il manifesto 10.1.18
Niger, la Camera voterà la missione prima prova dell’intesa Pd-Forza Italia
L'Italia in Africa. 5 Stelle, Mdp e Si ottengono di discutere in aula l’intervento. Imbarazzo dem
di Carlo Lania
Lunedì l’avvio della discussione nelle commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato. Un confronto tra i partiti che si annuncia però più che veloce visto che è già stato fissato per due giorni dopo, mercoledì 17 alle 16, il voto dell’aula di Montecitorio.
L’iter che porta al rinnovo delle missioni italiane all’estero, e in particolare al via libera per il nuovo impegno militare in Niger, è al nastro di partenza. Con una novità però che, per quanto prevedibile, non deve essere piaciuta al Pd che avrebbe preferito chiudere la partita direttamente nelle commissioni. Nella capigruppo che si è tenuta ieri a Montecitorio, invece, Sinistra italiana, Mdp e M5S hanno chiesto e ottenuto di discutere in aula la delibera varata dal governo nell’ultimo consiglio dei ministri del 2017, nonostante il capogruppo dem Ettore Rosato abbia provato a convincerli a saltare il passaggio assembleare. Una decisione che crea imbarazzo tra i dem, che in piena campagna elettorale si troveranno così a votare a favore della missione insieme a Forza Italia.
In attesa di riconferma ci sono 49 missioni già in atto più sei nuove.
Oltre al Niger, nuovi impegni riguardano la Tunisia, dove i soldati italiani prenderanno parte a una missione Nato, e l’invio di ulteriori 100 uomini in Libia che andranno ad aggiungersi ai 300 già presenti. Il nuovo contingente avrà il compito di ripristinare l’efficienza dei mezzi terrestri, navali e aerei del governo Serraj. Né a Montecitorio, né a Palazzo Madama sono previste sorprese. Forza Italia ha infatti già dato il suo assenso anche all’intervento nel Sahel garantendo così il passaggio parlamentare insieme a Pd e Ap. Contrari, invece, M5S, Si e Mdp, anche se il senatore Federico Fornaro ribadisce di voler prima conoscere la natura della missione e il contesto in cui dovrà operare. «Cosa andiamo a fare in Niger?», chiedeva ieri il senatore Mdp. «Rispetto alle dichiarazioni fatte inizialmente dal premier Gentiloni le parole del ministro Pinotti hanno ridimensionato l’aspetto ’combat’ della missione. Se non ci saranno chiarimenti in merito voteremo sicuramente no».
Intanto al ministero della Difesa proseguono i preparativi, con venti militari presenti dal 20 dicembre scorso a Niamey per discutere con le autorità nigerine i particolari dell’intervento italiano e che tipo di addestramento fornire alle forze militari e di sicurezza del Paese. Dei 470 uomini previsti una volta regime (120 nel primo semestre), più della metà sono infatti addestratori che avranno il compito di insegnare ai nigerini come pianificare le missioni di contrasto al terrorismo e come comportarsi in caso di imprevisti. Ma anche, come è scritto nella relazione che accompagna la delibera del governo, come fronteggiare l’attuale situazione globale caratterizzata da «epocali flussi migratori».
Un addestramento che si potrebbe definire di livello «superiore» visto che, come fanno presente al ministero della Difesa, quelle nigerine sono forze già adeguatamente equipaggiate e armate. I soldati italiani potranno contare anche su 130 mezzi terrestri, tra i quali gli ultimi modelli di blindati Lince adatti a viaggiare nel deserto, oltre a due aerei trasporto merci e truppe (potrebbero essere due C-130 o, in alternativa, due C-27J). Costo della missione nigerina per il primo anno: 30.050.995 euro.
Corriere 10.1.18
Santa sede il caso
Il ritorno dei corvi in Vaticano Mail contro il direttore dello Ior
Nel testo finte scuse di Mammì per fatti pubblici e privati. Il mittente è ignoto
di Massimo Franco
Un «corvo» vaticano ha posato il suo uovo elettronico avvelenato pochi giorni dopo Natale: una lunga, dettagliata email inviata a diciassette dipendenti del Governatorato e a due indirizzi della diocesi di Roma, che vuole essere un atto di accusa contro il direttore dello Ior, Gianfranco Mammì. La forma, riferisce chi ha avuto modo di scorrere la lettera, sarebbe quella di una «confessione» nella quale il dirigente bancario si scuserebbe per una serie di episodi, alcuni pubblici e altri molto privati, avvenuti durante la sua carriera: molti dei quali riguardano proprio la sua attività presso l’Istituto per le Opere di religione. Da quanto ha potuto verificare il Corriere , che ha cercato di contattare Mammì senza ricevere risposta, il direttore dello Ior ha già informato le autorità vaticane. E sembra che abbia negato qualunque responsabilità: non solo nella redazione dell’email ma a proposito del suo contenuto.
Ma questo rende ancora più grave e inquietante l’episodio. Avviene ad appena un mese dal siluramento improvviso e misterioso di Giulio Mattietti, «vice» di Mammì, per «violazioni amministrative» che non sono mai state chiarite: una decisione avallata personalmente da Papa Francesco, che pure scelse Mammì e Mattietti nel 2015, superando alcune obiezioni all’interno del Vaticano. E espone il direttore dell’Istituto, che ha colloqui più o meno settimanali col pontefice, a voci destinate a riportare all’attenzione le riforme finanziarie incompiute, e il loro stesso futuro. Il fatto che non si sappia chi ha costruito l’email e da quale computer sia partita, allunga ombre sporche e antiche sugli avvenimenti degli ultimi mesi. E lascia un punto interrogativo non solo sulle vere ragioni del licenziamento di Mattietti, ma sulla gestione di Mammì. Chi ha mandato la lettera sa molto delle vicende interne allo Ior, spiegano in Vaticano.
I collaboratori di Francesco sostengono che si tratta di un’operazione tesa a screditare il suo papato; e a mostrarlo caotico e inquinato da veleni e faide interne come nell’ultima fase di quello di Benedetto XVI, che si dimise, esasperato, nel febbraio del 2013. Il problema è che la confusione è difficile da ignorare. In un anno, i vertici finanziari ai quali erano state affidate le riforme sono stati decapitati. Il 19 giugno del 2017 si dimise il supervisore generale Libero Milone, che era stato scelto personalmente da Jorge Mario Bergoglio due anni prima per fare pulizia nei conti vaticani; e tre mesi dopo Milone rivelò che le sue non erano state dimissioni consensuali, ma provocate da minacce di arresto. Nello stesso arco di tempo è stato costretto a gettare la spugna, ufficialmente in aspettativa, il cardinale australiano George Pell, «ministro dell’Economia» del Vaticano: è dovuto tornare nel suo Paese per difendersi in un processo per un caso di alcuni decenni fa di molestie sessuali.
