sabato 13 gennaio 2018

La Stampa13.1.18
Nei giorni di Francesco i mapuche bruciano le chiese
“Simbolo di oppressione”
Alla vigilia della visita in Cile, occupata la nunziatura
di Andrea Freddi


Chiese bruciate e la nunziatura occupata. È un Cile irrequieto quello che aspetta il Papa. I mapuche riscoprono una lotta anti religiosa, mentre nella capitale, un gruppo di manifestanti ha occupato la sede apostolica per protestare contro la visita di Francesco che comincia lunedì per concludersi in Perù il 22 gennaio.
Il cuore del viaggio di Bergoglio sarà l’Araucania, una zona ad alto rischio per il secolare conflitto tra latifondisti e comunità mapuche. E a partire dal 2016 l’attivismo indigeno ha preso un’inedita sterzata anti-religiosa: periodicamente la popolazione araucana si sveglia con una chiesa in meno. I tg trasmettono le immagini dei luoghi di culto incendiati da una rabbia con origini antiche. È a Temuco, capoluogo dell’Araucania, che il Papa farà tappa nel suo viaggio in Cile. Qui si concentra il 35% della popolazione mapuche su un totale di 1,3 milioni di persone. Per la messa collettiva Francesco ha chiesto di dare spazio a una cerimonia mapuche e di pranzare con alcune autorità indigene. Ma cosa dirà nella terra delle chiese in fiamme?
«Ci si aspetta un messaggio a favore del riconoscimento dei mapuche - dice Enrique Antileo, 35 anni, antropologo di origine mapuche -. Nella popolazione esiste la coscienza di essere un popolo colonizzato. È il debito storico che lo Stato cileno ha nei nostri confronti». I mapuche sono l’unica popolazione americana che ha resistito alla conquista: dopo decenni di campagne militari la corona spagnola dovette riconoscerne l’indipendenza. Fu lo Stato cileno a sconfiggere militarmente i mapuche, alla fine del XIX secolo, con la Pacificazione dell’Araucania. Una campagna genocida che smembrò il Wallmapu, l’antica nazione mapuche, costringendo gli indigeni nelle riserve, mentre le terre più fertili erano date agli europei chiamati a «sbiancare la razza».
L’obiettivo primario dell’attivismo indigeno è recuperare le terre e ricostituire il Wallmapu. «L’elemento in comune è il riconoscimento dei mapuche come nazione» continua Antileo «le differenze sono nel quanto e nel come». Si passa dall’associazione di sindaci mapuche, che si muove all’interno delle istituzioni e chiede allo Stato una riforma federalista, alla Wam, l’organizzazione radicale che ha rivendicato i roghi delle chiese e altri atti violenti, con posizioni più indipendentiste. Fonti ufficiali parlano di oltre venti casi, tra chiese e cappelle cattoliche e templi evangelici, dal marzo 2016. Perché?
«La chiesa cattolica è vista come un dispositivo ideologico coloniale», spiega Manuela Royo, 34 anni, avvocato difensore dei mapuche contro l’applicazione della legge antiterrorismo, provvedimento attraverso cui la dittatura perseguiva la dissidenza politica. La sua applicazione contro gli imputati mapuche favorisce incarcerazioni preventive e sospensione dei diritti dell’accusato. Al centro delle accuse c’è il vescovo di Villarica, Stegmeier che ha tagliato i canali di dialogo tra Chiesa e comunità indigene. L’atto scatenante è stato lo sgombero violento di una comunità mapuche da un territorio ecclesiastico rivendicato dagli indigeni. «Anche la Chiesa ha usurpato terre ai mapuche», afferma Royo «e nell’ostruire un processo di restituzione, si è schierata dalla parte degli impresari».
Il vescovo di Villarica appartiene all’Opus Dei ed è discendente di coloni tedeschi che hanno finanziato Colonia Dignidad, enclave nazista in Araucania e luogo di tortura durante la dittatura di Pinochet. Rappresenta la parte più conservatrice della Chiesa cattolica, contrastata da numerosi parroci che convivono con le comunità indigene. Tra loro i gesuiti. Tenendo conto che Francesco è la principale carica della gerarchia ecclesiastica, ma è anche di formazione gesuita, la sua visita a Temuco suscita in Cile interesse e preoccupazione. E tanti interrogativi. Il più grande sul contenuto del suo discorso.

Repubblica 13.1.17
Il caso Orlandi
Emanuela e le verità negate “ Il Vaticano apra gli archivi”
La ragazza scomparsa nel 1983 oggi avrebbe 50 anni Lo Stato ha chiuso l’inchiesta ma la famiglia non si arrende
di Emiliano Fittipaldi


ROMA Emanuela Orlandi, fosse viva, domani festeggerebbe il suo compleanno.
Cinquant’anni tondi tondi. La ragazzina che amava Gino Paoli è nata mezzo secolo fa, all’inizio dell’anno delle rivolte studentesche. Trentaquattro anni e mezzo, invece, sono passati dall’ultima volta che Emanuela è stata vista uscire di casa, sorridente e con il flauto a tracolla, mentre cercava invano di scroccare un passaggio in moto dal fratello per andare alla scuola di musica.
Era un pomeriggio della caldissima estate del 1983. «È trascorso tanto tempo, ma sembra ieri», dice Pietro, che ha voluto realizzare, con Sky, un documentario sulla sparizione della sorella minore. «Ho deciso di farlo perché lei è diventata il simbolo delle persone scomparse.
E delle famiglie che vivono nel silenzio il loro dramma».
Il motivo per cui la storia della Orlandi è entrata nell’immaginario collettivo molto più di ogni altra vicenda analoga è noto: Emanuela era (è) una cittadina vaticana (il padre Ercole, deceduto, era impiegato alla prefettura della Casa pontificia) e la sparizione della piccola è stata collegata, fin da principio, a eventi oscuri, e presunti, della curia e della Santa Sede. Se i primi anonimi telefonisti chiesero, in cambio della ragazzina, la liberazione del turco Alì Agca (detenuto in Italia per il fallito attentato a Giovanni Paolo II del maggio del 1981), alcuni esponenti alla Banda della Magliana parlarono di un rapimento a scopo estorsivo, organizzato per ottenere la restituzione di denaro sporco investito in Vaticano dal mafioso Pippo Calò. Di presunte responsabilità ecclesiastiche si parlò anche nel 1997, quando fu scoperta l’incredibile sepoltura, autorizzata direttamente dal Vicariato di Roma del boss Enrico De Pedis, all’interno della basilica di Sant’Apollinare, mentre la pista sessuale, sempre smentita con vigore dai familiari, è stata ipotizzata recentemente da eccentrici monsignori ed esorcisti. Nonostante le infinite piste investigative seguite per trent’anni da due generazioni di magistrati, le decine inchieste giornalistiche e i colpi di scena (spesso organizzati da mitomani e depistatori), la strada verso la verità non si è fatta più agevole, ma al contrario si è via via trasformata in una matassa apparentemente inestricabile.
Eppure, la famiglia non si è ancora arresa. L’anno da poco terminato aveva portato nuove speranze, dopo che alcune fonti avevano confidato ai fratelli di Emanuela l’esistenza di un documento contabile inedito (un report apocrifo successivamente pubblicato da chi vi scrive e dal Corriere) su presunte spese effettuate dalle autorità della Santa Sede per pagare «l’allontanamento domiciliare» dell’adolescente.
Lo scorso giugno i nuovi avvocati degli Orlandi, Annamaria Bernardini de Pace e Laura Sgrò, hanno così presentato alla Segreteria di Stato istanza di accesso a tutti gli atti e i fascicoli esistenti su Emanuela, sperando di ottenere nuove tracce su cui ripartire. Finora nulla è stato consegnato. «Purtroppo non c’è niente da offrire di più di quello che è stato ripetutamente detto finora. Tutto quello che avevamo lo abbiamo condiviso con chi stava indagando» spiegò già lo scorso luglio Angelo Becciu, sostituto alla Segreteria e uomo forte di papa Francesco. «Magari avessimo una pista da indicare. Non avremmo esitato un attimo a suggerirla...
Sospettare il contrario significa contraddire la realtà dei fatti, che puntualmente sono stati illustrati ogni volta che se ne è offerta l’occasione».
La scomparsa della Orlandi è diventato uno dei misteri d’Italia più celebri ed enigmatici, però, anche a causa della scarsa trasparenza di esponenti di spicco della vecchia gerarchia ecclesiastica. La pista “interna” è stata seguita dagli investigatori senza risultati apprezzabili, ma le evidenze della cortina di silenzio eretta dal Vaticano sono molte: nel 1983 un rapporto segreto del Sisde ipotizzò come uno dei telefonisti, soprannominato dai media “l’Americano”, fosse verosimilmente «un profondo conoscitore della lingua latina, uno straniero, di cultura anglosassone, livello culturale elevatissimo, appartenente (o inserito) nel mondo ecclesiale», mentre dieci anni dopo monsignor Francesco Salerno, che lavorava alla Prefettura degli affari economici, disse ai magistrati italiani che la sparizione di Emanuela poteva a suo parere «costituire un elemento di pressione su ambienti strettamente legati al sommo pontefice», aggiungendo che era sua personale convinzione «come negli archivi della stessa segreteria fossero custoditi documenti inerenti al caso, e forse chiarificatori». Se il cardinale Silvio Oddi spiegò ai giudici istruttori di aver ascoltato due dipendenti vaticani che sostenevano di aver visto la Orlandi entrare e uscire da un’auto di lusso parcheggiata vicino da una delle entrate della città santa, il viceprefetto del Sisde Vincenzo Parisi parlando con il procuratore Giovanni Malerba disse a verbale, nel 1994, che «il costante riserbo della Santa Sede aveva di fatto precluso qualsiasi attività conoscitiva».
Anche le rogatorie internazionali non ebbero successo: i cardinali e i laici chiamati dalla procura non si fecero interrogare direttamente dai pm, ma risposero alle domande per iscritto. Tutti spiegarono di non sapere nulla.
Lo scorso novembre i legali della famiglia hanno fatto un’altra mossa, presentando una denuncia di sparizione direttamente dentro le mure leonine, così che il caso — archiviato definitivamente in Italia nel 2015 — possa essere riaperto dall’ufficio della Gendarmeria. «Da allora non abbiamo saputo più nulla», chiude la Sgrò. «So che è difficilissimo, ma non bisogna lasciare nulla d’intentato per risolvere il mistero. Per la famiglia Orlandi dimenticare Emanuela è impossibile. Nemmeno a 34 anni di distanza».

