lunedì 15 gennaio 2018

La Stampa 15.1.18
“La Cei ha un ruolo politico e benedice le larghe intese”
di Fed. Cap.


Roberto Calderoli, senatore della Lega e vicepresidente del Senato, ha passato una «brutta domenica tra sondaggi e proiezioni elettorali». E la lettura su La Stampa delle parole del presidente della Cei, Gualtiero Bassetti, «non ha aiutato», ammette al telefono.
Calderoli, cos’è che non le è piaciuto delle parole di Bassetti?
«Mi è sembrata una benedizione, sì, ma delle larghe intese. Qualcuno nel Paese spinge perché non vinca nessuno alle prossime elezioni e si torni a Gentiloni. La Chiesa, in questo gioco, fa la sua parte. Non hanno fatto i conti con i sondaggi, però, che ci vedono al governo».
Le è sembrato che venisse chiamata in causa la Lega quando Bassetti ha espresso «timore per chi soffia sul fuoco della rabbia sociale»?
«Semmai “ben svegliato”, direi al cardinale Bassetti. Il rancore sociale c’è da anni. Si poteva alzare quando c’era il governo Monti».
Il rapporto con la Cei non sembra idilliaco. Se il centrodestra arrivasse al governo, instaurerete un dialogo?
«Con il predecessore di Bassetti, il cardinal Bagnasco, ho avuto ottimi rapporti. Ci si confrontava spesso e sentivo il dovere di ascoltare i vescovi su temi particolarmente delicati come la riforma costituzionale. Se sento un cardinale che parla da politico, però, mi dimentico persino l’indirizzo della Cei. Sono anche convinto, però, che se si spiegassero a Bassetti i punti del nostro programma, cambierebbe idea».
Le distanze sembrano incolmabili su migranti e Ius soli. Bassetti parla di paura e di rigurgito xenofobo. È così?
«Certi discorsi me li aspetto dal vecchio compagno di sinistra al bar. Quella legge proposta dal Pd era scritta male e tutta la polemica che ne è seguita è una presa in giro. Sembra quasi che il presidente dei vescovi non abbia letto il testo».
La Cei sostiene che in questa campagna elettorale si stanno promettendo miracoli e inutili abrogazioni di leggi. È una leggerezza che riconosce?
«Si vogliono contestare le abrogazioni a me, che da ministro bruciai 375 mila leggi? Le dirò di più, ne avrei bruciate altre centomila di natura fiscale, se avessi potuto. Il mio obiettivo adesso sarà intervenire con il lanciafiamme proprio in quegli ambiti. Bassetti magari non conoscerà i meandri della burocrazia, ma io so cosa bruciare».

La Stampa 15.1.18
Grasso detta le condizioni alla sinistra
La nuova strategia di Grasso: “Ci vuole un leader che decide”
Accordo con Zingaretti nel Lazio tagliando fuori la lista della ministra Lorenzin
E chiede a D’Alema e Bersani di fare un passo di lato in campagna elettorale
di Andrea Carugati


L’incontro faccia a faccia, sabato. Pietro Grasso ha consegnato al presidente del Lazio Nicola Zingaretti il documento con le tante richieste partorite dall’assemblea romana di Liberi e uguali. Ieri il governatore ha detto sì. Ci sono ancora parecchi dettagli da limare, ma la sostanza è che LeU correrà a fianco di Zingaretti alle regionali del 4 marzo. «Ci sono tutte le condizioni per costruire un’alleanza di sinistra», spiega Grasso, che ha apprezzato il sì di Zingaretti su alcuni punti chiave come assunzione dei precari nella sanità, stop a nuovi inceneritori, trasporto su ferro, reddito minimo per chi perde il lavoro. «C’è anche l’impegno, se il Consiglio di Stato a primavera dovesse bocciare l’autostrada Roma-Latina, a rivedere quel progetto già finanziato dal Cipe e appaltato a favore di una metropolitana di superficie», spiega Piero Latino, coordinatore di Mdp nel Lazio. Il governatore si definisce «contento» per la nascita di un «nuovo centrosinistra». «I prossimi - assicura - saranno 5 anni di svolta». A sinistra però si apre una crepa: Possibile, il gruppo che fa riferimento a Pippo Civati, si chiama fuori dall’intesa nel Lazio: «Rispettiamo la decisione, ma vista la contrarietà della nostra base non esprimeremo candidati nella lista di LeU».
È il primo accordo che porta la firma di Pietro Grasso. Che in mattinata incontra alcune associazioni di volontariato nel quartiere romano della Garbatella. E ribadisce, dopo il botta e risposta con Laura Boldrini sulla possibile alleanza col M5S (la presidente della Camera si è detta contraria), che la decisione finale toccherà a lui: «Nessuno screzio con Laura. È normale che ci sia una pluralità di idee, io ascolto tutti, poi rifletto, poi qualcuno che prenda la decisione finale ci deve essere», spiega il presidente del Senato, in giro per il quartiere con jeans, scarpe sportive e giaccone di renna.
Grasso appare sempre più intenzionato a esercitare la sua leadership da qui alle elezioni. E anche dopo, se il risultato di LeU consentirà al progetto di andare avanti. Nei giorni scorsi ha fatto capire ai big come Bersani e D’Alema che gradirebbe un loro passo di lato, almeno a livello mediatico, durante la campagna elettorale. Non certo un minore impegno nei rispettivi collegi. D’Alema da settimane gira in lungo e in largo il Salento e così farà Bersani una volta che si sarà deciso in quale collegio emiliano correrà. Ma Grasso ci tiene che passi un messaggio, soprattutto sulle tv: LeU è un progetto nuovo e il leader sono io. Un modo, spiegano, per puntare a un elettorato giovanile che non gradisce i vecchi leader politici. Una linea che non ha trovato particolari resistenze nei due leader, consapevoli che Grasso, volto relativamente nuovo sulla scena politica, può rappresentare un valore aggiunto. «Un uomo abituato al comando», ha detto di lui D’Alema prima di Natale. E così Grasso si sta muovendo. Tanto da prendersi ieri il rimbrotto di Laura Boldrini, che studia sempre più da numero due della nuova formazione: «Ha fatto bene oggi il presidente Grasso a sottolineare il carattere pluralistico della nostra formazione. Sarebbe del resto paradossale se LeU volesse riprodurre quelle forme di gestione personalistica che critichiamo in altre forze politiche». Pace fatta, dunque? Non proprio. Meglio parlare di una tregua.
L’accordo tra Grasso e Zingaretti apre una frattura nella già fragile coalizione attorno al Pd nazionale. LeU infatti ha chiesto al governatore di escludere dalla coalizione gli esponenti della lista di Beatrice Lorenzin. «Non vogliamo trasformisti, neppure nascosti dentro le liste civiche», il diktat di Paolo Cento. Zingaretti ha escluso la presenza di una lista Lorenzin nella sua alleanza per le regionali, e lo stop ha irritato i centristi a livello nazionale. Lorenzo Dellai, fondatore della lista con il ministro della Salute, è furioso. Definisce «surreale» la vicenda e arriva a mettere in discussione l’alleanza col Pd alle politiche: «Per noi ora si aprono pesanti ed insuperabili questioni politiche, non siano una lista civetta “à la carte”». I centristi ora aspettano un «segnale di chiarezza dal Pd». Al Nazareno non si percepisce particolare preoccupazione: «Nessun rischio, si risolve tutto», ragionano fonti dem.

Repubblica 15.1.18
Le geometrie della sinistra
di Massimo Giannini


A quarantotto giorni dalle elezioni, una vignetta dell’ultimo numero del New Yorker fotografa uno stato d’animo diffuso: una sondaggista ferma un cittadino per strada e gli chiede «ha deciso per chi non andrà a votare?» Temo che questa vera e propria forma di sconforto civico e repubblicano sia forte soprattutto a sinistra. E temo che le performance degli attori che popolano la scena democratica non aiutino affatto a curarlo.
Semmai lo aggravino. La scelta di Liberi e uguali, che in Lombardia scarica Gori e nel Lazio sostiene Zingaretti, alimenta il conflitto.
Prima l’astensione, poi Lega e M5S
In un campo politico già balcanizzato come il centrosinistra, questa scelta disorienta le truppe e soprattutto prepara altre sconfitte. Spiegare agli elettori questa geometria variabile non è difficile: è impossibile. Se per Grasso e Bersani, Boldrini e D’Alema, Fassina e Fratoianni, la rottura con il Pd è davvero così insanabile da precludere qualunque alleanza prima e forse anche dopo il voto del 4 marzo, allora non si capisce perché in una sola regione la deroga al non expedit diventa possibile. Dire “si decide in base ai dirigenti locali” fa piangere, per una sinistra che giustamente contesta ai grillini la mistica della democrazia del clic e dell’uno vale uno. Dire “ si decide in base al merito” fa sorridere, per una sinistra che non può chiarire cosa funziona in Zingaretti e cosa non funziona in Gori, se non il suo originario “apprendistato” Mediaset.
La verità, forse, è più banale. In Lombardia, dove i sondaggi attribuiscono la vittoria sicura al centrodestra con un margine incolmabile, “Leu” si sgancia dal Partito democratico per dimostrare che senza il suo contributo si perde. Nel Lazio, dove invece l’esito è incerto, “ Leu” si coalizza nella speranza di poter dimostrare che con il suo contributo si vince. Un mero calcolo di “ utilità marginale”, nel quale si fa fatica a scorgere un respiro o una strategia. Se non la resa dei conti con Renzi, ansioso a sua volta di consumarla una volta per tutte e per sempre. È chiaro che il segretario del Pd porta la responsabilità primaria di una diaspora identitaria e culturale che va molto al di là della scissione tra gruppi dirigenti, per non aver saputo e voluto coltivare il suo campo di forze. Ed è chiaro che tuttora non riesce a fare quell’atto finale di generosità necessaria, quel pubblico passo indietro dalla premiership che forse ancora aiuterebbe a salvare il salvabile.
Ma oggi la posta in palio è infinitamente più alta, per tutti i leader e per tutta la sinistra. Coerenza per coerenza, per Liberi e uguali sarebbe stato più comprensibile portare fino in fondo l’irriducibilità dello strappo, su scala nazionale e locale, piuttosto che far coesistere la posticcia “pastetta laziale” con la “piccola vendetta lombarda”, che regalerà un’altra volta quella regione al centrodestra forzaleghista.
C’è da chiedersi qual è l’orizzonte politico di questo centrosinistra così disarticolato e diviso, di fronte al berlusconismo di ritorno che forse si riprenderà l’Italia partendo dalla criminalizzazione degli immigrati e dal condono fiscale. Qual è lo sbocco del Pd imprigionato nella propria autosufficienza e ossessionato dall’altrui incompetenza, che trasforma Orietta Berti in Rosa Luxemburg e ha paura persino di “ finché la barca va”? La Grande Coalizione all’italiana? Non siamo ridicoli: suona blasfemo qualunque accostamento a quella tedesca, che ha appena messo sul piatto 46 miliardi tra aiuti alle famiglie povere con figli, programmi di sostegno all’infanzia e all’ingresso dei giovani nel lavoro e spese per ricerca fino al 3,5 per cento del Pil.
Qual è lo sbocco di Liberi e uguali, che per Boldrini è totalmente incompatibile con i Cinque Stelle, mentre per Grasso “si vedrà il 5 marzo”? Non siamo patetici: è un patto del diavolo, quello con un movimento che rivendica con orgoglio la sua diversità strutturale dalla sinistra, fa prevalere le norme settarie del suo statuto interno sui principi- cardine della Costituzione, respinge i trattati europei, rifiuta il multiculturalismo e il multilateralismo, tratta il fenomeno migratorio come pura minaccia. Forse c’è ancora tempo, per salvare il salvabile. Ma servirebbe la consapevolezza di un destino comune, che oggi manca. Un’assunzione di responsabilità condivisa, che invece ciascuno scarica sull’altro. E invece vale per tutti il verso del poeta, quando cantava “anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”.

