giovedì 11 gennaio 2018

La Stampa 11.1.18
Da Algeri a Teheran la lotta per il pane che fa tremare i regimi
I sussidi hanno tenuto per anni i costi bassi Da Sadat a Bashir: chi tocca il prezzo rischia
di Giordano Stabile


Il pane è vita, tanto che in Egitto, nell’arabo colloquiale locale, la stessa parola, aish, indica sia il pane che la vita. Nessun raiss ha mai aumentato il prezzo del pane di sua volontà ma da 40 anni, a cicli regolari, i governi dell’Egitto e dei Paesi vicini sono costretti a farlo e scoppiano rivolte. I sussidi tengono basso il costo, i consumi superano la produzione, bisogna importare la farina e i conti pubblici non reggono più.
Il primo a provarci è stato Sadat, nel 1977, e «l’Intifada del pane», 500 morti, lo costrinse a fare marcia indietro. La misura di aggiustamento era stata suggerita dal Fondo Monetario, come oggi in Tunisia e in Sudan. La rabbia popolare arriva in un momento critico. Il Sudan, da quasi trent’anni sotto Omar al-Bashir, si è riguadagnato rispettabilità internazionale per la sua lotta ai gruppi jihadisti, una svolta a 180 gradi che ha convinto gli Usa a togliere le sanzioni.
Ma il ritorno nei circuiti dell’economia «normale» è stato traumatico. La manovra dell’Fmi ha significato la fine dei sussidi ai beni alimentari e del cambio fisso con il dollaro. Il risultato è stato un’inflazione al 25% e il raddoppio del prezzo della pagnotta che da mezza lira sudanese è passata ad una lira, meno di mezzo dollaro al chilo, troppo per la povera gente. Nelle campagne e nelle periferie di Khartoum la maggior parte delle famiglie sopravvive con 6-700 lire al mese, che prima valevano 100 dollari e ora meno di 40.
Alle sorti del Sudan guarda con occhi attenti l’Egitto. Il Cairo ha una «politica del pane» capillare. Ventimila fornai sovvenzionati forniscono a milioni di persone «l’aish baladi», o «pane locale», dischi dorati dal profumo inconfondibile. Ogni fornaio distribuiva in media 2 mila pagnotte al giorno al prezzo di 5 piastre, neanche un centesimo di dollaro, ma l’anno scorso il governo le ha tagliate a 500. I salari medi sono attorno alle 1000 lire egiziane, circa 60 dollari al cambio attuale. Con le elezioni previste per il 26 marzo prossimo, quest’anno il presidente Abdel Fatah al-Sisi ha bloccato tutte le manovre di questo tipo. L’inflazione nel 2017 è schizzata oltre il 30%, una mazzata per quel 42% delle famiglie che vive con meno di 2,5 dollari al giorno: il prezzo del pane «di mercato», un dollaro al chilo, è insostenibile.
Ma anche Paesi ricchi sentono gli effetti degli «aggiustamenti». L’Algeria ha proibito l’importazione di telefonini, mobili, verdura fresca, in una lista ridicolizzata dagli oppositori per le sue bizzarrie. In Iran, la manovra del governo di Hassan Rohani in Iran ha innescato le proteste più violente dal 2009. Anche qui la fine dei sussidi ha fatto raddoppiare i prezzi. A fronte di un costo della farina pari a circa 30 centesimi di dollari al chilo, il pane «sussidiato» costava in media 20 centesimi, con la riforma arriverà a 40 centesimi.
Il Pil pro capite dell’Iran è di circa 5000 dollari all’anno ma ci sono grandi differenze sociali. Secondo uno studio dell’Fmi del 2010, una famiglia media riceveva 3600 dollari in sussidi all’anno, indispensabili per vivere. Sull’altra sponda del Golfo Persico, in Arabia Saudita, l’austerity ha significato soprattutto la fine della benzina quasi gratis. A gennaio il prezzo al litro è passato da 24 cents di dollaro a 44, mentre nel 2015 era ancora attorno ai 15 centesimi. Il reddito dei sauditi è il quadruplo di quello iraniano, ma con un deficit al 16% è tempo di qualche sacrificio.

La Stampa 11.1.18
Nella Tunisia delle rivolte “Stavolta non ci fermeremo”
Il governo reagisce dopo gli scontri nei cortei: 237 arresti Sassaiole nelle città. A Djerba molotov contro la Sinagoga
di Francesca Paci


Molte ore dopo l’assalto al Carrefour di Ben Arous, periferia Sud di Tunisi, l’odore dei lacrimogeni aleggia ancora sul viale buio davanti alle saracinesche bruciate. Le proteste contro il carovita che da tre giorni tengono in scacco il Paese e hanno prodotto 237 arresti, decine di feriti tra cui 49 poliziotti, 45 mezzi della sicurezza danneggiati, si accendono di slogan diurni nel cuore borghese della capitale e di sassaiole notturne qui, banlieue miserabile, dove piccoli gruppi di giovani con il cappuccio della felpa sulla testa parlottano sbirciando i blindati appostati all’incrocio.
«Anche se non è la rivoluzione del 2011 non si fermerà, ci ripetono che diversamente da Internet e schede telefoniche il pane e l’olio non sono aumentati, ma i bisogni della gente non sono più quelli di mezzo secolo fa» ragiona il tassista Samir in sosta alla boulangerie La Reine, un isolato più avanti, in direzione di quell’autostrada per Tunisi dove le pietre lungo il guardrail raccontano gli scontri durissimi all’altezza delle case popolari di El Kabaria.
A sette anni dalla cacciata di Ben Ali, l’unica sopravvissuta delle primavere arabe, ma anche quella che ha fornito il maggior numero di volontari allo Stato islamico, combatte con i suoi fantasmi. La settimana scorsa l’annuncio della legge di bilancio accompagnata dall’aumento dei prezzi della benzina, del gas, dei servizi, ha scatenato le piazze di una decina di città, da Kasserine a Djerba, dove pare sia stata attaccata la sinagoga: i moti più duri da quando nel 2016 il governo ha promesso al Fondo monetario internazionale un drastico taglio della spesa in cambio del prestito quadriennale da 2,9 miliardi di dollari. La popolazione, gravata da un tasso di disoccupazione giovanile del 25% e l’inflazione al 6,4% (contro il 4,2% del 2016), è esplosa.
«È allarmante perché non c’e alcuna leadership, ma si tratta di manifestazioni di poche decine di persone che pur mettendo alla prova il governo non terremoteranno il Paese» nota Hamza Meddab, studioso di periferie tunisine e analista dell’European Council on Foreign Relations. L’Ugtt, il sindacato dei sindacati, chiede al’aumento del salario minimo, oggi al di sotto dei 400 dinari (134 euro), ma resta a fianco del governo. In strada ci sono i disoccupati e gli agit-prop del Fronte Popolare, la sinistra radicale, i cui slogan - Manich Msamah (non perdoneremo) e #Fech_Nestanew (cosa stiamo aspettando?) - risuonano in avenue Bourghiba tra cordoni di agenti più numerosi dei manifestanti.
«Da giorni si respirano lacrimogeni e rabbia, chi protesta tira avanti da troppo tempo con 500 dinari al mese e la pazienza è finita» ci dice il giovane dottor Said al telefono da Tebourba, dove nelle ultime ore centinaia di persone sono scese in piazza per i funerali del manifestante ucciso durante gli scontri. Due mesi fa nella città settentrionale di Sejnane una madre di 5 figli si era data fuoco evocando il gesto di Mohammed Bouazizi, il fruttivendolo di Sidi Bouzid diventato il simbolo della rivoluzione del 2011.
«Il 2018 sarà l’ultimo anno di stenti per i tunisini» ripete il premier Chahed nel discorso di Capodanno rimandato dalla tv in un caffè solo maschile di Citè el Tadhamoun, altra periferia Sud di Tunisi, due centri commerciali bruciati. «Promesse, promesse, dal 2011 abbiamo ottenuto solo la libertà, e non ci manteniamo la famiglia» sentenzia il proprietario asciugando bicchierini di tè.
Periferia e centro, provincia e città, borghesia e proletariato vero: le ataviche contraddizioni tunisine tornano, convitato di pietra nella transizione dal passato che non passa. A pochi isolati dal Parlamento, il deputato di Ennahda Osama al-Saghir ricorda le cifre dell’Iva, passata dal 6 al 7% per i prodotti necessari e dal 12 al 13% o dal 18 al 19% per gli altri. Poca roba, dice, rispetto ai singoli commercianti «che se ne sono approfittati aumentando i prezzi del 15, 20%». Difende il governo insomma, ma anche il diritto di critica, un privilegio della democrazia: «In realtà è iniziata la campagna elettorale per il voto amministrativo del 6 maggio che vedrà in campo migliaia di città, 8 milioni di elettori e oltre 7200 candidati. L’opposizione capitanata dal Fronte Popolare, che in Parlamento ha appena una trentina di seggi, cavalca il malcontento contro la maggioranza». Ennahda, storica forza popolare oggi in coalizione con Nidaa Tounes nel governo di unità nazionale, tende da sempre l’orecchio alla pancia del Paese ma in queste ore ne minimizza la forza d’urto sottolineando che, al netto dei problemi, il Paese cresce del 2,2%, la disoccupazione è scesa dal 18% al 15,3% e con 7 milioni di visitatori nel 2017 il turismo respira.
L’umore è cupo. Le camionette dell’esercito davanti ai caffè a ridosso della casbah ricordano lo Stato d’emergenza, in realtà in vigore dal 2015. C’è ancora qualche giorno prima del 14 gennaio, anniversario della rivoluzione, nel bene e nel male.