Repubblica 13.1.17
Intervista a Monsignor Becciu
“Basta illazioni la Santa Sede adesso è pronta a far consultare tutti i documenti”
Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO «Le nostre parole sono poche e povere. Certamente non si può rimanere indifferenti di fronte a un immane dolore come quello sofferto dalla famiglia Orlandi. La nostra solidarietà e la nostra preghiera va a loro, in particolar modo alla mamma di Emanuela, così duramente colpita negli affetti più cari e stremata con il terribile tormento di non conoscere quale sorte sia toccata all’amata figliola».
Così Angelo Becciu, sostituto della Segreteria di Stato vaticana, a poche ore dal giorno (domani) nel quale Emanuela Orlandi dovrebbe compiere 50 anni.
Monsignore, recentemente è uscita la notizia di una trattativa riservata tra il Vaticano e la magistratura italiana sul caso Orlandi, accennata anche nel film di Roberto Faenza “La verità sta in cielo”. Cosa dice in merito?
«Non conosco il film e tuttavia devo confermare, come è stato detto altre volte, che a noi non risulta che ci sia stata alcuna trattativa. Per che cosa poi? Negoziare cosa? La Segreteria di Stato non ha nulla da poter dare alla magistratura italiana perché già ha fornito, a tempo debito, tutte le notizie in suo possesso e, d’altro canto, niente ha da chiedere alla stessa magistratura. Non si capisce, pertanto, che tipo di trattativa ci sarebbe potuta essere. Purtroppo, come avvenuto in altre occasioni, vengono fatte delle illazioni o ipotesi fantasiose, ma mai vengono forniti dettagli certi o nomi che permettano di effettuare una puntuale verifica. Tutto è lasciato all’immaginazione di chi legge...».
Esistono degli archivi segreti sul caso custoditi in Vaticano?
«Mi creda, non esiste alcun archivio segreto. Il cosiddetto dossier, tante volte citato o invocato a sproposito, non è altro che una posizione che raccoglie le tante lettere e scritti, più o meno fantasiosi, giunti alla Santa Sede durante quel periodo.
Tutto è stato sempre trasmesso agli inquirenti italiani, che, per competenza, hanno seguito il caso nel corso degli anni. Non abbiamo alcunché da nascondere che eravamo pronti ad accogliere la richiesta della famiglia Orlandi di poter consultare la documentazione in nostro possesso. Ci siamo bloccati perché nel frattempo la famiglia Orlandi ha aderito e sostenuto l’iniziativa di qualche deputato italiano volta a chiedere la costituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sul fatto. A questo punto non ci resta che predisporci a collaborare con l’istituzione pubblica, atteso che ogni passo differente potrebbe essere visto come un intralcio al suo lavoro».
Nella scomparsa di Emanuela è direttamente implicato il Vaticano oppure no?
«Mi riesce davvero difficile pensare che uomini di Chiesa siano stati al corrente di elementi anche minimi riferentesi alla vicenda della povera Emanuela e non abbiano avuto lo scrupolo di riferirli agli inquirenti.
Davvero pensare che il Vaticano sia implicato nella scomparsa della ragazza è una teoria che si basa su sospetti privi di prove credibili».

La Stampa 13.1.18
Per Bergoglio è il viaggio più insidioso
di Andrea Tornielli


Doveva essere un tranquillo ritorno nella «sua» America Latina. Invece il viaggio in Cile e Perù che Francesco inizia lunedì rischia di essere tra i più insidiosi. L’occupazione della nunziatura è un pessimo segnale, dato che lì Bergoglio dovrà alloggiare a Santiago.
Alcuni gruppi della minoranza Mapuche, pur non essendo ostili verso la Chiesa che li ha spesso difesi, con le loro azioni violente vogliono cercano visibilità. Oltre alle polemiche per i costi della visita, ci sono motivi di risentimento verso i vescovi per la gestione dei casi di pedofilia. Irrisolta è situazione del vescovo di Osorno, Juan Barros, formatosi alla scuola del potente padre Fernando Karadima, riconosciuto colpevole di abusi su minori. Barros dice di non aver mai saputo cosa facesse il suo mentore ma la sua presenza in diocesi sta diventando insostenibile. La Chiesa cilena, che al tempo di Pinochet godeva di un grande prestigio per le sue coraggiose denunce, oggi ha perso molta credibilità nell’opinione pubblica. Per invertire la tendenza Francesco dovrà muoversi fuori dai protocolli.

il manifesto 13.1.18
Al voto con il dubbio incostituzionalità
Legge elettorale. I tribunali rallentano sui ricorsi contro il Rosatellum, la Corte costituzionale potrà a questo punto esprimersi solo dopo le elezioni del 4 marzo
di Andrea Fabozzi


Se la Corte costituzionale si occuperà del Rosatellum sarà solo dopo il 4 marzo. E dunque dopo che l’eventuale danno, nel caso anche questa legge elettorale dovesse essere ritenuta incostituzionale, sarà compiuto. Con la decisione mercoledì del tribunale di Messina di rinviare ancora un’udienza da tempo attesa (al 4 febbraio, avvocato Enzo Palumbo) e la fissazione di due ricorsi d’urgenza a Firenze (il 17 gennaio) e a L’Aquila (il 31 gennaio) – ce n’è un terzo a Roma ancora senza data perché era stato assegnato alla sezione sbagliata – è pressoché certo che anche nel caso in cui gli argomenti dei ricorrenti contro il Rosatellum dovessero essere accolti da un tribunale, non ci sarebbe il tempo perché la Corte costituzionale possa esprimersi prima delle prossime elezioni. Non è una buona notizia visto il precedente del Porcellum, giudicato incostituzionale una volta che il parlamento era già stato eletto: rischiamo un’altra legislatura condizionata dallo spettro della illegittimità.
I ricorsi urgenti firmati da deputati ex 5 Stelle e presentati dagli avvocati Solimeno e Pezone con la consulenza del costituzionalista Enzo Di Salvatore potrebbero essere decisi dal giudice anche a stretto giro, il giorno dopo l’udienza. In caso di rinvio alla Corte bisognerebbe attendere la pubblicazione dell’ordinanza sulla Gazzetta ufficiale, poi altri venti giorni per la fissazione dell’udienza. Solo nel caso in cui le parti, e dunque anche l’avvocatura dello stato che rappresenta il governo, dovessero rinunciare alla costituzione si potrebbe in teoria arrivare a un giudizio rapidissimo della Consulta entro il 4 marzo. Ma è un’ipotesi poco realistica, anche perché il presidente della Corte costituzionale Paolo Grossi è al suo ultimo mese di mandato. Qualche settimana prima della scadenza formale, la fine di febbraio, il presidente della Repubblica come da prassi comunicherà la sua scelta del nuovo giudice costituzionale – il plenum resterà comunque incompleto perché il parlamento da oltre un anno non riesce a eleggere il suo giudice. È ulteriormente improbabile che Grossi, in uscita, possa fissare una camera di consiglio, con un argomento tanto delicato, che non potrebbe presiedere. Del Rosatellum dovrà occuparsi il nuovo presidente, che dovrebbe essere Giorgio Lattanzi.
La sorte della legge si deciderà dunque quando sarà già stata utilizzate per eleggere deputati e senatori. Un elemento di precarietà del prossimo parlamento che potrebbe condizionare l’avvicinamento al voto. «Basta un’ordinanza per fare della legge elettorale il primo tema della campagna elettorale», dice l’avvocato Felice Besostri che attende notizie di altri ricorsi ordinari dai tribunali di Venezia, Trento e Trieste. Contro il Porcellum e l’Italicum ha avuto ragione lui.

