Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
martedì 9 gennaio 2018
ULTIM'ORA:
La Stampa Vatican insider 1.8.18
Il Papa: “Il bullismo è opera di Satana, quanta malvagità a volte nei bambini!”
Prima messa a Santa Marta del 2018: «Cosa c’è dentro di noi, che ci porta a disprezzare, maltrattare e farci beffa dei più deboli?»
«Forse gli psicologi daranno le loro spiegazioni di questa volontà di annientare l’altro perché è debole, ma io dico che questa è una delle tracce del peccato originale. Questa è opera di Satana», afferma Francesco nella messa a Santa Marta, la prima del 2018 dopo le vacanze. È evidente che sia così: «In Satana non c’è compassione».
IL TESTO INTEGRALE QUI
Corriere 9.1.18
Edipo ha tante facce non solo quella di Freud
La sua tragedia parla soprattutto della giustizia
di Eva Cantarella
La tragedia di Edipo ha inizio il giorno in cui questi, a bordo del suo carro, giunge a un crocicchio dove, al termine di un diverbio, uccide il proprietario di un carro arrivato insieme al suo, che pretendeva gli fosse data la precedenza: senza sapere che quell’uomo era suo padre. Edipo, infatti, si credeva figlio del re di Corinto Polibo, al quale era stato consegnato da neonato, e che lo aveva cresciuto come fosse suo figlio. Non sapeva che il suo vero padre era Laio, il re di Tebe, che lo aveva abbandonato in fasce, sperando in questo modo di evitare una maledizione secondo la quale sarebbe stato ucciso da suo figlio, scagliata contro di lui da Pelope, del quale egli aveva violentato uno dei figli. Per questo, quando sua moglie Giocasta aveva partorito Edipo, Laio (dopo aver forato con un ferro le caviglie del bambino per poterlo appendere a una correggia, donde il nome Edipo, che vuol dire «piede gonfio»), aveva ordinato di abbandonarlo.
Ma torniamo al momento dell’incidente stradale, per così chiamarlo. Il diverbio sulla precedenza aveva avuto luogo mentre Edipo tornava da Delfi, dove il dio, da lui interrogato per sapere perché un compagno di giochi lo aveva chiamato «bastardo», gli aveva dato un terribile responso: «Un giorno ucciderai tuo padre e sposerai tua madre». Più che comprensibilmente sconvolto, Edipo non osava tornare a Corinto, terrorizzato all’idea di uccidere quelli che credeva i suoi genitori, e aveva preso la strada per Tebe, dove, incontrandolo, aveva ucciso Laio: ancora non lo sapeva, ma la prima parte dell’oracolo si era avverata, e la seconda stava per avverarsi. Proseguendo per il suo cammino, infatti, egli era giunto alle porte di Tebe, dove aveva incontrato la Sfinge: un essere orribile, dal corpo di leone e la testa di donna, che terrorizzava e uccideva i Tebani, ponendo un enigma insolubile e divorando chi non sapeva risolverlo. Ma Edipo ci era riuscito: alla domanda «qual è l’essere che cammina a volte a due gambe, a volte a tre, a volte a quattro, ed è più debole quando ha più gambe?», aveva risposto: «È l’uomo, che da bambino cammina su mani e piedi, da adulto sulle due gambe, e da vecchio appoggiato a un bastone». Sconfitta, la Sfinge si era suicidata e i Tebani, in segno di riconoscenza, gli avevano offerto in moglie la vedova di Laio: Giocasta, sua madre. Anche la seconda parte dell’oracolo si era avverata, e la tragedia di Edipo stava per compiersi.
La citta era stata colpita da una grave carestia che, secondo l’oracolo, sarebbe cessata solo quando fosse stato allontanato l’uccisore di Laio. Al termine di una lunga inchiesta, condotta dallo stesso Edipo, la verità viene scoperta: alla luce della spaventosa rivelazione, Giocasta si impicca ed Edipo si acceca.
Così finisce la tragedia Edipo re di Sofocle, ma la storia non si conclude qui: a raccontare il seguito, infatti, è di nuovo Sofocle nell’ Edipo a Colono .
Cieco, vecchio e stanco, Edipo, con le figlie Ismene e Antigone, che ha avuto da Giocasta, giunge ad Atene, dove un tuono annuncia che è arrivato il momento della sua morte. Ma questo Edipo, quello che muore ad Atene, è molto diverso da quello dell’ Edipo re . E proprio per questo è il personaggio che offre ai Greci l’occasione per riflettere sul problema della responsabilità e della colpa.
Nell’ Edipo re , infatti, quando scopre la verità Edipo si punisce accecandosi, anche se, come ha detto, ha agito «perché era scritto». In altre parole: non aveva agito volontariamente. Era stato il destino, erano stati gli dèi che avevano mosso la sua mano. Ma nell’ Edipo a Colono afferma che in lui non esiste «macchia di colpa» e quindi non può essere biasimato, perché, dice, «ho subito, non volendo, uccisioni e nozze e sventure: se l’oracolo vaticinò a mio padre che sarebbe morto per mano mia, come è possibile accusare me, che allora non ero stato neppur generato?»
Sono radicalmente diversi i due Edipi sofoclei. Per capirne la ragione bisogna pensare al momento in cui andarono in scena: un momento in cui era ancora forte lo scontro tra la nuova civiltà giuridica, per la quale si rispondeva solo degli atti compiuti volontariamente, e l’antica cultura della vendetta, per la quale l’atteggiamento soggettivo dell’agente non aveva alcuna rilevanza: contavano solo i fatti. La tragedia di Edipo rifletteva le contraddizioni di un momento storico in cui Atene discuteva con il suo passato.
E adesso veniamo all’interpretazione moderna del mito. Quasi superfluo ricordare che a partire dal 1900, anno della pubblicazione dell’ Interpretazione dei sogni di Sigmund Freud, esso è considerato la base della teoria secondo la quale il primo impulso sessuale infantile sarebbe indirizzato verso la madre, mentre verso il padre si rivolgerebbe il primo impulso di odio e violenza. L’eventuale riaffiorare di simili impulsi in età adulta sarebbe la causa di stati patologici, che la psicoanalisi dovrebbe curare attraverso un percorso di ricerca nei meandri della psiche analogo a quello condotto da Edipo alla ricerca della verità. Ma la storia di Edipo raccontata da Sofocle non è l’unica che la mitologia greca ha tramandato, e non è quella originaria.
In Omero Giocasta (chiamata Epicaste) si uccide, ma Edipo non si acceca né va in esilio. Egli continua a vivere e muore nella sua città, rimanendone il re: in Omero, come ha scritto lo storico francese Jean-Pierre Vernant, troviamo «un Edipo senza complesso», per il quale l’incesto non era un tabù. Del resto, la Teogonia di Esiodo non è forse un susseguirsi di incesti, che non sembrano creare alcun problema? L’incesto è aggiunto alla storia di Edipo da Sofocle, e da lui usato con indiscutibile efficacia come materiale tragico. L’interpretazione freudiana, basata esclusivamente sull’Edipo sofocleo, non tenendo conto della complessità dei miti, può portare fuori strada chi cerca di capire quello dello sfortunatissimo re di Tebe.
Corriere 9.1.18
Oggi le leggende arcane rivivono nell’inconscio
A determinare ogni evento provvede la forza irresistibile del fato
Agamennone e Clitennestra, Medea e Giasone
Il fascino allusivo di narrazioni senza tempo
di Franco Manzoni
Mistero e memoria, simbolo e rito, fenomeno inconscio e identità culturale, sensibilità dello spirito e pensiero primordiale. Quante sembianze, sfumature e potenziali diverse interpretazioni possiede ogni grande mito greco!
Un racconto senza dimensione cronologica, eterno perché cerimonia sacra, evento che non è semplicemente ricordato, bensì ogni volta a cui si attinge risulta attuale, vale a dire presente e vivo in misura assoluta. È l’opposto della storia, che colloca ciascun avvenimento in un tempo preciso. Mentre nella tensione leggendaria tendono a mescolarsi la natura, l’uomo, gli eroi, le potenze divine in un’azione collettiva, al contrario scienza e filosofia eliminano le associazioni per contrasto, equivoci, allusioni, in nome della razionalità e dell’esperienza tangibile.
Per comprendere il senso della narrazione simbolica i lettori del terzo millennio devono appropriarsi della civiltà ellenica e del significato del mito per i Greci antichi. Soltanto in tale modo è possibile accostarsi a quell’esperienza originaria, prodotto di un’evoluzione di spirito e pensiero, talmente profonda da riemergere nell’uomo occidentale d’oggi grazie alla cassaforte invisibile dell’inconscio.
La nascita dell’esperienza mitica va a coincidere con l’artista posseduto, in delirio, ispirato dalle divinità: il poeta esercita la propria mnemotecnica, ricorrendo fedelmente alla tradizione, conservata nei secoli, e trasmette oralmente ciò che è stato vissuto o raccontato da un precedente testimone. Spesso viene ricordato come cieco che percepisce l’invisibile, la realtà che sfugge allo sguardo umano. È il caso dei numerosi aedi, passati nella storia della letteratura sotto l’unico nome di Omero.
Ciò che narra il cantore rappresenta il ritorno alle origini, il ripristino delle condizioni iniziali di un’armonia cosmica perduta, la rammemorazione di avvenimenti arcaici, la loro ripetizione nel rito della parola. Il linguaggio coincide così col ricordo nello sforzo continuo di suturare le colpe commesse di generazione in generazione, le ingiustizie compiute inconsapevolmente, di cui si è macchiata l’umanità e non solo.
Nella Teogonia , il poema di Esiodo che racchiude una trattazione unitaria della genealogia degli dèi, si procede difatti a descrivere la creazione delle divinità nel passaggio del potere attraverso il parricidio e l’incesto, come accadeva nelle altre civiltà mediterranee coeve. Crono, mostro polimorfo per gli iniziati all’orfismo, creatore dell’uovo cosmico che aprendosi diede origine alla terra e al cielo, evira il padre Urano, Zeus mette in catene il padre Crono. Intanto le unioni si susseguono tra fratello e sorella.
In un tempo senza legge, quello della leggenda, tutto è lecito e a determinare ogni accadimento è la forza del destino, che esula pure dal volere delle potenti divinità antropomorfe. Tocca al poeta narrare gli aneddoti eziologici, che sono espressi per spiegare il senso etico e cosmico dell’oracolo e delle sue profezie. Gli eroi, i semidei e tutti gli esseri umani non sono altro che marionette mosse dal Fato. Si pensi al re di Micene, comandante supremo dei Greci nella guerra contro Troia: al suo ritorno Agamennone è atteso per essere ucciso dalla moglie Clitennestra e dal suo amante Egisto. O l’astuto Odìsseo, l’Ulisse dei latini, che in Omero vorrebbe subito tornare agli affetti familiari ad Itaca, ma è costretto a compiere altri dieci anni di affascinanti avventure per volere di Poseidone, dio del mare che lo avversa. Solo con Dante diviene l’eroe desideroso di conoscenza e verità, un viaggiatore che cerca l’ignoto, senza alcun desiderio di fare ritorno alla propria isola.
Oppure Medea tradita da Giasone, che giunge ad uccidere i figli da lui avuti per vendicarsi, o Antigone messa a morte dalla politica per aver infranto le legge seguendo l’impulso della pietà e dell’affetto familiare, per non dire dell’innocente Edipo, figlio di Laio colpevole di pederastia, e per questo costretto dalla violenza del destino a uccidere il padre e a procreare figli dalla madre Giocasta: è il maledetto di una famiglia esecrabile, che deve essere interamente cancellata. Qui Freud e la psicanalisi irrompono a farne materia di analisi dell’inconscio, rendendo eterno e contemporaneo il mito.