Corriere 11.1.18
Dall’Iran alla Libia
Europa ambigua sui diritti umani
di Franco Venturini


L’Ue ha scoperto di saper dire «no» alla Casa Bianca. Ma difendere i propri interessi significa saper rifiutare i compromessi al ribasso.
N on è vero che in I ran sia tornata la piena normalità, come assicurano i capi dei Pasdaran. Le organizzazioni umanitarie segnalano centinaia di arresti ba sati su sospetti e delazioni, qualche coraggioso scende ancora in piazza, e i conservatori, superato il timore di andarci di mezzo, sono ripartiti all’assalto del governo riformatore di Hassan Rouhani.
Fuori dai confini della Repubblica islamica, poi, la questione iraniana è al centro dell’attenzione in Europa come a Washington. La Ue è sul banco degli imputati come troppo spesso le accade, perché ha reagito tardi e con misura alla repressione poliziesca che ha schiacciato le proteste facendo almeno 23 morti. Sarebbe andata molto peggio, risponde Bruxelles, se nelle ore più gravi l’Europa non avesse discretamente raccomandato moderazione alle autorità di Teheran. Può darsi, ma la tesi difensiva non coglie il punto centrale dell’accusa. L’Europa è lenta quando serve essere tempestivi, vuole avere il consenso di ventotto diverse capitali prima di esprimersi, e i governi nazionali restano spesso alla finestra in attesa che Bruxelles dica la sua. L’intreccio tra burocrazia ed eccessiva prudenza finisce così per diffondere sulla scena internazionale un messaggio di indecisione, di debolezza, persino di pavidità.
Errore grave, che nel caso della repressione iraniana è diventato strategico. Perché se vuole essere credibile e rispettata nella sua politica di forte sostegno all’accordo nucleare con Teheran (che Trump vuole invece affondare), l’Europa deve dimostrare che altrettanta energia viene dedicata alla difesa dei propri valori. A ciò serviva l’immediata, pubblica e dura scomunica dell’uso della forza contro i dimostranti. Il troppo silenzio (anche da parte dei singoli governi europei) ha invece offerto il fianco alle critiche di Washington, e questo proprio nel momento in cui Donald Trump deve decidere nei prossimi giorni se reintrodurre o meno le sanzioni petrolifere contro Teheran. L’Europa distratta rischia di essersi sparata sui piedi, dopo aver lungamente tentato di convincere Trump a non decretare nuove misure punitive che di fatto silurerebbero l’accordo nucleare e potrebbero spingere l’Iran a riprendere i suoi programmi atomici. Questa volta di nascosto da tutti.
Il cortocircuito tra politica e diritti umani non è peraltro una novità, per l’Europa e per l’intero Occidente. Si pensi ai rapporti con la Cina, preziosi per tutti, addirittura necessari per la crescita globale, ma oscurati da ben note violazioni dei diritti civili da parte delle autorità di Pechino. Quando la posta è troppo alta il pragmatismo politico impone il silenzio, o almeno una impenetrabile discrezione, e così le polemiche con Xi Jinping, semmai, riguardano i commerci, la gestione monetaria o la Corea del Nord. La denuncia non è obbligatoria, e si può anche sceglierla seguendo le proprie convenienze: il Trump che si è indignato per gli iraniani repressi e uccisi ha forse detto una sola parola contro le stragi di civili compiute dai suoi clienti sauditi nello Yemen (senza dimenticare che le bombe, secondo il New York Times , venivano anche dalla Sardegna) ?
Sul fronte europeo si è visto un lungo tira e molla con la Turchia, Paese alleato nel quale si viene facilmente arrestati per le proprie opinioni. La verità la conosciamo tutti: la prudenza è necessaria perché la Turchia, in cambio di molti soldi, fa da argine ai migranti siriani che vorrebbero andare in Germania. E ben venga la franchezza di Emmanuel Macron, che ricevendo Erdogan a Parigi nei giorni scorsi ha finalmente rifiutato l’ipocrisia regnante comunicando all’uomo forte di Ankara che non esistono le condizioni per un ingresso turco nella Ue.
In Libia, invece, non si è anc ora parlato chiaro. Lo scandaloso contrabbando umano che quando va bene scarica moltitudini di diseredati sulle coste italiane è diminuito di un terzo nel 2017, un dato positivo soprattutto in tempi di campagna elettorale. Ed è anche vero che il clamore sollevato dalla Cnn con un servizio sull’atroce trattamento inflitto ai migranti dalle milizie libiche (quelle presunte amiche, in Tripolitania) si riferiva in realtà a circostanze da tempo note, anche all’Onu. Ma questo non assolve l’Italia, l’Europa, l’intera comunità internazionale. Mentre fatica a prend ere forma una diversa politica europea sui rifugiati e si predispongono investimenti in Africa che richiederanno molto tempo per funzionare, resta inevasa la necessità di riportare la Libia e i suoi molteplici centri di potere tra i Paesi civili che non riducono gli uomini in schiavitù e non ne fanno commercio. Ora le Ong italiane potranno ispezionare i centri di detenzione «ufficiali» , ma non è lì che vengono commessi autentici crimini contro l’umanità. Il passo più costruttivo, in attesa di vedere se nel 2018 si potrà votare e con quali risultati, è stato compiuto dal governo Gentiloni quando ha deciso di trasferire cinquecento militari dall’Iraq al Niger. Per dissuadere i migranti dall’attraversare il Sahel e dall’entrare in Libia rincorrendo il miraggio Italia, e per diminuire la pressione nel tuttora minaccioso «serbatoio umano» che ci guarda e ci desidera dall’altra parte del Mediterraneo. Eppure una buona fetta della politica italiana, nella foga preelettorale, non ha capito che andare in Niger era un cruciale interesse nazionale dell’Italia.
La politica estera europea, come abbiamo già rilevato su queste colonne, sta crescendo anche grazie alla Brexit e a Trump. Ora si può costruire la difesa comune. E la Ue, o gran parte di essa, ha scoperto di saper dire «no» alla Casa Bianca su molte cose, dall’ambiente a Gerusalemme, passando appunto per l’Iran. Ma difendere i propri interessi significa saper affrontare le situazioni più spinose, Libia in testa. E significa rifiutare i compromessi al ribasso nella difesa dei diritti civili. Altrimenti una stagione internazionale difficile ma piena di occasioni passerà senza lasciare traccia.

il manifesto 11.1.18
Israele, una democrazia davvero unica in Medio Oriente
di Zvi Schuldiner


