martedì 23 gennaio 2018

La Stampa 23.1.18
La differenza tra un rivoluzionario e un cialtrone
I ricordi dello scrittore, 50 anni fa chiamato a fare lezione nel Centro Sperimentale di Cinematografia occupato
di Andrea Camilleri


Il Sessantotto non l’ho vissuto in prima persona. In quegli anni avevo smesso di insegnare, lavoravo in Rai e mi dedicavo molto alla regia.
Nonostante gli impegni a teatro, tuttavia, ero molto interessato a ciò che accadeva nelle università. In quel momento era inevitabile essere coinvolti. Ricordo le prime occupazioni a Torino, anche se non ero protagonista del movimento né in contatto con esso, perché vivevo a Roma.
L’impressione che ebbi, già allora, era che il Sessantotto fosse arrivato esattamente al momento giusto, quando doveva venire. Si era giunti, almeno così percepivo io, a una sorta di esaurimento ideologico, di spossatezza e di indebolimento generale.
Grandi speranze
All’epoca, nel 1968 e negli anni immediatamente precedenti, si avvertiva una fiacchezza delle cose, come se tutto rallentasse e procedesse piano piano verso la sua fine, dalle istituzioni alle ideologie. E, in questi casi, come si suol dire, motus in fine velocior. Per questo i movimenti, incluso quello del Sessantotto, hanno un senso, per quanto probabilmente inconsapevole.
Anche i luoghi in cui tutto cominciò, le università, non furono casuali. Certo esse sono lo spazio del sapere, dove i giovani studiano e dove si formano gli intellettuali. Eppure i giovani si formano anche nei licei. La ragione per cui il Sessantotto iniziò nelle università risiede principalmente nel fatto che queste sono un simbolo, in primo luogo un centro di cultura, dove la cultura si pratica. Il Sessantotto non nasce operaio, nasce in un modo completamente diverso ed è proprio questa diversità che mi interessava. E non nascondo che vi riponevo grandi speranze.
Nel 1968 mi dividevo fra radio e televisione e avevo smesso di insegnare all’Accademia d’arte drammatica, perché avevo la responsabilità dei programmi di prosa che andavano in onda sul secondo canale televisivo come appuntamento fisso del venerdì. Dovevo occuparmi del cartellone e della produzione, dovevo cercare attori e registi ed ero veramente troppo preso dal mio lavoro in Rai per potermi dedicare anche all’insegnamento.
Fortezza assediata
Ero andato via qualche anno prima anche dal Centro sperimentale di cinematografia, dove avevo tenuto lezioni per anni.
Naturalmente, come succede in queste situazioni, ci furono effetti di ridondanza per cui anche il Centro sperimentale fu occupato dagli studenti. La situazione era un po’ diversa rispetto all’occupazione che ci fu in Accademia, dal momento che il Centro sperimentale possiede la cineteca nazionale, che è proprietà dello Stato. Pertanto, il tentativo di sgombero da parte della polizia fu quasi immediato. Esso tuttavia non riuscì, perché gli studenti resistettero e misero addirittura dei lucchetti molto grandi al cancello che rendevano difficile, a meno che non si usassero le armi, l’accesso agli agenti. Gli studenti non cacciarono via i professori, come capitò per esempio in Accademia, ma furono i professori a spaventarsi e ad andare via.
In quel momento il Centro era al massimo della capacità di recezione, accogliendo numerosissimi allievi tra registi, montatori, tecnici del suono e soprattutto aspiranti attori. Era in piena fioritura. In quei giorni divenne una fortezza assediata, anche perché era l’unica di queste istituzioni statali, come l’Accademia di danza o d’arte drammatica, ad avere la cucina. Gli studenti potevano beneficiare di una certa autonomia, potendo resistere benissimo per un po’ di giorni, cucinando alla meno peggio, senza esser obbligati a uscire.