Repubblica 9.1.18
Filosofie
Spinoza, Kant e la critica del giudizio calcistico
di Gigi Riva
Al filosofo francese Jean-Claude Michéa piacerebbe che il calcio fosse ancora come lo vedeva Antonio Gramsci, «un regno della lealtà umana esercitato all’aria aperta». Ma, pur se non dispera nella resistenza di piccole oasi dove questo accade, constata con amarezza la definitiva invasione di campo del liberismo. Il gigantismo economico-finanziario ha trasformato gli atleti in star del cinema, i club in aziende quotate in Borsa, tese al profitto e non alla ricerca di quella bellezza che solo la competenza dei ceti popolari adusi a frequentare gli stadi sapeva decrittare. Non manca una critica a quel milieu colto che snobba il calcio: «A chi mi chiede come ci si possa interessare contemporaneamente a Spinoza e a Lionel Messi, rispondo che il disprezzo per il football è il segno di una vera infermità intellettuale».
Un pregiudizio che si fatica a superare nonostante i Pasolini, i Camus si siano spesi per segnalare come proprio lo sport sia un terreno d’indagine prezioso per il pensiero.
Michéa, 67 anni, prossimo alle idee socialiste ma critico con la sinistra per l’abbandono del proletariato, ha ordinato i suoi scritti sul calcio in un libro uscito da Neri Pozza, Il gol più bello è stato un passaggio, dove il titolo è un omaggio a una frase di Eric Cantona pronunciata nel film a lui dedicato, Il mio amico Eric di Ken Loach. Il passaggio assurge a emblema della condivisione, contro l’individualismo. Il volume è un atto d’amore verso il gioco articolato in vari ambiti.
In un intervento all’università di Montpellier ricorda Georges Canguilhem: «La filosofia è una riflessione per la quale ogni materia estranea è buona. Anzi: per la quale ogni buona materia deve essere estranea». Ma non gli basta, scomoda il Kant del giudizio estetico: «È impossibile usare la sia pur minima dimostrazione quando si tratta di questione di gusti, ma ha sempre un senso cercare di ottenere un accordo di fatto al termine di una discussione portata avanti secondo le regole della ragione». Concetto che si può applicare alle «discussioni del dopopartita» perché appartengono, per lui in modo «innegabile», al genere filosofico. Approda, infine, all’omaggio al lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano che si definiva «mendicante di buon calcio». E si rallegrava perché «per fortuna appare ancora sui campi, sia pur molto di rado, qualche sfacciato che esce dallo spartito e commette lo sproposito di mettere a sedere tutta la squadra avversaria per il puro piacere del corpo che si lancia verso l’avventura proibita della libertà». Torna gioco, se rompe gli schemi.
il manifesto 9.1.18
La campagna elettorale entra nell’università: è scontro sulle tasse
Il caso. Polemiche sull’abolizione proposta da Pietro Grasso (Liberi e Uguali) Renzi: «Favore a ricchi e fuori corso». Calenda: «È trumpiana». Il taglio costerebbe 1,7 miliardi di euro. E si parla anche di rifinanziare gli atenei e il diritto allo studio
di Roberto Ciccarelli
«Demagogica», «sbagliata», addirittura «trumpiana». È stata così definita la proposta formulata domenica da Pietro Grasso (Liberi e uguali) sulla cancellazione delle tasse universitarie. Il fuoco di fila è del Partito Democratico in tutte le sue articolazioni renziane. Segno che la proposta ha colto nel segno.
UNA PROPOSTA non nuova a sinistra. È presente anche nel programma di «Potere al Popolo» (punto 7) collegata a riforma fortemente progressiva della fiscalità generale. Sui social network si sono tuttavia moltiplicati gli interventi da sinistra contro la proposta di Grasso. Il taglio delle tasse per 1,7 miliardi di euro (circa uno se riservato agli atenei pubblici) può privilegiare i «ricchi», moltiplicando le diseguaglianze che invece vanno ridotte. Dall’altra parte si sostiene che l’istruzione rientra nei diritti universali, non è solo un «servizio». In quanto diritti, scuola e università devono essere gratuiti e pagati con una fiscalità generale resa molto più equa: bisogna far pagare molto chi possiede molto, poco o niente a chi ha poco o niente. In tempi di «flat tax» e di cancellazione dell’Imu sulla prima casa sembrano concetti marziani.
IL LOQUACE ministro dello Sviluppo Carlo Calenda ha sostenuto che la proposta di Grasso è come il «Tax Bill» fatto approvare da Trump negli Stati Uniti: «È un supporto alla parte più ricca del paese – ha detto – È costruita in modo erroneo. Oggi di fatto sono esentati gli studenti con redditi bassi». A questo punto la polemica si è infiammata e ha portato Pierluigi Bersani a difendere le ragioni della «ditta»: «Vorrei dire al ministro Calenda di avere un po’ di umiltà in più: non è una proposta alla Trump, è una proposta alla tedesca». In Germania (decidono i Länder), in Austria, Croazia, Slovenia, Repubblica Ceca, Ungheria e in Grecia» l’istruzione universitaria è gratuita. Roberto Speranza (LeU), ha ricordato un altro aspetto del problema: l’abolizione delle tasse – magari con un rifinanziamento di scuola e università, oltre che del diritto allo studio – permetterebbe di aumentare le immatricolazioni e i laureati. «Con il 15,7 per cento, di fronte ad una media Ue del 27,3, l’Italia è sotto di dodici punti alla media europea per numero di laureati». «Probabilmente Calenda ha confuso Trump con Corbyn – ha detto Elisa Simoni ( LeU) – i soldi necessari verranno dalla riduzione degli sprechi per i sussidi dannosi all’ambiente. Mi auguro che Calenda non sia a favore di questo spreco».
RENZI ha guidato la carica per il Pd: «Favore per ricchi e fuoricorso. Una norma scritta da Grasso ma pensata per Di Maio. Chi è più ricco deve pagare di più». Per il ministro dell’economia Padoan il «problema dell’università è più vasto delle tasse. Bisogna migliorare le strutture di ricerca e sostentare i docenti». Peccato che lo abbia precisato alla fine della legislatura.
«Alla faccia di Robin Hood, proposta demagogica» ha detto la mente economica del renzismo, Tommaso Nannicini: «Una misura che ruba ai poveri». Il fuoco di fila è continuata con Manuela Ghizzoni (Pd) rivendica lo «Student Act» approvato nella legge di bilancio 2017 – gli anglicismi sono la dannazione degli ultimi anni – che ha istituito una «no tax area» per chi ha un reddito familiare Isee fino a 13 mila euro e tasse calmierate fino a 30 mila euro. Sarebbero esenti dalle tasse 600 mila studenti, 15 mila in più dell’anno scorso. Segno che la gratuità dell’istruzione funziona.
Sono arrivate critiche da «Insieme», lista alleata con il Pd alle elezioni del 4 marzo. La proposta Grasso «non è equa, nè contestualizzata. Propone di tagliare le tasse anche a chi può ampiamente permettersele e ridurrebbe le già basse risorse destinate all’istruzione e alla ricerca» ha detto Giulio Santagata.
ANCHE I RETTORI sono intervenuti. «Le priorità sono investire sui giovani delle famiglie a basso reddito per favorirne l’accesso all’università e sui giovani ricercatori – ha detto Gaetano Manfredi, rettore della Federico Ii e presidente della Crui – Poi se avessero 10 miliardi di euro da investire si potrebbero anche cancellare le tasse universitarie».
il manifesto 9.1.18
Così Corbyn ha stregato i giovani: bye bye Blair
Gran Bretagna. La proposta del Labour di azzerare le tasse universitarie. Dopo gli aumenti del 2004, il governo Cameron ha triplicato i costi: in media 10mila euro. Ecco perché il leader neo socialista è diventato il beniamino degli studenti
di Leonardo Clausi
LONDRA La questione delle tasse universitarie – del loro costo spropositato – è uno dei nodi della redistribuzione del consenso democratico nella Gran Bretagna d’inizio 2018. L’Inghilterra (Scozia, Galles e Irlanda del Nord, il resto delle nazioni “devolute” che compongono il Regno Unito, hanno regimi autonomi e quindi costi diversi) ha le più alte del mondo. La primavera scorsa il costo medio annuale cui deve far fronte uno studente X che si iscrive all’università è stato calcolato dal sito web Student Loan Calculator attorno alle 9.250 sterline (circa 10.500 Euro), sorpassando di circa duemila euro il costo per accedere a quelle americane. Il gap aumenta poi vistosamente quando il paragone è con il resto d’Europa.
Oggi un neolaureato inglese si affaccia sul mondo del lavoro con la zavorra di decine di migliaia di sterline in debito da ripagare in scomode ed esorbitanti rate per gli anni a venire. Non esattamente il futuro di lavoro e prosperità che gli era stato venduto una volta uscito dalle superiori. Il compito di raddrizzare la barra di un vascello inequivocabilmente avviato verso la privatizzazione come quello dell’istruzione superiore è stato alfine riconosciuto dal Labour neosocialista di Jeremy Corbyn, che aveva fatto dell’abolizione in toto delle tasse universitarie una delle forze motrici della tutto sommato brillante performance del partito alle ultime elezioni, volute improvvisamente da Theresa May la scorsa primavera e che ne hanno intaccato paurosamente la maggioranza.
La scelta di rimettere sul tavolo una politica vocazionale socialista indirizzata alla tutela della categoria sociale al momento più economicamente bistrattata, gli studenti appunto, ha fruttato assai bene alle urne, e ha di certo pesato nel fare dell’«antidiluviano» Jeremy un’autentica icona giovanile. E da sola spiega abbastanza esaurientemente come mai all’attempato leader il pubblico del festival di Glastonbury, la scorsa estate, avesse riservato un’accoglienza da rock-star. È stata, quella scelta, un segnale chiaro e inequivocabile della rottura con il passato blairista del partito, assieme alla condanna aperta dell’invasione dell’Iraq e delle scuse formali porte dallo stesso Corbyn agli iracheni per la guerra del 2003, due gesti che hanno di molto contribuito ad attrarre verso il partito il voto e tessere giovanili.
Il fenomeno conosce un’onda lunga: un recente sondaggio condotto dall’agenzia YouthSight commisionato dall’Higher Education Policy Institute ha evidenziato come i laburisti godano al momento del più alto tasso di consenso giovanile negli ultimi dieci anni. Se si votasse domani, al partito spetterebbe la parte del leone del voto studentesco, il 68 per cento, contro i miseri 15 e 7 per cento rispettivamente di conservatori e liberal-democratici. Il golfo che separa proprio i Tories dalle nuove generazioni di britannici è in sé abbastanza evidente. Le loro politiche di tutela dei ricchi e dei pensionati hanno contribuito a diffondere la comoda – e pigra – formula «vecchi contro giovani» con cui si cercano di spiegare i recenti terremoti politici. Anche per questo il governo May ha promesso di considerare le attuali 9mila e duecento sterline come tetto massimo.
Introdotte nel 1998 con il Teaching and Higher Education Act dal primo governo Blair e calibrate sul reddito, il costo delle tasse per accedere agli studi superiori nel Paese con il maggior numero di istituti di ricerca di livello mondiale (l’Inghilterra, oltre al siderale duopolio Oxbridge, vanta anche l’Imperial College di Londra fra le prime dieci, tutte le altre sono università statunitensi) è salito esponenzialmente nell’ultimo ventennio. Dal primo, improvviso salto a tremila sterline, nel 2004, si è arrivati a triplicarle nel 2010, quando il governo di coalizione Tory-Libdem guidato da David Cameron sconfessò le politiche dei loro alleati-ostaggi. I Lib-dem avevano fatto del congelamento degli aumenti una delle loro politiche più eclatanti durante la campagna, e al loro voltafaccia è ragionevolmente addebitabile la quasi scomparsa del partito nelle ultime due tornate politiche.