Il comitato centrale del Likud – il partito del primo ministro Benjamin Netanyahu – ha votato per acclamazione a favore dell’annessione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania.
Il procuratore generale di Israele ha dato istruzioni ai suoi uffici: occorre determinare in che modo i disegni di legge dei vari ministeri dovranno essere applicati ai 400mila coloni degli insediamenti nei territori occupati.
La legislazione israeliana non vigeva nei territori occupati: per il diritto internazionale, la potenza occupante non deve introdurre cambiamenti nelle aree soggette a occupazione, salvo in casi speciali motivati da ragioni di sicurezza o legati al benessere delle popolazioni interessate.
Il Parlamento israeliano ha approvato in prima lettura – saranno necessarie altre fasi – la legge che consentirà di introdurre la pena di morte per i terroristi che abbiano ucciso israeliani. L’esercito e varie agenzie di intelligence si sono opposti, ma hanno avuto la meglio le esigenze populiste di Netanyahu e del ministro della difesa Lieberman.
La riconciliazione palestinese – fragile e relativa – ha portato concessioni e accordi fra l’Autorità palestinese e Israele; così gli abitanti della Striscia di Gaza godranno di otto ore giornaliere di elettricità al posto delle quattro precedenti. Un bel cambiamento!
È stata prorogata di otto mesi la detenzione amministrativa di Halda Jerrar, una parlamentare palestinese che avrebbe dovuto essere liberata in questi giorni, dopo sei mesi dietro le sbarre. In famiglia la aspettavano, ma fonti della «sicurezza» hanno segnalato che si tratta di una persona pericolosa che fa parte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. In casi come questo, le prove non sono pubblicate per ragioni di sicurezza.
Ahed Tamimi, la «pericolosissima» palestinese di 16 anni che ha schiaffeggiato un ufficiale dell’esercito israeliano, continua a rimanere in carcere e sarà presto accusata di diversi crimini.
Gli ebrei che tendono a farsi del male rivangando stupidi ricordi, in questi giorni si sono ricordati di quella Alcobi, un’ebrea di Hebron diventata molto famosa per gli insulti e le pietre lanciate contro alcuni palestinesi. Nel 2010 prese a sassate un soldato israeliano che aveva cercato di trattenerla; fu arrestata ma «fortunatamente» rilasciata dopo poche ore, senza che fosse avviato alcun processo.
Anche un giovane colono ebreo che aveva accoltellato il rabbino Asherman, dell’organizzazione Rabbini per i diritti umani, era stato liberato con la condizionale, essendosi dichiarato pentito.
Il giudice della Corte suprema Noam Solberg – che vive in un insediamento nei territori occupati – rispetto a una denuncia presentata per la sua partecipazione a un evento politico di celebrazione del 50esimo anniversario dell’occupazione dei territori ha spiegato di aver assistito con la famiglia a una celebrazione con canti e altro, senza carattere politico.
Il primo ministro Netanyahu continua a far di tutto per cercare di introdurre qualunque norma e provvedimento in grado di far dimenticare i casi problematici di corruzione nei quali sembra coinvolto. Un noto deputato del Likud e altri politici legati al premier sono accusati di corruzione.
Se l’escalation nel Sud continua, una miniguerra diventa probabile; e occuperà le menti più della corruzione.
La legge sulla nazionalità sarà discussa nelle prossime settimane e permetterà di accentuare il carattere di apartheid, come dicono le malelingue, del paese.
Non tutto è discriminazione nei confronti dei palestinesi.
In omaggio a un po’ di eguaglianza, anche diversi ebrei e organizzazioni come Jewish for Peace presto non potranno recarsi nel paese anche se là hanno familiari – come è il caso della direttrice del gruppo.
In questa breve rassegna degli ultimi sforzi per consolidare l’unica, davvero unicissima democrazia nel Medioriente, non sono inclusi l’esercizio quotidiano dell’oppressione militare e poliziesca, i morti e feriti, le forme reiterate di rapina delle terre in un regime di colonizzazione.
Ci siamo limitati a riferire di alcuni aspetti della legislazione recente nell’unica democrazia del Medioriente.
Sei milioni di ebrei con pieni diritti formali, due milioni di palestinesi che godono di diritti ma sono discriminati, e infine quattro milioni di palestinesi sotto occupazione militare, senza alcun diritto politico o nazionale.

La Stampa 11.1.18
Pechino fa rotta su Duisburg per conquistare l’Occidente
Ogni settimana 25 treni approdano nel cuore della Ruhr dall’Estremo Oriente L’ex città delle acciaierie è il cuore strategico dei commerci sulla Via della Seta
di Walter Rauhe


Il centro di Duisburg è dominato da uno scenario di desolazione e degrado. Le rovine degli ex colossi siderurgici, delle acciaierie e delle fabbriche per la lavorazione del carbone sono ricoperte da sterpaglie e da recinti metallici logorati dalle intemperie e dal vandalismo.
Nelle sporadiche e fatiscenti locande gestite prevalentemente da immigrati turchi siedono solo pochi avventori e le serrande di molti negozi vicini sono abbassate ormai da anni in attesa di improbabili nuovi inquilini.
Negli ultimi 30 anni la città ha perso 160 mila abitanti e qualcosa come 65 mila posti di lavoro a causa della crisi nel settore siderurgico e del processo di deindustrializzazione che ha colpito l’intero bacino della Ruhr. Ma la città renana ha due volti. Accanto a quello grigio, triste e rassegnato del centro, sorto all’ombra delle colossali acciaierie e degli alti forni oggi in disuso, negli ultimi decenni ne è sorto un altro. Si chiama Duisport ed è l’enorme porto commerciale sorto alla confluenza tra i fiumi Reno e Ruhr alla periferia settentrionale della città. Col suo terminal per container ed oltre 2,1 milioni di metri quadrati di depositi, il porto di Duisburg si è trasformato in poco tempo nel più grande ed efficiente centro logistico per il trasporto e smistamento merci nave-treno d’Europa che dà lavoro oggi a 50mila persone. Un miracolo ed esempio riuscito di riconversione industriale senza eguali nell’ex culla industriale e mineraria della Germania occidentale e il cui successo dipenderà in futuro sempre di più da un fattore: la Cina.
Il porto fluviale col suo terminal ferroviario per container è infatti il punto di arrivo e di partenza dei nuovi treni merci con i quali il governo di Pechino tenta da alcuni anni di creare un’alternativa via terra per il trasporto dei prodotti d’esportazione e d’importazione dall’Europa avvenuto finora prevalentemente via mare. Solo lo scorso anno nel terminal di Duisburg sono stati così smistati qualcosa come 50mila container. Ogni settimana a Duisport arrivano in media 25 treni merci dalla Cina. Entro il 2020 - questo l’ambizioso piano del regime cinese - saranno oltre 50.
La nuova via ferroviaria che congiunge i grandi centri industriali della Cina col cuore manifatturiero dell’Europa, è una linea che all’apparenza ci riporta ai viaggi avventurosi di epoche ormai remote e date già per estinte.
Sono dodicimila i chilometri di rotaie, due i continenti da attraversare, sette i confini nazionali da superare, un numero svariato di sistemi di voltaggio e di segnaletiche differenti e anche tratti non elettrificati da percorrere con l’ausilio di puzzolenti locomotive a gasolio. Il tempo di percorrenza dei lunghissimi treni merci carichi di container varia - salvo imprevisti - dagli 11 ai 12 giorni.
Quella che potrebbe apparire come una romantica riscoperta della lentezza, rappresenta in realtà una velocità supersonica se paragonata a quella delle grandi navi container che per la stessa distanza necessitano più del doppio del tempo. «Il trasporto via terra – spiega l’amministratore delegato di Duisport, Erich Staake – si adatta in modo particolare per merci pregiate o delicate e per prodotti di consumo di piccole dimensioni come giocattoli, decorazioni e la componentistica elettronica». Nel viaggio di ritorno i treni merci caricano poi prodotti europei, dagli alimentari ai prodotti tessili, dalla moda all’arredamento e al design.
Da quando nel 2014 il presidente cinese Xi Jinping ha visitato il terminal, il numero delle imprese logistiche cinesi che hanno aperto una propria rappresentanza nella città renana è aumentato di un terzo e Duisport si è trasformato nel principale snodo merci di prodotti provenienti dalla Cina su rotaia. Duisburg è così diventata una sorta di cordone ombelicale tra le economie del vecchio continente e i nuovi mercati dell’Asia.
Nel terminal cittadino i container vengono trasferiti dai treni merci alle navi fluviali o ai camion e poi smistati verso tutte le altre destinazioni dell’Europa centro-settentrionale. Le merci destinate all’Europa meridionale e ai Paesi del bacino mediterraneo vengono smistate principalmente dal terminal container nel porto del Pireo controllato dalla multinazionale logistica cinese Cosco. Ma i piani di Pechino per lo sviluppo di una rete ferroviaria merci più veloce e capillare sono ambiziosi. Con la realizzazione di un nuovo collegamento fra Budapest e Belgrado il trasferimento delle merci dalle navi container ai treni e viceversa sarà più rapido ed efficiente e Duisburg resterà comunque il cuore di questa nuova via della seta su rotaia.

il manifesto 11.1.18
Sui voti nel registro elettronico
I bambini ci parlano. La rubrica settimanale a cura di Giuseppe Caliceti
di Giuseppe Caliceti