Il Fatto 13.1.18
Altri tempi, altra politica, altri partiti
di Gianfranco Pasquino


La Repubblica-Bologna ha letto alcune mie dichiarazioni sul Movimento 5 Stelle raccolte e pubblicate da Il Fatto Quotidiano e muore dalla voglia di fare un bel titolo Pasquino è diventato grillino. Programma una bella intervista che, però, non comincia benissimo poiché l’intervistatrice non sa nulla del mio passato bolognese (candidatura “civica” di sinistra a sindaco nel 2008) e pazienza, ma neppure della sfrenata campagna che i suoi predecessori al quotidiano condussero contro di me e a favore di un candidato che, diventato sindaco, fu costretto a dimettersi sette mesi dopo.
Credevo che le interviste dovessero essere preparate compulsando un po’ di materiale pertinente. Peccato. L’intervistatrice non sembra del tutto convinta che sia una buona cosa avere 15 mila candidati alle parlamentarie dei Cinque Stelle. Però, a suo onore, va detto che capisce subito che il metodo del Partito democratico (a Bologna c’è poco d’altro in città) non è particolarmente eccitante né democratico. Che al plurilegislatore torinese Fassino (cinque volte in Parlamento) possa essere chiesto, come si mormora, di accettare di essere contrapposto a Bersani non sembra sia stato deciso con una qualche procedura democratica. Forse, ma gli inglesi hanno una splendida espressione, I am afraid that neppure essere ricandidati, come Sandra Zampa “in quota Prodi”, sembra il modo più adatto per esaltare la democrazia interna ai partiti.
Quanto al democristiano, mai Popolare, mai neppure Margherita, Pier Ferdinando Casini, in Parlamento dal 1983 (sì), la cui candidatura al Senato per il Pd è data quasi certa (nonostante gli ovvi “malumori”, maldipancia della mitica “base”), non risulta che abbia vinto una qualche parlamentaria oppure superato un qualsiasi test fra gli iscritti del Pd.
Già, la democrazia interna, quella cosa che il Movimento 5 Stelle dice d’avere, ma è lecito avanzare molti dubbi, non sembra, quando si discute di candidature, abitare neppure nel Pd. Consiglio all’intervistatrice di andarsi a leggere un bel disegno di legge di attuazione dell’inciso “con metodo democratico” dell’art. 49 della Costituzione italiana relativo alla vita dei partiti scritto almeno vent’anni fa da Valdo Spini. Però, sostiene flebilmente l’intervistatrice, i Cinque Stelle quasi attentano alla democrazia e alla Costituzione imponendo una penale di 100 mila euro ai parlamentari che abbandonino il loro gruppo. Comunico che mi pare una cosa brutta anche se bruttissimo è certamente il trasformismo che, incidentalmente, è sgraditissimo agli elettori italiani.
Aggiungo che bisognerebbe affrontare l’argomento cercando di capire, con qualche parere di esperto, se si tratta di un contratto privato oppure che cosa. Quanto poi ai 300 euro al mese per pagare i costi della piattaforma Rousseau, dopo essermi esibito nella critica di qualsiasi democrazia del clic, ricordo all’intervistatrice che come senatore della Sinistra Indipendente e, in seguito, dei Progressisti versavo regolarmente ogni mese al Pci (e poi al Pds), che mi aveva candidato e i cui elettori mi avevano votato, tre volte più di 300 euro. Inoltre, contribuivo con i fondi a disposizione dei parlamentari a un certo numero di iniziative del partito sul territorio. Questo è quel che ho detto nell’intervista che, senza nessuna mia sorpresa, Repubblica-Bologna non ha pubblicato.
Qui aggiungo, a completamento del discorso sui costi della politica, che in tutte le mie campagne elettorali ritenni opportuno e doveroso coprire parte dei costi. Nelle mie tre legislature non cambiai gruppo parlamentare. Quanto all’espressione e all’accettazione del dissenso, nella Sinistra Indipendente non c’era nessuna disciplina di voto e spesso espressi un voto in dissenso dal mio gruppo (o il gruppo votò in dissenso da me!). Neppure quando votai in maniera differente dal gruppo del Pci sulla prima guerra del Golfo e, per esempio, D’Alema mi fece sapere che mi ero collocato alla destra del sen. democratico Sam Nunn, a qualcuno venne in mente che dovevo andarmene.
Concludo ricordando che, in materia di accettazione, persino valorizzazione del dissenso, dal segretario del Pci di allora Alessandro Natta ricevetti una comunicazione face-to-face su un argomento allora (sic) molto delicato: “non sono d’accordo a fuoriuscire dal proporzionale, ma tu vai avanti con le tue idee”.
Altri tempi, altri partiti, altra classe politica.

Corriere 13.1.18
Asse sul Lazio ma non in Lombardia La sinistra respinge gli appelli dem
Via alla trattativa Grasso-Zingaretti. A Milano Liberi e uguali punta su Rosati
di Monica Guerzoni


ROMA «L’assemblea di Milano ha detto no a Giorgio Gori, ma da qui al 28 gennaio tutto può ancora succedere...». La frase lasciata cadere dallo sherpa di Sinistra italiana Paolo Cento conferma che la porta delle Regionali, che divide il Pd dalla sinistra di Pietro Grasso in Lombardia, non si è ancora del tutto chiusa. «Spero che uno spiraglio di trattativa ancora ci sia, perché noi non nutriamo pregiudiziali e vogliamo che il no sia politicamente spiegato», è il messaggio di Miguel Gotor ai «compagni lombardi».
Per adesso è la linea del doppio binario a riportare la pace dentro Liberi e uguali, ma la politica si fa giorno dopo giorno, notte dopo notte e nulla, nemmeno un niet che sembra scolpito nel marmo, può dirsi scontato. «Sul nazionale non c’è accordo, credo che se in Lombardia e Lazio c’è l’accordo su Gori e Zingaretti sia un fatto positivo — spera ancora Matteo Renzi a Radio Anch’io —. Ma non sono in grado di influenzare un partito che notoriamente non mi ama».
In Lombardia la sinistra corre da sola e candida il consigliere regionale Onorio Rosati. Nel Lazio invece l’intesa è ormai blindata. Dopo tre ore di (sofferta) assemblea i Liberi e uguali della Regione governata da Zingaretti affidano a Grasso il mandato di incontrare il presidente uscente, per verificare le condizioni di un accordo. L’incontro, trapela dallo staff del presidente, «potrebbe avvenire anche oggi stesso».
La decisione di sostenere il candidato del Nazareno è presa da giorni, ma Grasso non vuole scavalcare i livelli locali e procede per gradi. «Fatemi entrare e vedrete — risponde ai giornalisti mezz’ora dopo le sei del pomeriggio, sull’uscio della sala di via Buonarroti —. Ascolterò e rispetterò quello che sarà detto in assemblea». Il primo atto è la proposta di portare «i punti programmatici a un confronto serrato», scandita tra gli applausi dal presidente dell’assemblea Piero Latino.
Segue dibattito difficile, con Stefano Fassina che avverte: «Se facciamo l’ammucchiata attorno al Pd senza una discontinuità non portiamo un voto». I più arrabbiati sono i delegati di Si, che invocano un «confronto duro» su sanità, piano rifiuti, cura del ferro, un’azione «più incisiva» sulle crisi aziendali e reddito minimo garantito per i lavoratori espulsi dal ciclo produttivo. Alle 21, dal palco, Grasso ufficializza il via libera: «Faccio mie le richieste dell’assemblea, andrò a parlare con Zingaretti per avere conferme su programma e profilo della coalizione».
A Cinisello Balsamo, dove si tiene l’assemblea lombarda, la tensione nei confronti dei democratici è tanta e quando prende la parola il capogruppo di Mdp alla Camera, Francesco Laforgia, parte la bordata verso i padri nobili del centrosinistra: «Il loro appello mi ha strappato un sorriso amaro, perché si fanno gli appelli ma non si muove mai una critica verso chi ha devastato quel campo». Applausi. E quando Laforgia lancia la candidatura di Onorio Rosati, scatta la standing ovation .
Per Giorgio Gori è una porta in faccia, che arriva dopo giorni di critiche pesanti da parte degli alleati mancati. Gli hanno dato del «Renzusconi», gli hanno rimproverato di avere scarsa etica pubblica per l’intenzione di lasciare lo scranno di sindaco di Bergamo, lo hanno bacchettato per lo slogan «Fare, meglio», in cui hanno visto una continuità con la giunta Maroni. Il candidato rivendica lo slogan della sua campagna elettorale: «A me sembra soltanto un pretesto». E poi, a conferma che la delusione è tanta: «Gli elettori di Liberi e uguali sono meglio dei loro dirigenti».

il manifesto 13.1.18
I pm: indagare ancora su Lotti e Tiziano Renzi
Inchiesta Consip. La procura di Roma chiede una proroga di sei mesi per 12 protagonisti del caso, compresi il generale Del Sette e Saltalamacchia
di Adriana Pollice


Il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo e il pm Mario Palazzi hanno chiesto al gip Gaspare Sturzo una proroga di sei mesi delle indagini che coinvolgono 12 protagonisti del caso Consip. L’atto è stato depositato il 19 dicembre ma la notizia è stata diffusa ieri. Ci sono 5 giorni dalla notifica per presentare una memoria difensiva. Se la domanda verrà accolta, ulteriori accertamenti verranno fatti su Luca Lotti: il renzianissimo ministro dello Sport, a cui il segretario dem ha affidato il compito di soprintendere alla compilazione delle liste per le politiche, è accusato di rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento. L’iscrizione nel registro degli indagati avvenne il 21 dicembre 2016 da parte dei pm di Napoli Henry John Woodcock e Carrano, subito dopo il fascicolo passò per competenza a Roma. A tirarlo in ballo fu l’ex ad di Consip, Luigi Marroni: disse ai pm di aver ordinato la bonifica del suo ufficio dalle cimici (messe dalla procura di Napoli) perché aveva appreso «in quattro differenti occasioni da Filippo Vannoni, dal generale Emanuele Saltalamacchia, dal presidente di Consip Luigi Ferrara e da Lotti di essere intercettato».
Gli inquirenti ascoltarono come testimone anche il presidente di Publiacqua Firenze, Vannoni, altro membro del Giglio magico, che ammise: «Fu Lotti a dirmi che c’era un’indagine su Consip. Il presidente Renzi mi diceva solo di ‘stare attento’ a Consip». La deposizione di Vannoni ha però messo nei guai Woodcock e Carrano: venerdì prossimo davanti al Csm dovranno difendersi dall’accusa di inescusabile negligenza, «una grave violazione dei diritti di difesa».
Ai due pm viene contestato di non aver iscritto subito nel registro degli indagati Filippo Vannoni, come accaduto per gli altri nomi elencati da Marroni. Così, in qualità di semplice testimone, si è presentato in procura senza avvocato. Approdata a Roma l’inchiesta, il manager toscano è stato effettivamente indagato per favoreggiamento ma nel suo interrogatorio alla procura capitolina ha attenuato le dichiarazioni su Lotti.
Proroga di sei mesi chiesta anche per il comandante generale dei carabinieri, Tullio Del Sette (avrebbe informato Ferrara), e il comandante della legione Toscana dell’Arma, Saltalamacchia, indagati come Lotti per la fuga di notizie: «Sono in corso le attività istruttorie volte a ricostruire la catena di comunicazione all’interno della struttura gerarchica». Saltalamacchia, in particolare, durante una cena da Tiziano Renzi, padre dell’ex premier, in cui era presente anche il sindaco di Rignano, avrebbe detto al padrone di casa: «Non parlare con Alfredo Romeo».
Stessa richiesta di proroga anche per Tiziano Renzi, l’amico Carlo Russo e Romeo: i primi due avrebbero fornito il loro appoggio al terzo per fargli vincere tre lotti dell’Fm4, l’appalto bandito da Consip. Supplemento di indagini anche per l’ex parlamentare del Pdl Italo Bocchino che era diventato consulente di Romeo. I pm romani spiegano: «Sono in corso riscontri sui tabulati telefonici e raccolta di informazioni da parte di persone informate sui fatti». Infine, nelle lista ci sono anche l’ad di Grandi Stazioni Silvio Gizzi, l’ex ad di Consip Domenico Casalino, l’ex presidente di Consip Ferrara, il dirigente Francesco Licci. Questo filone è una diramazione dell’inchiesta principale ed espande il raggio delle indagini a Grandi Stazioni: «Sulle ipotesi di turbativa delle gare indette da tali stazioni appaltanti, è in corso una complessa attività di analisi della documentazione acquisita e di raccolta informazioni».