Il Fatto 9.1.18
Lucia Annunziata
“Col contratto da artista non si può seguire il voto”
La conduttrice Rai: “Non ce l’ho coi colleghi, ma la politica deve far rispettare la legge in tempo di par condicio”
intervista di Carlo Tecce
“Non ho rancore né contro la mia azienda né contro Fabio Fazio e Bruno Vespa, però si è aperta una questione che coinvolge tutti. Io sono della vecchia scuola e – dice Lucia Annunziata – credo che i giornalisti parlino attraverso il prodotto. Stavolta, visto che di mezzo ci siamo tutti, credo che sia d’obbligo essere trasparenti e prendere una posizione pubblica. E la penso così: se la commissione parlamentare di Vigilanza autorizza la presenza in video, durante la par condicio, anche dei conduttori con contratti artistici (e non giornalistici) commette una violazione della legge che riserva ai giornalisti le trasmissioni elettorali e prende a sberle centinaia di giornalisti del servizio pubblico”.
Annunziata fa interviste di mestiere, lavora da vent’anni in Rai, direttore del Tg3, presidente di Viale Mazzini, conduttrice su Rai3 e adesso, dopo un lungo tempo di silenzio sui fatti del servizio pubblico, vuole alimentare il dibattito sulla campagna elettorale in televisione: “Oggi è importante illuminare una vicenda ignorata, che riguarda la mia azienda e la politica. Se la mia opinione non è gradita e mi chiedono di sgomberare, sono pronta ad assumermi le mie responsabilità”.
Oggi tocca ai partiti scegliere: Vespa e Fazio, dentro o fuori, giornalisti o artisti. O le due cose assieme.
Non vorrei essere nei panni dei commissari, sottoposti a un dilemma preciso: mandare in onda la coppia di Rai1 nel periodo di par condicio vuol dire violare quella legge che essi stessi, come parlamentari, hanno approvato.
Perché si è arrivati al dilemma, a una soluzione all’ultimo secondo?
Per colpa della politica, abituata a usare il servizio pubblico come uno strumento elettorale: una volta per desiderio populista – nel dire puniamo la casta o aboliamo fintamente il canone – e un’altra per sfruttarla a ridosso del voto. Come sempre accade e, l’ammetto, sempre è accaduto.
Il rapporto di sfruttamento si è evoluto o involuto?
Ha raggiunto il ridicolo con le contraddizioni proprio di questa legge. La politica ha ordinato all’azienda di portare gli stipendi sotto il tetto di 240.000 euro. Sacrosanto. Perché se fai il giornalista nel servizio pubblico – come un medico lavora in un ospedale statale e non in una clinica privata – lo fai per tanti motivi, ricevi tante soddisfazioni e devi – sottolineo devi – cedere qualcosa in cambio.
Pur con qualche mugugno, l’azienda ha eseguito in fretta.
Sì, tutti i giornalisti l’hanno fatto. Ricordo qui che Mario Orfeo si è ridotto lo stipendio fin da quando era direttore del Tg1, e penso sia oggi il direttore generale meno pagato della storia di Viale Mazzini. Io ho tagliato, rinunciato a quattro mensilità. Poi le cose si sono inceppate.
S’è trovato il cavillo: gli artisti possono ottenere delle deroghe.
E anche qui non contesto. I conduttori dei programmi di intrattenimento attirano la pubblicità, operano in un mercato commerciale e possono pure intervistare dei politici. Che male c’è? Abbiamo celebrato per anni David Letterman.
Vespa è saltato addosso al cavillo. Si è definito con estrema sicurezza un artista, smentendo quelli che lo reputano un giornalista.
Ciascuno è libero di sentirsi e di ambire a ciò che preferisce.
Ma poi s’avvicina il voto, la par condicio che scatta il 18 gennaio.
All’improvviso le leggi non valgono più e neanche le interpretazioni. Io ricordo che la par condicio è una norma, un sistema delicato che impone un rigore millimetrico all’azienda nel garantire pari accesso ai partiti e ai candidati. Tant’è che le trasmissioni sono ricondotte a una testata giornalistica, in quest’occasione al Tg1, perché di controllo giornalistico si tratta.
Allora gli “artisti” vanno esclusi.
Non è una polemica personale o individuale, è un discorso sulla legge dello Stato e la dignità di chi fa informazione in Rai. Mi sembra, invece, che il messaggio è che solo i giornalisti siano sostituibili.
Un gioco di ruolo.
Se al posto dei giornalisti, ci mettiamo due artisti – per paradosso – va allargata la platea. Non coinvolgere unicamente Fazio e Vespa. Chi fa le previsioni meteorologiche, per esempio, può commentare le partite della Nazionale e chi fa l’oroscopo può ospitare il premier Paolo Gentiloni alla vigilia del voto. Vi sembra normale? Non mi stupisco più: l’approfondimento informativo non è più centrale in questa televisione. E lo dimostra anche l’addio di Milena Gabanelli.
Il servizio pubblico ha ancora un senso?
Non più, mi spiace. La politica ha fallito. Non ha mai mollato la Rai, altro che passi indietro e giusta distanza. Ormai l’ha sfiancata. Altro esempio: Rai News ha una redazione e un direttore validissimi e sono in un cantuccio, ma dovrebbero diventare centrali. In azienda non hanno capito che c’è un mondo oltre i suoi canali.
Addio Viale Mazzini.
Io ho sempre difeso il servizio pubblico, ma a questo punto ho cambiato idea: salverei un canale e privatizzerei il resto.
Repubblica 9.1.18
D’Alema, il Pd e il fantasma di Riccardo III
A sinistra si pensa al dopo voto
di Goffredo De Marchis
ROMA Nei suoi colloqui privati Massimo D’Alema non rinuncia ad ostentare la rivalità con Matteo Renzi. Ma è più concentrato sulla campagna elettorale, sui candidati di Liberi e uguali e sul dopo voto. Immagina sempre nuove metafore sull’avversario.
Dice che il segretario del Pd «non vincerà queste elezioni nemmeno se piange in turco». Che alla fine, se Renzi spera di allearsi con Forza Italia senza altri incomodi, si sbaglia di grosso, perché «non avranno i numeri». Poi, come un grande attore, tira fuori il colpo di scena: «Finirà solo, come Riccardo III», ghigna riferendosi al Re gobbo narrato da Shakespeare che conquista la Corona uccidendo i legittimi eredi ma alla fine cade solo sul campo di battaglia. «È la sua parabola. Me lo vedo che gira disperato per Firenze e urla “un cavallo, il mio regno per un cavallo”». In realtà, adesso il focus del presidente di Italianieuropei è il risultato delle elezioni: fare in modo che la sinistra abbia voce in capitolo in Parlamento. Anche se adesso D’Alema spiega a tutti che il numero uno è Grasso sa bene che nel gioco delle alleanze chi cercherà i voti di Leu si rivolgerà a lui, il grande manovratore, niente a che vedere con il presidente del Senato e con Pier Luigi Bersani.
Alessandra Ghisleri ha fatto le carte alla sinistra degli ex Pd: bacino potenziale 13 per cento, massimo risultato possibile tra il 9 e l’11. Perché questo scarto?
«Effetto del voto utile, scarsa conoscenza del simbolo, Grasso leader poco visibile, campagna elettorale troppo breve», ha sintetizzato la sondaggista amata da Berlusconi. Meglio allora ragionare su un risultato sotto la doppia cifra. L’8 per cento garantirebbe a Liberi e uguali circa 60 parlamentari distribuiti tra Camera e Senato. D’Alema, se vincerà, sarà a Palazzo Madama.
Corre nel collegio del Salento, ma in una zona 4 volte più grande del suo vecchio collegio maggioritario. Naturalmente, mostra in pubblico una certa sicurezza sull’esito della competizione. «Gallipoli, nel mondo , sono io», dice con una punta di autoironia. Fa capire di aver già stretto accordi a tutto campo: «I sindaci di destra della zona porteranno i voti a me». E pazienza se Bersani in queste ore illustra la strategia del partito: «Siamo pronti a stringere intese con tutti, tranne che con la destra». D’Alema continua a ripetere che la prossima legislatura «avrà un carattere costituente» e «sarà tutt’altro che di passaggio». Giura di non mettere bocca sulle candidature, ma non lesina consigli al presidente del Senato. «Persino se dura pochi mesi, il futuro Parlamento avrà un ruolo fondamentale. Ci vogliono persone serie, responsabili e capaci». Seppure fosse breve, la legislatura avrà il compito di mettere mano alla legge elettorale perché il Rosatellum, il 4 marzo, «dimostrerà drammaticamente la sua fragilità». Quindi, per un compito alto ci vuole gente all’altezza. È il suo modo di dire: non esageriamo con le bandierine della società civile. Se bisogna correre in fretta ai ripari, servono persone già pronte. Come lui, ma non è che può fare tutto da solo.
Corriere 9.1.18
In età fertile, ma senza figli: le italiane sono 5,5 milioni
Lo studio Istat: tra i 18 e i 49 anni la metà delle donne non diventa madre
di Alessandra Arachi
ROMA Non è uno scherzo: in Italia una donna su due in età fertile non ha figli. È un dato così vero che a certificarlo è l’Istat. E fa ancora più impressione se lo leggiamo nello stile asettico usato dal nostro istituto di statistica: «in Italia le donne senza figli tra i 18 e i 49 anni sono circa 5 milioni e mezzo, ovvero quasi la metà delle donne di questa fascia d’età».
È la prima volta che viene usato questo metodo per calcolare quante sono in Italia le donne che non hanno neanche un figlio. Di solito venivano divise per fasce d’età divise in «decenni». Le ventenni. Le trentenni. Le quarantenni. E il risultato, comunque, era sempre non esaltante, ma decisamente un po’ più digeribile.
Adesso sono state messe in un unico gruppo le donne che avrebbero la potenzialità di diventare madri (sono state escluse per convenzione le minorenni) e il risultato è stato impietoso.
Non che non sapessimo già che il nostro indice di natalità è il più basso d’Europa. Non che ogni anno non si riempiano i giornali con titoli catastrofistici sulle «culle vuote», e «la cicogna che non abita più qui».
Ma che la metà delle donne che possono essere madri nei fatti non lo diventano, è una certificazione drammatica prima ancora che statistica di un Paese che non assomiglia più a se stesso.
«Non è detto che il 50 per cento delle donne che in età fertile non ha figli, non li possa avere in futuro», spiega Sabrina Prati, demografa che all’Istat sono più di vent’anni che si occupa di indagini su questi temi.
Ma poi aggiunge: «Certo uno dei problemi più grossi che ci sono sulla natalità è che oggi si tende sempre di più a posticipare il momento di avere un figlio, senza rendersi conto che molto spesso il rinvio finisce per diventare una rinuncia».
Secondo Sabrina Prati il problema è tanto più grave quanto riguarda le donne più giovani, sotto i trent’anni: «Loro proprio non hanno la consapevolezza del rischio che comporta un rinvio di maternità».
Un Paese che non assomiglia più a se stesso. E non arriviamo per dire questo a fare i paragoni con gli anni Venti, quando si facevano figli con la facilità con cui oggi si cambiano automobili, e l’Istat certifica per il 1926 una media di 3,51 figli per donna.
L’Italia è cambiata bruscamente subito dopo la metà degli anni Settanta, quando la media di figli per donna è scesa sotto al due, generando cioè l’impossibilità di mantenere costante la popolazione.
È stato in quegli anni che è cominciato il fenomeno del rinvio della maternità, con le esigenze di una vita altrove che hanno preso il sopravvento sulla madre che stava a casa a curare i figli.
il manifesto 9.1.18
In Germania è caos ordine pubblico. E aumentano le armi
Sicurezza. Dalla caccia agli ex della Raf all’evasione di sette detenuti in una settimana, l'emergenza incentiva il «fai da te». In crescita, a 5.5 milioni, il numero di pistole e fucili per l’autodifesa
di Sebastiano Canetta
BERLINO Disordine pubblico nella Germania senza nuovo governo. Sul tavolo del ministro degli interni Thomas de Maizière (Cdu) si accumulano i rapporti d’emergenza: la caccia agli ex terroristi della Rote Armee Fraktion, l’evasione di sette detenuti in una settimana, la psicosi della difesa personale armata.
Anche se in realtà l’allarme sicurezza suonerebbe più sul fronte delle mafie e della criminalità organizzata: dalle ‘ndrine incistate nella Germania Ovest ai clan russi attivi nella ex Ddr fino alle bande di motociclisti che continuano a operare lontano dai riflettori accesi su terrorismo e migranti.