Da quale giorno, per la prima volta da quando venite a scuola qui alla scuola primaria, i vostri genitori possono vedere da casa, sul tablet, il computer o il telefonino, i voti che avete preso a scuola. Si dice che hanno accesso a parte del registro elettronico di noi insegnanti. I vostri genitori vanno a vedere i voti? I vostri genitori vi dicono qualcosa? A loro piace questa cosa qui?
«A mia madre e mio padre la cosa dei voti del registro elettronico piace molto, infatti vanno sempre a vedere i voti». «Mio papà non ci va mai». «Neanche mia mamma e mio papà ci vanno a vedere». «Mia madre sì. Tutti i giorni. Uffa!». «Anche i miei genitori ci vanno. Sanno sempre tutti i voti che ho preso prima che glielo dico io. Prima ancora di vedere il mio diario». «A mia mamma piace molto vedere i voti miei sul registro elettronico». «Anche i miei genitori ci vanno tutti i giorni e poi mi chiedono come è andata a scuola ma tanto… Tanto io lo so che loro dopo vanno a controllare il registro elettronico per vedere i voti. Per me i voti, se ci sono già sul registro elettronico, potrebbero anche non essere scritta sul diario». «Mio papà guarda tutte le mie materie». «Anche mia mamma. Anche io. Li guardiamo insieme. Poi facciamo dei confronti con degli altri voti di miei amici e mie amiche. Sul computer non si possono vedere. Ma poi c’è anche il gruppo di what’s app della classe dove le mamme si parlano e si dicono tutto e insomma…».
Ma a voi piace questa cosa del registro elettronico? O no?
«A me sì perché è molto tecnologica e poi a me piace andare con mia mamma a vedere i voti sul tablet perché poi prendo sempre dei voti abbastanza belli». «Per me dipende se prendi dei voti belli o no». «A me non piace perché con il registro elettronico io non posso dire niente a mia mamma e a mio papà perché gli dice sempre tutto il maestro o la maestra con il computer». «È vero. Perché sanno già i voti». «Ma poi a scuola non si fanno mica solo i voti, eh? Si giuoca, si fanno delle cose… Invece dopo, col registro elettronico, mio padre sembra che a scuola io ci vado solo per prendere dei bei voti e invece… Cioè, io vado per prendere dei bei voti, non dei voti brutti, è naturale… Ma io ci vado soprattutto per incontrare i miei amici e le mie amiche. Perché senza i miei amici la scuola sarebbe più brutta. E queste cose non ci sono scritte sul computer elettronico e sul registro elettronico e insomma, a me il registro elettronico non piace». «A me non piace che i miei genitori sanno sempre tutto quello che facciamo a scuola prima ancora che io arrivo a casa e glielo dico. Sanno già se ho preso un bel voto o un brutto voto e insomma, non sono neppure tornato da scuola e entrato in casa e loro sanno già tutto e questo non è giusto. Non c’è più gusto a dire che ho preso un bel voto. Non puoi fare scherzi. Non puoi avere dei segreti. È sempre tutto vero e anche noioso». «Per me è la stessa cosa perché tanto i miei genitori non guardano mai i miei voti sul computer». «Mia mamma ha detto che adesso che c’è il registro elettronico lei, forse, vorrebbe non venire più a parlare con i maestri e le maestre perché guarda già i voti miei sul computer. Ha detto che se i voti sono belli, non viene più a parlare a scuola con i maestri. Se invece i miei voti sono brutti, dopo viene». «Io adesso che c’è il registro sul computer, che i miei fratelli e sorelle e genitori lo vedono sempre o quasi sempre, devo cercare di studiare di più per prendere dei voti migliori perché altrimenti, poi, mi prendono anche in giro, se prendo dei voti bassi». «A me la scuola piace, ma i voti non mi piacciono. Non mi sono mai piaciuti. Perciò non mi piace neanche il registro elettronico perché lì dentro ci sono scritti tutti i voti».

La Stampa 11.1.18
Da Gladio alle Br
Mastelloni indaga nei misteri d’Italia
di Francesco Grignetti


Per comprendere, bisogna conoscere. Una regola che vale in generale, ma ancor di più per questioni apparentemente inestricabili quali i misteri d’Italia. Prendiamo ad esempio il terrorismo brigatista: fiumi di inchiostro si sono sprecati per dimostrare che Mario Moretti, il capo delle Brigate rosse che interrogò Aldo Moro, era un agente al soldo di chissà quale servizio segreto. Alla base di tanta dietrologia ci sono le illazioni di Alberto Franceschini, suo predecessore alla guida delle Br. Chi mai sapeva, però, che la rottura tra i due scattò per una questione di cuore? Ce lo racconta ora il giudice Carlo Mastelloni, una lunghissima carriera a indagare sui misteri d’Italia, nel suo nuovo libro Cuore di Stato. Storie inedite delle Br, i servizi di sicurezza, i protocolli internazionali (Mondadori, pp. 281, € 20).
A dividere i due terroristi non fu la politica, ma il fascino di Mara Cagol. Donna eccezionale per capacità organizzative e militari, figura carismatica, vera fondatrice delle Brigate rosse, era la compagna di vita e di avventure di Renato Curcio. Fu quasi fatale che Alberto Franceschini se ne innamorasse. Ma il suo restò un amore inespresso. «Vittima della sua rigida impostazione ideologica», scrive Mastelloni, «che gli impedì di insidiare la moglie del suo più stretto compagno».
Moretti invece non aveva gli stessi scrupoli e intrecciò un flirt con Mara. Di qui l’odio. E poi, a seguire, la rottura con i capi storici, convintisi che Moretti nel 1974 li avesse traditi e abbandonati al loro destino. Sospettarono che ci fosse il suo zampino anche nell’arresto di Giorgio Semeria, nel 1976, quand’era in procinto di diventare il nuovo capo delle Br. La rottura, insomma, ci fu. Ma era innanzitutto umana.
Parla di mille cose, il libro di Mastelloni. E per forza. Si tratta del magistrato che più di tutti ha indagato sui rapporti degli italiani con Israele e con l’Olp, incappando nel famoso Lodo Moro. Lui ha intuito l’esistenza di Gladio, scandagliato le trame del Superclan a Parigi, scoperto i traffici di armi tra Brigate rosse e palestinesi. Mastelloni s’è visto scippare tante inchieste con l’apposizione del segreto di Stato. Ben al di là degli atti giudiziari, però, il suo libro è una preziosa miniera di dettagli, rivelazioni, dialoghi, incontri, chiacchiere fuori verbale, che ci restituiscono carne e sangue, passioni e anche miserie dei protagonisti di quelle torbide vicende.

il manifesto 11.1.18
Amore a prima vista
di Sarantis Thanopulos


Secondo una ricerca del dipartimento di Psicologia dell’Università di Groningen in Olanda, l’amore «a prima vista» è un’illusione, una confabulazione. A essere più precisi: una proiezione di sentimenti correnti nel passato.
Il campo dell’illusione è minato per chi avanza nel campo dei sentimenti come un elefante in una cristalleria. Spesso è terreno di conquista di predatori falsari, pronti a costruire qualsiasi cosa che possa dare l’illusione del vero o, più efficacemente, di sostituirlo, togliendo di mezzo le complicazioni e le contraddizioni di cui la verità è foriera.
L’inganno ha il suo punto di forza “commerciale” nella domanda di autoinganno, che, tuttavia esiste indipendentemente dalla contraffazione ed è, nella sua essenza, richiesta di consolazione. Non esiste forma di illusione che non contenga una componente consolatoria: che una cosa bella si mantenga tale contro il tempo e le forze avverse, che una cosa brutta resti lontana anche se è incombente, che ciò che si anela fortemente oggi possa essere disponibile, chissà per quale magia, domani.
Le istanze consolatorie non sono necessariamente nemiche del lutto, della fondamentale esperienza di mancanza che ci dischiude alla vita e ai suoi imprevisti, guidandoci con l’intimo presentimento di un incontro rinnovato con l’oggetto di desiderio di cui solo essa è capace. Un investimento consolatorio dell’oggetto perduto, l’illusione di trattenerlo in qualche modo presente nella nostra vita nonostante tutto o, nella direzione opposta, di rivederlo apparire in forma nuova prima che questo sia veramente possibile, rende il dolore della mancanza più sopportabile e elaborabile nella direzione di un ritrovamento reale.
Quando la consolazione non diventa anestesia psichica, che dilaziona all’infinito l’incontro con ciò che si desidera, sostituendosi al lutto, piuttosto che supportarlo, lo spazio dell’illusione si amplifica, diventa il luogo in cui il vero può essere vissuto. Non nelle forme concrete, inconfutabili, in cui siamo soliti cercarlo (e le quali puntualmente lo tradiscono) ma nelle modalità che gli sono proprie: l’intuizione, la sorpresa, la meraviglia, il gusto della vita, il «non so che» di un sapere che è esperienza.
Questo sapere ci interroga, non è interrogato, ci rivela a noi stessi e agli altri, non è rivelato. Non disdegna la conoscenza logica con cui intrattiene un rapporto di tensione reciprocamente necessaria, ma ne decostruisce la vocazione colonizzante, che può diventare autoritaria, e le conferisce sfumature e profondità che da sola non potrebbe mai ottenere. Dal canto suo usufruisce della logica, che rende chiare le contraddizioni sulle quali non vuole sbattere, ma non cerca di risolverle in un modo o un altro. Ne sfrutta le potenzialità per ampliare il proprio spazio e affinare la propria sensibilità di modo che nel suo definirsi non si chiuda mai in sé, ma si ridefinisca sempre.
L’amore «a prima vista», fa parte del «non so che», dell’illusione che, sospendendo l’accadere delle cose, è afferrata dalla loro verità, ostile al già chiuso e al concreto, e, al tempo stesso, l’afferra. Non è della materia dell’inganno né della consolazione e neppure una proiezione di sentimenti correnti nel passato. È una rielaborazione onirica dell’esperienza che recupera ciò che del passato resta aperto al futuro, una potenzialità ancora in divenire, l’esposizione amorosa come sarebbe potuta o potrà ancora accadere, pure se è già accaduta e perfino se mai lo è stata concretamente. Non è amore per questa o quest’altra cosa o persona, mette insieme oggetti di diverse prospettive, grazie anche al privilegio che assegna a uno di loro. Mantiene vivo lo sguardo dell’amore, non lo giustifica né lo spiega storicamente.