E nello spazio dell’ultimo mese è saltato Mattietti e ora si muove un «corvo» per colpire Mammì, che col suo vice avrebbe avuto seri contrasti a causa di una gestione definita troppo «personalistica» dello Ior. Non solo. Nel discorso natalizio alla Curia il Papa non ha sferzato solo e tanto i mali dell’amministrazione della Santa Sede, ma soprattutto il «tradimento» di quanti erano stati scelti da lui per promuovere le riforme e non l’avrebbero fatto a dovere: una reprimenda che ha deliziato alcuni anziani cardinali di Curia ma seminato anche sconcerto. La domanda è se dietro questa filiera di incidenti esista una regia; o se sono solo sintomi sempre più ravvicinati di un malessere diffuso e senza sbocco.
Un’«eminenza» di lungo corso sostiene la tesi di un complotto ordito da alcuni oscuri poteri statunitensi contro «un Papa che insiste nelle sue critiche al modello di sviluppo capitalistico. Mi fu confidato da un esponente dei servizi segreti nella primavera scorsa, e mi pare che ora il cerchio si stia chiudendo». L’allusione è alle rivelazioni sui soldi guadagnati dal cardinale honduregno Oscar Rodrìguez Maradiaga, grande elettore di Bergoglio in Conclave; all’attacco recente di alcuni siti cattolici contro alcuni collaboratori papali; e ad altri che sarebbero in incubazione. Ma, per quanto suggestiva, l’ipotesi rischia di sottovalutare il rallentamento che le riforme vaticane hanno subito nell’ultimo anno e mezzo; e le perplessità diffuse sui metodi di governo che emergono a Casa Santa Marta e sulla cerchia dei consiglieri del pontefice argentino.
Chi conosce bene passato e presente dello Ior sostiene che l’Istituto sta tornando quasi per inerzia ai metodi del passato; che il vertice, nel quale Mammì ha, grazie all’appoggio papale, grande potere a spese del presidente Jean-Baptiste de Franssu, «sta perdendo la scommessa della riforma». E che il finale, ancora da scrivere, potrebbe certificare un fallimento.
Corriere 10.1.18
Se il terapeuta è il mio computer
Una seduta col robot programmato per migliorare l’umore
di Elena Tebano
È una bellissima cosa quando il tuo psicoterapeuta ha il senso dell’umorismo. Lo è molto meno se ne ha così poco da dovertelo spiegare («Non è mia intenzione minimizzare i problemi, ma mi piace scherzare quando è il momento giusto») e soprattutto se la sua idea di una battuta è l’immagine animata di un cucciolo di istrice. D’altronde non è colpa sua, è stato programmato così: il mio «psicoterapeuta» è un robot.
Si chiama Woebot, comunica solo via messenger e — spiega la didascalia sotto l’immagine di un automa ispirata al cartone animato Wall-E — è «pronto ad ascoltare 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Senza lettini, farmaci, roba dell’infanzia. Solo strategie per migliorare l’umore. E occasionali battute bonarie». Lo ha inventato una psicologa che lavorava all’Università di Stanford, Alison Darcy, ed è «istruito» per svolgere terapie cognitive-comportamentali basate «sull’idea che non sono gli eventi in sé a crearci problemi, ma il modo in cui li pensiamo», chiarisce diligentemente nella prima seduta. Per avvertirmi poi che «per quanto possa sembrare intelligente, non sono capace di capire realmente le sfumature», che «a volte mi sbaglio» ed esortarmi a «non usare questo come un sostituto dell’aiuto umano». Alla fine della seduta si rivelerà di gran lunga il suo consiglio più utile.
Il lavoro con Woebot è pensato per durare minimo due settimane e inizia con una valutazione dello stato mentale: quattro domande per sapere se e quanto spesso negli ultimi 15 giorni mi sono sentita «ansiosa, nervosa o sull’orlo»; se non sono stata in grado di controllare le mie preoccupazioni; se non ho mostrato «interesse o piacere nel fare le cose» e se ero «giù, depressa o senza speranza».
Poi chiede come sto adesso mostrandomi una serie di opzioni. Sarebbe utile sapere quali. La chat però si inceppa, io non riesco a leggerle e scopro la mia risposta solo dalla replica di Woebot. «Sentirsi determinata e motivata è grandioso! Ben fatto!!» assicura in un crescendo di punti esclamativi. Inutile scrivergli che c’è stato un errore, che a quel punto mi sento demotivata e piuttosto vorrei essere a casa a guardare la tv. Il robot mi ringrazia di aver condiviso con lui il mio stato d’animo e va avanti per la sua strada.
«Vuoi che il risultato sia un cambiamento in: 1. il tuo modo di pensare; 2. il tuo stato d’animo; 3. un’abitudine/dipendenza; 4. una relazione; 5. tutte le cose di cui sopra; 6. altro?». «Altro». «Ho capito. Hey, mi dispiace ma le mie categorie sono limitate. Maaaa... gli strumenti che ho sono super d’aiuto per gli umani che lavorano sulle altre aree nominate». Al terzo «super» e al quarto «hey» posso solo rimpiangere gli psicoanalisti a cui si dà del lei.
Nel corso della giornata Woebot mi proporrà una quantità illimitata di emoticon e faccine, esortazioni entusiastiche («Sei bravissima!», «Ottimo lavoro!», «Oggi ti stai impegnando sul serio!»), immagini animate di cuccioli e omini danzanti.
Le cose migliorano solo quando mi suggerisce di scegliere degli obiettivi «SMART»: la parola, che in inglese significa «intelligenti» è in realtà un acronimo per «specific, measurable, achievable, realistic, time-limited» («specifici, misurabili, raggiungibili, realistici, limitati nel tempo»). E quando mi costringe ad analizzare i modi in cui le tre affermazioni con cui mi fa descrivere il mio stato d’animo sono «distorsioni cognitive» basate sulla generalizzazione, l’opposizione tutto/niente, il presumere ciò che gli altri pensano o il senso di colpa. Sono esercizi tipici della terapia cognitivo-comportamentale che spesso vengono somministrati via computer, con esiti anche positivi. Il problema di Woebot però è proprio quello che la sua creatrice Alison Daercy ritiene il suo punto di forza: proporsi come un «coach automatizzato» che intrattiene con l’utente una vera «conversazione».