Ma a cavallo di Capodanno, la polizia criminale si è dovuta concentrare sui fascicoli che hanno guadagnato l’attenzione mediatica.
IMPRENDIBILI
Vent’anni dopo lo scioglimento della Raf, tre ex terroristi continuano a rapinare supermercati, negozi e soprattutto portavalori. Con almeno un milione di euro di bottino frutto di nove rapine nutrono la loro latitanza infinita. Ernst-Volker Staub, 64 anni, Burkhard Garweg, 50, e Daniela Klette, 60, vengono al massimo immortalati dalle telecamere della videosorveglianza. L’ultima foto-segnalazione ufficiale risale al 24 giugno mentre assaltano un blindato nella zona industriale di Cremlingen in Bassa Sassonia.
A bordo di una Opel Corsa con targa falsa, i tre seguono il furgone fino all’ingresso del mobilificio Dänisches Bettenlager. E quando si ferma, Staub e Garwig escono sparando raffiche di Kalashnikov mentre Klette imbraccia addirittura un bazooka.
Cinque mesi dopo la polizia diffonde le foto aggiornate nella speranza di ottenere, finalmente, una pista concreta. «La possibilità che si possano nascondere in un altro paese non può essere esclusa. I tre, che sono ricercati fin dal 1993, potrebbero contare sul supporto di vecchi compagni in Olanda, Italia, Francia o Spagna» ipotizzano gli investigatori.
Per i vecchi reduci della Raf, anno nuovo ma sempre da inafferrabili.
CARCERE COLABRODO
Tre evasioni in una settimana dalla prigione di Plötzensee nella zona nord di Berlino. In fuga sette detenuti, di cui uno che ha scelto dopo cinque giorni di costituirsi raccogliendo l’appello della famiglia e del suo legale.
Un piano da film, almeno per gli ultimi due evasi a Capodanno. Si sono intrufolati nel locale caldaie al piano terra per poi smontare la grata di ventilazione e segare le ultime sbarre davanti al muro di cinta. Il 28 dicembre dal carcere di Plötzensee (passato alla storia per l’esecuzione dei congiurati del complotto contro Hitler) erano “uscite” di cella altre cinque persone. Uno scandalo eclatante, tanto più che finora gli evasi continuano a restare a piede libero.
Paradossalmente, in Germania la legge non prevede un reato per chi scappa dalla prigione. Come spiega l’avvocato Matthias Losert, «fin dal 1880 il naturale desiderio di libertà viene rispettato, come in Austria, Belgio e Messico». L’unico appiglio legale per i magistrati è rappresentato dai reati commessi durante l’evasione o la fuga.
ARMI: NEMICI O EROI
L’ultimo grattacapo per de Maizière è un video promozionale a beneficio di Schmeisser, azienda di Krefeld che commercializza armi e rifornisce gli eserciti della Nato.
Come testimonial suggestiva («Più armi portano a maggiore sicurezza») la studentessa Carolin Matthie, 24 anni, che gira per la capitale con la pistola ultimo modello P99. Invoca libertà a mano armata, come da giugno in Repubblica Ceca. Non è l’unica, se dalla fine 2015 a settembre 2016 il numero delle armi da fuoco e di stordimento in Germania è passato da 286 a 440 mila.
Esulta la German Rifle Association che da sempre caldeggia la massima sicurezza personale a beneficio delle lobby politiche connesse con la produzione di armi. Nel sito internet di Gra, del resto, spicca l’inquietante lista dei «nemici» giurati con tanto di nome, cognome e relative dichiarazioni. Da Katrin Göring-Eckardt e Cem Özdemir, i due principali leader dei Verdi, a Paul Meichelböck, Diana Golze e Carsten Labudda della Linke, fino a Swen Schulz, Ulrich Kelber e Reinhold Gall della Spd. Un autentico elenco di proscrizione di chi è contrario alla proliferazione selvaggia di pistole e fucili per “autodifesa” che ha già fatto lievitare il numero di armi legalmente possedute a 5,5 milioni.
Ovviamente, si esaltano gli «eroi» tedeschi in trincea all’Europarlamento con le stesse idee dell’associazione pro armi. Si tratta dei liberali Gesine Meißner e Alexander Lambsdorff (vice presidente dell’assemblea di Bruxelles), del cristiano sociale bavarese Markus Ferber e di Beatrix von Storch, capogruppo Afd, prima “vittima” della nuova legge anti-odio dopo il tweet sulle «orde di stupratori islamici» a Colonia. Un altro eroe, secondo Gra, è Marcus Pretzell deputato della Sassonia che ha abbandonato Afd per il Partito Blu di Frauke Petry.
il manifesto 9.1.18
100 artisti, intellettuali e attivisti si schierano con Lorde e contro Israele
Israele/Bds. Tra i firmatari di una lettera pubblicata dal Guardian a favore della decisione della cantante neozelandese di non esibirsi a Tel Aviv ci sono Mark Ruffalo, Peter Gabriel, Roger Waters. John Cusack, Ken Loach, Angela Davis e Alice Walker.
di Michele Giorgio
Nelle settimane passate la cantante neozelandese Lorde è stata attaccata e accusata persino di essere «una antisemita». Gruppi pro-Israele hanno comprato pagine di quotidiani importanti – come il Washington Post – per protestare contro la sua decisione di non esibirsi a Tel Aviv la prossima estate di fronte alle politiche di Israele verso i palestinesi. Ora però giungono importanti sostegni a Lorde. 100 artisti, musicisti, scrittori, attori e registi hanno firmato una lettera aperta, pubblicata su The Guardian a sostegno del diritto della pop star di cancellare il suo spettacolo in Israele. Tra i firmatari ci sono l’attore Mark Ruffalo, il cantante Peter Gabriel, Roger Waters dei Pink Floyd (particolarmente attivo nel Bds), l’attore John Cusack, il regista britannico Ken Loach, la storica attivista dei diritti civili Angela Davis e la scrittrice Alice Walker. «Deploriamo le tattiche di bullismo utilizzate per difendere l’ingiustizia nei confronti dei palestinesi e per sopprimere la libertà di coscienza di una artista.Sosteniamo il diritto di Lorde di prendere posizione», è scritto nella lettera che inoltre critica le organizzazioni che hanno attaccato la cantante neozelandese. A Lorde si erano rivolte nelle scorse settimane due attiviste, la palestinese Nadia Abu-Shanab e l’ebrea Justine Sachs, chiedendole di annullare che la performance programmata a Tel Aviv. «L’esibizione a Tel Aviv sarà vista come un supporto alle politiche del governo israeliano anche se non farai alcun commento politico», avevano sottolineato Abu Shanab e Sachs nel loro messaggio. Lorde successivamente ha annunciato l’annullamento della data in Israele affermando di aver fatto «la scelta giusta».
La Stampa 9.1.18
Recy, la donna che ispirò Rosa Parks diventa l’icona della lotta femminile
Violentata nel ’44 da sei bianchi, non ebbe mai giustizia
di Francesco Semprini
Recy Taylor non ha mai avuto giustizia e ha dovuto attendere 67 anni per avere, quanto meno, le scuse ufficiali dalle istituzioni. Un caso, il suo, riflesso di tempi nemmeno troppo lontani, quelli dell’America segregazionista della Jim Crow laws in vigore sino al 1965. Leggi foriere di violenze di cui lei è stata vittima e testimone vivente, sino a qualche giorno fa.
Sino al 29 dicembre scorso, quando la signora Taylor è morta a 97 anni lasciando un testamento, non solo morale, ai posteri, di cui è stata data lettura domenica sera da Oprah Winfrey. Il discorso ai Golden Globe della regina dei talk show, osannato da liberal e illuminati del centrosinistra come una sorta di discesa in campo per Usa 2020, ha avuto come protagonista proprio Recy. «Ha vissuto, come molti di noi, troppi anni in una cultura devastata dal potere brutale degli uomini. Per troppo tempo le donne non sono state ascoltate o credute quando hanno osato dire la verità su uomini oppressori e violenti», ha detto Winfrey, ripetendo come un mantra «ma il loro momento è arrivato, ma il loro momento è arrivato, ma il loro momento è arrivato».
Il momento atteso e mai arrivato da Taylor. Era il 1944 quando Racy, 24enne afro-americana, di ritorno a casa da una funzione alla chiesa di Abbeville, in Alabama, viene rapita e violentata da sei uomini, o forse sette, tutti bianchi. La cronaca di allora, riportata dalla Associated Press, racconta che la donna fu poi abbandonata sul ciglio della strada dai suoi aguzzini. Il «New York Times», in occasione della scomparsa della donna, racconta che il grand jury, composto solo da maschi bianchi, non giudicò gli autori della violenza colpevoli di stupro, e questo nonostante gli stessi avessero confessato la loro responsabilità sull’accaduto. Da allora sono trascorsi decenni, i segni della violenza sono rimasti indelebili sul corpo di Recy come cicatrici, rese più profonde dagli anni e dall’ingiustizia.
Un crimine rimasto impunito il suo, nonostante il mutare dei tempi, figlio di quella disobbedienza civile che, dieci anni dopo i fatti di Abbeville, si incarnerà in un’altra donna afro-americana, Rosa Park. Ovvero la prima paladina dei diritti civili, anche soprannominata la «madre del movimento per la libertà». L’eroina moderna che, rifiutandosi di cedere il posto sull’autobus a un bianco, diede inizio ad una delle più profonde rivoluzioni civili in fatto di uguaglianza sociale. Proprio Parks si fece carico per la Naacp (National Association for the Advancement of Coloured People), di investigare sullo stupro.
Taylor non ha mai smesso di manifestare il proprio sdegno e di pretendere scuse ufficiali. Nel 2010, in un’intervista all’Ap, Recy ha spiegato che probabilmente i suoi aguzzini erano morti, ma lei pretendeva ancora le scuse delle istituzioni, quelle che allora le negarono giustizia. «Vorrebbe dire molto per me, chi ha commesso quel crimine non lo può più fare». Le scuse arrivarono un anno dopo da entrambe le Camere dell’Alabama: «Questa deplorevole mancanza di giustizia rimane un motivo di vergogna per i cittadini dell’Alabama, la mancanza di una risposta da parte della legge è aborrevole e ripugnante, e per questo esprimiamo profondo rammarico per il ruolo svolto allora dal governo dello Stato».
La vicenda, raccontata nel libro «At the Dark End of the Street» di Danielle McGuire, e nel documentario «The Rape of Recy Taylor» di Nancy Buirski, è la storia di tante donne, come ha sottolineato Oprah nel discorso «Winfrey 2020». Col quale ha voluto implicitamente insignire Recy Taylor del titolo postumo di antesignana del «movimento per la libertà», ancor prima di Rosa Park. Spiegando che anche per lei «bisogna marciare, affinché non occorra mai più dire “Mee Too”».
La Stampa 9.1.18
La regina della tv redime Hollywood e chiama le donne d’America al riscatto
Winfrey punta i riflettori sulle vittime di molestie e ingiustizie sociali
di Gianni Riotta
Sarà dunque tra il presidente Donald Trump, per i repubblicani, e l’attrice e produttrice tv Oprah Winfrey, democratica, il faccia a faccia per la Casa Bianca 2020?
Ieri, in America, cyber elettrocardiogramma in tumulto per l’appassionato discorso che Oprah, così i fan la chiamano, ha pronunciato alla cerimonia dei premi Golden Globe. Winfrey ha citato, in dieci minuti di appello applaudito in piedi da Hollywood, i diritti degli oppressi, mescolando con maestria dolore delle star umiliate da sadici come il magnate Harvey Weinstein e il retaggio lontano delle braccianti afroamericane, preda per generazioni della foia bianca.
