrei avrebbero dovuto essere espunti, eliminati. Una società perfetta, nelle loro criminali intenzioni, che al contrario di umano avrebbe avuto solo qualche frammento: l’inferno in terra.
Dunque, qual è il focus?
Non faccio un film sull’Olocausto o la Seconda guerra mondiale, ma come d’abitudine un’opera sulla condizione dell’essere umano. Per citare il celebre libro di André Malraux, La condition humaine, il tema a me più caro, e – almeno dovrebbe esserlo – il più importante per ciascuno di noi, non è la storia, ma la ragione stessa della nostra esistenza.
Ma il nazismo non si può eludere.
In quella situazione estrema capisci bene come poche menti malate, paranoiche, sadiche abbiano spinto persone cosiddette normali a creare l’inferno terrestre. Paradise va oltre: il mio nazista, propugnatore della Soluzione Finale, è intelligente, affascinante, ma la sua è solo una devastante illusione. Sì, la relatività è una cosa tremenda.
Si spieghi, Konchalovsky.
I miei tre protagonisti, o almeno due di loro, sono persone terribili, ma io li amo nonostante tutto, perché capisco la tragedia della loro cecità. Purtroppo, non poi così tanto è cambiato: quante disgrazie sono accadute anche di recente, penso all’Iraq o alla Libia, nella miope illusione di esportare la democrazia?
Torniamo all’Olocausto, l’antisemitismo appartiene solo al passato?
Macché, è presente ancora oggi: in ogni forma di odio e intolleranza razziale è l’inferno che fa capolino. Consapevoli o meno, viviamo nel desiderio di dimenticare il passato, e negare l’Olocausto non è che una logica conseguenza. Al contrario, dobbiamo cercare in ogni modo di non dimenticare: se non conosciamo il passato non abbiamo futuro.
L’antisemitismo c’è oggi in Europa?
Ah, certo, in Francia è molto importante.
E in Russia?
Direi proprio di no, è residuale. E grazie all’operato del presidente Putin, che ogni anno incontra i responsabili della comunità ebraica. Proprio per Paradise di recente sono stato premiato dalla federazione delle comunità ebraiche russe, e ho potuto appurare come la loro vita sia molto buona.
Da Homer & Eddie a Tango & Cash ha avuto anche un’importante parentesi americana. Oggi a Hollywood si parla più di molestie sessuali che di film.
Non ho parole, tranne una: ridicolo. Primo, trovo ridicolo che donne molestate 25 anni fa si rivolgano ora alla stampa. Secondo, ridicolo che nella lista dei molestatori non ci sia Bill Clinton. Terzo, trovo ridicola, e insieme molto pericolosa, questa società di stampo orwelliano, questa paranoia per abusi e molestie sessuali di tre decenni or sono. È la manifestazione ultra-reazionaria della politica liberal, è tutto molto triste.
Parlando di cinema-cinema, Loveless del suo connazionale Andrey Zvyagintsev è entrato nella cinquina Oscar del miglior film straniero.
L’ho visto, è molto interessante e spero possa vincere. Sarebbe molto importante, se non altro contribuirebbe a mitigare la russofobia che oggi impera nel mondo: soprattutto per gli americani, la Russia oggi è un posto orribile, ma è solo propaganda. Confido di sorprendermi, che Loveless la spunti.
A dirla tutta non dà un ritratto molto positivo del suo Paese.
Ma perché dovrebbe farlo? E poi la Russia non c’entra, inquadra un problema di civiltà, potrebbe essere benissimo girato in Svezia. A proposito di Svezia, The Square di Ruben Ostlund, altro candidato agli Academy Awards, è molto più duro.
In cantiere lei ha Il Peccato. Protagonista Michelangelo Buonarroti, riprese e co-produzione italiana: che cosa dobbiamo aspettarci?
Non solo l’artista, ma l’essere umano: un genio senza tregua, un peccatore conscio di come la bellezza eccedesse le sue capacità artistiche. E il suo rapporto col potere.
Qualche rimando autobiografico?
Beh, fortunatamente sì: lui aveva Lorenzo il Magnifico, io ho altri mecenati che finanziano i miei film.
Dove lo vedremo?
Mi piacerebbe Venezia, se finisco in tempo.

Corriere 25.1.18
Il medico delle ginnaste in carcere per 175 anni
Nassar molestò 156 atlete. La giudice: «Un onore condannarlo»
di Giuseppe Sarcina