Anche se a sorpresa nell’immagine con cui saluta i miei buoni risultati a fine sessione c’è davvero una sottile ironia — è l’uomo di latta del Mago di Oz che balla di gioia — non funziona. Woboet non ha nemmeno un filo dell’empatia del personaggio del libro. Che è poi il segreto di ogni bravo psicoterapeuta.
Il Fatto 10.1.18
Franceschini, ascolti i soprintendenti
di Vittorio Emiliani
Dunque, il ministro della Cultura e del Turismo, Dario Franceschini, non risponderà ai cento esperti i quali hanno documentato in sintesi il caos e la paralisi provocate dalle sue cosiddette riforme in un Manifesto per la tutela pubblicato integralmente dal solo Fatto Quotidiano. “Sono quelli che in questi anni mi hanno sempre criticato. Non c’è nulla di nuovo”, ha sentenziato.
Non importa che i firmatari siano servitori dello Stato che hanno fatto la storia della tutela: Adriano La Regina, Fausto Zevi, Licia Vlad Borrelli, Andrea Emiliani, Maria Luisa Polichetti, Jadra Bentini, Anna Gallina Zevi, Piero Guzzo, Antonio De Siena, Emilia Lattanzi, ecc. O dalle cattedre universitarie hanno educato tanti quadri alla difesa della Bellezza e della Natura: Filippo Coarelli, Bruno Toscano, Giorgio Nebbia, Luigi Piccioni, Paolo Liverani, Francesco Pardi, Paolo Maddalena, Tomaso Montanari, ecc.
Per lui non contano nulla. Eppure essi hanno parlato in luogo dei soprintendenti, dei funzionari in carica i quali, imbavagliati dal ministero, devono subire in silenzio i contraccolpi di “riforme” improvvisate, passate con decreti legislativi o con emendamenti alla legge di bilancio. Complice quella stampa e tv che rilancia solo le “veline” del nuovo Minculpop. Ecco la proposta: perché, in nome dell’articolo 21 della Costituzione (libertà di espressione “per tutti”), non consente loro di raccontare in pubblico quali problemi incontrano, nel bene e nel male? Può darsi che le diano ragione, o no, ma finalmente potranno partecipare con la loro grande esperienza a “riforme” che si sono visti calare burocraticamente dal centro e dall’alto.
Siamo in campagna elettorale e a lei fanno più comodo i megafoni che diffondono i dati “mirabolanti” degli ingressi ai musei e dei loro incassi, convalidando l’idea di Renzi e sua che “i musei sono macchine da soldi”. Ma dove? Quest’anno tutti i musei e i siti statali hanno incassato 200 milioni. Meno del doppio degli introiti del solo Louvre con 8-9 milioni di visitatori.
Ma il Louvre è attivo? Frutta forse soldi allo Stato? Macché: incassa oltre 100 milioni, ma ne costa oltre 200, per cui è passivo al 50%. Non parliamo poi del Metropolitan Museum. Quanto ai visitatori, in Italia salgono da anni, persino quando i governi Berlusconi dimezzavano le risorse per la cultura rispetto ai governi Prodi (0,19 contro 0,39% del bilancio statale).
I governi Monti, Letta e Renzi le hanno lasciate miserrime e soltanto da due anni si sono un poco (ma solo un poco) riprese. Lontanissime da quanto investono Francia e Spagna, cioè 3 e 2 volte più di noi relegati al 23° posto in Europa, appena prima di Grecia e Romania.
Senta un po’ cosa dice delle sue brillanti “riforme” un maestro, il prof. Francesco D’Andria: “A distanza di due anni dobbiamo prendere atto del caos in cui versa la ricerca e la tutela archeologica nell’Italia meridionale. Le nuove Soprintendenze dell’Archeologia, Belle Arti e Paesaggio sono state prevalentemente affidate ad architetti, rendendo oggettivamente più farraginosa l’organizzazione della tutela e della ricerca sul patrimonio materiale della Storia. Dopo 100 anni la Soprintendenza Archeologica di Taranto, dove è custodita la memoria storica della ricerca in Puglia, è stata ridotta a un ufficio periferico (…) Intanto in Basilicata il sistema dei Musei, tutti, tranne uno, archeologici, creato dal mio maestro Dinu Adamesteanu, è al collasso e la direttrice del Polo Museale, una storica dell’arte moderna, si interroga sul da farsi; ma mancano funzionari specializzati e i Parchi archeologici di Metaponto e Policoro sono ormai allo sbando. In Calabria il ministero abbandona allo sbaraglio i suoi funzionari, in situazioni difficili come a Crotone, dove la magistratura indaga su gravi e inquinate vicende di tutela. La situazione grave in queste regioni è un ulteriore segno dell’abbandono, da parte degli ultimi governi, di una reale politica di sviluppo culturale dell’Italia meridionale: ancora più grave perché colpisce l’archeologia, una delle risorse maggiori del Sud, anche a livello economico”. E si potrebbe continuare.
Vuole Franceschini confrontarsi con questa e altre realtà (nella stessa Roma dove il Parco dell’Appia agonizza)? Oppure coprire le grida di denuncia col fragore di trombe e tromboni? Noi gli chiediamo di togliere il bavaglio ai suoi funzionari perché, in pubblico, possano liberamente dire ciò che va e ciò che non va in questa “riforma”, senza subire intimidazioni di sorta.
Il Fatto 10.1.18
La lezione di B. per portare tutti (i vecchi) alle urne
di Peter Gomez
Premessa: essere giovani non è un merito. È un accidente. A tutti capita di esserlo, così come a molti capita invece di diventare vecchi. Da un po’ di anni a questa parte però, gli anziani sono molto più numerosi dei giovani. In quasi tutta Europa si fanno sempre meno figli e sociologi ed economisti spiegano anche così il declino economico del nostro continente. Invecchiando si diventa più prudenti, diminuisce la propensione al rischio e all’innovazione. Non è solo per una questione di esperienza o di saggezza. La verità, secondo uno studio della Yale School of Medicine, è molto più banale: col passare del tempo si riduce la materia grigia nella corteccia parietale posteriore destra del cervello, una zona che secondo gli esperti risulta meno voluminosa in chi tende a essere più pauroso e conservatore.
