La Stampa TuttoLibri 20.1.18
Gli artisti della Rivoluzione tra impegno e disincanto
Al Mambo le opere di autori come Chagall, Malevich e Kandinsky Ma la vera sorpresa sono gli sconosciuti che raccontano la Russia
di Bruno Ventavoli
Quel
titolo, «Revolutija», non casualmente abbinato ai cent’anni del trionfo
bolscevico, induce ad aspettarsi un tripudio di falci e martelli. Ma
nella magnifica mostra curata da Evgenjia Petrova, al Mambo di Bologna,
si scoprono invece autori che dalla rivoluzione furono delusi, traditi,
silenziati, più attenti alla sperimentazione estetica che alla
celebrazione delle masse, e magari sensibili all’ufficiale zarista che
muore in trincea o al nudo neoclassicheggiante. Le tele sono oltre 70,
«Da Chagall a Malevich, da Repin a Kandisky». Il sottotitolo,
ovviamente, accentua i nomoni (e di Chagall c’è la bellissima
Passeggiata, con l’amata che vola in aria come un palloncino a
sottolineare l’ottimismo che il pittore ebreo nutriva per i nuovi
tempi). La sorpresa però vien dagli altri, quasi sconosciuti al pubblico
italiano. Che rendono l’idea del ribollire di genialità che avvenne
all’inizio del ’900 quando la pittura russa, dopo secoli dedicati quasi
esclusivamente alle icone, si confronta con le avanguardie europee, dal
cubismo al futurismo, elaborando strade originali.
La bellissima
tela di Il’ja Repin, Che vastità!, racconta due giovani in riva al mare.
Le onde impetuose che li lambiscono simboleggiano le tensioni che
sfoceranno nella prima rivoluzione del 1905, ma loro, gioiosi, eleganti,
aristocratici non hanno nulla della rabbia proletaria che travolgerà lo
zar. E proprio quell’anima democratico-socialista, che fu brutalmente
repressa, viene celebrata dallo stesso Repin in 17 ottobre 1905 con una
folla tumultuosa e gentile, fin festante, che richiama l’occhio
soprattutto sulla fanciulla con elegante cappello bianco, sui mazzi di
fiori, su azzimati travet degni di un racconto di Gogol.
La
seconda rivoluzione, quella che invece durerà, è più fiancheggiata che
raccontata dagli artisti. «Non è possibile prenderla come soggetto
nell’epoca in cui sta avvenendo» disse Belyi. Senza contare che alcuni
entusiasti della prima ora si raffreddano, come Kustodiev, che dipinge
una gigantesca Festa in onore del II congresso dell’internazionale
comunista del 19 luglio 1920 con centinaia di personaggi riprodotti con
accurato pennello. Certo, c’è in prima fila un pensoso lettore della
Pravda, e un arringatore su un’auto. Ma i marinaretti felici con le loro
ganze sotto braccio sembrano più adatti a una foto di Eisenstaedt in
Times Square che alla Corazzata Potemkin. Ancora più ambiguo e amaro è
il gigantesco Bolscevico (1920) che scavalca fiero palazzi lillipuziani
come se dovesse calpestarli, quasi un simbolo della forza brutale che
sta sopraffacendo la Russia divisa dalla guerra civile. Grigoriev si
dedica invece ai contadini, anima eterna della Russia, mostrando volti
tesi, dolenti, scavati dalla fame, come se per loro nulla fosse cambiato
nella malora.
Malevich, il più rivoluzionario degli innovatori,
fin dal 1915, proclama la «supremazia» della forma e del colore sulla
realtà. Dipinge cerchi, quadrati, icone di un’arte pura e assoluta che
non ha a che fare con nulla, nemmeno con la politica. Poi si spinge a
disegnare sagome di atleti, ragazze nei campi, lavoratori. Ma il partito
lo guarda con sospetto, soprattutto dopo che Stalin ne ha preso la
guida, dopo la morte di Lenin, vuole arte comprensibile, educativa, non
manichini pseudo metafisici. Malevich si sforza di glorificare la
Cavalleria rossa in una tela magnifica del 1932, i vittoriosi guerrieri
al galoppo sono tuttavia ridotti a esilissimi arabeschi sanguigni,
schiacciati tra la terra multicolore e il gelido cielo, come a dire che
ogni armata, persino quella rivoluzionaria che rinnova il mondo, è
insignificante rispetto all’immensità della natura e della materia.
Siamo più vicini alla celebrazione con Vladimir Malagis che ritrae una
famiglia radunata intorno al radioricevitore in ascolto di Stalin; o con
il brulichio immenso di compagni tutti di spalle che in un campo vicino
a Mosca ricevono la bandiera dei comunardi parigini dipinto da
Brodskij. Ma in quei primi Anni 30 c’è sempre qualche luce, qualche
libertà stilistica, qualche guizzo di fantasia, che apre brecce nel
proletariamente corretto o nel canone del «realismo socialista» (che
viene ufficialmente varato nel 1932). I giovani comunisti del Komsomol
di Samochvalov, per esempio, si allenano con ginnastica e fucile, fieri,
dinamici, pronti a difendere il comunismo. Eppure le ragazze sdraiate
in terra, bionde bellissime, come modelle, maneggiano i fucili ma son
vestite con abiti vezzosamente colorati come se fossero a un garden
party.
L’esempio forse più doloroso dello scollamento tra
ispirazione e politica è nella vicenda di Filonov. Da sempre sensibile
alle sofferenze degli umili, presentì nel 1913 la tragedia del primo
conflitto mondiale con un terrificante Banchetto dei re, popolato da
grotteschi, cupi, famelici burattinai di immensi massacri, e poi li
raffigurò nella Guerra germanica con centinaia di corpi frantumati in
schegge di piedi, occhi, arti, riuniti come cristalli. La sua pittura
rivoluzionaria veniva però malamente compresa. E negli Anni 20, privato
di sussidi, fu costretto a sopravvivere grazie al salario della moglie.
Ogni tanto dipinse il lavoro - l’officina dei trattori nella fabbrica
Putilovo, stacanoviste alla macchina da cucire - ma nonostante i titoli
corretti, la sua realtà è arida, nient’affatto celebrativa e le tele
venivano respinte. Cedendo agli amici, nel ’32 si cimentò anche con il
volto di Stalin. È perfetto nella sua spietata glacialità. Senza un
barlume di adulazione. Chi lo vide si spaventò. E la tela rimase in un
magazzino. Filonov non ci provò più con l’arte di regime. E per il resto
della vita, nella propria cameretta, si dedicò a visioni del cosmo e di
animali.