Corriere 13.1.18
I 5 Stelle salgono, Pd in calo Forza Italia, Lega e FdI avanti ma «perdono» 12 deputati
Maggioranza distante 47 seggi. Elettori freddi sugli annunci
di Nando Pagnoncelli


La campagna elettorale sta rapidamente entrando nel vivo: si sono costituiti nuovi soggetti politici e altri potrebbero presentarsi, si stanno delineando le coalizioni, annunci e promesse proliferano, si fanno le prime ipotesi di candidature nei collegi, si pongono veti su possibili alleanze postelettorali.
Pur con la doverosa cautela dovuta alla presenza di molte, troppe incognite — dalla formalizzazione delle alleanze, a quella delle candidature nei collegi uninominali e della leadership del centrodestra e del centrosinistra — con il sondaggio odierno abbiamo voluto aggiornare gli orientamenti di voto degli italiani. Lo scenario che emerge continua a non sciogliere i dubbi sulla possibile maggioranza di governo e fa registrare piccoli scostamenti rispetto ad un mese fa.
In dettaglio: indecisi e astensionisti si attestano al 34%, con la nuova legge elettorale il centrodestra si conferma in testa con il 35,9% delle preferenze — sommando i consensi per Forza Italia (16,5%), Lega (13,8%), Fratelli d’Italia (4,7%) e le altre liste raggruppate nel simbolo Noi per l’Italia (0,9%) — seguito dal Movimento 5 Stelle, primo soggetto politico con il 28,7% (+ 0,5%), e dal centrosinistra che nell’insieme raggiunge il 27,5% con il Pd al 23,1% (-0,2%), Civica popolare all’1,8%, Insieme all’1,4% e, sempre ammesso che la lista di Emma Bonino entri in coalizione, +Europa all’1,2%. Gli alleati consentono al Pd di compensare il calo di consensi registrato: in base al meccanismo previsto dal Rosatellum, le forze coalizzate che superano l’1% ma non raggiungono il 3 conferiscono i loro voti al partito principale. Liberi e Uguali di Pietro Grasso è accreditata del 6,4%. Le altre liste (Rinascimento, CasaPound, ecc.) al momento raccolgono poco meno dell’1% dei voti validi.
Sulla base di questi risultati, che si sommano alle precedenti rilevazioni per un totale di 46.000 interviste opportunamente ponderate, il centrodestra risulterebbe complessivamente avere 269 seggi (-12 rispetto a dicembre), seguito dal Movimento 5 stelle, accreditato di 169 seggi (+11), dal centrosinistra con 152 (+1) e da Liberi e Uguali, stabile a quota 27. Pur non potendo escludere in prospettiva una maggioranza di centrodestra, in considerazione della cosiddetta «soglia implicita» (rappresentata del 40% dei voti validi e dall’affermazione in circa il 70% dei collegi uninominali), la coalizione in vantaggio è ancora distante (47 seggi) dalla maggioranza assoluta di 316 deputati.
Cosa potrebbe modificare gli orientamenti di voto degli italiani nelle prossime settimane? La questione è davvero complessa per almeno un paio di motivi. Innanzitutto la crescente distanza dei cittadini dalla politica dovuta non solo allo scetticismo e alla disillusone crescente ma anche alla progressiva minore importanza attribuita alla politica che, a differenza del passato, oggi rappresenta un frammento dell’identità delle persone, peraltro nemmeno il più importante. Ne consegue che molti cittadini ignorano o seguono distrattamente l’attuale campagna elettorale e, come abbiamo potuto riscontrare negli ultimi anni, si concentreranno sulle scelte di voto negli ultimi giorni. In questa fase, pertanto, nei sondaggi risultano penalizzati i nuovi soggetti politici che necessiterebbero di più tempo per affermare la loro proposta. E, sullo sfondo, aleggia come sempre lo spettro del «voto inutile» ossia il timore di molti elettori potenziali dei partiti minori di sprecare il proprio voto e la conseguente propensione a rinunciare a votare per un partito giudicato più vicino ma destinato a un risultato marginale a favore di un partito più competitivo anche se più distante.
Il secondo motivo riguarda i contenuti della campagna elettorale. Per quanto si è visto finora, si sono per lo più moltiplicate promesse di vario tipo, molte delle quali contestate soprattutto per la loro impraticabilità tenuto conto del possibile impatto negativo sulle finanze pubbliche. Molti degli annunci ascoltati in questi giorni sembrano estemporanei, avulsi da programmi o proposte organiche; sembrano battaglie di retroguardia, guidate dal cosiddetto «microtargeting»: si individua un segmento di elettorato, se ne studiano le aspettative, le paure, le idiosincrasie, i bisogni, e ad esso si indirizzano single promesse. Ma siamo sicuri che i cittadini ci credano e modifichino le proprie scelte? E siamo sicuri che gli elettori si aspettino solo «proposte concrete» e la risoluzione dei loro problemi, come se la politica fosse una sorta di amministrazione di un condominio? A giudicare dalla sostanziale stabilità degli orientamenti di voto sembrerebbe di no. Quello che sembra mancare è la visione del futuro, è un’idea di Paese. Forse i cittadini si meritano qualcosa di più che singoli annunci spesso accompagnati da toni sguaiati.

il manifesto 13.1.18
L’estrema destra nel direttivo del memoriale dell’Olocausto
Germania. Lo statuto della Fondazione, redatto nel 2000, quando sembrava impensabile che neonazisti ed estremisti di destra potessero entrare nel parlamento nazionale, prevede infatti che ogni forza politica possa nominare un proprio rappresentante negli organi direttivi: opportunità di cui l’AfD ha già fatto sapere che intende avvalersi
di Guido Caldiron


È una delle prime conseguenze del risultato avuto dall’Alternative für Deutschland lo scorso settembre: quel 12,6%, pari ad oltre 6 milioni di voti, che ne ha fatto la terza forza politica del paese. Su quella base, gli eletti dell’estrema destra si stanno insediando in tutte quelle istituzioni pubbliche le cui nomine spettano al Bundestag. Come per la Fondazione che gestisce il Monumento alla memoria delle vittime dell’olocausto, e il relativo centro di informazione sotterraneo, inaugurati nel 2005 non lontano dalla Porta di Brandeburgo, nel cuore di Berlino.
Lo statuto della Fondazione, redatto nel 2000, quando sembrava impensabile che neonazisti ed estremisti di destra potessero entrare nel parlamento nazionale, prevede infatti che ogni forza politica possa nominare un proprio rappresentante negli organi direttivi: opportunità di cui l’AfD ha già fatto sapere che intende avvalersi.
Di fronte a questo rischio, tra i responsabili della Fondazione cresce l’allarme. La prima ad intervenire è stata la giornalista Lea Rosh, tra le figure pubbliche più attive nel sostegno al progetto di costruzione del Memoriale. «Il programma dell’AfD è talmente ostile alla democrazia che l’ingresso di questo partito nella Fondazione deve essere evitato a qualunque prezzo», ha dichiarato Rosh prima di rivolgersi all’ex ministro della Cdu, Wolfgang Schäuble, che in quanto presidente del Bundestag siede anche alla guida dell’organismo che gestisce il Memoriale, perché intervenga.
A suscitare ulteriore sconcerto c’è anche il fatto che proprio l’opera dedicata alla vittime della Shoah è già finita nel mirino della destra. Nel 2015, Björn Hocke, uomo forte dell’AfD in Turingia, aveva definito addirittura il Memoriale come «il monumento della vergogna». La leader del partito in quella fase, Frauke Petry, aveva chiesto, senza riuscirci, l’espulsione di Hocke, sostenuto invece dai nuovi vertici dell’AfD, in particolare da Alexander Gauland ed Alice Weidel. Proprio Gauland ha rincarato la dose durante la campagna per le politiche, sostenendo che dobbiamo «essere fieri dei risultati dei nostri soldati durante la Seconda guerra mondiale».
Del resto, le continue sortite in spregio ad ogni verità storica e dal tono ultranazionalista, oltre ai continui rimandi espliciti al razzismo, stanno accompagnando anche nelle ultime settimane le prese di posizione degli esponenti dell’AfD. Così, il deputato Jens Maier è entrato a far parte del consiglio dell’Alleanza per la democrazia e la tolleranza, organismo pubblico che riunisce associazioni e ong che operano per il dialogo inter-comunitario, malgrado avesse definito il figlio della leggenda del tennis Boris Becker come un «mezzo negro». Allo stesso modo, il candidato del partito al posto di vice-presidente della Camera, Albrecht Glaser, ha chiesto che i musulmani che vivono in Germania siano privati di ogni diritto religioso loro consentito dalla Costituzione. E a riprova che l’ingresso in parlamento ha tutt’altro che ridotto il potenziale offensivo e radicale del partito, come alcuni osservatori sembravano credere, solo pochi giorni fa una eletta berlinese, Franziska Lorenz-Hoffmann, ha diffuso via Facebook un manifesto di propaganda del III Reich, poi rimosso, che affermava, «donna tedesca, preserva la purezza del tuo sangue, gli stranieri non devono toccarti».
Per il politologo Anjo Funke dell’Università libera di Berlino, «non siamo in presenza di una deriva occasionale, ma di una vera e propria strategia di radicalizzazione che mira a integrare i neonazisti e i settori più estremi nell’AfD».