Il Fatto 11.1.18
Alternanza scuola lavoro, è richiesta la “bella presenza”
Il portale - Almeno quattro gli annunci sul sito ufficiale: cercansi studenti di aspetto piacevole. Vietati piercing e tatuaggi

di Lorenzo Giarelli 

Vuoi lavorare in pasticceria? Va bene, ma solo se hai una “bella presenza”. Ti piacerebbe un posto alla reception di qualche albergo? Serve un buon inglese, certo, ma anche qui non si scappa: “Richiesta bella presenza”. Sempre più commercianti impongono queste clausole nei loro annunci, ma alcune di queste offerte di lavoro compaiono anche sul portale online dedicato all’alternanza scuola-lavoro, il programma inserito nella riforma della Buona Scuola renziana che rende obbligatorio per gli studenti un periodo di apprendistato in aziende o associazioni negli ultimi tre anni di superiori.
Sul sito dedicato all’alternanza – che ha i loghi di ministero dell’Istruzione, del Lavoro e di quello per lo Sviluppo economico e i simboli delle Camere di Commercio, UnionCamere e InfoCamere – ogni studente può scoprire quali imprese mettono a disposizione posti sul territorio, consultando nel dettaglio le offerte. Tra queste, una storica pasticceria di Gorle, a due passi da Bergamo, mette a disposizione due posti per l’alternanza, ma chiarisce, in maiuscolo: “Richiesta bella presenza, serietà, impegno”. Annuncio che, protesta il proprietario, non rispecchia la filosofia del locale e sarebbe frutto di un malinteso con il ministero, ma che resta lì da mesi senza che nessuno intervenga. Un albergo a Terranuova Bracciolini, in provincia di Arezzo, offre ai ragazzi due posti per 90 giorni come receptionist, purché il candidato dimostri “propensione all’accoglienza, pulizia, bella presenza”, qualità che nell’annuncio vengono richieste ancor prima della “comprensione della lingue inglese”. L’hotel di Terranuova è in buona compagnia: altre attività di alloggio interpretano allo stesso modo l’alternanza. Un albergo a 4 stelle di Gais, ottanta chilometri sopra Bolzano, aveva pubblicato un annuncio per trovare un addetto alla reception per i mesi estivi dell’anno scorso. Oltre alla “buona conoscenza linguistica” di tedesco e italiano, neanche a dirlo, nell’annuncio, ancora disponibile sul portale, spicca l’aggiunta: “Richiesta bella presenza”. Criteri simili a quelli richiesti da una struttura di Rignano sull’Arno (Firenze), che affitta camere sia in modalità alberghiera sia per feste ed eventi privati. Fino allo scorso ottobre per gli studenti erano ben dieci le posizioni aperte nell’accoglienza del cliente, alle solite condizioni: “Maschio, femmina, bella presenza, pulizia e igiene personale”. Requisito primario, messo in chiaro prima delle lingue e del dress code, e prima anche di curiose limitazioni a “piercing e tatuaggi”. D’altra parte, come specifica lo stesso annuncio, “dal comportamento di questa figura professionale derivano le recensioni positive o negative che il turista lascerà sui portali”. Niente sgarri, quindi, soprattutto sull’aspetto fisico.
Meno di un mese fa il ministero del Lavoro si era dovuto scusare per un caso simile e aveva dovuto rimuovere un annuncio dal portale di Garanzia Giovani perché un’azienda specificava di essere alla ricerca di “un’impiegata di bella presenza”. La polemica scaturita sui social, all’epoca, sembrava aver messo in guardia il governo rispetto alle offerte pubblicate dalle aziende sui propri portali, ma evidentemente gli staff dei ministeri continuano a non vigilare abbastanza.

Il Fatto 11.1.18
“Il fascismo è eterno: ecco come lo si può riconoscere”
Non pensiero ma azione
Esce oggi per La Nave di Teseo “Il fascismo eterno”, la lectio inedita pronunciata da Umberto Eco alla Columbia University il 25 aprile 1995. Ne pubblichiamo uno stralcio.
di Umberto Eco


Il termine “fascismo” si adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista. […] Ritengo sia possibile indicare una lista di caratteristiche tipiche di quello che vorrei chiamare l’“Ur-Fascismo”, o il “fascismo eterno”. che non possono venire irreggimentate in un sistema; molte si contraddicono reciprocamente, e sono tipiche di altre forme di dispotismo o di fanatismo. Ma è sufficiente che una di loro sia presente per far coagulare una nebulosa fascista.
1. […] Il culto della tradizione. Il tradizionalismo è più vecchio del fascismo. Non fu solo tipico del pensiero controrivoluzionario cattolico dopo la Rivoluzione francese, ma nacque nella tarda età ellenistica come una reazione al razionalismo greco classico. Nel bacino del Mediterraneo, i popoli di religioni diverse (tutte accettate con indulgenza dal Pantheon romano) cominciarono a sognare una rivelazione ricevuta all’alba della storia umana. Questa rivelazione era rimasta a lungo nascosta sotto il velo di lingue ormai dimenticate. Era affidata ai geroglifici egiziani, alle rune dei celti, ai testi sacri, ancora sconosciuti, delle religioni asiatiche. Questa nuova cultura doveva essere sincretistica. […] tollerare le contraddizioni. Come conseguenza, non ci può essere avanzamento del sapere. La verità è stata già annunciata una volte per tutte […] È sufficiente guardare il sillabo di ogni movimento fascista per trovare i principali pensatore tradizionalisti. […]
2. Il tradizionalismo implica il rifiuto del modernismo. […] Tuttavia, sebbene il nazismo fosse fiero dei suoi successi industriali, la sua lode della modernità era solo l’aspetto superficiale di una ideologia basata sul “sangue” e la “terra” (Blut und Boden). […] L’illuminismo, l’età della ragione vengono visti come l’inizio della depravazione moderna. In questo senso, l’Ur-Fascismo può venire definito come “irrazionalismo”.
3. L’irrazionalismo dipende anche dal culto dell’azione per l’azione. […] Pensare è una forma di evirazione. Perciò la cultura è sospetta nella misura in cui viene identificata con atteggiamenti critici. […]
4. Nessuna forma di sincretismo può accettare la critica. Lo spirito critico opera distinzioni, e distinguere è un segno di modernità. Nella cultura moderna, la comunità scientifica intende il disaccordo come strumento di avanzamento delle conoscenze. Per l’Ur-Fascismo, il disaccordo è tradimento.
5. Il disaccordo è inoltre un segno di diversità. L’Ur-Fascismo cresce e cerca il consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza. […] è dunque razzista per definizione.
6. L’Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici è stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni.
7. A coloro che sono privi di una qualunque identità sociale, l’Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso paese. È questa l’origine del “nazionalismo”. Inoltre, gli unici che possono fornire una identità alla nazione sono i nemici. Così, alla radice della psicologia Ur-Fascista vi è l’ossessione del complotto, possibilmente internazionale. I seguaci debbono sentirsi assediati. Il modo più facile per far emergere un complotto è quello di fare appello alla xenofobia. […]
8. I seguaci debbono sentirsi umiliati dalla ricchezza ostentata e dalla forza dei nemici. […]
9. Per l’Ur-Fascismo non c’è lotta per la vita, ma piuttosto “vita per la lotta”. Il pacifismo è allora collusione col nemico[…].
10. L’elitismo è un aspetto tipico di ogni ideologia reazionaria, in quanto fondamentalmente aristocratico. Nel corso della storia, tutti gli elitismi aristocratici e militaristici hanno implicato il disprezzo per i deboli. L’Ur-Fascismo non può fare a meno di predicare un “elitismo popolare”. Ogni cittadino appartiene al popolo migliore del mondo, i membri del partito sono i cittadini migliori, ogni cittadino può (o dovrebbe) diventare un membro del partito. Ma non possono esserci patrizi senza plebei. Il leader, che sa bene come il suo potere non sia stato ottenuto per delega, ma conquistato con la forza, sa anche che la sua forza si basa sulla debolezza delle masse, così deboli da aver bisogno e da meritare un “dominatore”. […]
L’Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme – ogni giorno, in ogni parte del mondo.