L’icona
Recy Taylor, contadina povera che nel 1944 venne stuprata da una gang di razzisti in Alabama, senza mai ricevere giustizia malgrado la confessione di un aguzzino, diventa grazie a Oprah Winfrey un’icona dei diritti umani delle donne. Fu giusto Rosa Parks, poi celebre per non avere ceduto a un bianco il posto in autobus lanciando lo storico boicottaggio dei mezzi pubblici, a indagare sul caso Taylor, finché lo sceriffo di Abbeville non scacciò la militante dalla cittadina.
Oprah ha chiesto agli uomini, bianchi e no, di far da testimoni senza omertà, non processandoli in blocco ma suggerendo che le vittime, sempre, hanno diritto ad emancipazione e giustizia. Le attrici in scena, e con loro milioni di donne a casa, indossavano tutte abiti color nero, segno di dolore e battaglia, ed Oprah, elegante e composta, è apparsa da campionessa, priva di rancore o odio, dell’America tollerante, compassionevole, globale, ancora capace di fascino e stile, quel che Hollywood sogna di essere, ieri con i film sul New Deal di Frank Capra, oggi con «The Post» di Spielberg.
L’Orco Weinstein, e i tanti attori accusati di molestie, hanno sporcato l’industria culturale con prevaricazione e ipocrisie, si finanziava l’amica femminista Hillary Clinton, comportandosi poi da bruti sul lavoro.
Il riscatto
Oprah ha riscattato davanti ai telespettatori lo show business, con tale piglio retorico da scatenare la cyberpolitica: Oprah for President 2020? I veterani ricordano che in un’intervista del 1999, l’allora palazzinaro Donald Trump dichiarò perentorio «Se mai mi presentassi alla Casa Bianca, Oprah sarà vicepresidente!». Ventun anni dopo vedremo il più spettacolare duello tv dai tempi di Ronald Reagan, l’aggressività macho di Trump, per i repubblicani, contro la forza femminile della Winfrey, per i democratici?
La rete Nbc confermava in un primo tempo «Winfrey correrà», poi ha cancellato il tweet, ma subito la rivale Cnn incalzava «Due fonti: Oprah si presenta nel 2020». Lei minimizza? Il suo compagno storico, Stedman Graham, rilancia con il «Los Angeles Times»: «Tocca al popolo parlare, lei è pronta». Harry Enten, macinatore di dati del sito FiveThirtyEight calcola che nel 2008 Oprah seppe convogliare su Barack Obama almeno un milione di voti contro Clinton, risultando decisiva. Con un patrimonio personale stimato in due miliardi e mezzo di dollari, Winfrey potrebbe pagarsi la campagna da sé, e ha legioni di ricchi pronti a darle una mano. Il 52% degli americani la giudica positivamente, il 56% ha un parere negativo sul presidente Trump, ma si deve passare dalle elezioni di midterm a novembre, e intanto, nel turbolento inverno Usa, pare che il procuratore speciale Mueller voglia interrogare il presidente sul Russiagate, le ingerenze russe sul voto 2016.
La prima donna nera
È pronta l’America per la prima donna nera presidente, debuttante in politica? Difficile dire, ma il passato è ormai cattivo maestro per anticipare il futuro Usa, vedi vittorie di Obama e Trump. Colpisce, piuttosto, la vitalità formidabile della democrazia americana, capace di offrire a una personalità tv il podio per fare un’eroina di Recy Taylor, stuprata dai razzisti nel 1944, in piena guerra, quando Eugene Gordon, del giornale «Daily Worker», osservava caustico «Lo stupro della signora Recy Taylor è violazione brutale, come quelle perpetrate dai fascisti, dei suoi diritti personali di donna e cittadina di una democrazia». Oprah ha rimesso i diritti al centro, ha scaldato tanti cuori e vedremo poi se sfiderà l’uomo che un tempo la sognava come sua vicepresidente e come se la caverà se chiamata a difendere la libertà davanti a Putin o Xi Jinping.
Repubblica 9.1.18
Lo stato di salute di Trump
Un analista alla Casa Bianca
Sicuramente il potere può corrompere le persone e può amplificare delle patologie psichiche sottostanti, perché si perde la possibilità di riconoscere i propri limiti e di valutare adeguatamente la realtà
di Massimo Ammaniti
In questi mesi sono stati sollevati ripetuti interrogativi sull’equilibrio mentale di Donald Trump, soprattutto ora in seguito alla pubblicazione del libro Fire and Fury che sembra aver scoperchiato il mondo della White House. Emerge, ammesso che ce ne fosse ancora bisogno, la figura di un presidente totalmente assorbito da se stesso, impulsivo, privo di empatia, ossessivamente concentrato su fatti irrilevanti e pronto ad accogliere teorie cospirative. Ma la risposta di Trump non si è fatta attendere, ancora una volta ha magnificato se stesso dicendo che è «un genio molto stabile ».
La pericolosità di Donald Trump non solo viene riconosciuta da una parte dell’opinione pubblica e dei media, ma anche da un gruppo di psichiatri americani che hanno pubblicato recentemente un libro The dangerous case of Donald Trump ( Il caso pericoloso di Donald Trump, St. Martin’s Press, 2017) curato dalla psichiatra dell’Università di Yale, Bandy Lee, che ha raccolto gli interventi di 27 psichiatri. Prima di presentare il libro devo premettere che sono molto scettico quando gli psichiatri fanno delle diagnosi psichiatriche su figure pubbliche riferendosi ai loro comportamenti come vengono riportati dai media, senza aver avuto la possibilità di intervistarle direttamente. Ero ugualmente molto critico quando in passato qualche collega psichiatra riteneva che Silvio Berlusconi avesse una personalità narcisistica senza mai averlo incontrato. E d’altra parte questa diagnosi è stata ampiamente disconfermata dai fatti perché Berlusconi, a differenza di chi presenta un disturbo narcisistico, è stato in grado di affrontare un lungo periodo di sconfitte politiche e personali senza andare incontro ad un crollo psicologico.
Per ritornare al libro su Donald Trump, gli psichiatri che ne sono i coautori riconoscono la problematicità di fare una diagnosi psichiatrica in absentia del diretto interessato, citando la regola di Goldwater dell’American Psychiatric Association. Non è etico, secondo questa regola, fornire pareri psichiatrici su personaggi pubblici che non siano stati intervistati e che non abbiano autorizzato la pubblicizzazione.
Gli psichiatri e gli operatori della salute coinvolti in questo libro-denuncia sono tutti consapevoli di questo limite etico e pertanto esprimono dubbi nel fare una diagnosi di Donald Trump, ma propongono di valutare la pericolosità della situazione, che non richiederebbe una diagnosi, quantunque possa essere sostenuta da comportamenti irregolari. Questa è la posizione di Judith Herman che insegna Psichiatria presso l’Harvard University, famosa in tutto il mondo per i suoi studi sulle conseguenze dei traumi, che tuttavia ritiene che in una situazione di emergenza per la sicurezza sociale, come quella attuale negli Usa, si possa infrangere il vincolo e si possa denunciare la situazione.
Sicuramente il potere può corrompere le persone e può amplificare delle patologie psichiche sottostanti, perché si perde la possibilità di riconoscere i propri limiti e di valutare adeguatamente la realtà. Questo è il tema centrale di molte tragedie di Shakespeare, come ad esempio i drammi Riccardo II e Riccardo III, in cui si pretendeva che il potere regale discendesse direttamente dalla volontà divina, che santificava la grandiosità e l’onnipotenza dei sovrani a cui nessuno si doveva opporre.
Leggendo i vari contributi del libro emerge la convinzione che Trump abbia una personalità pericolosa, così preso da sé stesso e dalla propria megalomania, incapace di controllare i propri impulsi e di valutare le possibili conseguenze dei propri comportamenti. Molti comportamenti di Trump sono a rischio come avveniva per molti pionieri della corsa all’oro in America, ma se quelli erano comportamenti individuali o di gruppo che venivano riassorbiti da un tessuto sociale che li conteneva, oggi il pericolo è ben più grande. Come viene discusso nella terza sezione del libro, Trump può creare un clima di allarme nel paese, creando una forte divisione fra i suoi sostenitori e gli oppositori e suscitando odi ed intolleranze soprattutto nei confronti degli immigrati più recenti, come già era avvenuto alla fine del diciannovesimo secolo e di cui il film di Scorsese Gangs of New York ha mostrato la drammaticità.
Ma forse, come viene illustrato in una vignetta del Financial Times, i bottoni nucleari nelle mani di Trump e del suo nemico, il leader nordcoreano, dovrebbero essere sostituiti da bottoni che cuciano la bocca di entrambi. Ma questo non è un compito psichiatrico, è un impegno politico che riguarda tutti noi e soprattutto gli elettori americani.
Massimo Ammaniti, neuropsichiatra infantile e psicoanalista, è professore onorario dell’Università La Sapienza di Roma.
Il suo libro più recente è La curiosità non invecchia. Elogio della quarta età (Mondadori, 2017)
La Stampa 9.1.18
Gallimard nella tempesta a causa di Céline l’antisemita
L’editore francese vuole pubblicare tre violenti pamphlet dello scrittore, governo e intellettuali chiedono che ci siano almeno le note critiche di uno storico
di Leonardo Martinelli
Perché ritornare per forza sul passato imbarazzante di certi geniali artisti? Perché far parlare inevitabilmente quei silenzi della Storia? Antoine Gallimard, erede della celebre casa editrice, si è incaponito: quest’anno vuole pubblicare tre pamphlet di un antisemitismo isterico che Céline scrisse prima e durante la Seconda guerra mondiale. In Francia è già polemica: sta intervenendo perfino il governo, per convincere l’editore a inserire almeno le note critiche di uno storico nel testo. Gallimard, però, non cede.
Louis-Ferdinand Céline (1894-1961) pubblicò Bagatelle per un massacro nel 1937 (mai più riedito dal ’43), La scuola dei cadaveri l’anno successivo e Le belle rogne nel 1941. Bastino alcune parole per dare il tono della narrazione: «Gli ebrei sono i nemici innati dell’emotività ariana». Lo scrittore maledetto, che beneficiò di diversi privilegi durante l’occupazione nazista a Parigi, si ritrovò a Baden-Baden poco prima della Liberazione, dove le autorità tedesche gli concessero un lasciapassare per la Danimarca. Lì finì in carcere un anno e mezzo per collaborazionismo, mentre nel 1950 a Parigi fu condannato in contumacia a un anno di prigione. Un’amnistia gli permise di ritornare in patria nel 1952, dove ritrovò presto la strada del successo editoriale. I tre saggi incriminati mai sono stati riproposti. E anche dopo la morte di Céline, la vedova Lucette si è sempre opposta.
È ancora viva, ha oggi 105 anni. E pochi mesi fa ha cambiato idea: ha detto di sì a Gallimard, confortata dal suo avvocato (e biografo dell’autore di Viaggio al termine della notte), François Gibault. Non si sa bene se sia per una questione di soldi. Sta di fatto che nel 2012 un’edizione in francese dei tre pamphlet era già apparsa nel Québec. Sono 1044 pagine, di cui 231 consacrate alle note, tutte concentrate alla fine e redatte da Régis Tettamanzi, professore di letteratura francese all’Università di Nantes.
Gallimard vuole recuperare pari pari questa edizione (compreso il titolo, davvero troppo neutro, Scritti polemici), aggiungendo solo una prefazione dello scrittore Pierre Assouline. Se si vanno a spulciare le note di Tettamanzi, ne viene fuori una del tipo: «Prima della Seconda guerra mondiale, l’antisemitismo è percepito meno come un reato e più come un’opinione», quasi a giustificare Céline e dimenticando il decreto-legge Marchandeau, promulgato in Francia nell’aprile 1939, che condannava gli insulti razzisti, compresi quelli contro gli ebrei. Non solo: Rémi Ferland, l’editore dei tre saggi nel Québec, si è fatto segnalare su Facebook come strenuo sostenitore di Marine Le Pen durante le ultime presidenziali francesi.