La Stampa 1.1.18
Messaggi sui social con gli studenti
gli insegnanti rischiano sanzioni
La norma prevista nel nuovo contratto. No dei sindacati: Fb e WhatsApp fanno parte della vita
di Flavia Amabile


Si parla anche dei social e del loro uso nel nuovo contratto degli insegnanti su cui stanno trattando da dieci giorni sindacati e Aran. L’ultimo incontro si è tenuto giovedì ed è finito ancora con un nulla di fatto. Per il momento la distanza tra le parti è tale da non aver trovato un accordo nemmeno sul metodo della trattativa. Non si è discusso delle misure che, però, sono comunque state in parte presentate e secondo i sindacati sono «irricevibili».
Impossibile immaginare di sanzionare le comunicazioni via Facebook o WhatsApp tra docenti e alunni che rappresentano uno strumento di vita quotidiana, sostengono i sindacati. Già oggi se si abusa di questi strumenti arrivano denunce e provvedimenti, prevederne altri per il solo contatto diventerebbe un vincolo che non terrebbe conto delle nuove esigenze del mondo della scuola.
Sul tavolo della trattativa, infatti, fra le altre misure è finita anche quella che prevede che i professori che conversano, scherzano o semplicemente comunicano su Facebook e Whatsapp con i loro alunni, al di là delle informazioni strettamente legate alla didattica, rischiano, in futuro, di essere sanzionati. Soltanto la Cisl usa toni concilianti. «Dare delle regole su questi temi è inevitabile ma tutto questo rientra nell’etica e nella professionalità della categoria, non mi scandalizza. Quello che mi preme è che però la discussione entri nel merito di tutto il resto della figura professionale dei docenti, dai nuovi profili alle prospettive di carriera per superare la situazione attuale che fa sì che i docenti italiani siano fra i meno pagati», commenta la segretaria generale della Cisl Scuola Maddalena Gissi. Oltretutto, aggiunge, questa richiesta fa parte del nuovo codice comportamentale per le pubbliche amministrazioni.
Francesco Sinopoli, segretario generale della Flc Cgil si limita a sottolineare che «il problema è l’atteggiamento dilatorio tenuto finora dall’Aran che impedisce alla trattativa di partire». Per Pino Turi, segretario generale della Uil Scuola «è impossibile pensare di partire in una trattativa con gli aspetti punitivi. Ed è impensabile porre delle rigidità, il mondo è totalmente cambiato dall’ultima volta che è stato firmato un contratto. I social sono parte della vita di tutti».
Molto critici Anief e Usb . Per l’Usbsi tratta di una misura «assurda» e «si comincia male: controllare, sorvegliare e punire». Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda-Insegnanti: «Una misura che sparirà di sicuro altrimenti non ci sarà speranza di firmare il contratto. Ma nella mia lunga esperienza di trattative so che durante i primi incontri spesso ci sono misure destinate solo a pesare come merce di scambio nel negoziato».
Le sanzioni sui rapporti social non sono le uniche. Come denuncia l'Anief «si vuole introdurre la possibilità di far assegnare, direttamente dal capo d’istituto, multe pari fino a 4 ore di lavoro e la sospensione dal servizio fino a 10 giorni lavorativi».

Corriere 13.1.18
Il compromesso storico del Duce
Malgrado la retorica il fascismo fu un regime «imperfetto» che tutelò le burocrazie preesistenti
di Sabino Cassese


Arturo Bocchini, il potente ed efficiente capo della polizia di Mussolini dal 1926 al 1940 (anno della sua morte), l’autore delle azioni repressive di massa che godeva della piena fiducia del Duce, aveva fatto una brillante carriera al servizio dei leader liberali, era un uomo d’ordine tra i migliori che avesse prodotto la tarda età giolittiana. Come lui, molti altri uomini, e moltissime istituzioni dello Stato liberale, continuarono nello Stato fascista. Ci si può, quindi, chiedere: è esistito un vero e proprio Stato fascista, oppure esso è la corruzione di quello liberale?
In realtà, lo Stato che chiamiamo fascista fu organismo fatto di molti materiali, più complesso del regime totalitario che la storiografia ha spesso rappresentato, più permeabile e più compromissorio. Non un regime monolitico, né totalizzante. Un sistema che cercò di imporsi alla società, ma che invece accettò molti compromessi con essa. Ne fecero parte governo personale di Mussolini, oligarchie, potentati locali, notabili e figli della trincea, classe dirigente liberale e fascisti, centralismo e ambiente locale. Fu una «macchina imperfetta», come lo definì un mese prima di morire, nel 1943, il giovanissimo Giaime Pintor.
Su questa realtà complessa ha ora scritto un libro magistrale lo storico Guido Melis ( La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista , il Mulino), un libro che si colloca a pieno titolo accanto all’altro grande studio sul fascismo, la biografia mussoliniana di Renzo De Felice. Quella di Melis è una indagine in profondità, sapientemente costruita, che scava nei meandri del fascismo e mette in luce quello che covava sotto la sua facciata fastosa, un esame puntuale dall’interno della macchina statale (le strutture, gli uomini, l’estrazione sociale, la formazione, le carriere, la cultura, le retribuzioni, lo stile di gestione). Accanto a questa, nel libro sono passate in rassegna le opere del regime, la letteratura che rifletteva l’epoca (Carlo Levi, Moravia, Brancati, Alvaro, Vittorini, Pavese, Gadda), i giuristi che accompagnarono o criticarono il regime (Orlando, Ranelletti, Cammeo, Santi Romano, Costamagna, Mortati, Giannini), l’oratoria e lo stile del fascismo, le regole del suo funzionamento, fino ad arrivare a dettagli significativi, quali le persone che Mussolini riceveva o i repentir del Duce.
Tutto questo è scritto da Melis con una tecnica che passa sempre dal quadro d’insieme ai primi piani, e con un occhio alla storiografia, per cui il lettore non è guidato soltanto alla comprensione dello Stato fascista, ma anche alla conoscenza della ormai vastissima letteratura sul fascismo.
Il libro è diviso in quattro parti, dedicate a governo e amministrazione, partito, leggi e istituzioni, economia pubblica. Nella prima Melis mette in luce la continuità degli uomini (salvo poste e ferrovie) con il regime precedente e la persistenza di prassi antiche (ad esempio, abuso della decretazione d’urgenza, precariato ministeriale, ruolo importante dei prefetti), sotto la guida di Mussolini, che svolse una incisiva attività direttiva, con ingerenza continua e minuta nell’amministrazione. Il fascismo governò con gli alti funzionari del periodo prefascista (in particolare, i tecnici dei settori demografico, statistico, delle opere pubbliche e di bonifica). Il programma del «burocrate in camicia nera» non fu concretamente realizzato, anche se il fascismo lasciò un’impronta sulla burocrazia, nel senso dell’accentramento e dello spirito compromissorio.
Il Partito fascista, rapidamente attratto nello Stato e costituzionalizzato, divenne una «macchina dell’inclusione», malato di gigantismo, centralistico e finanziato dallo Stato.
Una buona parte della legislazione si nutrì di idee estranee al fascismo. Il Parlamento venne spinto fuori scena e i rapporti con i grandi corpi furono all’insegna del compromesso. Il Consiglio di Stato fu sia garante della fedeltà dell’istituzione al fascismo, sia garante dell’autonomia del Consiglio di Stato dal fascismo. Lo stesso può dirsi del rapporto tra fascismo e forze armate: venne lasciata mano libera ai militari, a patto della loro fedeltà al regime.
Infine, nel periodo fascista vennero istituiti 300 enti pubblici in cui nuove burocrazie, burocrazia ministeriale e dirigenti di aziende private furono intrecciati; alla retorica rivoluzionaria del corporativismo corrispose la pratica compromissoria della sua esperienza storica, mentre lo Stato imprenditore, dove il fascismo contò poco, veniva edificato quasi in segreto.
Questa breve sintesi dà conto solo di alcuni temi di questa «storia totale» del fascismo, una «foto di gruppo» che abbraccia società e Stato e si colloca nel filone storiografico per il quale il fascismo è stato una degradazione dello Stato liberale-autoritario precedente.