Il Fatto 11.1.18
“Catherine sbaglia, è il ricatto che deve esser denunciato”
di Camilla Tagliabue


Catherine Deneuve unisce le sponde dell’Atlantico (e un bel pezzo d’Europa) dopo le sue parole su “lasciamo agli uomini la libertà di importunarci, fondamentale per la libertà sessuale” e i distinguo sulle reazioni allo scandalo Weinstein. Così, mentre il fondatore della Miramax prima venerato dalle donne del mondo dello spettacolo continua ad esser additato a mostro (vedi lo speech di Oprah Winfrey ai Golden Globe) tanto da esser malmenato nel ristornate nel quale stava cenando insieme al coach che lo segue nel percorso di disintossicazione dall’ossessione sessuale, l’attrice italiana Asia Argento che è assurta a paladina delle molestate dopo le accuse contro il tentacolare produttore newyorchese ha risposto all’attrice francese sostenendo che “la Deneuve e le altre donne francesi dicono al mondo come la loro misoginia interiorizzata le abbia lobotomizzate sino al punto di non ritorno”. Anche la sottosegretaria all’Egalité entre les femmes et les hommes  (ovvero alle pari opportunità) Marlène Schiappa ha definito scioccante il testo firmato dalla Deneuve e da altre signore degli spettacoli e della cultura francese. E la presidente della Camera Boldrini si è addirittura detta “esterrefatta”.
Dacia Maraini ha da poco festeggiato il traguardo del milione di copie vendute de La lunga vita di Marianna Ucrìa (Rizzoli), la cui giovane protagonista “reagisce alla violenza (maschile) col mutismo”. Tutto il contrario, insomma, del chiacchieratissimo scandalo sessuale a Hollywood e dintorni, con coro di donne indignate, e vestite a lutto contro abusi e molestie.
Per lei c’è una vera contrapposizione tra il movimento #MeToo e la contro-lettera di Catherine Deneuve (e altre)? Se sì, da che parte sta?
Credo ci sia un equivoco (nella lettera, ndr) perché una cosa è il corteggiamento, un’altra il ricatto. Se non si distingue è un problema serio: nessuno è contro il corteggiamento. Giustamente, siccome lei (la Deneuve, ndr) ha parlato di “mano sul ginocchio”, qualcuno le ha fatto notare che nessuno è mai stato accusato per aver messo una mano sul ginocchio di una donna. Non è questo il punto; la molestia scatta quando si dice: “Tu avrai questa parte o farai questo film se vieni a letto con me”. Questo non c’entra niente col corteggiamento. Che corteggiamento è? Questo è ricatto.
Quindi #MeToo denuncia solo i ricatti…
Sì, tutto quel movimento di Hollywood è nato per questo, perché nel mondo dello spettacolo – e non solo – è venuta a galla una prassi consolidata: molti uomini approfittavano del proprio potere per avere scambi sessuali con donne. Tutto lì: quello che è stato denunciato è il ricatto. Nessuno ha mai detto che il corteggiamento non si debba fare: non è questa la questione, altrimenti si fa di tutta l’erba un fascio. Bisogna distinguere e chiarire.
Non crede però che la protesta, più che legittima, stia degenerando in una generica caccia alle streghe?
È normale: in tutte le proteste c’è qualcuno che approfitta della situazione, si fa gli affari propri e lancia accuse ingiustamente. Succede sempre, ma non è una buona ragione per non protestare. Esisterà sempre qualcuno che ne approfitta, ma non vuol dire nulla. Bisogna invece aver fiducia in quelle giovani artiste, registe, attrici che hanno denunciato questa prassi comune delle molestie. Io credo a loro, non credo che sia un problema della mano sul ginocchio o di una pacca sul sedere. Il ricatto è una cosa molto più grave, e riguarda chi ha il potere di decidere del futuro e della carriera di una donna e ne approfitta per ricevere favori sessuali.
Quindi, ben venga il cancan mediatico…
Certo, così gli uomini staranno più attenti. È necessario che lo siano. Poi, certamente, ci sarà sempre qualche donna che ne approfitta: le donne non sono tutte angeli. Però, ripeto, questa non è una buona ragione per negare una realtà vergognosa.

La Stampa 11.1.18
Ha ragione la Deneuve lasciamoci corteggiare
Meno male che finalmente qualcuna l’ha detto. Se poi a dirlo è l’intramontabile (anzi no: tramontiamo tutte, in un modo o nell’altro) Catherine Deneuve con il suo fascino parigino, tanto meglio.
«Difendiamo la libertà di importunare» è il titolo della lettera aperta firmata da lei e da altre cinque donne, pubblicata su «Le Monde». Libertà di importunare ed essere importunate.
di Elena Loewenthal


Meno male che finalmente qualcuna di noi alza la voce e dice le cose come stanno per milioni di donne. Perché, detto fra noi, si era tutte un po’ stufe di queste storie di molestie, soprusi, assalti, tentativi più o meno riusciti di abbattere le difese di quella tenace e (quasi) inviolabile rocca che è il corpo femminile. Si era tutte un po’ perplesse dall’esposizione collettiva di «è capitato pure a me e lo sputo fuori». Senza, beninteso, nulla togliere a chi la violenza sessuale l’ha subita sul serio e merita rispetto ma prima ancora sentimenti caldi e delicati.
Ma, diciamocelo francamente, fra il provarci (anche con modi non propriamente da casa reale) e il molestare lo sappiamo tutte che corre una bella distanza, anche se il confine fra le due cose è assai sottile e per distinguerlo non di rado ci vogliono un pizzico di intuito (ma gender o non gender, il sesso debole ne ha a sufficienza) e una dose più o meno analoga di sana malizia.
Perché noi donne normali (per intenderci, diverse da Catherine Deneuve) e soprattutto noi donne normali sopra una certa età, che a tirare le somme fra una categoria e l’altra siamo la schiacciante maggioranza, eravamo stufe e pure stizzite, per non dire persino un poco invidiose, al sentire queste confessioni. Perché noi donne normali e sopra una certa soglia comunque piuttosto bassa di età non è che ci assaltano sessualmente tutti i momenti, non è che siamo assediate dalla libidine maschile.
Del resto, anche se non veniamo (più) sessualmente molestate ad ogni piè sospinto (benché di solito sia di mani che si tratta), ancora sappiamo e/o ci ricordiamo che il gioco fra uomo e donna è fatto sostanzialmente di questo, di dinamica fra domanda (ci stai?) e offerta (sì/no/forse/dopo). E che in questa dinamica si attesta una gamma quasi infinita e certamente inesauribile di sfumature che spaziano dal mazzo di rose alla palpata dritta alle parti intime. Senza esclusione di colpi perché da che mondo è mondo l’unica regola in vigore dovrebbe essere la fantasia anche se non di rado lui pecca di pigrizia e si adagia sui soliti, vecchi rituali, magari un poco sbrigativi. Perché per l’appunto, da che mondo è mondo le donne sono più creative mentre l’uomo bada, per l’appunto, al sodo.
Ma tutto questo, nella gran maggioranza dei casi e delle occasioni, non è violenza. Come dice quella che ormai è diventata l’icona di noi donne normali e/o sopra una certa età: «Lo stupro è un crimine, ma il corteggiamento insistente o maldestro non è un delitto, né la galanteria un’aggressione maschilista». Per di più, questa epidemia di denunce mediatiche che la nostra icona non esita a definire «puritanesimo» riporta le donne al vetusto status di eterne vittime. Quando anche nei casi più «delicati» basterebbe non di rado una ginocchiata ben assestata nei punti più «delicati», per risolvere la faccenda.
Ma tutto è bene quel che finisce bene, e da oggi noi donne normali e/o sopra una certa età possiamo dire a gran voce: «Je suis Catherine Deneuve».

