giovedì 18 gennaio 2018

La Stampa 18.1.18
“In nome di Allah” la fine del mondo è già arrivata
Il nuovo libro di Boualem Sansal è una radiografia del totalitarismo islamista. E fa più paura della realtà immaginata nel suo romanzo distopico2084
di Domenico Quirico


Boualem Sansal è algerino. I jihadisti, gli invasati della guerra santa li conosce, eccome. Addirittura dagli Anni 60. Dovremmo prestare più attenzione ai testimoni diretti della brulicante e sanguinaria mormorazione islamista, a chi li ha ascoltati dal vivo predicare, li ha visti uccidere, ne ha provato sulla pelle l’incomposto furore. Ci affidiamo invece alle fiabe di menti teoriche, sviate e imperterrite, intelletti leggeri che al più li conoscono, male, sui libri: l’islamismo, assicurano, è solo un rifugio per marginali delinquenti o per ignoranti di religione e di storia che si appigliano alla più orribile delle controculture a disposizione, li fermeremo con le promesse eterne dei centri commerciali…
A quell’epoca, dopo otto terribili anni di guerra contro i francesi tinti di massacro, Algeri era un luogo in rigogliosa e ideologica espansione, matrice vulcanicamente feconda di rivolte, trame, congiure, insurrezioni. All’aeroporto incontravi Che Guevara e i barbudos in bulimica ricerca di altre rivoluzioni da innescare, il generale Giap che aveva schiantato il colonialismo, Nasser, le americane Pantere nere e Malcolm X che lì chiamavano Malek el Shabbaz. Un tipo che si proponeva di polverizzare - niente meno! - l’imperialismo americano.
La Mecca delle rivoluzioni
Per la verità (ma questi non passavano nell’area dei vip della rivoluzione) potevi incrociare anche Carlos «lo sciacallo» professionista del terrore in cerca di clienti; e gruppi di irlandesi molto, molto discreti; e baschi che riconoscevi solo dall’intraducibile dialetto. Erano i messi dell’Ira e dell’Eta. Ripartivano con denaro esplosivi armi. Benvenuti ad Algeri la Mecca delle rivoluzioni! Tutta gente pericolosa ma laica, il loro sogno era il denaro o la palingenesi di popoli senza Stato che volevano diventare nazioni. I muezzin lanciavano appelli alla preghiera ma nessuno ci badava, non c’era tempo, bisognava affaccendarsi nella rivoluzione mondiale.
Eppure i profeti dell’altra rivoluzione, quella islamica, eran già lì. Arrivavano dal Medio Oriente, con barbe mosaiche, barracani, ciabatte, occhi spiritati, voci possenti. Erano soprattutto Fratelli musulmani, un po’ setta, un po’ partito, un po’ banda armata: in Egitto, in Siria, in Iraq, in Yemen (lì addirittura i governanti si proclamavano marxisti, altro che Allah!) faticavano a sfuggire alle galere, alla tortura, alle esecuzioni. Dio non era certo di moda nel mondo arabo, anzi mostragli una affezione esclusiva poteva, allora, costare danni e la vita.
In Algeria, racconta Sansal, non li presero sul serio, erano simpatici in fondo con le loro litanie coraniche e le minacce di castighi inappellabili per apostati e infedeli. Sembravano innocui, démodé. Li lasciarono predicare - suvvia, che potevano combinare in un Paese socialista dove le ragazze mettevano la minigonna e facevano il servizio militare? Dove dall’Europa tornavano gli emigrati per vedere e vivere la rivoluzione, quelli che chiamavano i «pieds rouges» che sostituivano i «pieds noirs», coloni partiti per la terribile scelta: o la valigia o la bara.
Venti anni, soltanto venti anni dopo... Che cosa sono venti anni nella Storia? Niente. Ebbene, osservate: il socialismo burocratico, marcio di corruzione e inefficienza, era già in frantumi. I bigotti, quei bigotti un po’ buffi, davano l’assalto al potere, avevano sostituito lo Stato nei servizi caritatevoli, portato l’ordine nei quartieri giustiziando i delinquenti, sfidavano ogni giorno lo Stato nelle strade con cortei, imponevano la virtù - chi fumava per esempio aveva le labbra tagliate. Fu quella la Primavera algerina, con venti anni di anticipo e la bandiera del profeta. Il potere pensò di stroncarla con un atto di forza e fu allora la guerra barbara che ha divorato vite innumerevoli. E sì, ad Algeri avevano davvero l’impressione di vivere la fine del mondo a porte chiuse.
Settant’anni di anticipo
Di Sansal è stato pubblicato in Italia nel 2016 da Neri Pozza un efficace e spietato romanzo sul futuro, 2084 la fine del mondo. Metafora dichiaratamente orwelliana in cui si immagina una teocrazia totalitaria che ha vinto: nell’Abistan sono cancellate tutte le miscredenze e vegeta l’uomo nuovo islamico. Lo stesso editore manda oggi in libreria un altro libro di Sansal, In nome di Allah, che non è romanzo, ma «riflessione di un testimone», meticolosa, quasi scolastica radiografia delle sfaccettature del fenomeno islamista. Ho letto i due libri: e mi sono accorto che fa più paura il resoconto della realtà che la utopica ricostruzione romanzesca. È come se Sansal, guardandosi attorno, si accorgesse che 2084 la fine del mondo si è già realizzata, con settant’anni di anticipo!
Come hanno fatto? Come hanno fatto a passare dalle galere e dalla marginalità di ottusi nostalgici del Medioevo a fondatori di califfati e eversori della geopolitica in vaste parti del mondo? Come fanno, mentre la cronaca diffonde ovunque di loro una immagine ripugnante, a conquistare sempre nuovi seguaci, ad ammaliare giovani, pastori uzbeki e laureati britannici, spacciatori maghrebini e pii alunni di madrasse pakistane, con l’epopea rivoluzionaria e le promesse di eternità, qui e ora? L’islamismo controlla e amministra milioni di uomini in varie parti del mondo. Signori! L’Abistan esiste già. Hanno conquistato il potere o sotto le vesti di califfato totalitario, con il kalashnikov e la jallabia, o sotto le spoglie di rassicurante islam conservatore, in giacca e cravatta. In Algeria li chiamano «Jekyll & Hyde».
All’ombra delle spade
Perché questa è la lezione di Sansal: il segreto dell’islamismo è il suo carattere maleficamente proteiforme o se volete politicamente duttile. I predicatori dell’apocalisse sanno essere ipocriti, si adattano a luoghi, tempi, circostanze e avversari con rabdomantica sottigliezza. Brandivano il pugnale o lo nascondono per diventare interlocutori affidabili, spariscono nella moschea per pregare e li ritrovi armati su un pick-up nel deserto. Come tutti i nemici della libertà sanno incatenare il pensiero. Costruiscono una moschea e quella diventa terra di islam, attorno sparisce subito tutto quello che per loro è proibito. In Algeria dove impugnavano negli Anni 90 il Corano gridando «per questo viviamo e per questo periremo», sconfitti sul campo, hanno firmato un patto segreto con gli oligarchi del potere petrolifero. I boia in nome di Allah camminano liberi per le strade guardando negli occhi i parenti delle loro vittime. E l’Algeria dei martiri laici del terzomondismo si è senza chiasso islamizzata.
Il segreto degli islamisti è quello che gli psicologi sociali chiamano la fusione di identità: mescolare quello che io sono con l’identità collettiva, quello che noi siamo. Questa fusione totale porta a una sensazione di invincibilità e alla volontà di sacrificarsi per gli altri. Sappiate che il paradiso è, purtroppo, all’ombra delle spade.