Corriere 23.1.18
La rivolta senza padri
L’attentato a Togliatti innescò il caos ma non ci furono ordini d’insurrezione
Mario
Avagliano e Marco Palmieri rievocano in un saggio (il Mulino) le gravi
tensioni politiche del 1948, culminate negli spari di Antonio Pallante
al leader comunista. Seguirono in tutto il Paese disordini che
provocarono sedici morti
di Paolo Mieli
Il 1°
gennaio del 1948 in Italia entrò in vigore la Costituzione repubblicana.
Quello stesso giorno Pietro Nenni, leader dell’unico partito socialista
europeo di una certa grandezza legato in un Fronte popolare a quello
comunista, scrisse sull’«Avanti!» che era giunto il momento di «adeguare
il 1948 al 1848». La Democrazia cristiana raccolse la sfida implicita
nel richiamo nenniano agli eventi rivoluzionari di un secolo prima e
diede alle stampe un manifesto dove comparivano l’aquila asburgica
accanto a «1848» e la falce e martello vicina a «1948». Lo slogan del
cartellone Dc era: «Allora contro lo straniero/ oggi contro la
tirannia». La sinistra rispose con un poster da cui si affacciava
Giuseppe Garibaldi che si rivolgeva al leader trentino con queste
parole: «Bada De Gasperi, che nessun austriaco me l’ha mai fatta».
Iniziava la sfida: i socialcomunisti, nel nome appunto di Garibaldi, il
18 aprile del 1948 cercavano di travolgere la Dc alle prime elezioni
politiche del secondo dopoguerra. E di punire in tal modo Alcide De
Gasperi, che un anno prima li aveva cacciati dal governo. Il risultato
di quella consultazione elettorale — precisano Mario Avagliano e Marco
Palmieri in 1948. Gli italiani nell’anno della svolta di imminente
pubblicazione per i tipi del Mulino — non era affatto scontato. Sulla
base dei risultati di precedenti turni di amministrative, comunisti e
socialisti credevano di poter agevolmente sopravanzare la Dc. Invece lo
scrutinio assegnò a sorpresa un trionfo alla Dc (che ottenne la
maggioranza assoluta dei seggi), e decretò l’insuccesso di Pci e Psi,
distanziati di quasi 20 punti.
Tre mesi dopo, il 14 luglio, un
giovane siciliano iscritto al Partito liberale, Antonio Pallante
(squilibrato e senza mandanti), attenta alla vita di Palmiro Togliatti
mentre sta uscendo, assieme a Nilde Iotti, da un portone secondario di
Montecitorio. Il leader comunista resta per qualche ora tra la vita e la
morte e durante quel lasso di tempo si ha l’impressione che socialisti e
comunisti possano cogliere l’occasione per cercare nella piazza una
sanguinosa rivincita delle elezioni perdute. Torna d’attualità
l’evocazione rivoluzionaria di Nenni. L’allarme è grande anche sul piano
internazionale: Stalin definisce l’attentato «brigantesco» e
velatamente polemizza con il Pci, accusandolo di non aver saputo
proteggere il suo leader; l’ambasciata americana informa Washington che
la morte del segretario comunista è «prossima» e riferisce che è stato
suggerito ai cittadini di non lasciare Roma per il Nord dove «la loro
vita sarebbe stata a rischio».
Cosa succede davvero quel giorno?
La Cgil di Giuseppe Di Vittorio (appena rientrato da una conferenza
sindacale a San Francisco) proclama immediatamente lo sciopero generale.
La decisione «politica» della Cgil provocherà recriminazioni da parte
dei sindacalisti cattolici guidati da Giulio Pastore i quali
provocheranno una spaccatura definitiva del sindacato. Socialdemocratici
e repubblicani decideranno però, in quel frangente, di restare nella
Cgil, ritenendo che solo dall’interno si sarebbe potuto «tentare di
strappare le masse ai comunisti». Radio Mosca trasmette un ambiguo
comunicato nel quale quasi incita all’insurrezione e Celeste Negarville
successivamente ammetterà essere stata una «leggerezza» di qualche non
identificato dirigente del partito interpretare quel che era stato detto
nella trasmissione radiofonica russa alla stregua di una «direttiva».