Questo fatto ha delle curiose conseguenze, anche in campo politico. Non solo perché, come ci dice un proverbio popolare, spesso “chi nasce incendiario, muore pompiere”. Ma anche perché chi è anziano ha più timore del futuro rispetto a chi è giovane, sebbene abbia molti meno anni di vita a disposizione rispetto ai suoi figli e nipoti. Tende cioè a vivere il presente (il suo presente) come fosse il futuro, quel futuro che di fatto per ragioni meramente anagrafiche non gli appartiene.
Così, quando nel Regno Unito si è andati ad analizzare il voto del referendum che ha portato alla Brexit, si è scoperto che il 75 per cento dei votanti sotto i 24 anni aveva scelto di restare in Europa e lo stesso avevano fatto il 54 per cento delle persone al di sotto dei 49. Il leave aveva invece stravinto tra gli over 65 che, secondo le statistiche, in Gran Bretagna hanno davanti a loro ancora solo 16 anni di prospettiva di vita. Ovviamente questo non vuol dire che i giovani avessero ragione e i vecchi torto. Sul punto ciascun lettore la può pensare come vuole e soprattutto non deve dimenticare che nel Regno Unito l’astensionismo giovanile è stato più del doppio rispetto a quello degli elettori anziani. I giovani, che già partivano numericamente svantaggiati, hanno rinunciato a scegliere. Solo il 36 per cento dei sudditi della regina under 24 è andato alle urne per il referendum.
In Italia il dato dovrebbe far riflettere il Movimento 5 Stelle. Gli ultimi sondaggi (Ixè per Huffington Post) dicono che nel terzo Paese più anziano del mondo (il nostro) il Movimento stravince tra chi ha tra i 35 e i 44 anni di età (quasi il 50 per cento delle preferenze), vince di poco tra gli under 35 (35 per cento dei voti contro il 33,3 del centrodestra), ma perde tra chi ha più di 50 anni, categoria di età dove il consenso scende al 23 per poi calare sotto il 20 negli ultrasessantacinquenni. L’idea che a due mesi dalle elezioni il Movimento possa recuperare terreno tra gli elettori anziani apparendo più rassicurante è bella, ma fuori dalla realtà. Per provare a battere il vecchio che avanza (definizione loro), i pentastellati devono invece prendere lezioni da un vecchio: Silvio Berlusconi. Non ovviamente in fatto di etica o moralità pubblica. Ma in fatto di campagne elettorali. In oltre vent’anni di carriera, l’ottuagenario leader di Forza Italia una cosa l’ha insegnata. Si vince spingendo tutti i propri elettori potenziali ad andare alle urne. Per questo Berlusconi, pur definendosi un moderato, in passato ha sempre condotto campagne dai toni accesissimi. Per creare una contrapposizione, un clima da giudizio universale che evitasse l’astensione dei propri simpatizzanti. Non è un bel modo di fare, lo sappiamo. E nemmeno ci piace. Ma funziona.
Repubblica 10.1.18
Verso il voto
La partita obbligatoria della sinistra
di Ezio Mauro
C’è una semplice domanda, prima di precipitare dentro il vortice della campagna elettorale: chi è il nemico?
Altro che il giochetto di società nato su una scelta irrealistica tra Di Maio e Berlusconi: no, c’è una scelta concreta e decisiva, da fare per di più qui e ora.
Le due sinistre devono rassegnarsi a perdere la Lombardia (e il Lazio), marciando divise, oppure possono provare a vincere, convergendo su un unico candidato da sostenere contro la destra?
Proprio la destra dovrebbe essere il logico, naturale avversario di qualunque sinistra, comunque si chiami e per qualunque ragione sia nata, cent’anni fa o l’altro ieri.
La destra di oggi in particolare, con Trump che mette addirittura in crisi il pensiero liberale curvando l’orizzonte dell’Occidente. La destra italiana ancor più, con il lepenismo fuori stagione di Salvini, il sovranismo nostalgico di Meloni, il moderatismo dei giorni dispari di Berlusconi, che per vent’anni ha radicalizzato come mai prima il concetto di destra post-fascista italiana, e adesso sembra Cavour stravolto da Crozza.
Si dà il caso — naturalmente senza alcun merito della sinistra — che l’opzione vittoriosa della destra sulle prossime elezioni s’incrini proprio nello scrigno leggendario del forzaleghismo, cioè nel cuore dell’alleanza, la Lombardia. Per ragioni sue personali (probabilmente, come ha capito Stefano Folli, per entrare nella riserva di destra della Repubblica in questo turno elettorale inconcludente, e guardare al dopo) il governatore in carica, Roberto Maroni, ha scelto di uscire definitivamente dal Pirellone, e di non candidarsi. Questa scelta indebolisce la coalizione berluscon-salviniana, perché a poca distanza dal voto la priva di una candidatura naturale, forte anche per il peso che chi governa porta in campagna elettorale. E infatti, sono partiti i giochi interni al centrodestra, le ambizioni, i veti, le candidature- civetta, la riffa dei sondaggi. E ai quattro alleati posticci, uniti soltanto dalla vista del traguardo, è ben chiaro che toccare la Lombardia significa rimettere pesantemente mano a tutto il dòmino delle cariche, delle spartizioni e dei posti.
Tutto questo è talmente evidente che avrebbe già dovuto provocare un incontro tra i leader di “Liberi e uguali” e del Pd, o almeno una telefonata tra Grasso e Renzi. Per dire che la partita resta difficile, ma forse si può provare a scendere in campo — diversi e distanti — per vincerla insieme. In ogni caso, e soprattutto, la partita è obbligatoria. La Lombardia è la regione più importante del Paese in termini di produzione del reddito, è un’area pilota, concentra innovazione, finanza, tecnologia, futuro e soprattutto lavoro, per la politica è una bandiera che da sola vale l’intera campagna elettorale. Battere Berlusconi a Milano, periferia di Arcore? Improbabile, ma vale la pena provarci. Sconfiggere Salvini nelle valli lombarde dov’è nato il mito originario leghista, poi deviato in nazionalismo ideologico? Difficile, ma si può almeno tentare.
Non risulta che i telefoni abbiano suonato. Renzi passa le sue giornate a parlar male della sinistra alla sua sinistra, con una pervicacia che non ha mai impiegato nei confronti di Berlusconi: stiamo ancora aspettando un suo giudizio politico compiuto sul Cavaliere, lo attendiamo da vent’anni. Grasso probabilmente deve fare mille telefonate ai suoi prima di poter chiamare il Pd. È un uomo che ha onorato le istituzioni, ma come leader è la risultante di politiche altrui, e dunque non può avere l’estro, la fantasia e la libertà di chi decide in proprio. Così i telefoni tacciono, i giorni passano, le occasioni sfioriscono nell’eterna maledizione della sinistra: meglio perdere, piuttosto che prevalga il mio compagno, da cui mi divide tutto, e soprattutto il rischio della vittoria.