Repubblica 15.1.18
L’evasione reale
Nascosti al Fisco 132 miliardi record da autonomi e affitti
Studio del Senato: le dichiarazioni Irpef fanno perdere ogni anno 38 miliardi allo Stato
di Claudio Tito


Roma Oltre 132 miliardi di redditi Irpef nascosti con una perdita di gettito superiore a 38 miliardi l’anno. Sono questi gli ultimi dati choc dell’evasione fiscale in Italia contenuti in un rapporto elaborato dall’Ufficio Valutazione Impatto del Senato. Una ricerca appena conclusa dagli esperti di Palazzo Madama. In cui si confermano alcuni sospetti: a evadere di più le tasse sono i lavoratori autonomi e chi può contare su rendite immobiliari, ossia sugli affitti.
Lo studio, terminato nei primi giorni di quest’anno insieme all’Università Ca’ Foscari di Venezia, alza dunque di un bel pò le stime sulle tasse sul reddito non pagate nel nostro Paese.
Il tutto si basa su un principio che viene sintetizzato con una formula inglese: under reporting.
Ossia gli italiani mentono sui propri redditi anche nelle rilevazioni demoscopiche, «sottostimandoli nel timore che si possano stabilire collegamenti con quanto hanno dichiarato al fisco » . E secondo questo studio, esiste una « relazione sostanziale tra l’evasione fiscale e l’under reporting». Basti pensare che sugli introiti da lavoro autonomo e impresa almeno il 23 per cento degli intervistati non dice la verità e il 44% lo fa sugli affitti. Mentre i dipendenti sono sostanzialmente veritieri nelle loro relazioni con l’erario. « Il metodo usato da questo rapporto - che si concentra sull’imposta principale del nostro Paese, ossia l’Irpef corregge quindi verso l’alto tutte le stime precedenti. E addirittura viene raddoppiato, passando dal 7,5% al 14,4 il tasso complessivo di evasione del prelievo sugli introiti delle persone fisiche. Nell’ultimo Def i dati sui mancati introiti per l’Erario su redditi da lavoro autonomo e dipendente e da locazione ammontano a circa 33 miliardi. Il nuovo studio mostra quindi che ci sono circa 5 miliardi in più di Irpef e imposte sugli affitti che lo Stato non incassa.
In questo quadro spiccano le conferme di alcuni sospetti: a ingannare di più il fisco sono le cosiddette partite Iva e coloro che hanno la possibilità di mettere a frutto il patrimonio immobiliare posseduto. Il tasso di evasione totale è infatti del 37% per i redditi da lavoro autonomo e impresa, e questa fuga illecita sale al 65% in riferimento alle rendite provenienti da case, uffici e stabili. Secondo l’Ufficio Valutazione Impatto del Senato, il mancato gettito ammonta dunque a 38,5 miliardi l’anno con una suddivisione tra categorie di contribuenti piuttosto netta: 20,9 miliardi provengono (o meglio non arrivano alle casse dello Stato) dai lavoratori autonomi; 14,7 miliardi dalle rendite immobiliari; e solo 2,6 miliardi dai dipendenti. Bisogna dire che per quanto riguarda il lavoro autonomo anche il rapporto Mef 2016 presentava stime analoghe.
La distribuzione geografica è sostanzialmente omogenea, con qualche picco più alto nelle regioni meridionali. Le percentuali si confermano comunque basse per i redditi di lavoro dipendente e passano dal 3,07% del centro al 3,28 del Mezzogiorno. Per gli autonomi il dato oscilla tra il 36,93% sempre dell’area centrale al 42,21% del Sud. E infine i numeri per chi vanta delle rendite immobiliari variano dal 61,88 ancora del centro al 70,62% della macroarea meridionale. Un elemento positivo, però, che riguarda un’unica categoria, in questo rapporto c’è: i pensionati. Nessuno di loro, in tutto il Paese, viene inserito nella lista nera. C’è un altro dato che emerge con una certa rilevanza: la propensione a frodare l’erario scende costantemente ( partendo dal 40%) per i redditi fino a 22 mila euro, poi sale per chi guadagna fino a 60 mila euro l’anno e quindi si mantiene stabile (intorno al 20%) per le fasce superiori. Allora si scopre che chi dichiara fino a 5 mila euro l’anno, mediamente ne occulta 3600 euro.
Chi nel 740 denuncia entrate tra 20 e 26 mila euro, ne nasconde oltre 13 mila. E chi guadagna oltre 75 mila euro l’anno, in realtà supera quota 106 mila. Ma questo insieme di cifre non produce solo un effetto negativo sulle casse dello Stato. Provoca una dinamica distorsiva anche sui rapporti tra classi sociali. Viene infatti modificato sensibilmente l’impatto redistributivo dell’Irpef e in particolare si corregge negativamente il principio costituzionale della progressività delle imposte. Chi guadagna di più paga percentualmente meno. Tanto è vero che l’aliquota media effettiva, a seguito dell’evasione, si abbassa di quasi 4 punti percentuali passando dal 20% al 16%. Un calcolo che rende ancora più urgente un intervento nella lotta all’evasione fiscale. Dal punto di vista normativo ma anche da quello civico-educativo.

Repubblica 15.1.17
Intervista a Raffaello Lupi
“I partiti poco interessati. La lotta a chi froda non porta voti anzi li fa perdere”
di R. P.


ROMA. Non si parla di evasione fiscale in campagna elettorale. Perché?
«Perché - risponde il tributarista Raffaello Lupi, docente a Tor Vergata - il bilancio politico sarebbe comunque negativo.
Farebbe perdere i voti di coloro che vengono indicati come colpevoli e non farebbe guadagnare i voti di coloro che non sono interessati al tema perché, lavoratori dipendenti e pensionati pagano direttamente sullo stipendio».
Un mero problema di opportunismo elettorale?
«È evidente. Se l’evasione è spiegata come una colpa di determinate categorie economiche non si può colpevolizzare, bollandola di immoralità e assenza di senso civico una platea di milioni di piccoli commercianti, baristi, ristoratori, artigiani e ambulanti. Concepire l’azione degli uffici tributari come una lotta contro qualcuno, anziché come normale esercizio di una funzione pubblica è controproducente sempre e in campagna elettorale azzera il dibattito, oppure spinge a divagare sulla retorica del “fisco amico”».
Eppure ci sarà un modo per affrontare il problema, visto che siamo a cifre stratosferiche?
«Le basi imponibili degli “autonomi” non saranno mai determinabili con la stessa precisione dei dipendenti, ma una buona omogeneità si può raggiungere. E per farlo ci vuole una presenza sistematica sul territorio di un fisco “non nemico”, che si fa vedere da molti, riservando le rettifiche alle situazioni di minor credibilità. Così si fa dissuasione credibile, senza vessazioni.
Invece gli uffici dell’Agenzia delle entrate solo concentrati nei capoluoghi di provincia, perdendo il controllo valutativo del territorio ».
Il governo uscente comunque rivendica un recupero dell’evasione di oltre 20 miliardi nel 2017.
«Di evasione vera, ovvero di imponibili occultati al fisco, ci sono solo 1-2 miliardi».
Alcune misure, come la fatturazione elettronica, avranno prodotto qualcosa.
O no?
«La fatturazione elettronica sarà anche una buona misura, ma vale business to business, cioè tra le aziende. L’evasione è soprattutto al consumo finale nel commercio, nei locali notturni, nei servizi alla persona, tutti settori dove il controllo non è contabile, ma valutativo, per ordine di grandezza». – (r.p.)

La Stampa 15.1.18
Bonino: discussione aperta con Gori e Zingaretti. Il Pd non è mio nemico, ci saremo anche alle regionali
“Intesa con il Pd ancora possibile ma Renzi ama ballare da solo”
di Francesco Bei


Dal giorno dell’annuncio di un accordo tecnico-politico con Bruno Tabacci per non dover raccogliere le firme per la lista +Europa, Emma Bonino è sparita dai radar. Una brutta influenza, ma soprattutto una riflessione ancora aperta sull’alleanza con il Pd. La risposta ufficiale a Renzi sarà data in settimana, dopo un’assemblea pubblica per decidere se apparentarsi oppure no.
Bonino, a che punto siamo, sarete alleati con il Pd?
«Intanto dico con chiarezza che +Europa agisce nell’ambito del centrosinistra senza tentennamenti. Ma sottolineo anche che questa area non si identifica esclusivamente con il Pd. Da pochi giorni, grazie a Centro democratico, si è creata una situazione nuova per noi che merita un supplemento di riflessione. Rimane il fatto, e lo denunceremo in tutte le sedi, che questa legge elettorale è discriminatoria e ostruzionistica per chiunque non sia già presente in Parlamento».
Ma se fosse per lei l’alleanza si dovrebbe fare?
«Noi eravamo tesi verso un’altra traiettoria - la raccolta delle firme e la presentazione in solitaria - adesso c’è un reset».
E dunque?
«Che le devo dire, il Pd non è il mio nemico, gli avversari sono altrove, le forze antieuropee. Ma dipenderà anche da loro: per ballare il tango bisogna essere in due. La mia impressione è che il Pd abbia scritto questa legge che prevede le coalizioni, ma non è tanto nel carattere di Renzi coalizzarsi».
Ci sarete alle regionali?
«Lo stiamo valutando, l’intenzione è di presentarci. C’è una discussione aperta sia con Gori che con Zingaretti».
Intanto Paolo Gentiloni a Torino, davanti agli amministratori del Pd, ha fatto un discorso fortemente europeista. Lo sentite più vicino?
«Gentiloni è un signore che conosco da sempre, è un convinto europeista. È partito in sordina ma ha capito che questo paese non aveva più bisogno di una scossa elettrica quotidiana, semmai di qualcuno che costruisce e rassicuri. È antica scuola Dc, con i suoi pregi e i suoi limiti. Lo stimo anche se restano tutte le distanze sull’immigrazione».
Il governo si è dato da fare con Gentiloni e Minniti. Gli sbarchi si sono drasticamente ridotti, le agenzie internazionali sono entrate in Libia per controllare i campi. Stanno provando a governare i flussi dall’Africa sub-sahariana…
«È certamente importante governare il flusso di migranti e rifugiati che sulla direttrice Niger/Libia va a ingrossare il “bottino” umano a disposizione delle milizie. Forse ci siamo assuefatti ma è bene sottolineare che in questi primi giorni di gennaio abbiamo avuto almeno duecento persone morte nel Mediterraneo, mille sono state salvate dalla Guardia costiera e dalle Ong rimaste e più di settecento sono state riportate dalla Guardia costiera libica in quei terribili centri di detenzione».
Colpa di Minniti?
«Non sto dicendo questo, ma queste cifre non mi sembra possano dare adito ad alcuna auto-esaltazione. Non è un grande successo. Il problema di Minniti è invece quello di continuare a coltivare un certo sentimento generale dell’opinione pubblica invece di iniziare un racconto diverso del fenomeno migratorio».
E voi in caso di vittoria elettorale cosa fareste sull’immigrazione irregolare?
«Gliene dico una sola. Più Europa vuole risolvere il problema degli oltre 500 mila irregolari che ci sono in Italia con un permesso di soggiorno temporaneo, rinnovabile solo in caso di effettivo inserimento nel mercato del lavoro. Più immigrati regolari vuol dire non solo maggiori entrate previdenziali, ma più sicurezza e più legalità. Conviene a noi prima che a loro».
In questi giorni è un festival di sparate elettorali: aboliamo la Fornero, via il canone Rai, flat tax, via il bollo auto, via le tasse universitarie, più soldi per tutti, giovani e vecchi. E voi?
«Per noi il problema dei problemi è il debito pubblico italiano al suo massimo storico. Non partecipiamo a questo gioco delle bufale, a chi le spara più grosse. Pensate a una famiglia già super-indebitata che continua ad andare avanti indebitandosi sempre di più, pagando interessi sempre più onerosi alle banche: arriverà un giorno alla bancarotta, che lascerà sulle spalle dei figli».
E come si riduce il debito?
«Certo non aumentando la spesa o abbassando le tasse. Il debito si può ridurre solo contenendo la spesa. Approfittando della ripresa in atto, noi proponiamo di congelare la spesa pubblica italiana al livello nominale del 2017 per tutta la durata della prossima legislatura. Mandare un segnale così forte ai mercati finanziari equivarrebbe a una polizia d’assicurazione contro la crisi di fiducia verso la nostra finanza pubblica».