Di qui un’ondata di manifestazioni più o meno spontanee, scontri con la
polizia e anche qualcosa di peggio. Finché Togliatti, riavutosi grazie a
un intervento chirurgico miracoloso di Pietro Valdoni, richiamerà i
suoi all’ordine. E questi rientreranno — non senza qualche mugugno —
nelle ore in cui la radio annuncia l’insperata vittoria di Gino Bartali
in alcune tappe di montagna del Tour de France: un giornale della
gioventù cattolica titola Bartali ha battuto Di Vittorio . Giulio
Andreotti, anni dopo, definirà, però, «un’esagerazione» l’attribuzione
al ciclista del merito «di aver evitato all’Italia la guerra civile».
I
dirigenti del Pci in quelle ore vengono presi alla sprovvista. A
sorpresa, tra i meno esagitati troviamo il duro Pietro Secchia, che
cerca di frenare la deriva insurrezionalista con queste parole: «Non
dimenticate compagni che siamo a soli due mesi e mezzo da elezioni che
hanno dato una maggioranza assoluta al governo». Secchia proverà in
seguito a rinfrancare i manifestanti accennando ad una «simpatia di
larghi strati della popolazione» attestata dalla grande quantità di
serrande abbassate. Ma un iscritto savonese, Gerolamo Assereto, gli
risponderà con una lettera all’«Unità» scrivendo: «Almeno per quanto si
riferisce a Savona, gli esercizi pubblici sono stati chiusi, nella quasi
totalità, non per solidarietà con lo sciopero generale, ma per il
timore che la massa eccitata danneggiasse negozi e proprietari».
I
l fuoco rivoluzionario — a quel che si può desumere dalla copiosa
documentazione del libro — si accese spontaneamente. Per
autocombustione. In settant’anni di ricerche anche molto minuziose non è
stato identificato il nome di un solo dirigente nazionale del Pci che
abbia dato il via alla rivolta. Neanche in sede locale. Si moltiplicano —
subito dopo l’attentato — i paragoni con l’uccisione per mano fascista
nel 1924 di Giacomo Matteotti, le accuse alla Dc di aver creato un clima
d’odio responsabile di aver «armato» la mano dell’attentatore, ma nomi
di leader che avrebbero dato il «la alla rivoluzione» non sono venuti
fuori. Il gappista Rosario Bentivegna racconterà di aver ricevuto alla
federazione del partito a Sant’Andrea della Valle l’ordine di «occupare
il ministero degli Interni». Lo stesso riferirà l’italianista Carlo
Salinari. I due saranno però in grado solo di indicare il nome di chi
era stato a fermarli: un alto dirigente del loro stesso partito, Edoardo
D’Onofrio. E di aggiungere che in loro presenza D’Onofrio aveva
sgridato Mario Mammuccari e Otello Nannuzzi per aver consentito che
fossero date talune disposizioni «rivoluzionarie». Da chi? Non si sa.