Poco prima di Natale Frédéric Potier, alla guida della delegazione interministeriale per la lotta al razzismo e all’antisemitismo, ha convocato Gallimard e Assouline, chiedendo che la pubblicazione dei tre saggi sia accompagnata da un apparato di note «che chiariscano il contesto ideologico della loro produzione». E Potier pretende che siano coinvolti degli storici a redigerle. Ma Gallimard, sul quale non pesa alcun obbligo, ha rifiutato, sottolineando che si tratta di letteratura e che due specialisti di Céline bastano e avanzano.
Qualche giorno dopo un gruppo di intellettuali (tra cui Pierre-André Taguieff e Annick Duraffour, autori di Céline, la race, le juif, un libro molto documentato sull’antisemitismo dello scrittore, pubblicato da Fayard un anno fa) hanno firmato un manifesto uscito sul sito del Nouvel Observateur ancora per chiedere l’inserimento delle note di uno storico e che siano a piè di pagina. Quanto a Serge Klarsfeld, mitico cacciatore di nazisti, vuole che la pubblicazione del volume sia proibita, punto e basta. Mentre Edouard Philippe, il primo ministro (e grande specialista di letteratura), dice di non avere paura della pubblicazione dei pamphlet, «ma va fatta in maniera accurata». Gallimard prevedeva l’uscita a maggio. Ora dice che avverrà «quando l’edizione sarà pronta». Per il resto, avanti tutta.
Chi difende l’approccio dell’editore, si appella al primato della letteratura su tutto. O addirittura al fatto che l’antisemitismo sia una variabile indipendente, avulsa dalla genialità di Céline. Per altri, invece, quella deriva obbliga a scorrere lo stesso Viaggio con altri occhi. A individuare già in quell’apparente inno alla libertà una violenza e un razzismo non così scontati a una prima lettura. Insomma, costringe a distruggere un mito.
Corriere 9.1.18
Dopo il crollo della Francia nel maggio 1940 molti a Londra erano persuasi che convenisse accettare la pace, mentre il premier era sfiduciato
Churchill nell’angolo
Era sul punto di negoziare con Hitler tenne duro grazie al sostegno del re
Esce per Mondadori il libro di Anthony McCarten da cui è stato tratto il film «L’ora più buia».
di Paolo Mieli
Per Londra fu il momento più difficile nel corso dell’intera Seconda guerra mondiale. A provocare la crisi del governo britannico presieduto dal conservatore Arthur Neville Chamberlain fu, ai primi di maggio del 1940, lo sfondamento hitleriano in Norvegia e la fuga dei soldati inglesi dal porto di Trondheim. La campagna norvegese era costata al Regno Unito 1.800 soldati, una portaerei, due incrociatori, sette cacciatorpediniere e un sottomarino. Per l’Inghilterra (e per l’Europa tutta) fu — come dicevamo — l’inizio del mese più brutto della sua storia, che si sarebbe concluso con la caduta della Francia in mano nazista e con la drammatica evacuazione di oltre 300 mila soldati britannici da Dunkerque. Adesso un libro di Anthony McCarten, edito da Mondadori, L’ora più buia (da cui è stato tratto liberamente il film omonimo diretto da Joe Wright e interpretato da Gary Oldman e Kristin Scott Thomas nei panni di Winston e Clementine Churchill) descrive, sulla base di una ricchissima documentazione, i momenti in cui il nostro continente rischiò di cadere per sempre sotto il dominio della svastica.
Winston Churchill fu il primo a entrare in scena offrendosi — in quanto primo lord dell’Ammiragliato — come capro espiatorio per l’esito della disastrosa campagna norvegese: «Mi assumo la piena responsabilità di tutto ciò che è stato fatto, e mi prendo la mia fetta di colpa», scandì di fronte alla Camera dei Comuni il 9 maggio, giorno dell’importante dibattito sull’esito infausto di quella fase della guerra (anche se il peggio doveva ancora venire). All’epoca Churchill non godeva di grande popolarità. A lui veniva addebitata la catastrofe di Gallipoli nella Prima guerra mondiale; di lui era rimasto ben impresso — quanto meno tra i commentatori dei giornali — l’andirivieni tra il Partito conservatore e quello liberale. Veniva irriso, scrive McCarten, considerato un egocentrico, un voltagabbana, un «mezzosangue americano»; un uomo che, per usare le parole del deputato conservatore sir Henry «Chips» Channon, era militante di «una sola causa: se stesso». Oggi, ricorda McCarten, allo statista con il sigaro sono intitolati 3.500 tra pub e hotel, oltre 1.500 negozi, 25 strade, «e il suo volto si trova un po’ ovunque, dai sottobicchieri da birra agli zerbini». All’epoca, invece, era tenuto nel conto di un personaggio vanesio, bizzarro, imprevedibile. Ma quella sua ammissione di colpa nel momento in cui il primo ministro entrava nella tempesta non passò inosservata.
La notò lo stesso Chamberlain, il premier settantunenne, l’uomo dell’ appeasement , colui che — nel settembre 1938 alla Conferenza di Monaco — aveva «regalato» ad Hitler la Cecoslovacchia nella speranza di ottenere in cambio la pace. Chamberlain, però, non fece in tempo a compiacersene perché proprio il 9 maggio fu travolto dal Parlamento. David Lloyd George, il liberale che era stato a capo del governo nel precedente conflitto mondiale, gli si rivolse in questi termini: «Voglia dare un esempio di sacrificio, dal momento che in questa guerra nulla può contribuire alla vittoria più di una sua rinuncia all’alta carica». Il laburista Clement Attlee puntò l’indice contro di lui e gli chiese con risolutezza di lasciare la guida del governo: «Non si tratta solo della Norvegia; la Norvegia è il culmine di molti altri sbagli… La gente dice che la responsabilità di condurre le cose è affidata per lo più a uomini che hanno collezionato una serie pressoché ininterrotta di fallimenti». Dopodiché i laburisti si dissero pronti a entrare in un gabinetto di unità nazionale, a patto però che a tenerne le redini fosse chiunque, ma non Chamberlain, definito «quell’uomo». Persino Leo Amery, parlamentare del suo partito, lo accusò: «Troppo a lungo siete stato seduto qui, per quel poco di bene che avete saputo fare… andatevene, vi dico, e che con voi sia finita per sempre». L’ammiraglio Roger Keyes (anch’egli conservatore) si presentò alla Camera dei Comuni vestito in alta uniforme e, a sorpresa, si scagliò contro l’«impressionante storia di inettitudine dell’esecutivo». Nel suo diario il deputato Channon così descrisse quel 9 maggio: «Tra i miei colleghi è tutto un tramare e intrigare, complottare e ancora complottare». L’aula del Parlamento precipitò nel caos. La moglie di Lloyd George, Margaret, annotò: «Non avevo mai visto uno spettacolo del genere. La Camera appariva decisa a togliere Chamberlain di mezzo… L’urlo che ha accompagnato la sua uscita di scena era impressionante con quelle grida “vattene, vattene!” … Non ho mai visto un primo ministro ritirarsi così ignominiosamente». Venne poi il momento del voto. Chamberlain prevalse, sia pure di misura. Ma capì che era tutto finito quando si accorse che ben 41 deputati conservatori, appartenenti al suo stesso partito, si erano pronunciati contro di lui. Del resto era preparato all’uscita di scena anche perché affetto da un cancro al colon che — ne era da tempo consapevole — gli avrebbe lasciato pochi mesi di vita.
Il prescelto per la successione era Edward Wood, lord Halifax, già viceré in India e ora ministro degli Esteri in sostituzione di Anthony Eden, fatto fuori nel 1938 in quanto nemico della pacificazione con Hitler. Grande fautore anche Halifax della politica di appeasement , nel 1937 — quando non era ancora ministro degli Esteri — aveva accolto un invito di Hermann Goering a una battuta di caccia in Germania e nell’occasione aveva avuto un abboccamento con Hitler (che la prima volta non riconobbe: lo scambiò per un maggiordomo e gli affidò la giacca). Subito dopo, però, ne fu ammaliato. Si complimentò davanti a tutti con il dittatore nazista riconoscendogli di aver «reso grandi servigi alla Germania» e disse che «se in Inghilterra l’opinione pubblica si era dimostrata critica… in parte dipendeva dal fatto che il popolo inglese non era del tutto consapevole» dei meriti di Hitler. Scrisse poi un appunto a Eden (contrario all’incontro) in cui rivelava di aver discusso con Hitler delle «modifiche dell’assetto europeo che avrebbero potuto verificarsi con il tempo». Confidò a Stanley Baldwin la propria ammirazione per i cardini dell’ideologia nazionalsocialista («nazionalismo e razzismo sono una forza straordinaria… suppongo che, al loro posto, la penseremmo allo stesso modo», gli disse parlando dei nazisti). Diede, con un anno di anticipo, una sorta di luce verde all’annessione dell’Austria: «Il popolo britannico», sentenziò, «non acconsentirebbe mai a entrare in guerra perché due Paesi tedeschi hanno deciso di fondersi». E quando fu nominato ministro degli Esteri restò delle stesse opinioni.
Il 12 ottobre del 1938, undici mesi prima dell’esplosione della guerra, l’ambasciatore americano a Londra, Joseph Kennedy, ebbe con lui un incontro e così relazionò a Washington: «Halifax non crede che Hitler voglia entrare in conflitto con la Gran Bretagna, né che per la Gran Bretagna abbia senso entrare in guerra con Hitler, a meno di un’interferenza diretta nei domini inglesi». Halifax, secondo Kennedy, suggeriva di salvaguardare gli interessi angloamericani e di «lasciare che Hitler continuasse a fare i propri comodi in Europa centrale», e che «facesse quel che voleva per se stesso».
Tutto ciò in Inghilterra alla fine degli anni Trenta appariva nient’affatto riprovevole, anzi «realistico». I colleghi di partito apprezzavano Halifax (anche quelli che criticavano Chamberlain, che del resto pensava le stesse cose del suo ministro), e così anche i laburisti. Halifax poteva inoltre vantare un rapporto di autentica amicizia con il re Giorgio VI. Così, quando Chamberlain decise di farsi da parte, il sovrano fece l’impossibile per sostituirlo con Halifax. Ma fu proprio questa insistenza di Chamberlain e di Giorgio VI a provocare in Halifax un’esitazione. Prevedeva lucidamente che la Norvegia fosse solo l’inizio della catastrofe, che le armate hitleriane avrebbero travolto l’intera Europa continentale e temeva che l’ira del Parlamento, già coagulatasi contro Chamberlain, si sarebbe ripresentata, ancora più forte, a danno del suo successore. Soprattutto se il nuovo premier si fosse presentato, come era nel suo caso, in una esplicita linea di continuità. Ritenne che fosse più prudente saltare un giro, attendere che l’onda negativa travolgesse qualcun altro, per poi riapparire sulla scena con un piano negoziale concordato insieme a Benito Mussolini (e tramite lui con Hitler). I suoi compatrioti, pensava, lo avrebbero salutato come colui che aveva riportato la pace. A un prezzo — il consenso alla dominazione nazista sull’Europa continentale e qualche concessione nelle colonie — che sarebbe apparso irrisorio.
Churchill appena nominato da Giorgio VI (malvolentieri) alla guida del governo, confermò agli Esteri Halifax, con il quale aveva rapporti ostili da una ventina di anni e che aveva soprannominato The Holy Fox (la volpe furba). Poi pronunciò il celeberrimo discorso in cui prometteva agli inglesi «sangue, fatica, lacrime e sudore». E mentre Hitler invadeva la Francia provocandone l’immediato collasso, sfidò costantemente Halifax (e con lui Chamberlain, probabilmente anche il sovrano) a uscire allo scoperto con il loro «piano di pace».