Repubblica 11.1.18
Divise sulle molestie
Il duello delle donne francesi
di Anais Ginori


Il femminismo delle borghesi, scriveva già Simone de Beauvoir, non può essere quello delle operaie.
La battaglia per la «libertà di importunare le donne», lanciata da Catherine Deneuve e altre intellettuali che hanno firmato l’appello su Le Monde, appartiene a una ristretta cerchia sociale. L’attrice non è nuova alle lotte femministe, ha sottoscritto con coraggio Le Manifeste des 343 Salopes nel quale una serie di donne famose confessavano di aver abortito, quattro anni prima che l’interruzione di gravidanza venisse legalizzata.
E ora si unisce al coro che vede nello scandalo Weinstein il rischio di trasformare gli uomini in «porci» da svergognare, di incatenare le donne «all’eterna categoria delle vittime», e di diminuire, anziché rafforzare, l’emancipazione.
Un contro-appello circola da ieri online, lanciato dalla femminista Caroline De Haas, con la promessa di andare avanti nella battaglia contro molestie e abusi di potere, titolo: “I porci e le loro alleate fanno bene a preoccuparsi”. Le divergenze tra femministe, minime quando si parla di disparità economiche e professionali, diventano enormi sulle libertà individuali, l’autodeterminazione.
Come in altre occasioni, lo scandalo Weinstein ha provocato opposti schieramenti. Già nel 1992, la filosofa Elisabeth Badinter pubblicava un pamphlet, “La strada degli errori”, contro il femminismo «vittimista» importato dagli Stati Uniti. All’epoca il dibattito era provocato dalla prima legge per punire le molestie sui posti di lavoro. La contrapposizione si è riproposta diverse volte, l’ultima due anni fa, quando il governo socialista ha fatto approvare la legge per punire i clienti delle prostitute. Badinter, insieme a Deneuve e altre intellettuali, difendevano la libertà di disporre del proprio corpo. Altre femministe si opponevano a ogni forma di sottomissione, anche volontaria.
Ogni rivoluzione ha i suoi eccessi, ed è doveroso vigilare, allertare su possibili derive. Eppure i timori espressi da Deneuve e dalle altre esponenti dell’élite parigina appaiono un lusso un po’ snob per chi è stata abituata a subire battute, aggressioni, discriminazioni e nelle ultime settimane ha finalmente visto rompersi il muro dell’indifferenza. Una giovane studentessa che viaggia nella calca della metropolitana non vorrà derubricare una pacca sul sedere a «espressione della miseria sessuale» o «non evento», come dicono frettolosamente le promotrici dell’appello, con il rischio invece di colpevolizzare chi denuncia le molestie. E dove finisce la «libertà di importunare», di cui parlano le firmatarie? Dire che la manager di successo può giocare nella sua camera da letto a fare la «schiava sessuale», altro esempio del testo sottoscritto da Deneuve, non significa eludere un dibattito sui modelli femminili tramandati da decenni, che possono condizionare nell’intimità e impedire ancora oggi di indagare ed esprimere i propri desideri. Una cassiera di supermercato non sarà forse mai così serena come la scrittrice libertina Catherine Millet, altra firmataria dell’appello, davanti alle drague maladroite, il corteggiamento maldestro del suo capo reparto.
Ma il disgusto e la reazione contro la licenza di importunare per fortuna sembrano non conoscere più le antiche distinzioni di classe sociale. Come dimostrano il caso Weinstein e le denunce delle attrici americane, che certo non sono delle proletarie.

Corriere 11.1.18
Noi e le donne
I no che i maschi dovrebbero iniziare a dirsi
di Pierluigi Battista


Ma allora, a chi dobbiamo dar retta, noi esseri umani di genere maschile, insomma maschi? Stare dalla parte delle star che hanno sfilato in nero sul red carpet della gloria al Golden Globe 2018 oppure con le tre Catherine — Deneuve, Millet, Robbe-Grillet — che invece denunciano il clima da caccia alle streghe, il nuovo puritanesimo, l’attacco alla libertà sessuale che si celerebbe dietro la campagna del #MeToo ?
C o sa fare, come comportarsi, fin dove è lecito spingersi? Adeguarsi, sì va bene. Ma se stessimo esagerando, dicono tanti di noi? E se si salda pericolosamente in un’unica catena la predazione ricattatoria di Weinstein, e poi la molestia, e poi il tentativo di un bacio e di un abbraccio spinto, e poi l’insistenza nel corteggiamento, e poi la seduzione audace e poi il corteggiamento stesso, e poi la timida avance, insomma il «provarci» che è l’antefatto stesso di una relazione? E poi, «provarci», esattamente cosa significa, qual è il limite? E poi, dobbiamo rassegnarci davvero a una infinita, straziante, snervante guerra tra i sessi?
Da qualche mese a questa parte i maschi sono frastornati. Lo sono sempre, ma da qualche mese più del solito. Si sentono sotto attacco, addirittura. Più semplicemente, non sanno più bene, o fingono di non saperlo, qual è il confine, il limite, la soglia da non oltrepassare in una vita che mica è ingabbiata in uno schema lineare e asettico, è complicata, torbida, confusa, fangosa talvolta. Edoardo Albinati ha scritto che essere maschi «è una malattia incurabile». Ma almeno possiamo consolarci con qualche cura palliativa. Proviamo a soffocare il primitivo che è in noi, civilizziamoci. E soprattutto, proponiamo di delimitare il campo della discussione, di mettere un po’ di ordine, si circoscrivere il discorso. Articolandolo in tre capitoli.
La violenza sessuale
Primo capitolo, quello più tremendo: la violenza sessuale, lo stupro. Non facciamola troppo complessa: è, inequivocabilmente, stupro la costrizione a un rapporto sessuale che non potrebbe aver luogo se si rispettasse la volontà della donna che lo subisce. Possiamo renderla più mossa e articolata, ma la violenza sessuale è riconoscibile, netta, chiara. Noi maschi dovremmo tracciare una linea di demarcazione invalicabile con chi commette uno stupro, allontanare i giustificazionisti dall’area della rispettabilità: non sono eccentrici politicamente scorretti, sono dei cialtroni. Chi dice o pensa «se l’è cercata» incarna lo stereotipo dell’imbecille, dice una cosa falsa. Recentemente qualcuno ha avuto l’ottima idea di mettere in mostra i vestiti indossati dalle donne al momento della violenza sessuale: la stragrande maggioranza erano vestiti normalissimi, dimostrando ancora una volta l’assoluta inconsistenza dello pseudo-argomento «se la sono cercata». E se anche fosse, anche chi se ne va vestita in modo cosiddetto «provocante» cerca di apparire bella, desiderabile, seducente, attraente, esercita semplicemente un diritto inalienabile nelle società moderne. Chi sostiene il contrario e nega questo diritto è un imbecille. È troppo dirlo? No, se l’è cercata.
La zona grigia
Secondo capitolo, quello più scivoloso: la zona grigia, che poi è quella che attira il maggior numero di maschi, e che non sono nemmeno potenti produttori di Hollywood. Qui i confini, esclusa la violenza come da capitolo uno, sono davvero poco chiari. O forse no: diciamocelo noi maschi, ce la cantiamo, perché lo sappiamo benissimo, lo sappiamo per intuito, sensazione, esperienza, dove sta il confine. E il confine è il consenso. Tutto è più difficile nelle relazioni dove non entra lo squilibrio gerarchico, il rapporto di potere crudo e brutale, nei piccoli uffici, nei negozi, nelle cliniche, negli studi professionali, in tutto il mondo che non ha i riflettori addosso. Tutto diventa più macchiato e sconnesso, c’entrano passioni, ambivalenze, attrazioni, il fascino, la trasgressione, il desiderio senza nome, persino la sfera del dominio e della sottomissione. E qui si capisce l’appello delle tre Catherine: non riduciamo la vita a un freddo decalogo, questo sì, questo no, questo si dice, questo non si dice. Ma si capisce anche che noi maschi facciamo finta di non capire quando il no è no. E se insistiamo, non è perché siamo presi da impulsi sessuali veementi e incontrollabili, ma semplicemente perché mal sopportiamo l’umiliazione del rifiuto. «Ma come, osa resistere al mio fascino?», «Dice no ma in realtà è un sì» e via consolandoci con questa rappresentazione grottesca e auto-millantatrice, se così si può dire, di noi stessi. Questo capitolo si può tenere fuori dalla discussione? La zona grigia può restare grigia, ma il punto del consenso è quello fondamentale. Spingersi oltre, forzando la resistenza altrui, non è un eccitante gioco di ruolo, è una carognata. Tanto lo sappiamo dove si situa quell’«oltre».
L’abuso di potere
Terzo capitolo, il vero punto dolente, quello che è e deve restare il vero oggetto della disputa: l’abuso di potere. Il ricatto per cui o ti adegui alle mie condizioni oppure perdi il lavoro è una roba che noi maschi dovremmo considerare con aperta ripugnanza. Si è sempre fatto? Basta, non si fa più. Il produttore o il regista che scarta la giovane attrice perché non ha ceduto fa schifo, punto. O il luminare medico che fa cacciare la giovane infermiera precaria. O il super capoufficio che estorce un disgustato sì alla sua segretaria. O il direttore di un supermercato con la cassiera con contratto a tempo determinato. Ci sono momenti della storia in cui quello che appariva normale un minuto prima, un minuto dopo appare come una porcheria. Il momento attuale è uno di questi e non credo che ne venga messa a rischio la nostra virilità o la libertà sessuale di tutte e di tutti. Fare i minimizzatori su questo punto è sbagliato. Poi, certo, c’è anche, in qualche caso, il fascino del potere. Poi ci sono quelle che si sono adeguate. Ma tra i diritti fondamentali c’è anche quello di non essere eroiche, di temere le conseguenze, di non saper o di non voler prendere a ceffoni il predatore. Questo diritto è incoercibile. E capirlo è indispensabile, meglio tardi che mai.