Si
sa invece che tra i donatori di sangue per Togliatti c’erano stati
anche un parlamentare Dc, Angelo Perini, e un frate cappuccino. Il
socialdemocratico Carlo Andreoni che il 13 luglio (ventiquattr’ore prima
del colpo di pistola di Pallante) dal giornale del proprio partito
aveva suggerito di «inchiodare al muro del loro tradimento Togliatti ed i
suoi complici» e di procedere in tal senso «non metaforicamente», viene
costretto dal suo leader, Giuseppe Saragat, a dimettersi. Qualche
screzio si registra poi tra comunisti e socialisti (nonostante alcuni
manifestanti feriti e uccisi in quei giorni di luglio del 1948
appartenessero al partito di Nenni). In un rapporto della federazione
Pci di Novara si rileva che «i socialisti non accettarono di fare un
manifesto del Fronte» e che, dopo la convocazione di una manifestazione
«unitaria», «i rappresentanti del Psi facevano macchina indietro
adducendo i motivi più risibili che confermavano, ancora una volta, la
loro mancanza di coraggio fisico, il loro evidente opportunismo, la loro
incoscienza politica». Considerazioni simili si ritrovano anche in
documenti della federazione comunista di Ravenna («i socialisti hanno
marciato con noi, ma il contributo da essi portato nella lotta è stato
minimo») e in quella di Catanzaro che definisce «grave» il comportamento
dei seguaci di Nenni. Il quale così si giustificherà sul suo diario:
«Battere la polizia di Scelba non sarebbe impossibile… Ma poi? È davanti
a questo “poi” che le masse hanno arretrato, non davanti ai carri
armati». L’8 agosto a Napoli il segretario del Psi Alberto Jacometti
ribalta le accuse dei comunisti e dichiara che, proprio a causa del loro
comportamento nelle ore successive al colpo di pistola di Pallante, il
Fronte popolare poteva considerarsi «morto».
Al medico di fiducia,
Mario Spallone, Togliatti — appena ripresa conoscenza — dà incarico di
rassicurare il governo sulla indisponibilità del Pci ad avventure
rivoluzionarie. Aristide Romano Malavolta, che all’epoca faceva parte
della scorta del segretario comunista, così ricorda le ore
immediatamente successive all’attentato: «Piombammo nella confusione,
l’aria era quella dell’insurrezione vicina, ero pronto a indossare
l’elmetto… Fu lui, Togliatti, dal suo letto in corsia, a fermarci
tutti». A Torino, in quegli stessi frangenti, un gruppo di operai con a
tracolla dei mitra «sten» entra nell’ufficio dell’amministratore
delegato della Fiat Vittorio Valletta e gli comunica che la fabbrica è
occupata. Valletta reagisce dicendo loro di fare quello che credono, ma
annuncia che quando tornerà la calma licenzierà gli eventuali occupanti.
Da quel momento Valletta viene sequestrato nella sua stanza e qualche
giorno dopo Negarville dovrà andare di persona a Torino (su un aereo
messo a disposizione dalla Fiat) per ottenerne il rilascio. A Milano
vengono occupate Breda, Motta e Pirelli. Eligio Trincheri della Volante
Rossa racconterà che alla Bezzi alcuni agenti di polizia sono stati
«totalmente disarmati» e «le armi sono sparite».
A Busto Arsizio e
a Varese sono devastate le sedi della Dc e — mettono in evidenza
Avagliano e Palmieri — i manifestanti «assalgono gli stabilimenti
carcerari per ottenere il rilascio di alcuni ex partigiani del luogo
precedentemente arrestati perché trovati in possesso di armi». A
Belluno, riferisce Peppino Zangrando, «alcuni ex partigiani della
brigata Pisacane giunsero in città con una motocarrozzella, a bordo
della quale trasportavano una mitragliera… Non fu facile convincerli a
tornarsene a casa». Ad Abbadia San Salvatore sul Monte Amiata l’episodio
più conosciuto: minatori in rivolta devastano le sedi della Dc,
occupano la centrale telefonica e tranciano i cavi; si spara, vengono
uccisi l’agente di polizia Giovambattista Carloni e il maresciallo