Repubblica 15.1.18
Torino e il voto dei lavoratori
Operai e precari orfani di sinistra “In bilico tra astensione e destre”
Ai cancelli di Mirafiori rabbia per la crisi e la legge Fornero: “ Troppe promesse vane, forse con il M5S cambierà qualcosa”. I pony express: “Costretti a pedalare perché manca lavoro”
di Paolo Griseri


TORINO La Torino operaia e precaria sembra più arrabbiata che convinta. Chi ha il lavoro vorrebbe scappare e accusa la politica di averlo legato alle catene di montaggio come un ostaggio in guerra. Chi non ha un’occupazione pedala alla ricerca di un reddito in qualche modo certo. La maggioranza non sta bene dove sta e promette nell’ordine: di non andare a votare «tanto non serve»; di votare 5Stelle o Lega «per mandare a casa quelli che ci sono adesso»; di essere incerta «perché uno come me che votava a sinistra che cosa deve fare adesso che sono divisi?».
Un tempo si chiamavano “le Meccaniche di via Settembrini”.
Perché prima del raddoppio degli anni Settanta quella che correva lungo il muro di cinta della parte storica di Mirafiori era una semplice via di campagna. Da allora lo stabilimento ha avuto il tempo di ingigantirsi: via Settembrini è diventato corso Settembrini. Poi si è sgonfiato. Anche adesso che ha ripreso a lavorare non raggiunge certo i ritmi di un tempo. Oggi per esempio le Carrozzerie sono in cassa integrazione. Il cancello 2, quello storico dove si è sempre andati a raccogliere lo stato d’animo degli operai, è chiuso. Bisogna andare alla Meccaniche. Un tempo producevano motori, oggi solo cambi. Gli operai delle Meccaniche sono sempre stati considerati gli intellettuali della fabbrica: per fare un motore, anche in linea, ci vuole più competenza di quella necessaria a saldare la lamiera in Carrozzeria. Tutto è cambiato.
Le Meccaniche si chiamano “Fca Powertrain” e la fabbrica, dopo il matrimonio con Chrysler, si chiama “plant”. Ma la porta 20 non ha cambiato numero.
È l’ora del cambio turno. Nel crocicchio davanti al cancello si capisce subito che Giuseppina è la più ascoltata. Sarà per l’età, l’esperienza conta. Si parla di lavoro: «Dove siete impegnate?». «Al controllo qualità dei cambi.
Arrivano i pezzi e dobbiamo verificare che tutto sia in ordine». Un lavoro interessante?
«Un lavoro». Signora Giuseppina, lei per chi voterà il 4 marzo? Non passano cinque secondi. Il tempo di sospensione della signora è molto breve. Gira gli occhi e indossa uno sguardo di fuoco: «Io voto per Salvini».
Signora ci faccia capire. Lei, diciamo così, non ha l’accento dei portuali di Oslo...«Io sono siciliana. Sono di Messina». E allora, scusi, perché vota per la Lega? «Voto per la Lega perché la Lega abolirà la legge Fornero e io quella lì non la voglio vedere».
È arrabbiata con la signora Fornero? «Sarebbe arrabbiato anche lei sa? Arrabbiatissimo. Io dovevo andare in pensione a 58 anni. E invece ci andrò a 63. Una bella differenza no? Cinque anni in più a contare i tappini e i pezzi nelle scatole».
Giuseppina non è l’unica arrabbiata che si ferma a parlare. I più, va detto, tirano diritto. I “non voto grazie” sono in maggioranza e c’è da sperare che almeno una parte siano di tute blu che non hanno voglia di rispondere alle domande. Tra chi accenna a una risposta fugace prima di scappare prevalgono nettamente i «voto Cinque stelle», gridato come un urlo liberatorio. Lino, 58 anni, è uno che accetta di fermarsi a ragionare: «Ho sempre votato a sinistra. Prima Pci poi tutti gli altri partiti che sono venuti dopo fino al Pd. Ma adesso sono incerto». Pesa la divisione tra Pd e Leu? «Cosa? Ma non hai capito.
Io sono incerto perché non so se rimanere a casa o andare a votare Cinque stelle». Perché non più la sinistra? «Perché ha promesso, promesso ma non ha fatto niente. Poi Renzi mi è antipatico». Però, insomma, gli 80 euro, le nuove leggi sul lavoro, non è che non abbiano fatto niente...«Ecco quella di fare le leggi che voleva Berlusconi come l’articolo 18 se la potevano proprio evitare. E sai qual è il risultato? Che io sono qui a montare i bracci dei cambi.
Arrivo a casa la sera e mio figlio è sul divano a giocare con la play.
Non dovrebbe essere il contrario? Almeno i Cinque stelle sono giovani e può darsi che cambino qualcosa». Paolo è tra i meno arrabbiati. È sulla quarantina, giacca a vento, arriva in bicicletta. Che cosa voterà? «Sono molto incerto. Ho sempre votato a sinistra, ma dopo la divisione del Pd non so davvero che cosa fare. Deciderò all’ultimo momento». È molto che lavora in fabbrica? «Una decina d’anni». Quale parte del cambio produce? «Sono al controllo di produzione. Ma non sono un dipendente. Ho sempre preferito rimanere un consulente esterno».
Una delle differenze tra il lavoro fordista del Novecento e quello precario del Duemila è che quello del nuovo secolo non ha cancelli di ingresso. Non c’è una porta 20 per gli avventizi della pizza. Ognuno parte da casa sua con la sua bici e il suo cubo di metallo sulla schiena. Li devi rincorrere, fermare al volo come i taxi londinesi nei film in bianco e nero. In via Bligny, pieno centro, Luigi fa il giro di consegne del mattino. Bisogna intervistarlo dal finestrino dell’auto: «Studio all’università.
Faccio questo lavoro per guadagnare qualcosa. Spero di smettere quando troverò un lavoro serio. Ma conosco gente che continua così anche dopo la laurea. Voterò Pd. Hanno fatto delle buone cose sui diritti civili.
Scusa se non ti lascio fare domande. Ho poco tempo. E poi vedi? Si è formata la coda dietro la tua macchina». Non si può intasare il traffico per fare un’intervista. Meglio provare ad andare da Greek food lab, ristorante greco in via Berthollet, nel cuore di San Salvario. Qui prima di cena passano le nuove tute blu. Che sono vestite di rosso, si prendono le pietanze e le portano nelle case della città.
Franco arriva intorno alle sette di sera. Molla il cubo a terra, entra nel ristorante e carica le dolmades ghemistes, le foglie di vite ripiene di riso che fanno tanto estate anche nel gennaio torinese. «Per chi voterò? Credo la Meloni. Già da giovane mi piaceva la fiamma». Franco non è più giovane e lo sa. Che cosa ci fa a 45 anni su una bicicletta?
«Eh, faccio 30 chilometri al giorno e guadagno meno di mille euro. L’unico vantaggio è che mi tengo in forma. Ma c’è poco da scherzare. Ero un commerciante, sono fallito e devo pedalare». Commerciante in quale settore?
«Abbigliamento. Sono arrivato ad avere dieci negozi negli outlet del Piemonte. La crisi e la separazione da mia moglie mi hanno ucciso». Come mai la passione per la destra? «Ce l’avevo da ragazzo. Poi sono entrato in polizia. E ho continuato a votare per An, oggi per Fratelli d’Italia. La Meloni mi piace e poi non sono così estremi come CasaPound».
Lino non passa dal Greek Food, sfreccia davanti. E già carico.
Arriva da una delle pizzerie in fondo a via Berthollet. Sbuca dalla leggera nebbiolina che sale dal Po. È un ragazzo esile e gentile. Si ferma anche se è di fretta, a un richiamo dal marciapiede. «State cercando di capire che cosa voteranno quelli come me? Allora vi sbagliate, io non sono adatto». Che cosa vuol dire? «Io sono fuori target, sono strano». C’è un motivo particolare? «Certo, io sono comunista». Beh è un’opinione legittima: «Sì ma nessuno la capisce. I miei amici, chissà perché, non l’apprezzano. A scuola ce la presentavano in modo negativo». Diciamo che qualche problemino nel Novecento c’è stato: «Questo io non lo so. Ho 25 anni e vedo solo che il comunismo è una filosofia di vita. Privilegia la giustizia e l’uguaglianza. Voterò Il Potere al popolo. E adesso scusa, ti lascio.
Mi si fredda la margherita nel cubo».

La Stampa 15.1.18
I paradossi nascosti nelle urne
di Bill Emmot


A ogni appuntamento con il voto, c’è un crescendo di enfasi: politiche, di partiti, di personalità. I sistemi elettorali in vigore negli Stati Uniti, in Gran Bretagna o in Francia, dove chi vince conquista la maggioranza assoluta, tendono a favorire le personalità, e solo in seconda istanza i partiti, mentre quelli con rappresentanza proporzionale, come in Germania o nei Paesi Bassi, favoriscono i partiti e poi le politiche. La stranezza dell’Italia, nel 2018 come nelle precedenti elezioni, è che, nonostante il sistema sia per lo più proporzionale, le personalità con ogni evidenza predominano.
Questo, da una prospettiva internazionale, a un osservatore non italiano appare bizzarro. Ma qualsiasi lettore di un quotidiano italiano sa già che la politica nell’Italia moderna è, ed è sempre stata, principalmente un gioco di personalità, e che la logica della fedeltà al partito è buona seconda e con grande distacco.
Tuttavia, il risvolto strano e spiacevole di tutto questo, e che ogni analista, economista o giornalista sa, è che ciò di cui il Paese ha bisogno per porre fine ai suoi vent’anni di sottosviluppo economico rispetto ai vicini dell’Europa occidentale è una politica migliore. Quindi sarebbe auspicabile vedere una competizione volta a costruire il consenso, e di conseguenza le coalizioni, attorno a politiche che servano a riformare l’Italia e a cambiarla in meglio.
In una certa misura, è ciò che sta accadendo. Ma mi pare ci siano tre grandi ostacoli: in primo luogo il grande rumore mediatico generato dalle due personalità dominanti: Silvio Berlusconi e Matteo Renzi; in secondo luogo l’associazione delle politiche più innovative con un approccio euroscettico e conflittuale a Berlino, Francoforte e Bruxelles; infine, il fatto che mentre le singole politiche appaiono radicali e innovative, i partiti le accompagnano con un incoerente pacchetto di altre iniziative che minano la loro credibilità complessiva.
Prendiamo le due proposte politiche che, da straniero, mi sembra abbiano un autentico potenziale per fare una grande differenza per l’Italia nel lungo periodo. Una è l’imposta sul reddito forfettaria, promossa dalla Lega Nord e ora adottata da tutto il centrodestra. L’altra è la proposta dei Cinque stelle per un nuovo «reddito minimo di dignità» rivolto a persone che necessitano di riqualificazione e sostegno nella ricerca di nuovi posti di lavoro.
Penso da anni che l’idea di un’imposta sul reddito semplificata con una sola aliquota pagata da chiunque guadagni oltre un determinato importo, nota come imposta forfettaria, si addica molto all’Italia. La battaglia infinita del Paese contro l’evasione fiscale e l’enorme economia illegale rendono una soluzione del genere piuttosto naturale.
L’incentivo all’evasione fiscale dev’essere ridotto. La finzione della tassazione progressiva in un contesto ad alto tasso di evasione deve finire. L’attuale situazione, in cui un onere fiscale iniquo ricade sui poveretti che non sono in grado di evadere le tasse - il che significa milioni di semplici impiegati e salariati - è ingiusta e improduttiva.
Inoltre il corollario logico e necessario alla riforma del diritto del lavoro, il Jobs Act di Matteo Renzi, sarebbe un sistema di tutela contro la disoccupazione in grado di aiutare i dipendenti che hanno perso il posto a trovare un nuovo lavoro, come proposto dai Cinque Stelle. Questa combinazione di nuove leggi sull’occupazione e aiuto per l’adeguamento del lavoro è esattamente ciò che il presidente Emmanuel Macron ha promesso durante la sua campagna elettorale in Francia l’anno scorso, e che i Paesi scandinavi come la Danimarca utilizzano già con molto successo.
Quindi, a prima vista, a questo non italiano sembra che le opzioni politiche più pratiche e interessanti siano proposte da partiti ampiamente considerati agli estremi della politica. Una vittoria dei Cinque Stelle o della Lega Nord sarebbe considerata, soprattutto dai mercati finanziari internazionali, come una ricetta per l’instabilità. Il risultato «stabile» sarebbe una grande coalizione centrista mediata da Berlusconi e Renzi.
Eppure una tale «stabilità» implica che l’Italia continui ad avere performance economiche insufficienti: anche oggi, con il più rapido tasso di crescita economica del Paese dalla crisi finanziaria del 2008, l’Italia sta crescendo più lentamente di qualsiasi altro Paese dell’eurozona a parte la Grecia. Solo la Grecia e la Spagna hanno tassi di disoccupazione più elevati rispetto all’Italia, e con una crescita spagnola del 3% all’anno attualmente due volte quella italiana, a breve il tasso di disoccupazione in Spagna, attualmente al 16,7%, potrebbe scendere al di sotto di quello dell’Italia (11%).
Quindi l’Italia ha bisogno di innovazione politica e di riforme. Il governo Renzi del 2014-2016 ha deluso perché, nonostante abbia annunciato a gran voce le riforme, ha concluso troppo poco. Idee come la tassa forfettaria e il reddito di cittadinanza sono logiche eredi degli scarsi risultati ottenuti da Renzi con il Jobs Act, l’aiuto alle start-up e incentivi per gli investimenti in tecnologia avanzata.
Lasciatevelo dire da questo cittadino di un Paese come la Gran Bretagna che ha scelto la Brexit: la via peggiore e più seducente è l’euroscetticismo. Sì, tanto i Cinque Stelle come la Lega hanno attenuato le loro posizioni sull’euro. Tuttavia, entrambi continuano a fare affidamento su questo presunto potenziale per costringere la Germania e la Commissione europea a allentare i vincoli sulla politica fiscale italiana; probabilmente non è una strategia di successo, ma non è comunque sensato per un Paese con un debito pubblico superiore al 130% del Pil e un sistema bancario ancora vulnerabile. L’Italia ha bisogno di amici a Bruxelles, Berlino e Francoforte, non di nemici.
E poi ci sono i pensionati. Berlusconi sembra Trump quando parla di modificare la legge Fornero del 2012. Ma questo è l’opposto di ciò che serve a un Paese che per le pensioni pubbliche spende, in percentuale sul Pil, più soldi dei contribuenti (il 16%) di qualsiasi altra grande nazione europea, e cioè quattro volte di più che per l’istruzione e la formazione. L’età pensionabile è troppo bassa, non troppo alta: il 76% degli svedesi di età compresa tra i 55 e i 64 anni è in attività rispetto al 52% degli italiani (e al 51% dei francesi).
Promettere una politica pensionistica così sconsiderata e generosa significa minare la credibilità dell’imposta sul reddito forfettaria; promettere uno scontro con Bruxelles sulla politica fiscale significa minare la credibilità delle promesse di un’assistenza sociale in stile scandinavo.
Tutto ciò ci riconduce al discorso sulle personalità. Il sistema elettorale del Rosatellum offre un forte vantaggio a chiunque sia in grado di formare coalizioni, sia prima del voto per vincere in una gran parte dei collegi elettorali uninominali, sia successivamente, a meno che un miracolo non doni la maggioranza assoluta a un singolo partito o a una coalizione.
Ecco perché il grande architetto di coalizioni, Silvio Berlusconi, è tornato al centro della scena. Contrariamente a quanto i suoi giornali hanno scritto su di me, lo considero ancora «inadatto» a guidare l’Italia come lo era nel 2001, quando noi di The Economist gli dedicammo la nostra famigerata copertina. Ma probabilmente il 5 marzo avrà ancora un ruolo cruciale - sfortunatamente.
Traduzione di Carla Reschia

