giovedì 25 gennaio 2018

La Stampa TuttoLibri 20.1.18
Gli artisti della Rivoluzione tra impegno e disincanto
Al Mambo le opere di autori come Chagall, Malevich e Kandinsky Ma la vera sorpresa sono gli sconosciuti che raccontano la Russia
di Bruno Ventavoli


Quel titolo, «Revolutija», non casualmente abbinato ai cent’anni del trionfo bolscevico, induce ad aspettarsi un tripudio di falci e martelli. Ma nella magnifica mostra curata da Evgenjia Petrova, al Mambo di Bologna, si scoprono invece autori che dalla rivoluzione furono delusi, traditi, silenziati, più attenti alla sperimentazione estetica che alla celebrazione delle masse, e magari sensibili all’ufficiale zarista che muore in trincea o al nudo neoclassicheggiante. Le tele sono oltre 70, «Da Chagall a Malevich, da Repin a Kandisky». Il sottotitolo, ovviamente, accentua i nomoni (e di Chagall c’è la bellissima Passeggiata, con l’amata che vola in aria come un palloncino a sottolineare l’ottimismo che il pittore ebreo nutriva per i nuovi tempi). La sorpresa però vien dagli altri, quasi sconosciuti al pubblico italiano. Che rendono l’idea del ribollire di genialità che avvenne all’inizio del ’900 quando la pittura russa, dopo secoli dedicati quasi esclusivamente alle icone, si confronta con le avanguardie europee, dal cubismo al futurismo, elaborando strade originali.
La bellissima tela di Il’ja Repin, Che vastità!, racconta due giovani in riva al mare. Le onde impetuose che li lambiscono simboleggiano le tensioni che sfoceranno nella prima rivoluzione del 1905, ma loro, gioiosi, eleganti, aristocratici non hanno nulla della rabbia proletaria che travolgerà lo zar. E proprio quell’anima democratico-socialista, che fu brutalmente repressa, viene celebrata dallo stesso Repin in 17 ottobre 1905 con una folla tumultuosa e gentile, fin festante, che richiama l’occhio soprattutto sulla fanciulla con elegante cappello bianco, sui mazzi di fiori, su azzimati travet degni di un racconto di Gogol.
La seconda rivoluzione, quella che invece durerà, è più fiancheggiata che raccontata dagli artisti. «Non è possibile prenderla come soggetto nell’epoca in cui sta avvenendo» disse Belyi. Senza contare che alcuni entusiasti della prima ora si raffreddano, come Kustodiev, che dipinge una gigantesca Festa in onore del II congresso dell’internazionale comunista del 19 luglio 1920 con centinaia di personaggi riprodotti con accurato pennello. Certo, c’è in prima fila un pensoso lettore della Pravda, e un arringatore su un’auto. Ma i marinaretti felici con le loro ganze sotto braccio sembrano più adatti a una foto di Eisenstaedt in Times Square che alla Corazzata Potemkin. Ancora più ambiguo e amaro è il gigantesco Bolscevico (1920) che scavalca fiero palazzi lillipuziani come se dovesse calpestarli, quasi un simbolo della forza brutale che sta sopraffacendo la Russia divisa dalla guerra civile. Grigoriev si dedica invece ai contadini, anima eterna della Russia, mostrando volti tesi, dolenti, scavati dalla fame, come se per loro nulla fosse cambiato nella malora.
Malevich, il più rivoluzionario degli innovatori, fin dal 1915, proclama la «supremazia» della forma e del colore sulla realtà. Dipinge cerchi, quadrati, icone di un’arte pura e assoluta che non ha a che fare con nulla, nemmeno con la politica. Poi si spinge a disegnare sagome di atleti, ragazze nei campi, lavoratori. Ma il partito lo guarda con sospetto, soprattutto dopo che Stalin ne ha preso la guida, dopo la morte di Lenin, vuole arte comprensibile, educativa, non manichini pseudo metafisici. Malevich si sforza di glorificare la Cavalleria rossa in una tela magnifica del 1932, i vittoriosi guerrieri al galoppo sono tuttavia ridotti a esilissimi arabeschi sanguigni, schiacciati tra la terra multicolore e il gelido cielo, come a dire che ogni armata, persino quella rivoluzionaria che rinnova il mondo, è insignificante rispetto all’immensità della natura e della materia. Siamo più vicini alla celebrazione con Vladimir Malagis che ritrae una famiglia radunata intorno al radioricevitore in ascolto di Stalin; o con il brulichio immenso di compagni tutti di spalle che in un campo vicino a Mosca ricevono la bandiera dei comunardi parigini dipinto da Brodskij. Ma in quei primi Anni 30 c’è sempre qualche luce, qualche libertà stilistica, qualche guizzo di fantasia, che apre brecce nel proletariamente corretto o nel canone del «realismo socialista» (che viene ufficialmente varato nel 1932). I giovani comunisti del Komsomol di Samochvalov, per esempio, si allenano con ginnastica e fucile, fieri, dinamici, pronti a difendere il comunismo. Eppure le ragazze sdraiate in terra, bionde bellissime, come modelle, maneggiano i fucili ma son vestite con abiti vezzosamente colorati come se fossero a un garden party.
L’esempio forse più doloroso dello scollamento tra ispirazione e politica è nella vicenda di Filonov. Da sempre sensibile alle sofferenze degli umili, presentì nel 1913 la tragedia del primo conflitto mondiale con un terrificante Banchetto dei re, popolato da grotteschi, cupi, famelici burattinai di immensi massacri, e poi li raffigurò nella Guerra germanica con centinaia di corpi frantumati in schegge di piedi, occhi, arti, riuniti come cristalli. La sua pittura rivoluzionaria veniva però malamente compresa. E negli Anni 20, privato di sussidi, fu costretto a sopravvivere grazie al salario della moglie. Ogni tanto dipinse il lavoro - l’officina dei trattori nella fabbrica Putilovo, stacanoviste alla macchina da cucire - ma nonostante i titoli corretti, la sua realtà è arida, nient’affatto celebrativa e le tele venivano respinte. Cedendo agli amici, nel ’32 si cimentò anche con il volto di Stalin. È perfetto nella sua spietata glacialità. Senza un barlume di adulazione. Chi lo vide si spaventò. E la tela rimase in un magazzino. Filonov non ci provò più con l’arte di regime. E per il resto della vita, nella propria cameretta, si dedicò a visioni del cosmo e di animali.