A distanza di qualche tempo dall’inizio dell’occupazione, ricevetti una telefonata di Gian Maria Volonté, il quale, pur non avendo studiato al Centro ma all’Accademia, mi chiese se potevo riceverlo insieme a due studenti del Centro. Quando arrivarono, mi domandarono se volevo tenere qualche lezione, perché così si erano espressi gli studenti in assemblea. Accettai immediatamente, poiché questo mi avrebbe permesso di entrare in contatto con loro. Una cosa è leggere le informazioni sui giornali, altra è sentire direttamente le voci dei ragazzi e avere l’opportunità di vivere il movimento dall’interno. Perciò dissi loro che non il giorno seguente – perché avevo bisogno di un minimo di tempo per organizzarmi – ma quello dopo ancora sarei andato in mattinata al Centro.
Nessuno in classe
Già l’arrivo si rivelò più difficile del previsto, perché riuscire ad avvicinarsi fisicamente era un problema. La sede all’epoca era dalle parti di Cinecittà. Io ero in taxi, ma la strada di accesso era bloccata dalla polizia. Feci fermare il taxi qualche decina di metri più avanti, presi a piedi una deviazione laterale, scavalcai un muretto e me ne andai «per li campi», arrivando al Centro verso le nove meno dieci del mattino. Un ragazzo mi aprì il cancello, mi ricordo che fui impressionato dalla mole dei lucchetti. A quell’ora gli studenti dormivano. Andai in classe, non c’era nessuno. La mia lezione era prevista per le nove. Lo avevo detto ai ragazzi e avevo anche specificato in quale aula, perché era quella dove avevo insegnato anni prima. All’ingresso, su una parete, era appeso un grande orologio a muro, che serviva non solo a segnare le ore, ma anche a suonare un campanello per annunciare l’inizio e la fine delle lezioni. L’orologio era stato divelto e buttato in un angolo. Io aspettai fino alle 11, fumando una sigaretta dopo l’altra.
In fondo, quasi me lo aspettavo, perché, prima del Sessantotto, quando facevo lezione la mattina, i ragazzi arrivavano sempre assonnati. Potevo immaginare che durante l’occupazione, essendo tutti insieme nel centro, fosse molto probabile che non passassero la notte a dormire. E, infatti, non si presentò nessuno.
La frase sul tazebao
Mentre me ne stavo andando, arrivò un allievo, che mi chiese stupito perché me ne andassi. Gli risposi che la lezione era prevista per le nove e vista l’ora sarei andato via. C’era una sorta di tazebao, allora scrissi: «Andrea Camilleri è venuto, non ha trovato nessuno, torna domattina alle 9».
L’indomani mattina mi ripresentai, stavolta entrando da dietro, senza dover attraversare la polizia, perché mi avevano insegnato un’altra strada. Il primo studente si presentò che era quasi mezzogiorno. Allora scrissi sul tazebao questa frase, che ricordo benissimo: «Differenza fra un cialtrone e un rivoluzionario: il cialtrone rompe l’orologio segna tempo e, invece di presentarsi alle 9, arriva a mezzogiorno. Il rivoluzionario rompe l’orologio e, invece di presentarsi alle nove, arriva alle nove meno cinque». L’indomani erano tutti presenti alle nove.
Discussioni appassionate
Le lezioni furono molto belle, erano come una specie di rituale. Io non mi sedevo in cattedra, perché si stava seduti in terra, ma chiesi comunque ai ragazzi di darmi almeno una sedia. Comunicai loro che non avevo voglia di fare lezione, ma preferivo rispondere alle loro domande. E allora cominciammo a parlare di cinema e a dibattere di politica, ovviamente. Furono discussioni molto vivaci e appassionate. Ricordo un ragazzo che mi disse che secondo lui La corazzata Potëmkin era assolutamente sopravvalutata e non era un granché. Magari ce ne fossero di film così! E così lo analizzammo fotogramma per fotogramma: una discussione molto bella e molto seguita. Feci in tutto una quindicina di lezioni.