Il Fatto 15.1.18
Università, Londra insegna perché deve essere gratis
Abolire le tasse non aiuta i ricchi. In Inghilterra le introdusse Blair con grandi propositi. Risultato? Sono esplose e le iscrizioni calate insieme al finanziamento statale: scaricare i costi sugli studenti offre l’alibi per sottrarre risorse agli atenei
di Mirko Canevaro


Il Rapporto Eurydice della Commissione Europea ci dice quello che sapevamo già: le rette universitarie più alte d’Europa si pagano in Inghilterra, ad oggi 9.250 sterline l’anno per la triennale. Secondo il Rapporto Ocse Education at a Glance 2017, le rette universitarie inglesi sono persino più alte della media americana. Vent’anni fa, in Gran Bretagna, l’educazione universitaria era completamente gratuita. È facile liquidare, dall’Italia, il modello inglese come un modello alieno – le cifre che pagano gli studenti da noi non sono neppure paragonabili (in realtà, in Europa, a parte in Inghilterra, solo in Olanda e Spagna si paga più che da noi).
Ma le reazioni suscitate dalla proposta di Pietro Grasso di abolire le “tasse” universitarie suggeriscono che sarebbe utile riguardarselo il dibattito inglese di vent’anni fa: i temi sono analoghi, le buone (o cattive) intenzioni sono le stesse e – sorpresa – anche allora la questione nasceva tutta da sinistra. Perché le rette universitarie in Inghilterra le introdusse il primo governo laburista di Tony Blair – inizialmente progressive e basate sul reddito, con borse di studio per chi ne avesse bisogno; un paio di anni e le borse scomparvero, sostituite da prestiti statali da ripagare (con gli interessi) non appena il laureato avesse raggiunto un reddito di 10.000 sterline. Nel 2006 la progressività andò a farsi benedire, e le rette passarono a circa 3.000 sterline; da 3.225 nel 2009-2010, con i Tories balzarono a 9.000 – e con quel balzo è arrivata una flessione delle immatricolazioni, soprattutto tra le fasce sociali più deboli.
Il dibattito sulle proposte di Grasso, si diceva, è tutto da sinistra. Da un lato c’è chi nota (giustamente) che il sistema universitario italiano è compromesso da anni di definanziamento – servono almeno 1,2 miliardi (la cifra varia) per riparare al danno fatto, da aggiungere a quei 1,6 (pare) necessari per abolire le rette. E se c’è da scegliere, forse, rifinanziare il sistema universitario è più pressante. Dall’altro si parla di progressività: alcuni sostengono che abolire le rette sarebbe regressivo. Ma rispetto a cosa? Certo non alla minuscola progressività delle rette correnti; magari rispetto a un immaginario sistema di rette super progressive che davvero tracciasse il gradiente dei redditi, ma non mi pare sia nel programma di nessuno.
Altri, più seri, notano che le diseguaglianze nell’accesso all’università – vere, dolorose, drammatiche – non hanno tanto, o solo, a che fare con le rette, ma piuttosto con l’assenza di borse, di studentati, di misure attive volte a garantire il diritto allo studio. Se vogliamo investire 1,6 miliardi, la priorità è lì.
Le stesse preoccupazioni furono vent’anni fa alla base dell’introduzione delle rette in Inghilterra. Il ragionamento non fu (da destra) che l’istruzione universitaria non è un diritto, ma un servizio che va pagato. Al contrario (da sinistra), il National Committee of Inquiry into Higher Education spiegò che le considerazioni a favore dell’introduzione delle rette avevano a che fare coi temi dell’“equità tra gruppi sociali, dell’allargamento del pubblico universitario… e dell’identificazione di una nuova fonte di finanziamento che possa essere destinata esclusivamente all’educazione universitaria”. Insomma, un nuovo modello più solido per il finanziamento del sistema, che ne garantisse l’espansione, e che potesse supportare maggiore progressività, misure forti per l’inclusione e l’allargamento del diritto allo studio. Abbiamo visto come è andata a finire.
Ci sono due lezioni in questa storia. Primo, un miglior livello di finanziamento al sistema universitario e l’introduzione della gratuità possono sembrare priorità alternative ma sono in realtà una questione sola. Una volta introdotte, le rette crescono sempre di più, perché esiste infine un’alternativa al contributo pubblico – c’è un altro modo di finanziare il sistema che non pesa sul bilancio. In Inghilterra, all’introduzione delle rette è seguito un progressivo e inesorabile definanziamento degli atenei, e soprattutto dell’insegnamento; borse, studentati agevolati e misure di diritto allo studio sono state le prime a saltare. In ultima analisi, la prospettiva di un rifinanziamento pubblico (anche parziale), tanto del sistema nel suo complesso, quanto del diritto allo studio, è irrealistica finché scaricare parte dei costi sugli studenti resta un’opzione.
La seconda lezione è che il discrimine tra rette (anche minime e progressive) e non rette non è di grado, ma assoluto – sono due modelli diversi e alternativi. Le considerazioni economiche – anche quando legate a preoccupazioni di giustizia sociale, di redistribuzione e di progressività fiscale – non devono farci dimenticare che esiste un piano simbolico e di legittimità legato a doppio filo ai problemi dell’istruzione, ad ogni livello. Se si vuole rilanciare la credibilità dello Stato, il suo ruolo come attore economico centrale e legittimo, e soprattutto come manifestazione di nuovo rappresentativa del popolo italiano, è indispensabile riconoscere aree e servizi fondamentali, gratuiti e garantiti a prescindere a tutti (poveri ma anche ricchi). Serve a creare un capitale vero di legittimità, che si possa spendere in misure veramente redistributive. Sanità, istruzione, sicurezza, da sinistra, devono essere gratuite e garantite – la progressività è meglio costruirla altrove, nella tassazione diretta del reddito e della ricchezza.

Il Fatto 15.1.18
Le fake news di Franceschini. Al Pantheon 2000 visite l’ora
Il ministro Franceschini spara numeri “strabilianti” sulle presenze dei musei. Ma non reggono
di Vittorio Emiliani


Un fragore festante di trombe e grancasse ha accompagnato le “cifre strabilianti” (così l’ufficio stampa del ministero dei Beni culturali) annunciate da Dario Franceschini su ingressi e incassi di musei e monumenti. Ma davvero meritavano queste ovazioni “velinare”? O i 50 milioni di visitatori e i 193,6 milioni di introiti non andavano analizzati seriamente? Qualcuno, oltre a chi scrive, ha fatto le pulci all’annuncio-lampo (in genere i dati si davano, in dettaglio, mesi dopo): Andrea Cionci su La Stampa, Angelo Crespi su Il Giornale e lo storico dell’arte Tomaso Montanari. Sul quale ha così twittato, dopo aver suonato la tromba nel proprio Tg1, il giornalista del servizio pubblico, Marco Frittella: “Il bilancio della riforma dei musei italiani è eccezionale: in 4 anni +12 milioni di visitatori (+31%) e +70 milioni di euro di incassi (+53%). Risorse preziose per la tutela che tornano ai musei con un sistema che premia le migliori gestioni e garantisce le piccole realtà”, anticipato da “Non ditelo a Tomaso Montanari, gli dareste un dolore”. Presidente e direttore generale della Rai dovrebbero preoccuparsi e magari vergognarsi di questo telegiornalismo precotto e “frittellato”.
Perché, in realtà, il prezzo dei biglietti risulta aumentato del 5,23 % di media, uno dei maggiori dell’ultimo periodo, da solo genera introiti per svariati milioni in più. Anche se, altro dato che mette la sordina alle trombe, i paganti risulterebbero aumentati soltanto del 5% e i non paganti (dati, questi, ufficiali) del 15 %. Attendiamo dunque analisi più dettagliate.
“Cifre strabilianti” sono di sicuro gli 8 milioni di ingressi gratuiti al Pantheon. Tanti quanti i visitatori del Louvre; 1 milione più di quelli del Colosseo; il 70% in più del 2010: 8 milioni fanno 22.000 ingressi al giorno in spazi limitati, anche dalle funzioni religiose del tempio, e poi in 8-10 ore di apertura. Una Curva Sud si riverserebbe ogni giorno al Pantheon. Ma chi l’ha vista? Qualcuno deve avere un po’ ecceduto al Collegio Romano. Viene poi la calca delle domeniche gratis: ufficialmente si parla di 3,5 milioni di ingressi. A spanne, visto che le biglietterie sono chiuse e si usa il conta-persone. Figurarsi.
Ma poi, la Reggia di Venaria e il Museo Egizio di Torino sono ancora Musei statali? A rigore non più. Sono Fondazioni partecipate solo in parte dal ministero dei Beni culturali: la prima con oltre 1 milione di visitatori, il secondo con 845.237 e un leggero calo malgrado l’impagabile serata di Zumba danzata fra le mummie. Fanno 1,9 milioni di visitatori da sottrarre agli oltre 50 milioni di ingressi. Lo stesso per i loro introiti complessivi stimabili (i dati esatti non ci sono) in 12 milioni di euro. Il boom già si sgonfia.
Molti dei musei o dei siti in crescita in realtà non fanno parte di quelli resi autonomi dalle “riforme” e “miracolati” dalle pozioni di Frà Dario: non Pompei già autonoma (+7,6%), non Castel Sant’Angelo, il Castello di Miramare (+14,3%), o la Grotta Azzurra di Capri (+10,4%). Ma l’euforico comunicato ministeriale non distingue. Due Musei autonomi invece flettono: il Palazzo Ducale di Mantova (-11,10%), un anno fa lodatissimo per il tourbillon di mostre e il Museo Nazionale Romano (-1,80%), ora diretto da una storica dell’arte.
Costretti a “far soldi, soldi, soldi”, i super-direttori sono diventati impresari di matrimoni, banchetti, feste di laurea, compleanni fastosi (o pacchiani) e altro ancora, alcuni sbracando (Italia Nostra di Caserta ha già chiesto le dimissioni del direttore della Reggia Mauro Felicori). Pure i partecipanti a quei turbinosi “eventi” vengono conteggiati fra i visitatori. Tanti soldi, tutti per lo Stato? No, per la mancata riforma delle società di servizi aggiuntivi, il 20 % degli incassi va ad esse. Con ciò si scende a 155 milioni di introiti reali. Meno i 12 milioni di Venaria ed Egizio, si cala a 143… Ovviamente si tace sulla primavera-estate favorevolissima al turismo e sul calo di arrivi, a causa del terrorismo, a Parigi, in Nord Africa, Libia, Egitto e Turchia (-40% solo i tedeschi) a nostro favore. Da noi i tedeschi sono i più presenti e i cinesi salgono a 5,4 milioni di presenze.
Torniamo agli introiti “strabilianti”, e quindi ai rincari: soltanto agli Uffizi da 8 a 12,5 euro (+ 4,5 euro che, moltiplicati per 2,2 milioni ingressi, fanno una decina di milioni di euro in più…) e a Pitti da 8 a 13,5 euro (+ 5,5 che, moltiplicati per 580.000, fanno più di 3 milioni di euro), ecc. Agli Uffizi si pagano 38-39 euro con audioguida, mentre al Louvre un tour guidato ne costa solo 35. Venaria Reale è più cara di Versailles: 47 euro per 90 minuti di visita guidata (55 per Reggia e giardini) contro 18 euro con audioguida (al giorno), 20 con accesso ai giardini e 35 per un tour guidato. Cioè 20 euro in meno che alla Venaria. Al Museo Egizio il biglietto più richiesto, 2 ore con audioguida, costa 47 euro. Ragazzi, a far soldi così son buoni tutti, senza essere i super-direttori voluti da Franceschini. Ma chi lo racconta agli italiani? Chi sgonfia le balle? Pochissimi per ora. Suonano le trombe. E i tromboni.