Repubblica 12.1.18
Intervista a Cofferati
“Mi ricandido no alla solfa del voto utile i dem ormai sono di centro”
di Matteo Pucciarelli


GENOVA «Siamo alternativi al Pd, se facciamo l’accordo rischiamo di non apparire coerenti», dice Sergio Cofferati. L’ex segretario generale della Cgil, ora (probabile) candidato con Liberi e Uguali, boccia la possibile intesa con il Pd in Lombardia e Lazio.
Mai e poi mai?
«Con Zingaretti la sinistra governava già e quindi la situazione è più complessa e siamo alle prese con una contraddizione. Penso che un eventuale accordo dovrebbe avere delle valide ragioni programmatiche. Che però non mi pare di vedere neanche lì».
Renzi dice: votare Leu fa
Scendo in campo perché mi hanno chiesto di dare una mano Se sarò eletto alle politiche lascerò l’Europarlamento
vincere la Lega. Come risponde?
«Il Pd non è più un partito di sinistra, ma di centro. E il richiamo al voto utile è una solfa ripetitiva.
Comunque il favore alla Lega lo fa proprio il Pd quando dice che legge Fornero e Jobs act non sono riformabili».
Senta, ma come nasce la sua ricandidatura?
«I direttivi genovesi e liguri di Sinistra Italiana hanno chiesto la mia disponibilità e l’ho data».
Lei è parlamentare europeo.
«Sì, dovessi venire eletto mi dimetterei. Ma ripeto: sono a disposizione, non mi sono mai proposto da solo...».
Però a sinistra i giovani fanno fatica ad emergere, non crede?
«È vero e dipende anche dalle leggi elettorali. Nei collegi uninominali conta molto la propria storia e notorietà. L’ideale sarebbe un mix tra esperienza dei “grandi” ed energia delle nuove leve».
Ma non è che il giorno dopo il voto Leu si spaccherà? Già adesso sulle regionali le fibrillazioni sono molte.
«Penso che al nostro interno si senta il peso delle storie pregresse e questo crea dialettica e tensioni. Il giorno dopo le elezioni andrà fatto uno sforzo per far partire una storia nuova, mettendo da parte il vissuto precedente di tutti».
Pensare che adesso lei si ritrova in una lista insieme a D’Alema, suo “nemico” ai tempi dei Ds.
«Se è per questo mi ritrovo anche con qualche antagonista che mi contestava in piazza quando ero sindaco di Bologna».
E le fa effetto?
«No, lo trovo stimolante invece».
Si è mai pentito di non aver “conquistato” la sinistra dopo la grande manifestazione del Circo Massimo del 2002?
«Mah, vale ciò che dicevo prima, allora i dirigenti dei Ds mi chiesero di dare una mano a Bologna e mi misi a disposizione».
Però fu anche uno dei primi a lasciare il Pd, tre anni fa.
«Sì, perché mi accorsi della mutazione di un partito che aveva rapporti espliciti con la destra».

Corriere 12.1.18
La mossa di Ig Metall sull’orario: «Va ridotto a 28 ore la settimana»
Effetto Trump per Walmart: bonus da mille dollari e paga minima a 11 dollari
di Rita Querzé


«L’orario di lavoro è mio e lo gestisco io». Potrebbe essere questo il nuovo slogan dell’Ig Metall, primo sindacato tedesco con 2,3 milioni di iscritti su 3,9 milioni di lavoratori del macrosettore manifatturiero (metalmeccanici, ma anche tessili e addetti della plastica e del legno). Con il rinnovo del contratto, infatti, Ig metall chiede un aumento degli stipendi del 6% (a fronte del 2% offerto dalle imprese tedesche). Ma anche la possibilità di autoridursi l’orario da 35 a 28 ore la settimana senza via libera aziendali.
Nell’idea delle tute blu tedesche, la riduzione dovrebbe essere reversibile e durare al massimo due anni. L’obiettivo principale? Agevolare lavoratori e lavoratrici con compiti di cura. «L’attuale organizzazione del lavoro impedisce lo sviluppo professionale di molti dipendenti — argomenta Jörg Hofmann, alla guida della Ig Metall dal 2015 —. Il fatto che le donne siano ancora solo il 20% è anche il risultato di questo stato di cose». Il leader delle tute blu tedesche tiene anche a sottolineare che «la nostra proposta non deve avere come risultato il sovraccarico lavorativo dei colleghi ma la creazione di occupazione». Come dire: niente straordinari in più per chi resta a tempo pieno ma nuovi ingressi in azienda.
Con la proposta del taglio di orario il sindacato tedesco sembra già preventivamente attrezzarsi rispetto all’impatto della quarta rivoluzione industriale: le fabbriche 4.0 avranno bisogno di meno lavoratori, anche se più specializzati.
Nonostante il rito tedesco delle relazioni industriali basato sulla cogestione — Ig Metall accettò sacrifici in molte fabbriche al momento della crisi — la trattativa oggi si preannuncia complessa. Gli imprenditori non considerano l’orario di lavoro un elemento negoziabile. Il sindacato ha intensificato gli scioperi coinvolgendo circa 160 mila addetti in una serie di aziende come Siemens, Caterpillar, Daimler, Airbus, Mercedes e Miele. Ma si potrebbe arrivare allo sciopero nazionale. D’altra parte Ig Metall non è nuova a battaglie sull’orario: è stato il primo sindacato europeo a contrattare le 35 ore. Intanto negli Usa più che sull’orario si punta sullo stipendio. Walmart progetta di premiare i dipendenti con bonus da mille dollari e aumento del salario minimo a 11 dollari.

Il Fatto 12.1.18
Céline può attendere: gli scritti antisemiti restano nel cassetto
Francia - Gallimard voleva pubblicare in unico volume le opere razziste Dopo l’allarme della comunità ebraica il governo consiglia prudenza
Céline può attendere: gli scritti antisemiti restano nel cassetto
di Luana De Micco


Anche se è passato più di mezzo secolo dalla sua morte, Louis-Ferdinand Céline, geniale scrittore del Viaggio al termine della notte da un lato, virulento antisemita dall’altro, continua a mettere a disagio la Francia. Il suo nome è spesso fonte di nuovi scandali. Questa volta la polemica ha riguardato la decisione dell’editore Gallimard di pubblicare in un unico volume, dal titolo Écrits polémiques, i tre pamphlet antisemiti di Céline: Bagattelle per un massacro (del 1938), La scuola dei cadaveri (1939) e La bella rogna (1941). I testi più raccapriccianti in cui lo scrittore ha sputato tutto il suo odio per gli ebrei.
Lui stesso, dopo la guerra, ne aveva vietato la ristampa. Questa volta però la vedova, Lucette Destouches, 105 anni, che continua a vivere nella casa di Meudon, aveva dato il suo assenso al progetto di Gallimard. Pare per ragioni economiche poiché, stando al suo avvocato, deve affrontare importanti spese mediche. In ogni caso non si trattava di dare i testi nudi e crudi nel loro orrore ai lettori. L’editore, che ha detto di ispirarsi a un’edizione critica canadese del 2012, avrebbe affidato l’introduzione allo scrittore Pierre Assouline e le note a Régis Tettamanzi, specialista riconosciuto dell’opera di Céline. Un po’ come è stato fatto in Germania per il Mein Kampf, ripubblicato nel 2016 in una nuova edizione commentata (una versione francese del manifesto nazista di Hitler è invece in stand by dall’editore Fayard). Ma di fronte all’accesa polemica scoppiata in Francia, la prestigiosa casa editrice ha deciso di fare marcia indietro e ieri ha annunciato la “sospensione” del progetto.
Bisogna dire che la questione era persino finita sul tavolo del governo. Il primo ministro Edouard Philippe non si era detto contrario all’idea, a condizione che il lavoro venisse fatto con coscienza: “Ci sono buone ragione per detestare l’uomo, ma non si può ignorare lo scrittore”. Ma prima di Natale Antoine Gallimard era stato convocato al governo. Frédéric Potier, delegato interministeriale per la lotta contro i razzismi, voleva assicurarsi che il futuro volume offrisse “le garanzie necessarie per chiarificare il contesto ideologico” in cui i testi erano stati scritti.
In una lettera all’editore, Potier si preoccupava per “i rigurgiti antisemiti” che crescono in Francia. Alcuni storici hanno ricordato che gli odiosi libelli erano stati il “vademecum degli antisemiti”. Per altri rappresentavano un “regalo” all’estrema destra.
C’è stato poi il grido della comunità ebraica di Francia. Il noto avvocato Serge Klarsfeld, figlio di deportati, detto il “cacciatore di nazisti”, ha minacciato l’editore di portarlo in tribunale: “Questo progetto è un aggressione agli ebrei di Francia”, ha detto. Era stato proprio l’intervento di Klarsfeld, nel 2011, a convincere l’ex ministro della Cultura, Frédéric Mitterrand, a rinunciare alle celebrazioni ufficiali per i 50 anni dalla morte di Céline. In un primo tempo Gallimard aveva denunciato “un processo alle intenzioni”. Il volume era solo allo stadio di progetto e nessuna data di pubblicazione era stata avanzata.
Gallimard ha cominciato a pubblicare Céline nella sua prestigiosa collana Pléiade, contribuendo così a rilanciarne l’opera, sin dal 1961, anno della morte dello scrittore, condannato all’indegnità nazionale dopo la guerra e rientrato in Francia, strappando un’amnistia, nel 51, a fare il “medico dei poveri”. Ieri l’editore ha gettato la spugna: “In nome della mia libertà di editore e della mia sensibilità – ha scritto Antoine Gallimard in una nota – sospendo il progetto, perché ritengo che manchino le condizioni metodologiche e memoriali per svilupparlo serenamente”.