WASHINGTON Fino a 175 anni di carcere per aver abusato sessualmente di 156 atlete giovanissime. «È un mio onore e privilegio condannarla. Ho appena firmato la sua condanna a morte. Il suo prossimo tribunale sarà quello di Dio». Ieri l’imputato, il dottor Larry Nassar, 54 anni, ha ascoltato in silenzio le ultime parole della giudice Rosemarie Aquilina. L’aula della Corte a Lansing, nel Michigan, era ancora scossa dalle testimonianze, dalle accuse pronunciate negli ultimi giorni dalle giovani donne, molte di loro minorenni all’epoca dei fatti. Nel gruppo ci sono anche le star dello sport americano. Le ginnaste vincitrici di medaglie olimpiche, come Jordyn Wieber, McKayla Maroney, Jamie Dantzscher, Aly Raisman e l’ultima celebrità, Simone Biles, quattro ori e un bronzo ai Giochi di Rio de Janeiro nel 2016.
Nassar ha studiato all’Università del Michigan, specializzandosi in osteopatia e orientandosi subito verso la medicina sportiva. Nel 1986 entrò a far parte del team della Usa Gymnastics, la squadra nazionale, e nel 1996 diventò il coordinatore dello staff medico. In questa veste ha partecipato a quattro spedizioni olimpiche, ad Atlanta (1996), Sydney (2000), Pechino (2008) e Londra (2012). Nel frattempo aveva coltivato anche la carriera accademica: docente di Osteopatia nella sua Università del Michigan.
Tutto ciò per dire che il «dottor Larry» era un’autorità, un personaggio in vista nell’ambiente. Bene, adesso immaginiamo il suo ambulatorio, forse con le pareti tappezzate dai diplomi, dai 31 premi ricevuti da varie organizzazioni, come lo «United States Women’s Gymnastics Elite Coaches Association». Lì dentro, per anni, assaltava sessualmente le sue pazienti. Molte minorenni, addirittura una bambina di 6 anni. I racconti sono raccapriccianti. Qualcuna di loro ricorda di essersi presentata con un infortunio all’anca. Nassar cominciò a toccarla nelle parti intime, fino a praticare con le mani penetrazioni vaginali e anali che duravano fino a 40 minuti. «Senza dare una spiegazione, senza guanti». Un trattamento riservato ad almeno altre 6 giovanissime.
La sintesi migliore, probabilmente, è quella della ginnasta Rachael Denhollander: «Larry è il tipo più pericoloso di predatore. Uno che è capace di manipolare le sue vittime, con una fredda e calcolata dissimulazione».
La storia non finisce qui. Usa Gymnastics è travolta dalle polemiche: nessuno ha protetto le atlete e Nassar è stato licenziato solo nel 2015, un anno dopo le prime denunce. Stesso discorso per l’Università del Michigan. Il dottor Nassar aveva potuto collezionare 37 mila tra foto e video di pedopornografia, molestando le bambine anche in piscina. Indisturbato, fino all’intervento dell’Fbi. Per questo reato Nassar ha subito una condanna a 60 anni di carcere, il 7 dicembre 2017. Era rimasto solo. Il predatore si era sposato nel 1996. Sua moglie Stephanie ha ottenuto il divorzio nel gennaio 2017, portandosi via i tre figli. Un maschio e due femmine.

Il Fatto 25.1.18
Con una mannaia massacra la moglie e un bambino di 3 anni affidato per qualche ora da amici

È stata abbandonata in una pozza di sangue sul balcone, massacrata a colpi di mannaia. Era la moglie dell’assassino. Il figlio di tre anni di una coppia di amici, invece, è stato trovato agonizzante pochi metri più in là. Si trovava in quella casa perché la mamma, impegnata per lavoro, aveva chiesto alla donna di ospitarlo per la notte. È morto poco dopo in ospedale. Quando i carabinieri sono entrati in quella casa, a Cremona, di fronte alla chiesa parrocchiale di San Francesco, al quartiere Zaist alla periferia della città, si sono trovati davanti a una carneficina raccapricciante. Qualcosa ha scatenato la follia omicida di Wu Yongqin, di 50 anni, cinese, da tempo seguito dai servizi sociali e già in cura per problemi psichiatrici. I suoi frequenti stati di squilibrio non gli permettevano di lavorare, ma non si erano mai manifestati con una violenza tale da creare timori per l’incolumità dei familiari. Wu Yongqin aveva tentato il suicidio tempo fa, gettandosi da una finestra ed era rimasto claudicante. Ieri invece la furia dell’asiatico si è scatenata sulla moglie Chen Aizhu, di 46 anni, e sul piccolo Wen Jun Ye. Yongquin è stato arrestato dai carabinieri pochi minuti dopo l’aggressione, proprio nel momento in cui il figlio tredicenne rincasava dalla scuola media Vida. Il ragazzo è stato affidato ai servizi sociali del comune di Cremona.
Sembra, dai primi riscontri, che poco prima del massacro ci sia stata una banale lite: lui lamentava il fatto che la moglie non avesse provveduto a recarsi a Milano per rinnovargli il passaporto che era scaduto. È stata una passante che dalla strada ha sentito urla strazianti ad avvisare con una telefonata i carabinieri. Pensava che l’uomo, scorto attraverso la porta-finestra del balcone, brandisse un bastone e così ha detto nella chiamata al comando provinciale dell’Arma. L’uomo ha colpito la moglie prima in bagno, ma i fendenti mortali le sono stati inferti in cucina dove la donna era fuggita nel disperato tentativo di salvarsi. Infine è scappata sul balcone dov’è morta. Il bambino è stato raggiunto da almeno tre colpi di mannaia. L’omicida ha aperto la porta ai carabinieri impugnando la mannaia, ma senza opporre resistenza.