Il Fatto 15.1.18
Intervista a Vannino Chiti
“Gentiloni ha sbagliato, Boschi andava allontanata”
“Il 40% alle Europee valeva comunque meno voti di quelli presi da Veltroni nel 2008, ma nessuno ha osato muovere appunti”
di Luca De Carolis


“Dopo 16 anni in Parlamento era giusto lasciare. Ma la decisione finale l’ho presa dopo quanto avvenuto sulla legge elettorale, piovuta in Senato con un voto di fiducia: per me è stata l’ultima goccia”. In una mattinata romana il senatore Vannino Chiti ragiona di passato prossimo e di futuro. Cresciuto nel Pci, presidente della Regione Toscana, ministro con Romano Prodi e sottosegretario a Palazzo Chigi con Giuliano Amato, non si ricandiderà. Cercherà di aiutare da fuori quel Pd che ancora difende: “L’idea era buona, però non le abbiamo dato le gambe giuste”. Contrario alle riforme renziane, ha comunque sostenuto il Sì nel referendum perché “ci furono correttivi concordati con la minoranza epacta sunt servanda”, e ha disapprovato la scissione di Mpd. Di questo e molto altro scrive nel libro La democrazia nel futuro(Guerini e associati).
Lei parte dalla crisi della sinistra in tutto l’Occidente. Ma perché questo tracollo?
La sinistra è stata subalterna rispetto alla globalizzazione. Non aveva gli strumenti per governarla, perché non ha saputo affrontarla in ottica internazionale, l’unico modo con cui si poteva gestire. Ogni partito europeo è rimasto chiuso nei confini nazionali.
Perché la globalizzazione ha prevalso così facilmente?
Perché si veniva anche dalla sconfitta dell’Urss e del socialismo reale. Non palpitavo per quel sistema, ma per quel crollo hanno pagato tutte le forze socialiste: l’alternativa al capitalismo aveva fallito.
Negli Anni 90 a sinistra furoreggiava la “terza via”.
Doveva essere un modo di sinistra per orientare la globalizzazione. L’idea era che il pubblico lasciasse spazio anche al privato, per esempio nel welfare, e che fosse necessario attenuare le regole nell’ambito del lavoro. Ma non ha funzionato.
Uno degli apostoli della terza via era Tony Blair.
Veniva in vacanza ogni estate in Toscana, quando governavo la Regione. Una volta mi disse che voleva portare la Gran Bretagna nell’euro.
Blair disse di avere un erede italiano, Matteo Renzi. Lei l’ex premier quando l’ha conosciuto?
Quando ero presidente regionale. Fu a un dibattito pubblico a Pontassieve (Firenze), dove presentavo un libro. Non ricordo cosa disse, quindi non rimasi molto colpito. Poi nel 2001 ci sentimmo molto per le Politiche. Da coordinatore della Margherita, lui appoggiò la mia candidatura nel collegio uninominale di Firenze. A coordinare il mio comitato elettorale era Dario Nardella. E il mio avversario era Denis Verdini.
Quanto è stretto il legame tra Verdini e Renzi?
Hanno relazioni pre-politiche. Il senatore aveva rapporti con il padre e la sua famiglia.
Poi sono arrivati i rapporti politici…
Verdini è stato il ponte tra Renzi e Berlusconi: è un pragmatico.
Fu pragmatico anche quando a Firenze candidò contro Renzi l’ex portiere di calcio Giovanni Galli?
Senza dubbio.
Lei come si trovava con l’ex premier?
Con me è sempre stato corretto. Nel 2009 mi chiese di fare il sindaco di Firenze, perché voleva rimanere presidente della Provincia. Ma ho avuto forti dissensi politici con lui, a cominciare dall’uso del termine rottamazione.
Lei racconta di vari incontri in cui discutevate di legge elettorale e riforme. Renzi le rispondeva sempre che bisognava fare in fretta.
La velocità e lo svecchiamento servono. Ma il come? E la condivisione?
Renzi affonda sulla riforma costituzionale.
L’errore primario è stato non dividerla in più leggi costituzionali. E poi il Senato avrebbe dovuto diventare un vero Bundesrat sul modello tedesco, espressione delle Regioni. Oppure restare elettivo.
Lui non capiva?
Renzi riconosceva i difetti della riforma. Ma l’unica cosa che gli premeva era il taglio dei costi. Lo ripeteva sempre. Voleva inseguire i grillini sul loro terreno: errore grave.
Lei scrive di “accecamento” nel Pd dopo il 40,8 nelle Europee.
Erano meno voti di quelli presi da Walter Veltroni nelle Politiche del 2008, ma nessuno lo notò. E nel Pd per lungo tempo nessuno ha osato muovere appunti al segretario. Io gli riconosco doti, come il coraggio e la capacità di lavoro. Ma gli ho sempre detto ciò che ritenevo giusto.
Lei scrive: “Non ci possono dire che il patto del Nazareno è saltato per l’elezione di Mattarella al Quirinale”.
Le intese vanno fatte in modo trasparente, altrimenti restano dubbi. Non so cosa prevedesse, e perché venne meno,
Lei definisce il giglio magico “inadeguato”.
Renzi si è circondato di persone inesperte e incompetenti.
E Boschi sul caso banche?
Occuparsi del proprio territorio non mi pare un problema, e certi attacchi nei suoi confronti sono stati vergognosi.
Ma?
Io rimprovero a lei e a tutto il Pd errori politici. E il primo è stata la mozione del Pd su Bankitalia (quella contro il governatore Visco, ndr), autogol clamoroso. Boschi conosceva quel testo? Gentiloni non è stato coinvolto. Al posto del premier avrei fatto in modo che lei salutasse.
Il secondo errore?
La commissione sulle banche. Andava fatta nella prossima legislatura, con una chiara conclusione temporale.
Ora come si riparte? Il Pd se la vedrà anche con LeU.
Io ero contrario alla scissione, le fratture non hanno mai giovato alla sinistra. Ma stimo Pietro Grasso, e penso che vada ricostruito un centrosinistra plurale, al più presto.
Il Pd rischia di scomparire in caso di sconfitta?
Potrebbe accadere in caso di alleanza con Forza Italia. In quel caso verrebbe meno la speranza di ricostruirlo.
Chiti, ora cosa farà?
Politica, perché è la mia vita. Lavorerò per la riunificazione della sinistra. Ma devo ancora capire come.

La Stampa 15.1.18
“Bellomo ha leso il nostro onore. Basta con le scuole fai-da-te”
Il presidente del Consiglio di Stato parla della destituzione del giudice “Vicenda dolorosa, ma abbiamo reagito. Chi ci attacca vuole il far west”
di Giuseppe Salvaggiulo


Alessandro Pajno, presidente del Consiglio di Stato, parla per la prima volta della destituzione di Francesco Bellomo, il giudice ormai noto per i contratti con clausole sulle minigonne che faceva firmare alle allieve della scuola di preparazione al concorso per magistrati. Mai, in 180 anni, vicende del genere si erano verificate nella suprema magistratura amministrativa.
Esiste una questione morale nel Consiglio di Stato?
«Non in senso specifico. Fisiologicamente, come in tutte le organizzazioni sociali, ci può essere qualcuno che sbaglia».
I «cattivi maestri» di cui parla il presidente dell’Anm Albamonte?
«I cattivi maestri possono essere dovunque, non solo nelle scuole per aspiranti magistrati. Quindi tutti devono stare in guardia. Noi abbiamo agito immediatamente, senza che ci fosse un procedimento penale, e lo stesso Csm si è pronunciato subito dopo che noi lo avevamo informato».
Come ha vissuto questa vicenda?
«Con dolore. Sono figlio di magistrato e ho dedicato la vita alla magistratura e alle istituzioni. Bellomo è il terzo giudice destituito nella storia della giustizia amministrativa. Solo chi ha la coscienza per fare giustizia al proprio interno può rivendicare l’autorevolezza per farla all’esterno».
La considera una vittoria o una sconfitta?
«Entrambe. Una sconfitta per aver dovuto scoprire comportamenti di un collega incompatibili con la dignità della funzione. Ma soprattutto una vittoria, per la capacità del sistema di curare le patologie con anticorpi adeguati. Ed è la prima volta che un qualsiasi giudice viene destituito senza che nei suoi confronti fosse neanche iniziato – all’avvio del procedimento disciplinare – un’inchiesta penale».
Bellomo protesta: nessun rilievo alla mia attività di giudice, avete censurato la mia vita privata.
«Si lede l’onore e il prestigio della magistratura anche con comportamenti esterni all’attività giurisdizionale, non solo alterando la regolarità di un processo».
Bellomo farà ricorso. Decideranno Tar e Consiglio di Stato. Saranno imparziali?
«Certo. Abbiamo nel nostro sistema un meccanismo di garanzia: i magistrati che esamineranno l’eventuale ricorso sono tra quelli che non si sono mai occupati del caso nella fase disciplinare».
Ma appartengono allo stesso corpo. Lei si fiderebbe, al posto di Bellomo?
«Assolutamente sì. In fondo, quando un magistrato ordinario commette un reato, chi lo giudica? Un altro magistrato: lei dubita che sia imparziale? E comunque abbiamo una lunga casistica di sentenze di giudici del Consiglio di Stato che smentiscono precedenti valutazioni di altri giudici dello stesso corpo in sede consultiva. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte riconosciuto l’imparzialità del sistema».
Come risponde a chi vi accusa di essere una casta che si autotutela?
«Con i fatti. Questo caso, con il clamore e le storture collegate, non sarebbe emerso senza l’intervento del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, il nostro organo di autogoverno. Siamo arrivati prima delle Procure. Noi abbiamo avviato il procedimento disciplinare, noi abbiamo avvisato il ministro della Giustizia, il procuratore generale della Cassazione, il Csm. Se avessimo voluto temporeggiare, nascondere o insabbiare, avremmo fatto l’opposto».
Un anno per decidere: perché?
«Abbiamo ricevuto una denuncia nel dicembre 2016 e ci siamo mossi immediatamente. In assenza di risultanze di indagini penali, è stato necessario un accertamento particolarmente rigoroso dei fatti».
Proprio non si poteva accelerare l’istruttoria, considerando la singolarità del caso?
«I tempi sono stati quelli più rapidi consentiti dalla legge. L’azione disciplinare è stata avviata in 10 giorni anche se la legge consentiva fino a un anno di tempo. Il procedimento si è svolto nel rispetto del contraddittorio e dei diritti di difesa, effettuando tutte le audizioni necessarie e deliberando direttamente la sanzione più grave. Il parere dell’Adunanza generale e l’ultima delibera del Consiglio di presidenza sono stati adottati praticamente all’unanimità. Sfido chiunque a trovare un corpo istituzionale o un ordine professionale più severo e rigoroso».
Ma perché Bellomo è rimasto in servizio per un anno, mentre era sotto accusa?
«In assenza di un procedimento penale, la sospensione cautelare avrebbe richiesto gli stessi tempi della sanzione definitiva».
Dunque la sua conclusione è che il sistema funziona?
«Con i mezzi a disposizione, si è fatto il massimo. Ma il nostro procedimento disciplinare è regolato da norme obsolete, che in parte risalgono ancora al periodo fascista. Le più recenti sono dell’82. Al contrario, per i magistrati ordinari sono state modificate nel 2006».
Che cosa si può fare?
«Non possiamo cambiarle noi. Da anni il Consiglio di presidenza ha segnalato l’inadeguatezza a vari governi; nel dicembre scorso ne ho ribadito l’esigenza in una lettera alla presidenza del Consiglio. Abbiamo anche predisposto bozze di riforma, ma non possiamo approvarcele da soli».
Csm e Associazione nazionale magistrati hanno sollevato la questione delle scuole per preparare il concorso in magistratura. Ai magistrati ordinari sono vietate, a quelli amministrativi no. Bisogna estendere il divieto?
«Già nel luglio scorso il nostro Consiglio di presidenza aveva deliberato misure più severe per l’autorizzazione degli incarichi. Ho chiesto una verifica dell’attuazione di questa delibera. Allo stesso Bellomo, dopo i primi accertamenti, era stata negata l’autorizzazione a insegnare».
È sufficiente?
«No. Occorre procedere a un profondo ripensamento della materia degli incarichi di insegnamento nelle scuole di preparazione per i concorsi in magistratura, senza riflessi difensivi e autoreferenziali, confrontandoci con mondi diversi dal nostro: Csm, ministero, università. Il dibattito si è già avviato all’interno del Consiglio di presidenza».
Molti politici negli ultimi anni vi hanno preso di mira accusandovi di essere un freno per il paese. Questa vicenda vi indebolisce?
«Semmai ci rafforza, perché abbiamo dato prova di speditezza ed efficienza. Le stesse documentate dall’attività giurisdizionale, al di là di certe fake news che ancora circolano: arretrato dimezzato in pochi anni, tempi processuali tra i migliori in Europa».
Ci sono studi che attribuiscono danni economici al Paese dall’eccesso di processi amministrativi. L’ex premier Prodi sì è chiesto, provocatoriamente, se non sia il caso di abolire Tar e Consiglio di Stato.
«Ci sono anche studiosi che hanno colto come la giustizia amministrativa possa costituire un vantaggio economico per il Paese: perché una sana economia si fonda sul rispetto delle regole da parte di amministrazioni e di operatori economici, non sul far west del più furbo».
E i cantieri fermi? Le opere bloccate? Gli appalti e i concorsi annullati?
«Non siamo affatto i giudici del no: non siamo noi a bloccare il Paese, semmai la cattiva legislazione e l’eccesso di burocrazia. Anche quest’ultima vicenda, con le sofferenze che ci ha procurato, dimostra che in fondo i cittadini possono fidarsi di noi».