Le scissioni hanno anche questa lunga coda buia di odio, che acceca come la luce. Ma così, rischia di esserci una scissione finale, quella dal cosiddetto popolo di sinistra. Che a differenza del ceto politico sa che si può marciare divisi e colpire uniti: almeno qualche volta. Perché ha ben chiaro chi è il nemico.
Il Fatto 10.1.18
I coreani si riscoprono fratelli. Trump preso in contropiede
Tregua olimpica - Il presidente Moon (Sud) si smarca dagli Usa
I coreani si riscoprono fratelli. Trump preso in contropiede
di Giampiero Gramaglia
Il gesto più facile è fatto: una tregua olimpica non si nega a nessuno, neppure al più acerrimo nemico, figuriamoci al fratello separato – nella stessa penisola -. Adesso, resta il più difficile: fare il salto dallo sport al nucleare e coinvolgere Cina e Russia, che non aspettano altro, e Usa e Giappone, che sono invece diffidenti. Ci si penserà nella scia dei Giochi, sempre che, nel frattempo, Kim Jong-un non si faccia prendere da fregole atomiche o missilistiche o dalla voglia di protagonismo.
Il terzo dittatore della dinastia comunista ha preso in contropiede Donald Trump e la diplomazia statunitense: con il discorso di Capodanno, Kim ha spinto il presidente americano allo sguaiato litigio su chi ha il bottone nucleare più grosso e s’è smarcato rilanciando, con un rovesciamento di fronte, il dialogo con il presidente sudcoreano Moon Jae-in.
Moon, che sulla ripresa dei contatti fra le due Coree ha costruito tutta la sua campagna elettorale ha subito raccolto la sollecitazione, senza chiedere permesso a Washington. E l’Amministrazione americana ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco: Trump ha pure provato ad arrogarsi il merito della svolta, come se lui avesse messo alle strette Kim, ma pure lui sa che non è vero.
Dopo due anni di comunicazioni interrotte, il processo s’è sbloccato in meno di una settimana. E, ieri, il primo incontro “ad alto livello” a Panmunjon, villaggio sul confine ‘demilitarizzato’, ma presidiatissimo, che taglia in due la penisola coreana lungo il 45° parallelo, ha subito sortito “fumata bianca”: la Corea del Nord invierà una delegazione ai Giochi invernali di PyeongChang, lontano dalla frontiera poche decine di chilometri dalla frontiera. Nella delegazione, ci saranno atleti – due pattinatori già qualificati – dirigenti, sostenitori, gruppi artistici, un team dimostrativo di taekwondo (l’arte marziale propria della penisola coreana) e pure una squadra di cheerleader (un’americanata, in cui le disciplinate asiatiche riescono benissimo).
Ed è pure probabile che gli atleti sud e nord coreani sfilino insieme alle cerimonie di apertura e chiusura. Non ci si è, però, fermati agli aspetti sportivi. Seul, secondo quanto riferito dalla Yonhap, l’agenzia di stampa sud-coreana, ha proposto di riavviare, sotto la supervisione della Croce Rossa, i colloqui sulle riunificazioni delle famiglie separate dalla Guerra di Corea – conflitto combattuto tra il 1950 e il ’53 e mai formalmente chiuso da un trattato di pace -. È stato pure concordato di fare ripartire il dialogo militare per “allentare le tensioni lungo i confini”. Se ne riparlerà dopo l’inizio dei Giochi il 9 febbraio, intorno al Capodanno lunare. Intanto, verrà riaperta la ‘linea rossa’ tra Seul e Pyongyang di comunicazione militare. Tutto bene. E, del resto, non poteva essere diversamente: un flop sarebbe stato uno smacco per Kim e Moon.
Il Cremlino plaude – “Era quello che volevamo” -, la Cina segue con favore, il Giappone resta sul chi vive e auspica “maggiore pressione” sul regime nord-coreano, già sottoposto a sanzioni dell’Onu rigide, economiche e diplomatiche. Manca un tweet di Trump, ma arriverà di sicuro. Gongola il mondo dello sport: un colpo del genere non gli riusciva dai tempi dell’Antica Grecia, dopo gli smacchi dei boicottaggi e gli adattamenti dei Giochi agli opportunismi della politica ed alle ragioni del denaro.
Lo sbocco naturale di tanto slancio dovrebbe essere la ripresa dei negoziati a sei (le due Coree, Usa, Giappone, Cina, Russia) sui programmi nucleari e missilistici nord-coreani: sospensioni, o controlli, in cambio d’aiuti, non solo della cessazione delle sanzioni.
Ma il percorso resta accidentato; e l’impulsività di Kim e Trump non sono il viatico migliore.
La Stampa 10.1.18
Il mio Iran senza pane e libertà
di Farhad M.
A nome del mio gruppo di studenti iraniani, attivisti per la libertà e la democrazia, vorrei trasmettere all’opinione pubblica in Europa, fino a quando ne ho la possibilità, il nostro messaggio, dirvi qual è la situazione in Iran dal nostro punto di vista. La mia storia è simile a quella di molti altri studenti: frequentavo la facoltà di Giurisprudenza ed ero membro di un gruppo anti regime che partecipò alle grandi manifestazioni del 2009, quando fui arrestato e tenuto per due mesi in una cella di isolamento, poi ancora in carcere per un anno.
A questo le autorità universitarie, che sono controllate dai servizi di sicurezza, hanno aggiunto l’annullamento dei miei esami e un decreto di espulsione; così ho dovuto ricominciare più volte i miei studi in altre Università, ogni volta ricostituendo nuclei di attivisti. Ora che è in corso una nuova ondata di proteste in tutto il Paese, qualcosa che in Iran non si era visto da otto anni, la risposta del regime è ancora quella della repressione. Quasi tutti i miei amici sono stati arrestati nell’ultima settimana e di alcuni di loro nessuno ha più notizie.
Ho lasciato Teheran dopo che la mia famiglia ha ricevuto una telefonata da agenti del servizio di intelligence, che hanno chiesto di me e detto che mi sarei dovuto presentare a un loro ufficio «per informazioni». È il loro sistema, che ormai conosciamo bene. I passi successivi sono arresto e carcere. Ora mi trovo in un’altra città, ma so che potranno trovarmi e arrestarmi in qualsiasi momento.