Il momento della verità giunse, dopo una lunga serie di sconfitte militari, con le riunioni del gabinetto di guerra il 26 e 27 maggio. Il 25 Halifax aveva incontrato l’ambasciatore italiano a Londra Giuseppe Bastianini — una personalità di grande rilievo politico — e aveva concordato con lui le mosse da fare (un passo a cui McCarten attribuisce grandissima importanza). Parigi stava cadendo nelle mani dei nazisti, oltre 300 mila soldati inglesi erano intrappolati sulla costa settentrionale della Francia e la Gran Bretagna appariva alla mercé degli umori di Hitler. Halifax passò all’attacco. Accusò Churchill di non essere sufficientemente lucido e ripropose di sondare Mussolini («preoccupato come crediamo per il potere di Hitler») in vista del famoso negoziato. Chamberlain annotò sul diario che Churchill dava l’impressione di essere scettico ma, a questo punto, se avesse potuto «trarsi d’impaccio» rinunciando a Malta, Gibilterra e qualche colonia africana, secondo lui, avrebbe «colto l’occasione al volo». E mentre il primo ministro varava l’operazione «Dynamo» per rimpatriare da Dunkerque quanti più militari inglesi possibile, Halifax lo mise con le spalle al muro: «Se scoprissimo di poter ottenere (da Hitler) condizioni che non presuppongono l’annientamento della nostra indipendenza, saremmo degli sciocchi a non accettarle».
Churchill appariva prostrato, confuso e pronto a cedere all’idea prospettata da Halifax. L’uomo, scrive McCarten, «si trovò messo nell’angolo e dovette riconoscere (la prima di una lunga serie di concessioni le quali, secondo lo storico, metterebbero in discussione l’immagine che abbiamo di lui, ndr ) che pur dubitando dell’utilità di un confronto con l’Italia… la questione meritava il vaglio del Gabinetto di guerra». In quel momento Churchill «prese in seria considerazione l’ipotesi di trattare la pace con Hitler», scrive McCarten, «per quanto tale idea possa oggi sembrarci disgustosa». So bene, prosegue l’autore, «che questa conclusione è impopolare e che mi pone in rotta di collisione con la quasi totalità degli storici e degli studiosi». Ma non si può non tenere conto di «un progressivo cedimento della sua precedente propensione a combattere a ogni costo, e un crescente interesse per l’ipotesi di negoziare la pace». In quel momento Churchill effettivamente diede disposizione che il ministro degli Esteri predisponesse un memorandum in cui venivano fissati i termini dell’iniziativa di pace. Si era arrivati a un passo dalla sua resa. Dopo di che sarebbe stato disarcionato e, quando la «mediazione Mussolini» fosse andata in porto, con ogni probabilità sarebbe stato sostituito con lo stesso Halifax.
A sorpresa, però, l’operazione Dynamo diede risultati insperati, oltre 330 mila soldati inglesi riuscirono a tornare nell’isola. Ma soprattutto Giorgio VI vinse le diffidenze della prim’ora, manifestò a Churchill il proprio impegno al suo fianco. Il primo ministro si riprese e giunse ad una resa dei conti con Halifax. Durissima. Churchill disse ad Halifax: «L’approccio che proponete è non solo futile, ma mortalmente pericoloso». E Halifax rispose così: «Qui il pericolo mortale è la romantica fantasticheria di combattere fino all’ultimo … Cosa vuol dire “l’ultimo” se non la completa devastazione?». Churchill di rimando: «Ma quando la apprenderete la lezione? Dio santo! Quanti dittatori dovremo ancora vezzeggiare, blandire, favorire con immensi privilegi per capire che non si può ragionare con una tigre quando si ha la testa nelle sue fauci!». Halifax: «Signor primo ministro, penso sia necessario mettere agli atti che se è questa la vostra unica prospettiva… allora, sappiatelo, le nostre strade si dividono». E la «divisione delle strade» — questo era il senso della sfida — avrebbe fatto cadere il governo. Ma quel guanto fu lanciato in ritardo. Churchill con il sostegno del re e del Parlamento, conquistato con il secondo celeberrimo discorso nel quale impegnava il Paese a combattere «fino a quando Dio lo vorrà», piegò addirittura Chamberlain e riuscì a isolare Halifax. Che avrebbe mantenuto agli Esteri qualche mese per poi farlo fuori mandandolo, come ambasciatore, negli Stati Uniti.
Repubblica 9.1.18
Il segreto di “Lale” tatuatore dei nazisti
Era l’uomo che incideva i prigionieri a Auschwitz. Nel lager conobbe Gita, poi l’amore di una vita Le rivelazioni in un libro
di Andrea Tarquini
Berlino Era il tatuatore di Auschwitz, l’uomo selezionato per caso dai nazisti tra tanti prigionieri per incidere loro il numero di matricola sull’avambraccio. Per anni trasformò in numeri persone destinate alla morte. Poi s’innamorò di una giovane prigioniera che aveva tatuato. Nel dopoguerra si ritrovarono e si sposarono. Visse una vita nel rimorso e nel senso di colpa, e solo dopo la morte della moglie, nel 2003 si decise a parlare prima di morire tre anni dopo. Ora la drammaturga neozelandese Heather Morris, che dal 2003 al 2006 ha raccolto le sue memorie, narra tutto in un libro.
Una vita tranquilla da coppia che invecchia bene insieme in un sobborgo della metropoli australiana Melbourne, e insieme per lui una vita col senso di colpa come un macigno sul cuore. Alla nascita nel 1916 in Slovacchia si chiamava Ludwig “ Lale” Eisenberg, era ebreo. Dopo la guerra cambiò nome in Lale Sokolov. Gita, la ragazza che conobbe ad Auschwitz tatuandola, fu la compagna della sua vita. « L’orrore del campo, l’orrore di essere sopravvissuto, gli dettero una vita di rimorso paura e paranoia » , dice Heather alla Bbc.
Rimorso per aver degradato persone in numeri con quei dolorosissimi tatuaggi che impresse a centinaia di migliaia, paura di essere scoperto e perseguito come criminale nazista. Solo alla fine, si decise a vuotare il sacco. Lale aveva 26 anni quando fu deportato ad Auschwitz. Giovane e prestante, si offrì per i lavori più duri sperando di salvare dalla morte i suoi genitori: sapeva che erano anche loro deportati da qualche parte. Era già divenuto un numero egli stesso: 32407. Si ammalò di tifo, fu curato da un tale Papen, medico francese allora tatuatore nel campo della morte. Papen lo prese sotto la sua protezione, gli insegnò il “ mestiere”, ne fece il suo assistente, gli insegnò a tacere sempre. Un giorno Papen sparì misteriosamente, allora i nazisti scelsero Lale — anche perché parlava slovacco, tedesco, russo, francese, ungherese e polacco — come tatuatore capo di Auschwitz- Birkenau, dipendente del “ dipartimento politico delle SS”. Sempre sorvegliato, sempre vivendo nel terrore. Mengele, il medico della morte, veniva spesso a vedere quali tatuati poteva scegliere per i suoi esperimenti, e più volte gli disse «un giorno toccherà anche a te». Lale visse anni nel terrore che l’indomani fosse l’ultimo giorno, ma aveva privilegi. Pranzava nell’edificio dell’amministrazione, aveva razioni extra e tempo libero.
I tatuaggi, dolorossimi quanto umilianti — esseri umani ridotti a numero come bestiame da macello — prima venivano eseguiti con timbri metallici, poi con aghi a punta doppia, narrò Lale a Heather. Nel luglio 1942, i nazisti gli portarono una ragazza, Gita Hurmannova, cui toccava il tatuaggio 34902. Lui non dimenticò mai gli occhi di lei imploranti di dolore. Negli anni di Auschwitz, faceva di tutto per aiutarla a sopravvivere. Potendo uscire dal campo, vendeva gioielli tolti ai deportati in cambio di cibo per quella ragazza e altri deportati. Nel 1945,coi nazisti in fuga davanti all’Armata rossa, Lale perse le tracce di Gita. A lungo la cercò invano. Dopo la liberazione, tornò fortunosamente in treno a Bratislava. E alla stazione, riconobbe quegli occhi sorridenti: era lei, ritrovata per caso. Si sposarono, aprirono un negozietto ma il regime comunista al potere dal 1948 li espropriò, arrestò ed espulse perché Lale raccoglieva collette in sostegno al neonato Stato d’Israele. Vienna, Parigi, infine l’Australia furono le tappe del loro esodo. Vissero a Melbourne tutta la vita, Gita a volte tornò in Europa, Lale mai. Dopo la morte di lei, Lale trovò in Heather Morris la persona che raccolse i suoi ricordi. Avrebbero dovuto diventare anche un film. Film Victoria, un ente pubblico australiano, finanziò ricerche sul caso. E così si scoprì che i genitori di Lale erano stati assassinati ad Auschwitz un mese prima della deportazione del figlio. Lale non lo apprese mai.
Repubblica 9.1.18
Iran
Chi vince a Teheran
di Renzo Guolo
Bandiere nella polvere per Mahmud Ahmadinejad, forse agli arresti domiciliari. In ogni caso dopo le accuse di essere dietro alle manifestazioni di piazza che hanno dato inizio alla sommossa di fine anno l’ex- presidente della Repubblica Islamica è finito “ fuori sistema”. Collocazione che, nella costituzione materiale iraniana, significa diventare automatico bersaglio della repressione.
Un destino scritto, quello di Ahmadinejad: nonostante, nel 2009, la Guida Khamenei abbia messo a rischio la stessa esistenza del Sistema, convalidando i brogli nelle urne che davano al presidente- ex pasdaran la vittoria su Moussavi. Un passo inaudito: sino ad allora tutte le componenti di quella oligarchia di fazioni che è la Repubblica Islamica avevano sempre rispettato il verdetto elettorale. Semmai la lotta per la selezione dei candidati, non meno cruenta, avveniva nelle stanze del Consiglio dei Guardiani, deputato a definire l’affidabilità politica di chi aspirava a cariche elettive. Ma con quella “ mossa del cavallo” Khamenei si ricollocava al centro del Sistema: metteva fuori gioco i “gorbacioviani” della sinistra islamica, quei riformisti che sin dai tempi di Khatami, teorizzavano il primato della politica sulla religione e, così facendo, secondo la Guida, rischiavano di far implodere la Repubblica; indicando come presidente il delegittimato Ahmadinejad vanamente contatosi nelle urne senza l’entusiastico appoggio dei conservatori religiosi, lo riduceva a burattino di cui teneva i fili. L’alternativa, per Ahmadinejad, sarebbe stato l’immediato ritorno alla marginalità, sua e di quella destra radicale di cui era leader.
Quella destra radicale — antimperialista, antisionista, rivoluzionaria — già messa ai margini del Sistema dopo la fine della guerra con l’Iraq e la morte di Khomeini, passaggi critici neutralizzati dal patto per la ricostruzione siglato tra conservatori religiosi e pragmatici, ovvero dalla diarchia Khamenei-Rafsanjani. Un duplice tramonto che trascinava con sé anche la destra radicale, con il suo appello populista ai diseredati e ai reduci della generazione del fronte, celebrati ma non più centrali nell’Iran post- bellico e post-khomeinista che chiedeva stabilità, crescita, istituzionalizzazione della politica. Una destra rivoluzionaria che, nel 2005, la Guida ha resuscitato dopo oltre quindici anni di irrilevanza in nome del comune fronte contro gli odiati riformisti. Ma, a dimostrazione che le culture politiche non sono eludibili, Ahmadinejad ha dato vita a un’insidiosa collaborazione competitiva con i conservatori religiosi. Puntando a un khomeinismo senza clero, che mirava a ridimensionare il peso dei religiosi a favore degli eredi senza turbante dello spirito del 1979. Tanto da mettere in discussione persino la legittimità del clero a governare, con l’insistenza sull’imminente, messianico, ritorno del Mahdi: questione solo apparentemente teologica, dal momento che proprio la tesi che il clero dovesse governare in attesa della ricomparsa del Dodicesimo Imam occultatosi aveva indotto Khomeini a sconfessare un millennio di attendista tradizione religiosa sciita. L’insistenza sui diseredati sui “senza scarpe”, come veri beneficiari della Rivoluzione, completavano le posizioni indigeste ai conservatori religiosi.