Repubblica 15.1.18
Così osservando l’altro riconosciamo noi stessi
di Massimo Ammaniti


Il percorso di Jessica Benjamin, psicoanalista americana, ma anche attivista politica e madre come lei stessa si definisce, si muove su un terreno frastagliato che ha preso l’avvio negli anni Sessanta del secolo scorso. In un confronto complesso e a volte problematico fra la filosofia di Hegel e il femminismo di Simone de Beauvoir e di Nancy Chodorow con la psicoanalisi freudiana ed intersoggettiva, sviluppatasi quest’ultima negli ultimi decenni, prende corpo il suo pensiero come testimonia il suo libro ormai famoso Legami d’amore (nel 1988 negli Usa, riedito in Italia nel 2015 da Cortina).
È centrale nel suo pensiero il conflitto fra autonomia e dipendenza nella coscienza di sé così come viene argomentato da Hegel nella Fenomenologia dello spirito, emblematicamente rappresentato dal rapporto “servo-signore” (schiavo-padrone). Il desiderio di affermare l’assoluta indipendenza del signore si scontra con il bisogno di riconoscimento da parte del servo. A trenta anni di distanza dal precedente saggio Jessica Benjamin pubblica ora un nuovo libro Beyond Doer and Done to (“Al di là di chi dà e di chi riceve”, Routledge, 2018) in cui viene ulteriormente sviluppata la trappola della mutualità obbligata e la strada verso il reciproco riconoscimento. L’altro può essere oggetto di bisogni e pulsioni come nella teoria psicoanalitica classica oppure una mente con cui interagire e connettersi, attraverso il riconoscimento delle sue intenzioni e del suo senso agente, come viene affermato dalla psicoanalisi intersoggettiva.
Quantunque la Benjamin parli di interpenetrazione conscia ed inconscia fra le menti che si incontrano, la forte sottolineatura del riconoscimento va piuttosto nella direzione della teoria della mentalizzazione che rimarca la dimensione cognitivo-razionale. È più convincente a questo proposito la teoria lacaniana che affronta la dinamica del desiderio inconscio nell’incontro col desiderio dell’altro. Il reciproco riconoscimento delle menti apre una dialettica con l’altro che è allo stesso tempo somigliante, perché è un essere anche lui con la mente, ma è anche diverso, ossia separato ed equivalente. Questa scoperta si colloca nell’area del terzo, come viene definita da Jessica Benjamin, una possibile via d’uscita di fronte all’impasse della complementarietà in cui si rischia di essere tirati dentro in modo coercitivo o si viene spinti perdendo la propria autonomia.
In questa formulazione la Benjamin riconosce l’eredità dello psicoanalista inglese Donald Winnicott che parla di spazio potenziale, in cui si oscilla nel flusso intersoggettivo fra fantasia e realtà in “un uso di simboli che stanno al tempo stesso in luogo di fenomeni del mondo esterno e di fenomeni della singola persona… una terza area”. Ma non è mai un’acquisizione definitiva, come si verifica anche nel rapporto psicoanalitico costantemente in bilico fra complementarietà analista - paziente e costruzione di uno spazio condiviso e di confronto in cui si è entrambi presenti con le proprie menti, ma aggiungerei anche coi propri corpi.

Il Fatto 15.1.18
Umberto Eco, come si nasce e come si muore di fascismo
Un invito a “non dimenticare”, a non dare mai nulla per superato
di Furio Colombo


Il fascismo è come tubercolosi. Uno sembra sano e a un certo punto sputa sangue. Ecco ciò che sa e che racconta Umberto Eco ne Il fascismo eterno (La nave di Teseo) usando i materiali di un evento che abbiamo organizzato insieme alla Columbia University.
In quel tempo (1995 ) insegnavo all’università ed ero direttore dell’Istituto italiano di Cultura. L’idea era di celebrare per la prima volta, pubblicamente, il 25 aprile in America. I protagonisti erano, oltre a Eco, Giorgio Strehler, il leggendario regista di Brecht al Piccolo Teatro di Milano e Lucianio Rebay, comandate partigiano da giovane, e professore di Poesia alla Columbia University per il resto della sua vita. Strehler e Rebay hanno raccontato resistenza e prigioni, traditori ed eroi nella Milano dell’ultimo fascismo.
Eco dice in questo libro come si nasce e come si muore di fascismo. Ecco l’inizio: “Nel 1942, all’età di 10 anni, vinsi un primo premio affrontando la domanda “Dobbiamo noi morire per la gloria di Mussolini ?”. La mia risposta è stata sì. Ero un ragazzo sveglio”. Eco ha scelto uno straordinario frammento di autobiografia che alla fine, ti accorgi, diventa tutta la sua autobiografia, certo dal punto di vista morale e intellettuale: che cosa capisce un bambino del fascismo? Che cosa tocca in eredità a un adulto dopo un incontro così spaventoso? E come ti impegni per sempre a difendere la liberazione, quando ti rendi conto che l’incubo non finisce?
Umberto Eco non ha visto i fascisti di Como, entrati in una casa privata, che circondano un gruppo di volontari pro migranti per leggere il loro messaggio datato 1939. Ma era scrittore e filosofo e sapeva che quel pericolo stava arrivando. “In Italia vi sono alcuni che si domandano se la resistenza abbia avuto un impatto militare. Per la mia generazione la questione era irrilevante: comprendemmo immediatamente il significato morale e psicologico della Resistenza”, scrive Eco nel suo libro che bisogna assolutamente avere e diffondere. Ma riflettete su queste affermazioni, verso la fine: “Il fascismo cresce e cerca consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza. Il primo appello di un movimento fascista o prematuramente fascista è contro gli intrusi. Ogni fascismo è dunque razzista per definizione”. Queste poche pagine sono uno dei libri più belli e più importanti di Eco. Che chiude con una splendida poesia di Fortini (“Sulla spalletta del ponte/ le teste degli impiccati….”) e con il suo ammonimento: “Sia questo il nostro motto: mai dimenticare”.

Corriere 15.1.18
Moro e «i fasti del 40ennale» Il post che fa litigare gli ex Br
Balzerani: «Chi mi ospita?». Etro: «Vergogna, ci vediamo all’inferno»
di Fabrizio Caccia

Brigatisti contro. A due mesi dall’anniversario di via Fani, 16 marzo 1978, il giorno del sequestro di Aldo Moro e dell’eccidio della sua scorta, compare un post su Facebook: «Chi mi ospita oltre confine per i fasti del 40ennale?». Il tono sembra ironico. Chi scrive, però, non è una persona qualunque: è Barbara Balzerani, l’ex «Primula Rossa» delle Br, che in via Fani quel giorno c’era, anche se non sparò.
Il post sul profilo Facebook della Balzerani è del 9 gennaio e proprio ieri, poco prima d’essere cancellato, viene letto da un altro ex brigatista, Raimondo Etro, che reagisce male e scrive a sua volta una lettera aperta («Signora Barbara Balzerani, mi rivolgo a lei...») per «chiederle di tacere semplicemente in nome dell’umanità verso le vittime, inclusi quelli caduti tra noi...».
La missiva viene inviata per conoscenza a poche altre persone, tra cui Giovanni Ricci, figlio di Domenico, l’appuntato dei carabinieri che in via Fani guidava l’auto dove viaggiava Aldo Moro e l’onorevole dem Gero Grassi, membro della commissione parlamentare d’inchiesta sul delitto Moro, che più tardi gli risponderà: «Grazie. Bravo!».
Anche Etro, però, non è uno qualunque: a lui furono affidate in custodia le armi di via Fani, una settimana dopo la strage: «C’erano un kalashnikov, una mitraglietta, alcune pistole — ricorda l’uomo parlando col Corriere —. Le ebbi, mi pare, da Morucci o Casimirri, le tenni in casa di mia madre per un po’, vicino piazza Mazzini...».
Oggi ha 61 anni e vende libri e francobolli su eBay, ma si è fatto 16 anni di carcere per il concorso nella strage di via Fani (partecipò nei mesi precedenti alla preparazione) e nell’omicidio del giudice Riccardo Palma («La mattina del 14 febbraio 1978 — racconta — c’ero anch’io insieme a Prospero Gallinari, Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri. Ma la mia pistola, diciamo, s’inceppò...»).
La lettera aperta alla sua ex compagna di lotta è durissima. Etro, tra l’altro, scrive: «Dopo avere letto il suo commento su Facebook nel quale — goliardicamente dice lei — chiede di “essere ospitata oltre confine per i fasti del quarantennale”... avendo anch’io fatto parte di quella setta denominata Brigate rosse... provo vergogna verso me stesso... e profonda pena verso di lei, talmente piena di sé da non rendersi neanche conto di quello che dice». C’è un passaggio, poi, piuttosto inquietante: «Per nascondere di avere agito per conto e per fini che con la cosiddetta rivoluzione proletaria non avevano nulla a che fare lei nega addirittura l’evidenza. Non voglio entrare nel merito delle chiacchiere “chi c’era o chi non c’era in via Fani, infiltrazioni, depistaggi o altro”. Mi limito a dire semplicemente: “ci hanno lasciati fare”...».
Etro ha rotto da tempo coi «compagni» e col suo passato e anche la Balzerani, che compirà giusto domani 69 anni, oggi è una libera cittadina che scrive libri, avendo finito di scontare la sua pena nel 2011. Ma mai pentita nè dissociata. E nella lettera Etro la incalza: «Le Brigate rosse hanno rappresentato l’ultimo fenomeno di un’eresia politico-religiosa che nel tentativo maldestro di portare il Paradiso dei cristiani sulla terra... ha creato l’Inferno... Inoltre lei dimentica che chi le permette di parlare liberamente... è proprio quello Stato che noi volevamo distruggere e di cui abbiamo assassinato a sangue freddo i rappresentanti, così pregni di quella stessa schizofrenia che oggi affligge i musulmani che da una parte invidiano il nostro sistema sociale, dall’altra vorrebbero distruggerlo».
E la chiusa è altrettanto drammatica: «Il silenzio sarebbe preferibile all’ostentazione di sé, per il misero risultato di avere qualche applauso da una minoranza di idioti che indossano la sciarpetta rossa o la kefiah. Ci rivedremo all’Inferno».