Il movimento attuale è basato su lavoratori, persone esasperate dalla povertà e studenti. Le loro sono motivazioni in parte diverse, ma che confluiscono. Molti dicono «Vogliamo le nostre vite, libertà, giustizia», altri chiedono «Pane e libertà». Il governo però non è in grado di fornire né libertà né pane. Non solo non c’è giustizia, ma tutto il sistema di potere è caratterizzato da un’enorme corruzione, senza alcuna trasparenza sui fondi. Abbiamo milioni di persone che vivono in condizioni miserabili mentre i clericali al potere e le organizzazioni del regime usufruiscono della ricchezza del Paese, e questo ormai è chiaro a tutta la popolazione. Inoltre il regime non rispetta affatto nemmeno le proprie leggi. Noi lo definiamo un regime totalitario e di apartheid, dato che a causa della sua interpretazione della religione impone separazione fra uomini e donne, oltre che discriminazioni fra nazionalità ed etnie; e non lascia nessuna via legale per ottenere il rispetto dei diritti.
Noi vogliamo sostenere tutti coloro che si battono per il cambiamento, non solo le organizzazioni di studenti. Le nostre comunicazioni sono spesso controllate o interrotte: usiamo diversi canali, sapendo che possiamo essere intercettati. So che sarò di nuovo arrestato, ma la mia richiesta a voi non è di aiutare me. Siate la nostra voce nel mondo. Noi continueremo a batterci per i diritti, la giustizia, la fine della corruzione e delle discriminazioni. Fate sentire al regime che non siete dalla sua parte, ma dalla parte di chi lotta per la libertà.
Fra gli iraniani arrestati nelle ultime settimane sono numerosi gli universitari, molti dei quali già colpiti dalla repressione che stroncò i moti del 2009 contro la rielezione di Ahmadinejad. Questo è l’appello di Farhad M., uno dei loro leader, raccolto dalla Federazione Italiana Diritti Umani.
Corriere 10.1.18
Morire a vent’anni in un carcere iraniano «Non è stato suicidio»
di Viviana Mazza
Dubbi sulla sorte di due manifestanti arrestati
La repressione iniziata nelle strade dell’Iran, con almeno 21 morti nelle proteste dei giorni scorsi, ora continua nelle prigioni. Sono almeno due i manifestanti trovati misteriosamente morti mentre si trovavano in detenzione: Vahid Heidari ad Arak e Sina Ghanbari a Teheran. Le autorità sostengono che si siano suicidati, ma gli attivisti non ci credono.
«Vahid faceva il venditore al bazar di Arak. È stato arrestato per aver partecipato alle proteste contro il carovita», ha raccontato lo zio del ragazzo a Iran Human Rights, un’organizzazione per i diritti umani con sede ad Oslo e ottime fonti all’interno del Paese. All’inizio, la polizia ha detto che il giovane era un trafficante di droga.
«Mentono», secondo la famiglia, che sabato scorso ha ricevuto una telefonata dalla prigione: «Si è suicidato, venite a prendere il corpo». Poi però non sono stati consegnati ai cari né il cadavere né il referto del medico legale; e sono stati costretti a seppellirlo in una fossa già preparata ad Arak. «Chi ha visto il corpo ha notato una frattura sul lato sinistro del cranio e un rigonfiamento alla testa, che potrebbe essere stato causato da un colpo di bastone», ha detto l’avvocato Mohammad Najafi agli attivisti.
L’altro giovane trovato morto sabato si chiama Sina Ghanbari: aveva 23 anni e si sa solo che si trovava in quarantena nel famigerato carcere di Evin. Un terzo nome, Mohsen Adeli, e altri ancora non sono per ora confermati. Mahmood Amiry-Moghaddam, portavoce di Iran Human Rights consiglia cautela, perché «nel 2009 ci furono molte fake news sui morti, probabilmente diffuse dalle stesse autorità, e più tardi venivano fatti riapparire per screditare gli attivisti», dice al Corriere . La sua organizzazione chiede l’istituzione di una commissione delle Nazioni Unite per indagare sui manifestanti uccisi nelle strade e sulle loro condizioni di detenzione; e spera che l’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Ue Federica Mogherini ne parli l’11 gennaio, quando i negoziatori per il nucleare iraniano incontreranno a Bruxelles il ministro degli Esteri Mohammad Jawad Zarif.
Le notizie di queste due morti in prigione e dell’arresto di almeno 3.700 manifestanti (questo il numero confermato dalle autorità), spesso giovanissimi (l’età media 25 anni) hanno suscitato le reazioni anche di alcuni deputati riformisti, che erano rimasti in silenzio durante le proteste. Ritorna l’incubo del 2009, quando migliaia di giovani furono imprigionati dopo le manifestazioni del Movimento verde, rinchiusi in centi di detenzione non ufficiali come Kahrizak e sottoposti a torture e violenze sessuali: tre furono uccisi. Lo scandalo fu tale che la Guida Suprema Ali Khamenei ordinò un’inchiesta e alcuni funzionari furono condannati al carcere, ma non tutti hanno davvero scontato la pena.
«Siamo molto preoccupati per le condizioni inumane di cui riceviamo notizie dalle prigioni di tutto l’Iran, con celle da 50 dove vengono ammassati 300 detenuti. Dalle esperienze passate sappiamo che verranno sottoposti a torture negli interrogatori e processati a porte chiuse in Tribunali rivoluzionari, per fare di loro un esempio per tutti», continua Amiry-Moghaddam. Alcune delle famiglie si sono sentite dire dai figli che se non li rilasciano si uccideranno. «Parole molto strane da prendere con cautela, perché il suicidio è la tipica giustificazione delle autorità. Ma può essere visto anche come un altro segno del terrore di questi giovani che non erano mai stati prima in prigione». Il vicecapo della magistratura Hamid Shahriari minaccia «la massima punizione», la pena di morte.
La Stampa TuttoScienze 10.1.18
Bastano dieci like per svelare il tuo vero io
Dal marketing commerciale a quello politico luci e ombre della psicometria digitale: un business miliardario
di Marco Pivato
Tutto è cominciato con l’analisi «analogica» su manoscritti poetici: già dagli anni Settanta del XX secolo linguisti europei e statunitensi fondano la linguistica cognitiva, una «scienza della letteratura» che da un testo sia in grado di trarre informazioni non esplicite sulla personalità dell’autore – per esempio un poeta o un antico cronista – e sul suo tempo. All’inizio del nuovo secolo questa disciplina si evolve nella psicometria digitale, che si avvale di software, è condotta da informatici e cognitivisti e non si applica più ai testi poetico-letterari ma ai «like» che un utente lascia a un contenuto su Facebook e a parole chiave digitate sulla barra di Google. Cosa più importante, lo scopo da puramente conoscitivo diventa strategico, commerciale e politico.