Il Fatto 11.1.18
“Solo la letteratura tiene viva la memoria della Shoah”
Lia Levi. Esce oggi “Questa sera è già domani”
“La politica italiana ha sempre minimizzato le leggi razziali”
di Silvia D’Onghia


La politica fatta di slogan, di frasi fatte, non porta da nessuna parte. Per coltivare la memoria, ci rimane soltanto la letteratura”. Lia Levi sa bene che i pericoli delle nuove destre sono in agguato e conosce altrettanto bene l’importanza di continuare a raccontare l’orrore che le leggi razziali e la Shoah hanno rappresentato. Esce oggi per e/o il suo nuovo romanzo, Questa sera è già domani, la storia di un ragazzo (genietto a scuola) e dell’eterno dilemma tra restare e nascondersi o scappare per mettersi al sicuro.
Signora Levi, è un romanzo ispirato alla storia di suo marito, Luciano Tas. Un omaggio o un racconto che serve da esempio?
Nessuno dei due: i libri nascono dentro, senza un intento preciso. Il fattore ponte viene dopo, a volte l’autore non lo sa neanche. Mio marito raccontava la sua storia in casa, a episodi, oppure la scriveva su un libretto di appunti, ma dal punto di vista di un saggista, con piglio ironico e divulgativo. Gli episodi che narrava mi hanno sempre stimolato. Una volta gli ho chiesto: ‘Perché non la scrivi?’. Lui non era un romanziere, così quando gli ho proposto di farlo io, lui ha risposto: ‘Magari!’. Ho la coscienza di non aver rubato nulla.
Esiste invece una risposta al dilemma che, ancora una volta, trapela dai suoi libri?
Le cito Shakespeare: ‘La paura cieca guidata dalla ragione chiaroveggente muove passi più sicuri della ragione cieca che inciampa senza la paura’. Non esiste né politica né etica, esiste il sentire i tempi, senza cullarsi nell’ottimismo.
I fascisti stanno tornando?
Bisogna distinguere. I gruppi violenti e malavitosi, quelli che aggrediscono gli stranieri o i barboni, sono la rappresentazione di strati sociali fuori da qualsiasi tipo di cultura e di civiltà. Recentemente ho riletto il Manifesto degli scienziati razzisti, che elogiavano la parola ‘razza’. Oggi invece, anche tra questi nuovi governi di destra, nessuno dice di essere razzista.
Forse perché sarebbe politicamente scorretto?
Quando sei uno Stato in cui ha vinto la destra estrema non te ne importa nulla, anzi.
Lei va spesso nelle scuole a parlare con i ragazzi. Come reagiscono di fronte al racconto del nazifascismo?
Vengo chiamata da professori che sono sensibili al problema. I miei incontri sono positivi, perché c’è stata una preparazione. Alle superiori spesso usano la tecnologia per realizzare nuovi materiali su quel periodo.
A proposito di nuove tecnologie, lei è sui social?
Facebook mi fa orrore, è tutto finto: ti chiedo l’amicizia, ma quella non è amicizia. C’è una dilatazione dell’ego che si estende in larghezza e non in profondità.
Qual è – se c’è ancora – il ruolo della cultura nel raccontare la Shoah?
C’è rimasta solo la cultura. Con la scomparsa degli ultimi testimoni, è l’elaborazione creativa a restare viva. Una cosa è il ricordo, un’altra è la memoria, che è elaborazione del ricordo. I fatti hanno bisogno di essere metabolizzati ed è lunga, ci si perde in vari strati. La coscienza è stratificazione. In più la realtà per manifestarsi ha bisogno dell’immaginazione, altrimenti rimane un fatto raccontato. La letteratura universalizza questi fatti.
E la politica?
L’Italia non ha mai preso davvero coscienza delle leggi razziali. Alcuni articoli erano più duri di quelli del nazismo, per esempio quelli sulla scuola. Nelle città piccole, dove non c’erano le scuole ebraiche, è stato perso il diritto allo studio. La proibizione del lavoro ha contribuito allo sterminio, perché si moriva di fame. Le leggi razziali hanno contribuito allo sterminio. Ma tutto questo è stato annullato dalla nostra memoria. Forse oggi, a 80 anni dalla loro promulgazione, è giunto il tempo per una riflessione più ampia.
Quali sono, nel 2018, i nuovi scampati?
Le popolazioni in fuga da cose terribili, con destini di accoglienza diversi. L’Italia sul piano del salvataggio è unica. E anche su quello dell’accoglienza, le nostre condizioni saranno sempre meno terribili della Libia. Però dico una cosa: Roma antica prendeva tutti, ma tutti si dovevano identificare con i valori romani. Se noi pensiamo che per accogliere qualcuno dobbiamo fare tappetino dei nostri valori, allora no.

Repubblica 11.1.18
Elogio della follia l’esperienza che ci porta a contatto con il sacro
di Moreno Montanari


Vera e propria critica della ragion burocratica, Cronache dal fondale, scritto dallo psichiatra di formazione junghiana Mario Ferruccio Franco (Moretti &Vitali, pagg. 146, euro 14) testimonia, con forza e grazia davvero rare, la possibilità di continuare “a fare anima” in strutture psichiatriche pubbliche, nelle quali l’attenzione a protocolli procedurali rischia di prendere il sopravvento sulla visione d’insieme e di far dimenticare la vera ragione per la quale ci si trova lì. Sedotti dalla presunzione di poter catalogare ogni forma di disagio psichico riconducendola a impersonali formule generali, scrive l’autore, «abbiamo imparato a dare moltissime risposte, ma ci siamo dimenticati delle domande».
Cronache dal fondale nasce dal convincimento che andare a fondo in queste domande sia l’unico modo per non affondare.
Per farlo occorre però rimettere al centro la relazione e fare dell’incontro un’esperienza emotivamente significativa, caratterizzata da un dialogo in cui «non c’è una verità concreta da appurare», ma un’intuizione improvvisa che collega mente e cuore e pone le cose sotto una nuova luce.
Non sempre l’operazione riesce; a volte il dolore e il caos che abitano l’Altro sono, come gli dice un paziente, «grandi come l’impossibile». In questi casi il rischio è farsi sommergere da tanto dolore e colludere con la rassegnazione del paziente; ma chi ha scelto di vivere questa professione, pur accettando di condividere l’ombra, sceglie di stare dalla parte della luce, di cercare l’alba dentro l’imbrunire, per imparare, col tempo, ad apprendere, riconoscere ed apprezzare anche gli spostamenti millimetrici, senza voler forzare le cose a tutti i costi, accettando i propri limiti e rispettando i tempi e i modi dell’interlocutore e della sua malattia. Tutte capacità che, secondo Franco, difettano alla nostra società, paragonabile alla figura clinica del borderline, intollerante nei confronti di ogni minima frustrazione e dilatazione del godimento, perché teme il vuoto più di ogni altra cosa e cerca di riempirlo compulsivamente con tutto l’effimero consumistico e tecnologico. «La follia, il nostro vecchio oggetto di lavoro», commenta amaro, «non è diminuita, né tanto meno scomparsa, si è semplicemente istituzionalizzata. Si è ben annidata nelle pieghe più nascoste della nostra vita quotidiana, si è saldamente ancorata alla vita politica, dove da tempo si è ormai persa ogni nozione di verità, logica e misura». Allora la malattia può fare da medicina; all’autore, la sclerosi multipla che lo ha colpito alcuni anni fa ha insegnato a tenere concretamente conto della sua fragilità, avvicinandolo alle persone che si siedono davanti a lui tutti i giorni. È forse anche grazie alla malattia che nel libro si respira un’aria di vero. Un’aria che attraversa tutto il libro, insieme alla «passione, non solo per il lavoro ma per la vita comunque sia».
Un sentimento che emerge in tutta la sua forza sia dalle narrazione degli incontri con i pazienti, talvolta pieni di immagini poetiche, che dal ricordo dello scontro generazionale con il padre quando l’autore aveva l’età che ha oggi sua figlia. E ancora dalla sorpresa per attimi di «calma senza aggettivi», dal piacere solitario delle passeggiate attorno al Monastero di Camaldoli o dalla meraviglia di sentirsi «vivi insieme». Tutte esperienze animate da una ricerca, forse laica, di quel divino che abita la follia e che l’autore riesce a scorgere e a comunicare.