Repubblica 12.1.18
Francia
Céline, Gallimard ci ripensa bloccati i testi antisemiti
di Anais Ginori


PARIGI
Alla fine non saranno pubblicati i pamphlet antisemiti di Louis-Ferdinand Céline.
Gallimard ha rinunciato ieri al progetto editoriale annunciato nei mesi scorsi. La casa editrice voleva riprendere l’edizione canadese con le note critiche curate dal professore Régis Tettamanzi nel 2012, aggiungendo una prefazione dello scrittore Pierre Assouline.
La notizia della riedizione in un unico volume dal titolo Écrits polemiques (Scritti polemici), di Bagatelle per un massacro (1937), La scuola dei cadaveri (1938), La bella rogna (1941), mai ripubblicati dopo la fine della Seconda guerra mondiale, era stata accolta dalle reazioni allarmate del Crif, il Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche, della Lega internazionale contro il razzismo e l’antisemitismo (Licra), dello storico Serge Klarsfeld, preoccupati per gli elementi di «incitamento all’odio» contenuto nei testi.
Con un gesto inedito, il prefetto delegato alla lotta contro il razzismo e l’antisemitismo, Frédéric Potier, aveva mandato una lettera e incontrato Antoine Gallimard il 19 dicembre. «In un contesto in cui il flagello antisemita va combattuto con forza, le modalità di presentazione al grande pubblico di questi scritti vanno pensate attentamente» aveva detto Potier, che ora nega qualsiasi tentativo di censura. «Ho semplicemente voluto ricordare all’editore la sua responsabilità». La casa editrice ha tentato per qualche settimana di resistere alla pressioni, promettendo un imponente apparato critico e sottolineando la necessità di pubblicare i testi prima che diventino di dominio pubblico tra due anni. Ma ieri la maison ha preso atto che non è possibile avanzare “serenamente” nel progetto. «In nome della mia libertà di editore e della sensibilità che ho maturato in quest’epoca - afferma Gallimard - sospendo questo progetto, considerando che non ci sono le condizioni metodologiche e memoriali per svilupparlo».
Quando è cominciata la polemica, Gallimard aveva fatto l’esempio di Mein Kampf che sarà pubblicato a marzo da un altro prestigioso editore francese, Fayard, dopo una lunga consultazione con un gruppo di storici e la garanzia di un apparato critico, com’è già accaduto in Germania. « Mein Kampf è un documento che può servire a capire alcuni movimenti storici» dice Potier a Repubblica.
«Nel caso di Céline – continua – sono testi letterari, un vero e proprio delirio, un fiume di insulti verso gli ebrei». Il prefetto si limita adesso a “prendere atto” della rinuncia di Gallimard che ha fatto capire quanto sia sofferta la sua decisione. «I pamphlet di Céline appartengono alla storia dell’antisemitismo francese più infame» ha detto l’editore.
«Condannarli alla censura ostacola la ricerca delle loro radici e dell’ideologia di cui si nutrono, creando una curiosità malsana, mentre dovremmo poter esercitare la nostra capacità di giudizio». Chi difende la pubblicazione dei pamphlet ricorda che in ogni caso i testi circolano già ampiamente su Internet, per giunta senza analisi critica. E l’edizione canadese è facilmente acquistabile su Amazon. «Sono i limiti della nostra giurisprudenza in materia di circolazione delle opere a livello globale» ammette Potier che però vanta il lavoro del suo ufficio nella lotta all’antisemitismo online, con la richiesta di cancellare solo nell’ultimo anno un centinaio di tweet, decine di pagine Facebook e un canale YouTube dedicato al negazionismo. Gli spettacoli antisemiti del comico Dieudonné, banditi nel 2015, sono ricominciati da tempo. «Le battute sono state epurate, e noi continuiamo a vigilare», dice Potier. Secondo il ministero dell’Interno, nel 2017 gli attacchi antisemiti sono diminuiti del 20 per cento ma ci sono stati casi terribili nella comunità ebraica, come l’omicidio di una parigina, Sarah Halimi, nell’aprile scorso.
L’ufficio di Potier, il Dilcrah, esiste dal 2012 e dispone di 3 milioni di euro per finanziare diverse azioni di sensibilizzazione. «Purtroppo sappiamo che l’antisemitismo non è una parentesi che si è chiusa con la fine della guerra» conclude Potier.

La Stampa 12.1.18
Un’intervista del 1923
“Signor Hitler, mi può spiegare il programma del suo partito?”
Il Führer: “Purezza della razza, abolizione del regime democratico, distruzione dei socialisti e degli ebrei”
di Giulio De Benedetti


Si dice che intervistare il «fascista» Adolfo Hitler non sia cosa facile. Così almeno mi hanno informato a Monaco alcuni colleghi tedeschi. Non certo perché egli sia per temperamento un taciturno, ma perché i suoi compagni di fede non desiderano troppo che i giornalisti lo avvicinino.
Ma ieri il caso mi ha aiutato. Mentre stavo discutendo nella redazione del Volkische Beobachter con una banda di esaltati (facce di nevropatici e di cocainomani che mi ricordavano un po’ i cechisti di Mosca) sulla necessità o meno, e della forma più opportuna di ammazzare tutti gli ebrei e tutti i socialisti, ecco comparire Adolfo Hitler.
Presentazione rapida: una stretta di mano così energica da indolenzire le dita (anche questo è un segno di forza) ed incomincia l’intervista.
Hitler è un uomo che può parlare anche tre o quattro ore di seguito senza stancarsi con una voce che pare una mitragliatrice in funzione. Le cose che enuncia possono - dette ad un pubblico di fanatici nelle grandi birrerie di Monaco - fare un certo effetto; ma ascoltate freddamente, a tu per tu e alla luce del giorno, l’impressione è un po’ minore.
Guardo la sua faccia comune e senza interesse, la sua figura tozza che una pretesa eleganza non riesce ad affinare e, mentre ascolto, non so vincere un senso di delusione che la conoscenza del piccolo dittatore mi procura. Quando parla - e io continuo a guardarlo con una certa delusa curiosità - gli tremano leggermente gli angoli delle labbra. Non mi pare un dittatore troppo pericoloso.
Incomincia egli coll’espormi il programma del suo partito, che identifica in gran parte con quello del fascismo italiano. Ma lamenta che Mussolini non abbia intuito quanto lui ha capito subito, che bisogna liberarsi innanzi tutto del pericolo semita, che ha carattere internazionale. Per Hitler sono poche le personalità che non abbiano nelle vene un po’ di sangue giudeo: Edoardo VII, figlio degli amori adulteri della regina Vittoria col suo medico personale, Guglielmo II e lo stesso Pontefice non ne sono immuni. Bisogna purificare la razza umana da questo terribile veleno…
Cerco di portare il «leader» del così detto movimento fascista su terreno più prossimo:
Mi potrebbe spiegare con chiarezza quale sia il programma immediato del suo partito?
«Lotta senza quartiere ai socialisti e agli ebrei. Distruzione di ogni idea internazionale. Attirare nel nostro movimento le masse operaie. Il concetto monarchia e repubblica ci è indifferente, come non siamo legati ad alcuna confessione religiosa. Vogliamo che il potere dello Stato sia affidato ad una minoranza onesta e capace. Si immagina lei» [si alza in piedi e si pone una mano sul petto] «che io, dittatore, mi lascerò, quando avrò la direzione dello Stato, comandare dal Parlamento e dai così detti rappresentanti del popolo? Io governerò», continua il veggente, «secondo l’ispirazione che mi verrà dall’intimo della mia coscienza…».
Non crede che in un momento così grave per i destini del germanesimo, mentre si è riusciti a stento a formare un blocco nazionale contro la Francia, non sia tale azione pericolosa e non possa provocare la guerra civile?
«Noi andiamo diritti per la nostra strada. Siamo convinti che non si giungerà alla liberazione del popolo tedesco se prima non si distrugge il socialismo e l’idea semita. Come si fa a costruire un edificio se non si pongono prima le basi? Ora le basi della nostra liberazione sono la compattezza nazionale, la purezza della razza, l’abolizione del regime democratico… Del resto la lotta contro la Francia è condotta in una forma vergognosamente fiacca…».
Signor Hitler, lei ha paragonato il movimento social-nazionalista con quello fascista italiano. La situazione politica dei due Paesi, come risultato della guerra è diversa. Ma lei immagina che se gli austriaci, per ipotesi, vittoriosi, fossero ancora avanzati, dopo firmata una pace, nel territorio nazionale, i fascisti italiani si sarebbero limitati a urlare a Roma, a Milano, od a Napoli contro il «nemico interno»? Non crede lei che centinaia e migliaia di uomini sarebbero corsi a uccidere ed a farsi uccidere con gesto di disperata follia, pur sapendo di morire invano, ma certi ugualmente di dare il proprio sangue per la «liberazione» più lontana?
«Le mie forze armate non dispongono che di limitati mezzi militari. Se andassimo a batterci contro la Francia, saremmo schiacciati in poche ore».
Per ragioni di umanità è bene che sia così. Non intendevo dire che lei, signor Hitler, dichiari la guerra al Governo di Parigi, ma mi pare compito troppo facile per un partito nazionalista armato limitarsi a inscenare parate per le vie di Monaco, reclamando guerra senza mercé alla Francia, ma accontentandosi di bastonare, con la protezione della polizia, qualche socialista e qualche ebreo…
Hitler replica:
«La lotta armata contro la Francia non è compito nostro».
Ed allora, se a Berlino si formasse un qualsiasi Governo, probabilmente di Sinistra, che per lavare il paese da una minacciata catastrofe, concludesse un qualsiasi accordo coi francesi…?
Il «veggente» scatta in piedi e passeggia concitato per la piccola sala redazionale gridando: «Kampf
Kampf! (Battaglia! Battaglia!)». Non so se contro i francesi, o contro gli ebrei…
***
Adolfo Hitler mi aveva dato un secondo appuntamento alla Corneliusstrasse, nella centrale della sua organizzazione armata, ma non mi fu più possibile avvicinarlo.
Nella sede centrale della sua organizzazione alcune signorine preparavano le «fiches» che suddividono gli iscritti in «truppe di assalto», «propagandisti» ecc. Lessi tra gli iscritti i nomi di note famiglie aristocratiche e di militari. Nella strada incontrai alcuni gruppi delle forze armate. Mi avvicinai per interrogare. Quando seppero che ero italiano, qualcuno richiese il ritratto dell’on. Mussolini, qualche altro si accontentò di sigarette, parecchi mi confessarono di essere disoccupati in cerca di un impiego qualsiasi.
Chi ha voluto e saputo organizzare questo partito e queste forze rimanendo dietro le spalle di Adolfo Hitler?
Qualcuno fa il nome di Lüdendorf. Con certezza si sa soltanto che il suo attendente fa parte delle cosiddette «truppe d’assalto».