Virgilio Raniero. A Livorno viene ammazzato l’agente Giorgio Lanzi
(«peraltro», fanno notare gli autori, «un ex partigiano»); in quella
stessa città viene aggredito dai rivoltosi un pullman che trasportava un
gruppo di suore. Sedi Dc vengono assalite anche a Siena, Pistoia,
Pontassieve, Barletta e a Taranto, dove la polizia spara e uccide due
giovani di sinistra. A Salerno vengono prese d’assalto le sedi
dell’Azione cattolica e dei Volontari della Libertà. A Mirandola la
canonica. A Piombino tocca alla caserma dei carabinieri. A Napoli in
piazza Dante vengono uccisi due militanti comunisti ed è ferito
Francesco De Martino (futuro segretario del Psi). Gli scontri tra
manifestanti e poliziotti sono innumerevoli. A Roma il questore
riferisce d’essersi trovato al cospetto di una «folla d’invasati» e di
aver dato ordine di reagire «con decisione». Vengono colpite la deputata
comunista Elettra Pollastrini (che reagisce atterrando con un pugno un
agente) e Gina Martina Fanoli, che cerca invano di estrarre dalla borsa
il tesserino da parlamentare. Qualche botta in testa la riceve anche il
vicequestore Della Peruta, non riconosciuto da poliziotti ai quali lui
stesso poche ore prima aveva raccomandato di usare il manganello «senza
riguardi per nessuno». A Magliano Sabina vengono sequestrati e pestati
(dai manifestanti) un maresciallo e un carabiniere, Minolfo Masci,
accusati di essere «sgherri di Scelba, servi dello Stato, direttamente
responsabili dell’attentato a Togliatti e della morte dei compagni
caduti durante lo sciopero nelle varie città d’Italia». Il carabiniere
morirà a seguito delle percosse.
A fatica il Pci riesce a far
cessare gli scontri. Ma il 31 luglio a Bareggio, nella cintura milanese,
viene lanciata una bomba a mano contro la statua della Madonna
Pellegrina in processione. L’attentato provoca una trentina di feriti
tra cui molti bambini. Vengono arrestati sei giovani, cinque dei quali
iscritti al Pci (il sesto è un anarchico). «L’Unità» li condanna con
toni duri. Il 29 novembre a Roma in via del Pigneto verrà aggredito il
giovane dell’Azione cattolica Giulio Lalli, che morirà in ospedale. Il
16 luglio dell’anno successivo verrà arrestato il diciottenne Pietro
Nicoletti, che confesserà di essere l’autore dell’aggressione. È
iscritto al Pci.
Bilancio ufficiale: tra il 14 e il 16 luglio del
1948 restano sul terreno 16 morti, di cui 9 appartenenti alle forze
dell’ordine. Più 204 feriti, di cui 120 agenti. In seguito, tra il
luglio 1948 e la prima metà del 1950 si registreranno altri 62
lavoratori uccisi di cui 48 comunisti; 3.216 feriti, tra i quali 2.367
del Pci; 92.169 arrestati di cui 73.870 appartenenti al partito di
Togliatti. Il leader comunista, pur avendo tenuto — nei giorni in cui fu
ricoverato in ospedale — un atteggiamento esemplare, non si pacificò
mai del tutto con l’accaduto. Rimproverò ai dirigenti del proprio
partito di aver chiesto le dimissioni dell’intero governo guidato da De
Gasperi e non esclusivamente quelle del ministro dell’Interno;
quest’ultima, a suo dire, «sarebbe stata una richiesta non solo
plausibile, ma anche accettabile», dal momento che l’ipotesi era stata
prospettata persino dal titolare degli Esteri Carlo Sforza e dal suo
giovane sottosegretario Aldo Moro. Si soffermò, Togliatti, sulle
reazioni della polizia che ricordavano «i sistemi di rappresaglia dei
nazifascisti». E scrisse a Massimo Olivetti — fratello di Adriano,
nonché vicepresidente dell’azienda di famiglia — che non avrebbe potuto
partecipare ad un dibattito al quale era stato invitato, a causa i
postumi delle ferite provocate da «un sicario di quella classe a cui Lei
appartiene». Parole che, anche per essere state rivolte a un
imprenditore certo non reazionario, testimoniavano la persistenza di un
dubbio di Togliatti circa l’origine di quei colpi di pistola.