La ricerca
Ci siamo arrivati grazie a ricercatori come lo psicologo americano James Pennebaker, chino sui dati di personalità dei suoi studenti collezionati dal 1999 al 2004, informatici come i britannici Jon Oberlander & Scott Nowson, primi nel 2006 a eseguire analisi di personalità dai vecchi blog, e François Mairesse che usando i dati di Pennebaker ottiene il primo risultato di predizione di personalità da testo, nel 2007. Nasceva così, una decina di anni fa, l’economia dei Big Data fondata sul commercio dei profili che (quasi solo) i colossi di Internet vendevano alle aziende di prodotti, un mercato dapprima elitario ma che oggi è sostenuto da una miriade di grandi, medie, piccole imprese e start-up in tutto il mondo che vale miliardi di dollari. La svolta è arrivata con applicazioni come «MyPersonality», sviluppata nel 2008 da Michal Kosinski, psicologo ed esperto in ricerche sociali nei laboratori di Psicometria dell’Università di Cambridge. Con i successivi aggiornamenti lo strumento diventa in grado di produrre inferenze sul credo religioso, colore della pelle, orientamento politico e tratti come estroversione, altruismo, livello di nevrosi. Ulteriori progressi, sempre certificati in questi anni dalle riviste internazionali specializzate, sono firmati ancora da Kosinski, questa volta in forze all’Università di Stanford. Già in «Computer-based personality judgments are more accurate than those made by humans», pubblicato su «Pnas» nel 2015 Kosinski scrive che sulla base di 10 «like» i suoi algoritmi possono conoscere una persona meglio dei suoi colleghi, mentre 150 ne bastano per conoscerla meglio dei genitori, 300 meglio del partner.
I software
Lo scienziato si spinge allora più in là, per molti troppo, quando a settembre scorso pubblica su «Journal of Personality Social Psychology» uno studio che dimostra come il suo nuovo software «Vgg-Face» sappia distinguere fra omosessuali ed eterosessuali nell’91% dei casi quando si tratta di elaborare immagini di uomini e nel 83% nel caso di donne. Un esperimento che ha ispirato duri commenti da parte dei media occidentali, a partire dall’«Economist», primo a divulgare la ricerca, fino ai fan che hanno imbeccato il ricercatore direttamente sulla sua pagina Facebook. L’Intelligenza artificiale applicata alla predizione dei trend sta avendo una ulteriore e sostanziale rivoluzione nell’ultimo biennio, da quando società private hanno cominciato a utilizzare Big data «sociali» a scopo di marketing politico, elaborando mappe dei possibili elettori da intercettare con messaggi mirati. L’inglese Cambridge Analitica, per esempio, è stata consulente, nel 2015, dell’Istituto Leave.Eu, tra i più importanti a lavorare in favore della Brexit. Nello stesso anno la società si è anche dedicata al candidato Ted Cruz alle primarie Usa del Partito Repubblicano e dopo il ritiro di questo alla campagna presidenziale di Donald Trump.
Il futuro
Considerati gli interessi la psicometria digitale oggi è un campo in continua innovazione capace di spostare grandi capitali. Per fornire una misura sappiamo che la raccolta pubblicitaria, in gran parte acquisita monetizzando i dati dei Social nel 2017, è valsa a Facebook 9,3 miliardi di dollari nel primo trimestre (+45% sull’anno precedente) secondo il rapporto «Facebook Reports Second Quarter 2017 Results», mentre la holding americana Alphabet, cui fa capo Google Inc, fondata nel 2015 e guidata da Larry Page e Sergey Brin, ha messo da parte 26 miliardi (+21% sull’anno precedente) come annunciato da un comunicato della stessa azienda. In testa, nel rincorrere il nuovo mercato della predizione digitale, ci sono quindi gli Stati Uniti, con le big company già citate ma anche con Ibm e la sua app Personality Insights, disponibile anche in versione demo, creata per fornire abitudini dei clienti a livello individuale e su vasta scala. L’Europa in generale è meno competitiva, anche se può contare su importanti aziende come la londinese VisualDNA, specializzata nel fornire i dati di ascolto di brand, agenzie ed editori e la francese Praditus. L’Italia ha invece precorso i tempi nell’agganciare il mercato, sia con la ricerca sia con il trasferimento tecnologico. In testa i gruppi di Informatica delle Università, da Bari a Torino e da Bolzano a Trento, in particolare, dove sono attivi il Mobile and Social Computing Lab della Fondazione Bruno Kessler (Fbk) e ancora un’altra costola della Fbk, lo spin-off Profilio. Sebbene l’azienda sia nata da pochi mesi i suoi fondatori, già dal 2008, all’epoca dei successi di Kosinski, hanno dato il via allo sviluppo dei primi strumenti di predizione della personalità in assoluto.
Corriere 10.1.18
Cento firme «no al nuovo puritanesimo»
Deneuve, lettera alle donne «Lasciate che ci corteggino»
«Difendiamo la libertà di importunare, indispensabile alla libertà sessuale»: appello contro il «nuovo puritanesimo» in Francia firmato da attrici, come Catherine Deneuve, e intellettuali
di Stefano Montefiori
PARIGI Catherine Millet, nel 2001 lei scrisse «La vita sessuale di Catherine M.» e raccontò il suo libertinaggio per ristabilire la verità, mostrare quel che succede davvero nella vita di una donna. Oggi scrive questo testo per lo stesso motivo? Per combattere l’ipocrisia?
«Sì, ipocrisia è la parola giusta. Il caso Weinstein mi è sembrato sin dall’inizio molto ipocrita. A Hollywood, dove immagino i costumi siano più liberi che altrove, scoprono all’improvviso questo problema. Ne seguono un’infinità di testimonianze di gesti molto meno gravi. Ho chiesto a tante donne, di tutti gli ambienti, e trovavano tutto sproporzionato. Mi dicevano: “Se un tipo mi mette la mano sul sedere, o sono contenta o lo mando al diavolo, e finisce lì”. Sulla base di racconti non verificati sono state rovinate persone che non hanno avuto la possibilità di difendersi».
Nel testo distinguete tra la violenza sessuale e quei comportamenti che vengono considerati molestie e che sembrate assolvere.