Corriere 12.1.17
Gli Egizi pesavano le anime. E dialogavano con gli dèi
di Antonio Carioti


Le società antiche erano impregnate di senso del sacro. I loro riti quotidiani si configuravano come «il segno di riconoscimento del divino», erano il richiamo costante a una dimensione che accompagnava le popolazioni in tutte le fasi più importanti dell’esistenza. Inoltre i loro governanti si ponevano spesso come mediatori tra il mondo degli dèi e quello degli uomini. E questo è vero in particolare per la civiltà fiorita sulle rive del Nilo a partire dal terzo millennio prima della nascita di Cristo.
Tale fenomeno è infatti al centro del libro degli studiosi francesi Dimitri Meeks e Christine Favard-Meeks La vita quotidiana degli Egizi e dei loro dèi , disponibile attualmente in edicola con il «Corriere della Sera» al prezzo di e 8,90 più il costo del quotidiano. Si tratta della terza uscita della collana Biblioteca della storia. Vite quotidiane , edita in collaborazione con la Bur, che offre ai lettori opere incentrate sui costumi, le abitudini, i rapporti tra i sessi, l’immaginario collettivo, le attività produttive e ricreative in diverse fasi dell’avventura umana.
Il saggio di Meeks e Favard-Meeks si distingue proprio per il nesso strettissimo che mette in luce tra il popolo egizio e le sue divinità, un legame cementato da un’ampia letteratura. I racconti mitologici e le fiabe, osservano i due studiosi, «si prestavano a essere diffusi anche fuori dai circoli ristretti dei sacerdoti, fra le classi colte ma anche, in forma orale, negli strati popolari. Attraverso il racconto mitologico o lo scritto di carattere magico i miti si liberano della loro aura per assumere l’aspetto della banalità quotidiana. Lo stesso statuto della scrittura permetteva la trasposizione del sacro nel profano in un processo che poteva anche spingersi fino al gioco intellettuale».
Interessante a questo proposito l’esempio portato da Meeks e Favard-Meeks, quello di uno scriba che si divertì «a descrivere la scena della pesatura dell’anima di un morto». Episodio davvero emblematico di una civiltà nella quale la cultura materiale e la religiosità s’intersecavano di continuo, tant’è vero che alle divinità stesse veniva attribuito un corpo fisico, che poteva «essere mutilato e sanguinare», anche se dotato della «capacità di superare le più gravi lesioni». Del resto «bere e mangiare costituiva una delle attività favorite degli dèi» perlomeno «quando si trovavano in situazioni più tranquille».
Lo stesso intreccio tra realtà e leggenda, tra sacro e profano, sia pure in un’epoca di gran lunga posteriore, si riscontra nella prossima uscita della serie: La vita quotidiana ai tempi dei cavalieri della Tavola rotonda di Michel Pastoureau, che sarà in edicola da giovedì 18 gennaio. Dopo Iside e Osiride, toccherà a re Artù, alla sua consorte Ginevra e al prode Lancillotto.

Repubblica 12.1.18
Perché oggi viviamo tutti nel regno del dio Pan
d Maurizio Bettini


Il diverso come minaccia, il furore religioso, l’accecamento della ragione: la nostra era sembra dominata dalla figura mitologica che evoca il terrore
Spiaggia di Sisco, Corsica, 13 Agosto 2016. La presenza di bagnanti musulmane che indossano il burkini provoca la reazione di alcuni corsi («siamo a casa nostra!») con relativa controreazione di alcuni nordafricani: auto incendiate, feriti, paura in spiaggia. I media danno ampio risalto all’evento, i politici di destra ne approfittano per denunciare l’invasione islamica, il sindaco di Sisco emana un’ordinanza che vieta l’uso del burkini in quanto viola il principio di laicità. Passa qualche giorno ed emerge però che il burkini non c’entrava nulla: si è trattato di un banale scontro fra bande rivali per il controllo della spiaggia. Il Consiglio di Stato sospende l’ordinanza anti-burkini, la faccenda scompare dai media.
Ecco un perfetto esempio di “panico identitario”: ossia lo spargersi di un’agitazione immotivata — o comunque sproporzionata — di fronte a un certo evento, solo perché si ritiene che in esso sia coinvolto un gruppo sentito come culturalmente minaccioso. In questo caso i musulmani, i cui “costumi” (la parola può essere intesa nei due sensi) metterebbero in pericolo la “identità culturale” di un intero paese.
Sarebbe ingenuo però ritenere che il panico identitario si sparga da solo. Come in questo caso, a gestirlo ci sono sempre dei veri e propri “imprenditori dell’identità”, personaggi politici, o mediatici, pronti ad arrogarsi il ruolo di detentori dell’identità culturale minacciata da profughi e immigrati. Già, ma cosa sarebbe mai questa “identità culturale” che si vuole difendere?
Difficilmente coloro che se ne fanno araldi ne definiscono le caratteristiche. Al massimo invocano vagamente i “valori” del cristianesimo, dell’Europa o dell’Occidente... Del resto si sa che dire in che cosa consiste l’identità di una persona o di un gruppo costituisce un’impresa che ha scoraggiato fior di filosofi — figuriamoci se potrebbe cavarsela l’imprenditore identitario di turno. Ed ecco un’altra domanda interessante: come e quando nasce questa idea della “crisi di identità”? Lo spiega Régis Meyran, in uno dei saggi raccolti nel libro Paniques identitaires, edito da lui e da Laurence de Cock. Di “crisi di identità” comincia a parlare, negli anni Sessanta del Novecento, uno psicoanalista americano, Erik Erikson. La sua attenzione si concentra su individui appartenenti a minoranze che, come tali, sono preda di una perpetua tensione fra la cultura dominante che li ospita e la subcultura da cui provengono.
Erikson si rivolge soprattutto a neri, nativi americani, donne, ma l’elenco si potrebbe ampliare.
L’identità di questi gruppi è minacciata in quanto viene loro imposta una “identità negativa” da parte della maggioranza che li circonda: tipo il “negro” stupido o criminale, e così via. Di conseguenza nei decenni successivi l’impegno di molti gruppi consisterà, come sappiamo, nel rivendicare il diritto a manifestare una propria identità culturale. Processo lungo e spesso doloroso, specie negli Stati Uniti.
Torniamo però a ciò che accade oggi in Europa. Il fatto sconcertante è che stiamo assistendo a una vera e propria parodia delle originarie “crisi di identità”. Adesso infatti a sentirsi minacciate sono paradossalmente le maggioranze, che temono una “crisi” della propria identità culturale (maggioritaria) a motivo della presenza di minoranze culturali. Il panico identitario dilaga. L’Ungheria ha un 2% di immigrati, ma gli ungheresi credono che essi ammontino al 16% della popolazione. Se la Polonia fa anche peggio, neppure il nostro paese si distingue. Gli immigrati costituiscono circa il 9% della popolazione, con un 2% di musulmani: ma gli italiani credono che la percentuale sia del 30% e che i musulmani ne formino il 20%. «Questo paese è già islamizzato!» mi urlava nelle orecchie un tassista romano, anche lui vittima del panico identitario. O meglio, come preferirei dire, vittima del dio Pan.
Non so infatti se, parlando di “panico”, de Cock e Meyran avessero in mente il dio greco da cui questa sindrome prende nome. Probabilmente no, eppure tutto invita a credere che Pan c’entri eccome. La nostra società sembra realmente caduta in preda ai deliri di cui Pan era ritenuto il potente signore. A lui i Greci attribuivano non solo la capacità di scatenare un terrore tanto infondato quanto irrefrenabile, tale da sconvolgere un intero esercito, ma soprattutto il potere di accecare le persone, impedendo loro di riconoscere chi sta loro d’intorno: trasformando gli amici, i compagni della sera prima, in pericolosi nemici. Il fatto è che Pan toglie il discernimento.
Quando dunque della donna che fa la spesa, come noi, nel supermercato, riusciamo solo a notare che indossa il velo, e non che compra gli stessi biscotti che compriamo noi o che non indossa le stesse scarpe e lo stesso piumino che indossano le nostre amiche — ecco, siamo caduti in balia di Pan. E quando ritiriamo i nostri figli da scuola per il terrore che siano contaminati dalla teoria del “gender” — da cui la nostra “identità culturale” sarebbe minacciata — è ancora Pan che popola di fantasmi la nostra mente. A questa divinità i greci attribuivano perfino l’insorgere di una sindrome tragicamente attuale: la mania religiosa, quella che conduce al fanatismo e all’ossessione per il divino. Difficile perciò non ritenere che siano preda dei deliri di Pan quei gruppi islamici fondamentalisti che uccidono in nome del loro Dio; e in generale tutti coloro che considerano la religione non un costrutto culturale, come tale degno di reciproco rispetto, ma un assoluto, rispetto al quale non si ammettono alternative. Racconta Plutarco che, al tempo di Tiberio imperatore, nell’isola di Paxos risuonò una voce misteriosa e potente, che annunziava al mondo la morte del dio Pan. Non era vero.