Corriere 15.1.1
La Cina colma il vuoto lasciato dagli Stati Uniti
di Ian Bremmer


Lo scorso ottobre, il presidente cinese Xi Jinping ha pronunciato il discorso più importante della storia recente, dal giorno in cui Michail Gorbaciov si presentò alle telecamere per sciogliere ufficialmente l’Unione Sovietica. In occasione del 19° congresso del Partito comunista cinese, Xi Jinping ha detto chiaramente che la Cina è pronta ad assumere il ruolo che le spetta nella leadership mondiale. Le conseguenze di questo passo si misurano su scala globale.
Mentre si appresta a dare inizio al suo secondo mandato quinquennale, Xi Jinping ha consolidato in patria quel potere che gli consente di ridefinire gli scenari esterni della Cina e imporre le sue nuove regole. La tempistica è perfetta: la Cina si fa avanti nel momento stesso in cui un presidente americano, assediato e contestato politicamente sul fronte interno, ha smantellato impegni e obblighi verso alleati e alleanze storiche. Gli Stati Uniti hanno lasciato un vuoto e la Cina si appresta a colmarlo.
Per decenni, i leader occidentali hanno immaginato che la nuova classe media cinese avrebbe costretto il governo ad adottare misure più liberali. E invece oggi sono le democrazie occidentali a sentirsi sotto assedio, mentre sale la rabbia dei cittadini per il pesante tributo che la globalizzazione ha imposto ai loro standard di vita e all’occupazione. Sono le democrazie oggi a reclamare cambiamenti e i governi si trovano nell’impossibilità di soddisfare tali richieste. I principi democratici stessi si vedono minacciati dal venir meno della fiducia dei cittadini sia nei partiti politici tradizionali che nell’affidabilità delle informazioni pubbliche e nell’inviolabilità del processo elettorale.
Al contrario, i governanti cinesi hanno saputo assicurare un miglioramento progressivo delle condizioni di vita del Paese e instillare un senso crescente dell’importanza della Cina nel mondo. Vecchi problemi come repressione, censura, corruzione e inquinamento restano inalterati, mentre i progressi tangibili in molte aree della vita in Cina hanno ispirato alla cittadinanza un senso di fiducia nei loro leader, quella fiducia che americani ed europei non provano ormai più.
Che cosa significa tutto questo per il mondo? La Cina oggi è in grado di stabilire regole internazionali in un clima di minor resistenza rispetto al passato, e questo è importante in tre settori fondamentali.
Primo, nel commercio e negli investimenti, la Cina è oggi l’unico Paese al mondo che sembra essersi dotato di una strategia globale. Grazie al suo vasto progetto infrastrutturale della Nuova Via della Seta e alla sua propensione a investire — senza riserve politiche — nei Paesi in via di sviluppo in tutti i continenti, la Cina punta sempre più in alto, mentre l’Europa si concentra sui problemi europei e la politica americana scaglia il suo anatema sugli scambi commerciali internazionali. I governi di molti Paesi in Asia, America Latina, Africa e Medio Oriente sono oggi molto più favorevoli a imitare e ad allinearsi con l’approccio cinese alla politica estera, di stampo esplicitamente commerciale.
Secondo, è in corso una guerra globale per il predominio tecnologico. In particolare, Stati Uniti e Cina guidano la carica agli investimenti nello sviluppo dell’intelligenza artificiale. Negli Stati Uniti, la leadership in questo campo viene dal settore privato, in Cina invece dallo Stato, che gestisce le principali aziende e istituzioni del Paese per servire i propri interessi. Come per le strategie di commercio e investimenti, altri governi — specie quelli più timorosi di suscitare malcontento sociale al loro interno — trovano interessante questo modello di sviluppo. L’influenza economica della Cina servirà a subordinare i settori tecnologici dei Paesi più piccoli alle aziende cinesi e agli standard tecnici che esse vorranno imporre.
Infine, non dimentichiamo la questione dei valori. L’attrazione della Cina non è di natura ideologica. L’unico valore politico esportato da Pechino è il principio della non interferenza negli affari delle altre nazioni. E proprio questo appare un bonus per quei governi avvezzi alle richieste occidentali di riforme politiche ed economiche in cambio di aiuti finanziari. Con l’arrivo della politica estera di Trump, basata sul concetto di «America first», e con le molteplici istanze che oggi distraggono l’attenzione dei leader europei, la Cina non incontra ostacoli proprio grazie al suo approccio al commercio e alla diplomazia, scevro da qualunque prerequisito ideologico.
Tuttavia, anche l’attrattiva internazionale della Cina ha i suoi limiti. Passeranno decenni prima che la Cina sia in grado di esercitare il potere militare globale degli Stati Uniti. La Cina resta pur sempre una potenza regionale e la forbice della spesa militare continua ad allargarsi a favore degli Stati Uniti. I Paesi confinanti già avvertono qualche disagio davanti alle crescenti capacità di Pechino di fare pressione sui loro confini. È anche vero che la potenza militare convenzionale è meno importante oggi ai fini dell’influenza internazionale rispetto al passato, sia per le minacce alla sicurezza nazionale in un mondo globalizzato create dalla potenziale militarizzazione dell’influenza economica, sia per l’ancora incerto equilibrio di potere nel cyberspazio.
Nel 2018 e oltre, il mondo degli affari globale dovrà adattarsi a nuove regole, standard e pratiche portate avanti dalla Cina, non solo all’interno di questo Paese, ma anche in tutti gli altri Paesi in cui le aziende cinesi fanno sentire sempre più massicciamente la loro presenza e dove il governo cinese sta rafforzando e allargando la sua influenza. È probabile inoltre che Giappone, India, Australia e Corea del Sud collaborino più spesso tra di loro per arginare la potenza regionale della Cina, con il rischio di nuove frizioni e persino conflitti. A seconda di come andranno i rapporti tra Stati Uniti e Cina, il governo Trump potrebbe attivarsi maggiormente in quell’area. Infine, è possibile che le grandi ambizioni di Xi Jinping lo espongano alle rivalità interne del partito, specie se la Cina dovesse subire insuccessi imbarazzanti in patria o all’estero.
Una cosa è certa, il mondo avrà gli occhi puntati sull’anno appena iniziato per mettere a confronto il modello cinese con quelli occidentali. Per gli americani e gli europei, il sistema cinese presenta scarse attrattive, ma per molti altri Paesi è un modello che incarna una possibile alternativa. E con Xi Jinping disposto a offrire proprio quell’alternativa, sarà questo il maggior rischio geopolitico che il mondo dovrà affrontare nel 2018.
Traduzione di Rita Baldassarre

Corriere 15.1.18
Storia e memoria Il libro autobiografico del 2001 viene riproposto da il Saggiatore con una postfazione che qui anticipiamo
Il destino di sperare nella speranza
Le «Patrie smarrite» di Corrado Stajano inseguono il carattere di una nazione   
di Paolo Di Stefano


Nel lungo percorso letterario di Corrado Stajano, Patrie smarrite , uscito nel 2001, è il libro della svolta che segna un prima e un dopo. Prima ci sono da una parte le grandi inchieste civili del giornalista, dal Sovversivo (1975) a Un eroe borghese (1991), passando per Africo (1979); dall’altra i memoriali tra reportage e saggio che culminano nel Disordine (1993) e in Promemoria (1997), in cui si trovano anticipate formule narrative a venire (il diario, il racconto d’atmosfera…). Valorizzando questa prima fase della produzione di Stajano, Cesare Segre ha scritto che «se il giornalista è l’abile raccoglitore e organizzatore delle notizie, lo scrittore è quello che dà efficacia a un tipo di documento civile di cui gli scrittori “laureati” non sono quasi mai capaci».
Patrie smarrite si presenta, in copertina, come il «Racconto di un italiano», dove l’italiano è l’autore, sdoppiato tra Nord e Sud, tra la Noto del padre e la Cremona della madre. Il libro stesso è diviso quasi equamente tra una prima sezione dedicata alla Sicilia, rivissuta soprattutto nel momento dello sbarco alleato del luglio 1943, e una seconda sezione focalizzata sul «feudo nero» dominato da Farinacci e dalle sue lugubri squadre d’azione.
A partire da questo libro autobiografico, in cui per la prima volta Stajano (molto parco nell’uso della prima persona) mette in scena se stesso come io narrante, il «racconto di un italiano» si amplia e si completa in due tappe successive, La stanza dei fantasmi (2013) ed Eredità (2017), ma per altri versi anche nella Città degli untori (2009).
Per struttura mentale, Corrado Stajano è ben attento a tenersi lontano da ogni tentazione intimistica o autoreferenziale, e se narra la propria esperienza di vita lo fa solo in virtù della sua possibilità di diventare esemplare, parte della più vasta autobiografia della nazione, una approssimazione al carattere profondo degli italiani osservato nei suoi momenti cruciali (qui il fascismo, la Seconda guerra mondiale, lo sbarco anglo-americano; altrove anche il secolo della peste, gli albori dell’Italia unitaria, la Grande guerra, il terrorismo, le stragi di mafia, la corruzione di Manipulite e oltre). È l’approssimazione al carattere degli italiani — nell’ampio repertorio tra eroismo pietà tradimento servitù viltà — ciò che davvero interessa a Stajano, è questo eterno interrogativo antropologico ed etico il motore di ispirazione e di coerenza che anima tutta la sua opera, sia che si svolga in forma di inchiesta politica sia che si svolga in forma di autonarrazione.
Narrazione: a proposito di Patrie smarrite , Vincenzo Consolo accennava a quel tipo di «narrazione» particolare intesa da Walter Benjamin come il racconto proveniente dall’esperienza del narratore, esperienza che porta in sé un consiglio, una morale. Scrive Benjamin: «Il narratore prende ciò che narra dall’esperienza — dalla propria o da quella che gli è stata riferita —; e lo trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia». E aggiunge: «Il consiglio, incorporato nella vita vissuta, è saggezza ». La narrazione di Stajano non solo è intenzionalmente sollecitata da una energia testimoniale e morale, ma in quanto esperienza diretta è inscindibile da quella morale. «Così il racconto — precisa Benjamin — reca il segno del narratore come una tazza quella del vasaio».
Fuori da quest’idea di racconto etico-civile, non è semplice definire il genere cui appartengono i libri della svolta di Stajano, ma si può affermare che essi fanno grande tesoro della prima fase giornalistico-investigativa sostenendosi sempre su un processo preliminare di ricerca delle fonti, di constatazione diretta e di accertamento dei fatti per cui è fondamentale l’esperienza fisica dei luoghi, rivisitati, indagati, riemersi, in quanto i luoghi contengono la storia e/o i suoi fantasmi.
Fermo restando che Stajano non è uno scrittore d’invenzione, anche considerando la vasta produzione contemporanea che chiamiamo «non fiction novel», Patrie smarrite è una creazione letteraria del tutto atipica, che dentro il contenitore unificante del diario fittizio (esteso dal 30 agosto 1998 al 5 febbraio 1999) integra e armonizza materiali diversissimi: la memoria individuale del testimone, i documenti storici privati e pubblici, i referti inediti d’archivio, i notiziari radiofonici, i dossier parlamentari, le cronache manoscritte individuali e gli atti testamentari, i dispacci e i bollettini di guerra, le carte militari, i ritagli d’epoca, i resoconti di incontri personali, le citazioni letterarie da Tucidide a Pirandello, l’osservazione di immagini fotografiche, pittoriche eccetera.
Di conseguenza, il tessuto mobile della scrittura, sempre tenuto su un severo dettato classico, offre soluzioni molteplici anche sul piano stilistico, che nel generale andamento narrativo prendono via via sottili coloriture riflessive filosofico-morali, descrittive, liriche, memoriali, saggistiche. E si tratta però di passaggi quasi inavvertibili in un amalgama molto coinvolgente sia pure all’interno di un libro doloroso.
«Pietroburgo! Ho ancora gli indirizzi,/ Rintraccerò così le voci dei cadaveri». Sono versi di Osip Mandel’štam, che Stajano evoca nel bel passaggio in cui ricorda le camminate dell’amico Danilo Montaldi lungo il Po, l’amato «fiume-storia» (come la Neva del poeta russo), «luogo di libertà, di divertimento, di trasgressione, di insanità, di giochi mortali, con le armi e con le bombe a mano abbandonate dai tedeschi in fuga nell’aprile del ’45». I versi di Mandel’štam, che appartengono a una poesia, Leningrado , scritta nel dicembre 1930, potrebbero essere l’epigrafe d’ingresso in Patrie smarrite , dove Stajano va a visitare i propri «indirizzi», quelli dei suoi luoghi d’origine, Noto e Cremona, i paesaggi dell’anima, le «patrie smarrite» in cui reperire le voci dei morti e dei vivi, per cercare di cogliere, nel dialogo, un senso, forse il senso di un’appartenenza. Che purtroppo non si compie, se è vero che la prima parte del libro si conclude con il testo del poeta arabo di Sicilia Ibn Hamdis finito esule sognando un ritorno impossibile e la seconda (e dunque il libro) si chiude con una ammissione di estraneità alla città (e alla casa) della madre, che è anche la città in cui l’autore è nato: «Mi sembra di non avere sentimenti. So soltanto che non appartengo neppure a questa comunità».
Del resto, già Promemoria portava «Uno straniero in patria» quale inequivocabile sottotitolo. Una sorta di segnalazione che finisce per gettare una luce non solo sui libri che verranno ma persino a ritroso: una luce che illumina dello stesso senso di estraneità anche le figure dell’anarchico Franco Serantini e dell’avvocato Giorgio Ambrosoli come di tanti altri personaggi sfiorati ad Africo o nel «disordine» italiano anni Novanta. Estraneità, rimozione, memoria. La «narrazione-paese» di Stajano si può intendere come un macro promemoria, l’impegno di recuperare alla coscienza collettiva le tragedie, le ferite, le responsabilità, i risvolti inquietanti, soprattutto le vicende di quegli «stranieri» che hanno smarrito la patria o che sono stati cancellati o emarginati dalla sua storia.
Ma «nessuna madeleine proustiana», ha scritto Claudio Magris a proposito de La stanza dei fantasmi , anima la scrittura di Stajano, perché anche quando si parla di guerre lontane, tutto viene reso presente, «stagliato sullo sfondo dell’eterno» anche in virtù di uno stile controllato fino alla severità tacitiana. Al di là dei tempi grammaticali impiegati, la «narrazione» di Stajano si sviluppa in un presente compresso e spaesante, attraversato dal grande fiume del passato prossimo e del passato remoto, tempi che trascinano fino a noi cittadini di oggi le macerie entro cui si celano possibili tracce di senso. E non è un caso se lo smarrimento più angosciante è laddove il passato sembra non aver lasciato che esili appigli, segni sbiaditi di sé, come paradossalmente può accadere in una terra stratificata di storia e di storie qual è la Sicilia: «La suggestione è profonda, — scrive Stajano quando si trova a Noto Marina sulle piste della «battaglia mancata» dopo l’approdo delle truppe del generale Montgomery —. La storia non ha lasciato traccia. Una scritta mussoliniana su un casello ferroviario diroccato. Per il resto le ombre della memoria di uomini giovani lungo i muretti a secco che ora quasi nessuno sa più costruire».
La domanda chiave del libro arriva nel mezzo dello sterposo paesaggio ibleo, con il fiume Anapo sullo sfondo, quando agli occhi del narratore appare, per forza di litote e con vertiginoso contrasto, l’altra metà di sé: «La Bassa padana è infinitamente distante, la terra qui non sa di fieno e di latte, le zolle non sono morbide, color cioccolato, l’acqua non gorgoglia. In questi giorni lassù deve essere cominciato il raccolto del granoturco che ora ha perduto anche il nome, si chiama soltanto mais». Ci sarebbe da segnalare, tra parentesi, come i due paesaggi interiori si presentino specularmente anche nella loro evidenza esteriore, palesandone plasticamente l’irriducibile divergenza biologica ancora prima che antropologica (del resto, Stajano è, oltre che un ottimo ritrattista, un grande scrittore di vedute naturali). E la domanda? Eccola poco più sotto, carica di amarezza e di autoironia: «Devo scomodare anche la psicoanalisi, cercare di scavare in quel profondo che sento contraddittorio? Per tentare di fare affiorare dalle grotte la memoria del rifiuto e della dimenticanza? In che cosa quel tempo infinitamente lontano seguita a pesare sulla vita degli uomini di oggi?».
La «narrazione» di Stajano è sempre in tensione tra questi motivi dolorosi: oblio colpevole, rifiuto, vergogna, eredità tormentosa, urto tra presente e passato, incomprensione tra Nord e Sud, inconciliabilità storica e geografica (dove storia e geografia interagiscono, si confondono fino a collidere). «La città sonnolenta rifiuta il fastidio della memoria» è, più in generale, un mondo in cui, montalianamente, «il calcolo dei dadi più non torna».
Quel che può tornare, semmai, per quanto fragile e baluginante, è la «speranza nella speranza»: per Stajano una forma di resistenza consegnata alla scrittura come un prezioso messaggio in bottiglia regalato alle generazioni che verranno.