Quando Khamenei ha piegato i riformisti, prima reprimendo brutalmente l’Onda verde e poi, riconquistando la centralità nel Sistema, consentendo che, nel 2013, esprimessero una candidatura di compromesso come quella di Rouhani, Ahmadinejad non serviva più. Tanto che il Consiglio dei Guardiani ha impedito anche la sua ricandidatura alle presidenziali del 2017. Messo all’angolo, Ahmadinejad ha giocato la carta della disperazione, quella della rivolta dei “ diseredati”, orfani della sua generosa e inflazionistica politica di sussidi, sperando di muovere le acque del fossilizzato Sistema. Ma a mettere fine alla sua avventura politica ci hanno pensato proprio quei Pasdaran nei quali aveva combattuto, fedeli come sempre alla Guida, che hanno represso insieme la rivolta e le aspirazioni del populismo in salsa iraniana.
Repubblica 9.1.18
Non abbiate paura dell’incertezza
di Zygmunt Bauman
Guerre, migrazioni, fine delle utopie. Si può vivere in una fine del mondo permanente? Un anno dopo la morte, ecco l’ultima lezione di Bauman
La fine del tempo, la fine del mondo, la fine dell’universo: un argomento certamente diverso dal solito per me che non sono un esperto del settore. Non pretenderò quindi di informarvi sullo stato attuale dell’arte, dell’astronomia e della cosmogonia, su ciò che gli scienziati pensano a proposito della fine del mondo. Dirò solo che le teorie scientifiche che si sentono mi hanno lasciato molto confuso, data la difficoltà di conciliare visioni molto diverse sul tappeto. [...] Non che questo debba preoccuparci nell’immediato, intendiamoci, giacché è stato calcolato che l’universo vivrà almeno un’altra ventina di miliardi di anni e almeno io, che sono irrevocabilmente vecchio, non ho alcuna speranza di arrivarci. Ma torniamo alla domanda iniziale, al perché oggi siamo tutti così inquieti, perché si fanno così tante oscure premonizioni su cosa ci aspetta, tanto che a volte non riusciamo neppure a mettere bene a fuoco la questione in quanto fine del mondo, ma piuttosto come qualcosa di completamente nuovo e sconosciuto e, pertanto, minaccioso. Perché viviamo questa condizione in questa fase della nostra storia? Questa è la domanda da porci. Suggerirei intanto di non avere paura. Anche quando ci divertiamo, andiamo ad una festa con i nostri amici, da qualche parte nel profondo avvertiamo ansia. Non ci sentiamo sicuri: sicuri di riuscire a controllare le nostre vite, sicuri di averne la capacita, i mezzi, l’abilità, le risorse, sicuri di poter vivere in un mondo in cui ciò sia possibile.
Insomma, non riusciamo a dare alle nostre vite la forma che vorremmo, siamo spaventati perché – mi permetto di suggerire – viviamo una condizione di costante incertezza. E cos’è l’incertezza? È la sensazione di non poter prevedere come sarà il mondo quando ci sveglieremo la mattina seguente, è la fragilità e l’instabilità del mondo. Il mondo ci coglie sempre di sorpresa [...].
Mi viene da pensare alla Lisbona del 1755: [...] dapprima ci fu un terremoto che devastò gran parte della città, dopo di che un incendio distrusse ciò che si era salvato.
L’evento suscitò grandi reazioni e fra gli intellettuali si cominciò a discutere su che senso avesse una tragedia del genere e come Dio potesse permettere una simile strage di innocenti. Alla testa della campagna filosofica si mise Voltaire che sentenziò: «Guardate: la natura è cieca, colpisce con la stessa imparzialità e la stessa indifferenza le persone buone e le persone cattive. Non fa selezioni, non punisce. Distribuisce a caso la sua furia. Se volete un mondo che sia in linea con l’etica umana e la ragione umana, dovete conquistare la natura». [...] Oggi, a più di duecento anni di distanza, possiamo vedere come tutti gli sforzi per dominare la natura non abbiano avuto alcun effetto e quei pochi che l’hanno avuto erano in realtà mal concepiti e hanno lasciato traccia del loro operato in milioni di chilometri quadrati di terra sterile e desertica, milioni di vite umane perse, vite di coloro che prima coltivavano quella terra. Non ha funzionato. D’altra parte, altri pericoli – qualsiasi evento comporta degli inconvenienti –, altri disagi si andarono sommando a ciò che era successo. Credo sia stato Freud a riassumere il significato dell’impulso verso la civilizzazione: la pressione della civiltà a correggere e dare nuova forma alla società. [...] Tutte le utopie per quanto diverse tra loro avevano una cosa in comune: erano collocate da qualche parte nel futuro. Non ancora esistenti, non ancora conosciute, non ancora esplorate, intuite solo da qualche navigatore solitario. Ma utopia e futuro avevano un significato molto simile. Io penso che stiamo perdendo la fiducia nel futuro. Non crediamo più che sia favorevole, che potrà risolvere i nostri problemi, e se gettate uno sguardo sul nostro mondo contemporaneo vedrete il diffondersi di tradizioni che guardano al passato. Chissà, forse alcune cose le abbiamo abbandonate prematuramente, erroneamente, stupidamente, forse dovremmo tornare a quegli stili di vita. Forse qualcuno fra voi pensa con nostalgia alla vita sotto Hitler, Stalin o qualsiasi altro dittatore del passato; ma non avete fatto esperienza di quello che è stato, perché non è possibile. Il passato è immaginario quanto il futuro. Non siete stati nel futuro e non lo conoscete, ma non siete stati nemmeno nel passato. Potete solo leggere libri sull’argomento, che però difficilmente possono restituire le sensazioni di una vita realmente vissuta nel passato.
Queste sono, a grandi linee, le cause dello stato di incertezza attuale. La fragilità della posizione sociale che ci siamo conquistati dopo una lunga vita di lavoro e che ci troviamo a proteggere, l’impossibilità di prevedere cosa accadrà domani, il sospetto che qualunque cosa porti con sé il futuro non sarà migliore di ciò che c’è oggi, ma forse sarà peggiore, il senso di impotenza. Che se anche conoscessimo tutti i segreti sul funzionamento delle cose, non avremmo le capacita né gli strumenti per impedire alle cose spiacevoli di accadere. [...] Scienziati importanti, come ad esempio Ilya Prigogine e Isabelle Stengers, hanno ricevuto il Nobel per aver scoperto che l’universo – non solo il nostro mondo e le cose che ci circondano più da vicino, ma l’intero universo – vive governato da contingenze, accidenti e coincidenze, insomma dal caso.
Non esistono regole. Nella storia del mondo si sono verificate cinque grandi catastrofi che ci hanno portato quasi all’estinzione, che sono andate molto vicine a rendere impossibile questo nostro essere qui ora, in questo edificio, a scambiarci idee. La più grande, durante il periodo permiano, spazzò via il 95% di tutte le creature viventi. Quindi è assolutamente corretto affermare che siamo qui per caso. I nostri progenitori si trovavano in quel minuscolo 5% di creature rimaste al mondo. Affidarsi alla coerenza dell’universo, alla sua stabilità o prevedibilità non è dunque possibile.
Qualsiasi cosa accada nell’universo, accade per caso, sicché la completa eliminazione dell’incertezza non credo sia possibile, ma credo anche che, entro i limiti a noi imposti dall’universo, ci sia ancora tanto da fare. Ad esempio, prevenire il collasso del sistema di credito o la fuga improvvisa di migranti da una delle guerre più sporche e disgustose mai avvenuta davanti ai nostri occhi.
Guerre prevedibili, guerre che possiamo fare in modo non scoppino. E mi permetto di suggerire che queste cose – le piccole cose che possiamo fare nei limiti delle nostre capacità – sono moltissime, tanto da poterci impegnare per l’intera nostra esistenza.
– (Traduzione di Valentina Pianezzi)
Il libro da cui anticipiamo il testo
L’ultima lezione di Zygmunt Bauman (Laterza, con un saggio di Wlodek Goldkorn, pagg. 120, euro 9)
Repubblica 9.1.18
Mussolini e i giornalisti americani cronaca di un idillio finito male
Il libro
La scoperta dell’Italia di Mauro Canali
di Umberto Gentiloni
Mussolini è come un Roosevelt latino», un paragone a dir poco azzardato che torna nei giudizi dei corrispondenti americani in servizio a Roma durante il ventennio: «Immaginate un Theodore Roosevelt consapevole del posto che avrebbe occupato nella storia degli Stati Uniti, e avrete l’immagine di Benito Mussolini in Italia». Il fascismo attira curiosità e attenzioni, un fenomeno nuovo, un fermento politico difficile da decifrare, per molti un enigma. A partire dagli anni Venti il drappello di corrispondenti americani diventa cospicuo, agenzie, quotidiani e periodici si attrezzano per raccontare ai lettori d’oltreoceano cosa stia avvenendo in un angolo della vecchia Europa. Una rete di relazioni e rapporti tra diplomatici, uomini di governo, giornalisti al lavoro su biografie, racconti, reportage. Un mondo che si muove nell’Italia fascista, in un crocevia incerto tra la libertà e la curiosità di scrivere e gli strumenti coercitivi di controllo e censura del regime. Uno spaccato del fascismo attraverso una sua proiezione fuori dai confini nazionali. Un volume mette insieme le corrispondenze statunitensi sulla società del ventennio (Mauro Canali, La scoperta dell’Italia. Il fascismo raccontato dai corrispondenti americani, Marsilio, € 20,00).
Una ricerca complessa, tra archivi privati di giornalisti, fonti ufficiali, documenti conservati dalle testate a New York, Chicago o Los Angeles. Il segno delle corrispondenze muta nel tempo.
Di fronte ai primi passi molti sono abbagliati, folgorati dall’illusione della popolarità del giovane dittatore capace di imporre regole e comportamenti in una società conflittuale, disordinata, potenzialmente conquistabile dalle sirene della rivoluzione comunista. Estimatori convinti definiscono Mussolini «una sovrumana dinamo umana», o ancora «una personalità notevolmente brillante che stava compiendo meraviglie in Italia». Si fa a gara per avere udienza, trovare un canale diretto, fissare un’intervista che possa svelare ambiti privati, lati meno conosciuti del fascismo e del suo capo: «Il Grande Uomo del momento! Che Dio lo benedica e protegga lui e l’Italia», in un crescendo di considerazioni apologetiche, persino imbarazzanti. Si dà risalto all’aspetto fisico «di una forza della natura» fino a descriverlo come un «divino dittatore pieno di fascino, forza e gentilezza» capace di suscitare emozioni intense «per molto tempo ancora dopo averlo salutato». Un idillio che secondo l’autore ha delle radici ben precise: «Rimasero colpiti nei primi anni del regime quando il dittatore cercava di presentare il fascismo come una sorta di terza via tra comunismo e capitalismo, moderatore degli eccessi di quest’ultimo e nel contempo solido argine nei confronti del comunismo».
Ma nel breve spazio di pochi anni la natura del regime cominciò a venir fuori. Mussolini esercitò un controllo diretto e costante sui corrispondenti: voleva trasmettere un’immagine positiva e accattivante, cercava il consenso delle comunità di italoamericani.
Con la metà degli anni Venti e soprattutto con l’introduzione delle “leggi fascistissime” del novembre 1926 il controllo diventò serrato. «Il regime cercò di corrompere i corrispondenti stranieri per garantirsi quantomeno un atteggiamento benevolo». Chi non ci stava, chi non accettava il ruolo di megafono del regime veniva individuato, controllato e intercettato: «I corrispondenti potevano essere ammoniti, diffidati, minacciati o anche espulsi».
Con la guerra di aggressione all’Etiopia quelle aspettative illusorie dei primi anni si trasformano in una presa di distanze critica da parte della stampa statunitense, nel momento di maggiore consenso del fascismo nella società italiana.
Non esistevano alternative, «O sei con Noi o contro di Noi». Molti cedettero (quasi la metà, secondo l’opinione del 1945 di uno sconsolato Paul Scott Mower), altri cercarono di raccontare opponendosi all’idea che la stampa potesse essere trasformata in un organo di propaganda e non di critica.
Il libro
La scoperta dell’Italia di Mauro Canali (Marsilio pagg. 496 euro 20)