Il Fatto 23.1.18
Perché la cultura non conviene
di Silvia Truzzi
Victor
Hugo, davanti all’Assemblea costituente francese del 1848, spiegò: “Io
dico, signori, che le riduzioni proposte sul bilancio delle scienze,
delle lettere e delle arti, sono negative per due motivi. Sono
insignificanti dal punto di vista finanziario e dannose da tutti gli
altri punti di vista”. Questa solenne affermazione – da cui ci seperano,
inutilmente, 170 anni – ci è venuta in mente ieri leggendo un bel pezzo
di Nicola Lagioia su Repubblica.
Siamo in campagna elettorale –
scrive il direttore del Salone del libro di Torino – e tra le mille
promesse non ce n’è una che riguardi il rilancio di quella che lui
chiama “battaglia per la lettura”. E dire – prosegue – che molto si
potrebbe fare per il libro, a cominciare dalle biblioteche (comprese
quelle scolastiche per cui s’invoca l’introduzione di un bibliotecario
in ogni istituto, come accade in diversi Paesi europei). Siamo d’accordo
su tutto con Lagioia, tranne forse con il sentimento in cui ha intinto
la penna: la speranza. Attenuata, per la verità, da un dubbio di non
poco conto, per l’appunto a proposito della “battaglia per la lettura”:
“Sempre che chi aspira a governare la ritenga importante”. E qui la
risposta è facile, non tanto basandosi sulle dichiarazioni della più
inutile campagna elettorale di cui si abbia memoria, quanto su fatti e
politiche degli ultimi anni. I governi di centrodestra si possono
liquidare in poche righe: anche se davvero – come va ripetendo – Giulio
Tremonti non ha detto quando era ministro che “carmina non dant panem”,
resta il fatto che nei suoi anni al governo “a quel principio sempre si
attenne, come a un Vangelo privato”. Lo ha recentemente sottolineato
Salvatore Settis su questo giornale, ricordando i tagli al bilancio di
Beni culturali e Università e ricerca. Nel 2013 Pietro Greco e Bruno
Arpaia pubblicano La cultura si mangia, pamphlet in cui, oltre a fare le
pulci alle politiche dei tagli, mettono in luce come in questo campo la
Storia sia più che mai magistra: l’impero romano non sarebbe mai
diventato il centro del mondo senza la lingua, il diritto, la cultura.
Nel Rinascimento tutto il mondo legge letteratura italiana, ascolta
musica italiana, consentendo ai nostri banchieri di fare grandi affari. E
poi Franklin Delano Roosevelt: il presidente del New Deal, in
controtendenza rispetto al predecessore Hoover, investe enormemente
sulla cultura ottenendo risultati economicamente noti a tutti.
Il
2013 è anche l’anno del Forum del libro (Lagioia ricorda come quel
pacchetto di proposte sia rimasto lettera morta). Proprio intervenendo
al Forum del libro a Bari, il governatore di Bankitalia Ignazio Visco,
dice (citando Benjamin Franklin) che “Il rendimento dell’investimento in
conoscenza è più alto di quello di ogni altro. È la radice del
progresso umano e sociale, la condizione per lo sviluppo economico”.
Pochi giorni prima, un rapporto dell’Ocse aveva rivelato dati
sconvolgenti sul tasso di analfabetismo funzionale in Italia: ultimi
nelle competenze linguistiche, penultimi in quelle matematiche. Il 70%
degli adulti italiani risulta non in grado di comprendere adeguatamente
testi lunghi e complessi per elaborare le informazioni richieste, contro
il 49% della media dei 24 Paesi partecipanti. Livelli simili a quelli
dell’Italia immediatamente post unitaria quando l’analfabetismo era al
74 per cento. Il paragone lo fa Giovanni Solimine, docente di
biblioteconomia alla Sapienza e attento osservatore del mondo culturale,
in un interessante saggio per Laterza, Senza Sapere (2014). Dove si
dice anche: “Siamo talmente ignoranti da non comprendere quanto sia
grave e pericoloso il nostro livello di ignoranza, e da non correre ai
ripari”. Un grido d’allarme che è sempre più attuale se si pensa che
proprio il professor Solimine, nel maggio 2016 (un anno e mezzo dopo la
nomina) si è dimesso dal Consiglio superiore dei Beni culturali in
dissenso con le politiche (sostanzialmente assenti) del ministero di
Franceschini sulle biblioteche statali e i beni librari.
Quell’indagine
Ocse (identici i dati diffusi nel 2016) avrebbe dovuto spingere i
governanti a rivoluzionare completamente l’approccio al problema e farne
il primo punto dell’agenda. Ma forse non è un caso che le cose siano
andate diversamente: se i cittadini non sanno pensare perché non
incapaci di organizzare il pensiero, se hanno sempre meno strumenti
cognitivi, non capiscono cosa succede attorno a loro. Così sono inermi,
vittime di qualunque balla viene spacciata per verità (altro che
battaglia contro le fake news): un popolo ignorante è il principale
alleato di chi vuole schiavi e non cittadini liberi. Il pensiero critico
è un pericolo che una classe dirigente mediocre e opportunista non può
permettersi.