«Ma esiste una gerarchia di atti con infinite tappe intermedie. Da quello che chiamiamo corteggiamento maldestro al tipo che ti incastra per rubarti un bacio, come è capitato a me, o che ti telefona tutte le notti . Alcuni gesti sono gravi, altri molto meno. Il ministro della Difesa britannico Michael Fallon si è dovuto dimettere perché ha messo la mano sul ginocchio di una giornalista. Non la definirei una molestia».
Perché ve la prendete tanto con «il femminismo che odia»?
«Per me femminismo significa cercare di rendere le donne forti piuttosto che deboli. Bisogna insegnare alle donne a non a rinchiudersi nel ruolo delle vittime. Parliamo anche dello stupro. Tra le testimonianze arrivate quando abbiamo raccolto le firme, c’è quella di una donna che è stata violentata da bambina. Ha voluto superare il trauma e oggi vive una vita amorosa e sessuale normale. Si è rifiutata di lasciarsi rinchiudere in quel ricordo doloroso. Diverso è se la violenza ha avuto conseguenze fisiche gravi».
Già nel suo libro lei distingue tra corpo e persona, e lo scrive anche qui: «Noi donne non siamo riducibili al nostro corpo. La libertà interiore è inviolabile».
«Eravamo in cinque a scrivere l’intervento, e di generazione diverse. Catherine Robbe-Grillet è un’anziana signora, io quasi, le altre tre sono molto più giovani ma ci siamo trovate d’accorso su questa frase importantissima. Lo spirito può relativizzare quel che succede al corpo».
Ma il punto è che proprio lo spirito viene violentato, umiliato. La questione è la mancanza di consenso.
«La ferita fisica non deve rovinare più di tanto quel che un tempo chiamavamo anima. Come dice Sant’Agostino nella Città di Dio , una donna vittima di uno stupro non deve sentirsi macchiata, se la sua anima non era consenziente. Ci si può rimettere, anche dallo stupro».
Il suo è l’atteggiamento di una donna protagonista, totalmente padrona della sua vita non solo sessuale. Non tutti sono così.
«Sì, ma il nostro ruolo è anche indicare una strada possibile. Per la mia generazione il modello era Simone de Beauvoir, noi possiamo esserlo a nostro modo, e chiedo scusa per il paragone che non vuole essere immodesto. Più che limitarci alla compassione, vogliamo dire che da certe situazioni si può uscire».
La stanno già accusando di piegarsi al potere arcaico del maschio.
«Certo, ma semmai è il contrario. Poi, c’è il maschilismo ma esiste anche un potere delle donne. Talvolta sono loro a manipolare».
La questione è il potere e l’abuso, e più spesso il potere ce l’hanno gli uomini.
«E qui torniamo all’ipocrisia. Juliette Binoche ha raccontato di non avere ceduto. Capisco di più la cassiera di un supermercato che subisce il ricatto del capo. In quest’ottica, le denunce delle attrici sono un po’ indecenti».
Repubblica 10.1.18
Francia
Deneuve e le altre attacco a #MeToo “Sì alla libertà di importunare”
Un gruppo di cento donne famose, fra cui l’attrice, denuncia il clima da caccia alle streghe dopo il caso Weinstein: “Stop all’onda puritana
di Anais Ginori
PARIGI «Lo stupro è un crimine. Ma la seduzione pesante o maldestra non è un delitto, e la galanteria non è un’aggressione maschilista » . Comincia così il testo pubblicato ieri su Le Monde e firmato da un collettivo di cento donne famose, tra cui l’attrice Catherine Deneuve e la scrittrice Catherine Millet. All’indomani della cerimonia in nero dei Golden Globes in America, in Francia si alza un fronte opposto, un manifesto per difendere la “ libertà di importunare” le donne. Proprio così. Com’era accaduto anni fa durante l’affaire di Dominique Strauss-Kahn, la Francia fa eccezione nel dibattito rispetto al mondo anglosassone quando si parla del confine tra violenza, sesso e seduzione.
Per Deneuve non è una novità. L’attrice aveva già preso posizione contro la campagna # Balance-TonPorc, equivalente francese di # MeToo definito adesso « campagna di delazione » con « uomini sanzionati pubblicamente o nel loro mestiere, costretti alle dimissioni quando tutto quello che hanno fatto è stato toccare il ginocchio di qualcuna o cercare di rubare un bacio, parlato di argomenti intimi durante cene di lavoro o aver inviato messaggi a connotazione sessuale a donne per la quale l’attrazione non era reciproca » . La « febbre per mandare i ‘ porci’ al mattatoio – sostengono le firmatarie – non aiuta l’autonomia delle donne ma serve gli interessi dei nemici della libertà sessuale, degli estremisti religiosi, dei peggiori reazionari».
Pur lodando «una legittima presa di coscienza delle violenze sessuali esercitate sulle donne, in particolare in ambito professionale », le firmatarie sottolineano che « la liberazione della parola è diventata oggi il suo contrario: intimidiamo le persone affinché parlino correttamente, mettiamo a tacere chi non si allinea e quelle donne che rifiutano di conformarsi sono considerate traditrici e complici » . Il testo parla del rischio di un nuovo «puritanesimo» in cui « gli argomenti della protezione delle donne e della loro emancipazione sono utilizzati per incatenarle a uno stato di eterne vittime». Vengono citati casi di censura, la « confusione tra l’artista e l’opera » su Roman Polanski, o ancora le accuse di “ misoginia” fatte a Michelangelo Antonioni per “Blow Up”.
Ma la parte dell’appello che fa più discutere è la difesa della “ libertà di importunare” che, secondo le firmatarie, sarebbe « indispensabile alla libertà sessuale » . « La pulsione sessuale è per natura offensiva e selvaggia, ma siamo abbastanza lungimiranti per non confondere seduzione maldestra e aggressione sessuale » dicono le firmatarie rivendicando come una donna possa allo stesso tempo « dirigere una squadra professionale e gioire nell’essere oggetto sessuale di un uomo». Non mancano passaggi che hanno provocato commenti sarcastici sul web, come quando si parla dei «palpeggiatori della metropolitana » come « espressione di una miseria sessuale».
«Peccato che Deneuve si sia unita a questo testo mortificante» ha commentato l’ex ministra Ségolène Royal. La femminista Caroline De Haas, tra le promotrici della campagna #BalanceTonPorc, parla di «tribuna per difendere il diritto di aggredire sessualmente le donne e per insultare le femministe ». La ministra per la Parità, Marlène Schiappa, ha twittato con ironia sull’allarmismo dell’appello: « Non conosco un uomo sanzionato in Francia per aver toccato il ginocchio di una donna, Se esiste fatemelo conoscere».