Repubblica 15.1.18
Arte e astronomia
Michelangelo precursore di Copernico
di Antonio Rocca


Alcuni studi attestano che nel dipingere il Cristo del “Giudizio universale” Buonarroti abbia offerto una figurazione dell’eliocentrismo. E ciò anche per iniziativa del papa Clemente VII
Trovatosi a constatare la stringente analogia tra la rivoluzione copernicana e la rivoluzione iconografica con la quale Michelangelo impone un Cristo-Apollo nel cuore del Giudizio sistino, Charles de Tolnay scrive che il Buonarroti «giunge a una visione dell’universo curiosamente anticipante quella del suo contemporaneo Copernico. L’idea della composizione di Michelangelo precede di sette anni la pubblicazione dell’astronomo di Thorn (uscita a stampa nel 1543)».
Mancano documenti ad attestare un rapporto diretto tra l’astronomo e l’artista, pertanto Tolnay è costretto a utilizzare il termine “curiosamente”, ma il legame è evidente e con l’intento di colmare tale lacuna si è mossa Valerie Shrimplin. La studiosa britannica ha ricostruito il quadro che tiene assieme i due, sottolineando l’importanza di un episodio del 1533. In giugno Clemente VII invita Albert Waldstadt affinché, nei giardini del Vaticano e di fronte a un ristretto cenacolo di cardinali, gli illustri il modello copernicano.
Quella visione eliocentrica, disposta nel solco del neoplatonismo fiorentino, appassionò il Medici che donò al Waldstadt un prezioso manoscritto. Secondo la Shrimplin il papa maturò allora la decisione di realizzare il Giudizio.
La commissione al Buonarroti si concretizzò già alla fine dell’estate del 1533 e la morte del pontefice non bloccò il progetto, che fu immediatamente ripreso da Paolo III Farnese.
La memoria dei processi a Giordano Bruno e Galileo Galilei sembra gettare un’ombra sulla possibilità che due papi potessero concepire la realizzazione di un colossale manifesto eliocentrico nel cuore della cristianità, tuttavia dobbiamo ricordare che siamo negli anni trenta del ‘500 e che la difesa del sistema tolemaico s’impone solo nel secolo successivo. Il De revolutionibus orbium coelestium fu messo all’Indice nel 1616. Avversione peraltro incerta come dimostrano le simpatie per Galilei del cardinal Barberini, divenuto in seguito Urbano VIII, e l’affresco di Andrea Sacchi in palazzo Barberini, che all’eliocentrismo allude.
Ipotesi antica, quella eliocentrica, che aveva conosciuto una fase di svolta con la pubblicazione del De Sole di Marsilio Ficino.
Riprendiamola da questo momento, osservandola dalla prospettiva dei protagonisti della nostra storia, allora solo tre ragazzi. È il 1493, Copernico ha vent’anni e studia astronomia a Cracovia, il De Sole è libro di testo; Michelangelo gode della protezione di Piero de’ Medici, cui il De Sole è dedicato; Alessandro Farnese, già studente di Ficino, si appresta a diventare cardinale.
Il trattato esprime pochi concetti con grande chiarezza: il sole, immagine di Dio, occupa una posizione centrale nell’universo e rappresenta la giustizia divina.
«La giustizia, regina di tutte le cose», scrive Ficino, «si diffonde attraverso il tutto a partire dal trono del Sole, e tutto dirige, quasi sia il Sole a guidare tutte le cose».
Copernico prese allora a cercare una via per allineare matematica, astronomia e platonismo. Nel corso del suo pluridecennale lavoro non ottenne risultati decisivi perché i suoi calcoli furono inficiati da assiomi interni al platonismo. Così, a dispetto di ogni dato empirico, il polacco non intese mai rinunciare alla perfetta circolarità delle orbite planetarie.
Concetti pitagorici che Copernico insegnava nelle sue lezioni romane del 1500, cui pare partecipassero anche Michelangelo e Alessandro Farnese. Col senno di poi, sapendo che Paolo III sarà il committente finale del Giudizio e che a lui è dedicato il De revolutionibus, si è portati a ritenere che sin da allora, sin dal principio del secolo, tra i tre si fossero instaurati dei rapporti diretti. Troppo stretti i giri, nella Roma agostiniana e neoplatonica, per immaginare che simili personaggi s’ignorassero, tuttavia ciò che qui interessa è osservare come l’artista, lo scienziato e l’uomo di chiesa, abbiano saputo inverare concetti astratti appresi in gioventù.
Diventati anziani uomini di successo, il Farnese, Michelangelo e Copernico declinarono i principi ficiniani, attribuendogli sostanza e creando un panorama culturale coerente. Intanto, però, tutto era cambiato. Il Giudizio e il De revolutionibus sono inattuali, nascono già vecchi o pregni di un futuro che li rende incomprensibili. Nel presentare il suo lavoro, Ficino aveva scritto che il libro andava letto in modo allegorico e anagogico, non dogmatico. La traduzione in immagine di quel testo vedeva la luce nel momento in cui la chiesa di Roma puntava a bandire modelli di lettura figurale, a vantaggio di una precisa rappresentazione dei dogmi formulati a Trento.
Il conflitto era inevitabile, sia sul piano formale che su quello del merito. Michelangelo aveva posto tra i beati una donna che esibisce un copricapo ebreo, due indios e una coppia d’infedeli, afferrati da un angelo per mezzo di un rosario a cento grani, tipico dei musulmani. Decisamente troppo per Paolo IV, il pontefice del ghetto, dell’indice dei libri proibiti e dell’Inquisizione.
Fortunatamente l’affresco restò intatto, seppure dovette subire qualche limitato intervento censorio. Integro ma incompreso, reso opaco e preso a tenaglia da pedanti cattolici e dalle favole protestanti di una Roma pagana, nella quale gli idoli greci avevano preso il posto di Dio. Del resto cosa poteva apprezzare un uomo come Lutero, vagamente iconoclasta e avversario di Copernico?
Ma ciò che ha fatto più danno è stata la Modernità o, meglio, la ricostruzione apologetica delle origini della Rivoluzione scientifica. Progresso scientifico e anticlericalismo col tempo presero a divenire quasi sinonimi.
Si ricostruì la narrazione di una faticosa e costante riemersione alla luce ottenuta per mezzo della lotta contro l’oscurantismo cattolico, fatto di libri proibiti, processi, abiure, torture e condanne. Episodi reali, ma infilati su di un percorso unilineare nel quale sono trascurati l’eliocentrismo del vescovo Cusano, del sacerdote Ficino e l’ortodossia del canonico agostiniano Copernico. Tutti loro, come il domenicano Bruno, osservavano la volta celeste perché, come recita il Salmo 18, «i cieli narrano la gloria del Signore». Oltre la Modernità, dopo aver preso congedo dai miti solari di ogni Illuminismo, è più facile riconoscere che il Giudizio non è un’incongrua esaltazione della bellezza pagana e che Copernico non era un precursore del libero pensiero. Leggiamo nel De revolutionibus: «La macchina dell’universo è stata creata per noi dal migliore e più perfetto artefice (…) E in mezzo a tutto sta il Sole.
Chi infatti, in tale splendido tempio, disporrebbe questa lampada in un altro posto o in un posto migliore, da cui poter illuminare contemporaneamente ogni cosa? Non a sproposito quindi taluni lo chiamano lucerna del mondo, altri mente, altri regolatore. Trismegisto lo definisce il dio visibile, l’Elettra di Sofocle colui che vede tutte le cose. Così il Sole, sedendo in verità come su un trono regale, governa la famiglia degli astri che gli fa da corona». La Cappella Sistina, che ha le stesse dimensioni del tempio di Gerusalemme, è quel tempio.