martedì 23 gennaio 2018

La Stampa 23.1.18
Erdogan, l’attacco contro i curdi in Siria sfida l’occidente
di Gianni Vernetti


Pochi giorni fa alla Stanford University, il segretario di Stato Rex Tillerson ha annunciato la scelta di mantenere una presenza militare americana nel Nord della Siria a tempo indeterminato per combattere Isis e Al-Qaeda e per limitare l’influenza crescente dell’Iran in Medio Oriente. Non solo. Tillerson ha anche aggiunto che le sette basi americane installate nel Rojava curdo dalle forze speciali diventeranno permanenti. Un cambio di rotta radicale, dunque, che vede l’amministrazione Usa fissare 5 obiettivi in Siria: sconfiggere in modo definitivo Isis e Al-Qaeda; favorire il cambio di regime e la dipartita di Bashar al-Assad; porre un freno significativo alle ambizioni regionali dell’Iran; creare condizioni di sicurezza ottimali per il ritorno dei rifugiati; eliminare in modo definitivo ogni residuo di armi chimiche. Un’amministrazione americana nuovamente determinata in Medio Oriente che per la prima volta chiede il cambio di regime in Siria e soprattutto indica nell’Iran il vero pericolo per la stabilità regionale. Il disegno della «Mezzaluna iraniana» va fermato, impedendo la continuità territoriale fra milizie al soldo di Teheran e regimi amici dall’Iran al Libano, passando per Iraq e Siria. Per raggiungere questo obiettivo l’alleanza con le milizie curde di «Ypg» nel Nord della Siria era ed è strategica.
Dalla resistenza a Kobane, fino alla caduta ed alla liberazione di Raqqa, le forze speciali britanniche, francesi, americane e canadesi hanno formato e sostenuto un esercito di liberazione (Sdf, le Forze democratiche siriane) composto da una variegata alleanza fra curdi e diverse tribù locali, che sono state i migliori alleati militari sul campo per un Occidente restio a intervenire.
In più, i curdi siriani, veri artefici della sconfitta di Isis in Siria, sono un’oasi di laicità, che ha rappresentato una positiva anomalia in una regione fino a ieri dominata dal Califfato oscurantista di Abu Bakr al-Baghdadi.
Non passano neanche 72 ore dall’annuncio della nuova strategia Usa e la Turchia, lancia l’operazione militare «Ramo d’Ulivo» con l’obiettivo di liberare il cantone di Afrin dalla presenza curda. Afrin è l’enclave curda più orientale in Siria a Nord della città di Aleppo, abitata da oltre duecentomila curdi e decine di migliaia di rifugiati provenienti dalla Siria. Come tutto il resto del Kurdistan siriano, il cantone è governato dalle forze politiche curde e protetto da unità che la Turchia considera gruppi terroristici, contigui al Pkk.
L’offensiva turca è stata realizzata con la «luce verde» di Mosca che manteneva anche un piccolo contingente ad Afrin, prontamente ritirato verso Sud. Ora per l’Occidente si pone più di un problema. I curdi siriani che hanno sconfitto Isis con il sostegno politico e militare dell’America e dell’Occidente vengono attaccati dal secondo esercito della Nato, che vuole espugnare l’enclave di Afrin, e sta estendendo in queste ore la propria azione militare anche in direzione della città di Manbji.
Il premier turco Binali Yildirim ha giustificato l’intervento attaccando persino gli Usa definendoli «nostri presunti alleati» che sostengono le «organizzazioni terroristiche curde». Per Mosca si profila una nuova opportunità: stringere una solida alleanza con la Turchia di Erdogan, e con l’Iran di Rohani in chiave anti-occidentale.
Per l’Occidente è un campanello di allarme che ricorda come non sia più procrastinabile un chiarimento con la Turchia.