La Stampa 18.1.18
“In nome di Allah” la fine del mondo è già arrivata
Il
nuovo libro di Boualem Sansal è una radiografia del totalitarismo
islamista. E fa più paura della realtà immaginata nel suo romanzo
distopico2084
di Domenico Quirico
Boualem Sansal
è algerino. I jihadisti, gli invasati della guerra santa li conosce,
eccome. Addirittura dagli Anni 60. Dovremmo prestare più attenzione ai
testimoni diretti della brulicante e sanguinaria mormorazione islamista,
a chi li ha ascoltati dal vivo predicare, li ha visti uccidere, ne ha
provato sulla pelle l’incomposto furore. Ci affidiamo invece alle fiabe
di menti teoriche, sviate e imperterrite, intelletti leggeri che al più
li conoscono, male, sui libri: l’islamismo, assicurano, è solo un
rifugio per marginali delinquenti o per ignoranti di religione e di
storia che si appigliano alla più orribile delle controculture a
disposizione, li fermeremo con le promesse eterne dei centri
commerciali…
A quell’epoca, dopo otto terribili anni di guerra
contro i francesi tinti di massacro, Algeri era un luogo in rigogliosa e
ideologica espansione, matrice vulcanicamente feconda di rivolte,
trame, congiure, insurrezioni. All’aeroporto incontravi Che Guevara e i
barbudos in bulimica ricerca di altre rivoluzioni da innescare, il
generale Giap che aveva schiantato il colonialismo, Nasser, le americane
Pantere nere e Malcolm X che lì chiamavano Malek el Shabbaz. Un tipo
che si proponeva di polverizzare - niente meno! - l’imperialismo
americano.
La Mecca delle rivoluzioni
Per la verità (ma
questi non passavano nell’area dei vip della rivoluzione) potevi
incrociare anche Carlos «lo sciacallo» professionista del terrore in
cerca di clienti; e gruppi di irlandesi molto, molto discreti; e baschi
che riconoscevi solo dall’intraducibile dialetto. Erano i messi dell’Ira
e dell’Eta. Ripartivano con denaro esplosivi armi. Benvenuti ad Algeri
la Mecca delle rivoluzioni! Tutta gente pericolosa ma laica, il loro
sogno era il denaro o la palingenesi di popoli senza Stato che volevano
diventare nazioni. I muezzin lanciavano appelli alla preghiera ma
nessuno ci badava, non c’era tempo, bisognava affaccendarsi nella
rivoluzione mondiale.
Eppure i profeti dell’altra rivoluzione,
quella islamica, eran già lì. Arrivavano dal Medio Oriente, con barbe
mosaiche, barracani, ciabatte, occhi spiritati, voci possenti. Erano
soprattutto Fratelli musulmani, un po’ setta, un po’ partito, un po’
banda armata: in Egitto, in Siria, in Iraq, in Yemen (lì addirittura i
governanti si proclamavano marxisti, altro che Allah!) faticavano a
sfuggire alle galere, alla tortura, alle esecuzioni. Dio non era certo
di moda nel mondo arabo, anzi mostragli una affezione esclusiva poteva,
allora, costare danni e la vita.
In Algeria, racconta Sansal, non
li presero sul serio, erano simpatici in fondo con le loro litanie
coraniche e le minacce di castighi inappellabili per apostati e
infedeli. Sembravano innocui, démodé. Li lasciarono predicare - suvvia,
che potevano combinare in un Paese socialista dove le ragazze mettevano
la minigonna e facevano il servizio militare? Dove dall’Europa tornavano
gli emigrati per vedere e vivere la rivoluzione, quelli che chiamavano i
«pieds rouges» che sostituivano i «pieds noirs», coloni partiti per la
terribile scelta: o la valigia o la bara.
Venti anni, soltanto
venti anni dopo... Che cosa sono venti anni nella Storia? Niente.
Ebbene, osservate: il socialismo burocratico, marcio di corruzione e
inefficienza, era già in frantumi. I bigotti, quei bigotti un po’ buffi,
davano l’assalto al potere, avevano sostituito lo Stato nei servizi
caritatevoli, portato l’ordine nei quartieri giustiziando i delinquenti,
sfidavano ogni giorno lo Stato nelle strade con cortei, imponevano la
virtù - chi fumava per esempio aveva le labbra tagliate. Fu quella la
Primavera algerina, con venti anni di anticipo e la bandiera del
profeta. Il potere pensò di stroncarla con un atto di forza e fu allora
la guerra barbara che ha divorato vite innumerevoli. E sì, ad Algeri
avevano davvero l’impressione di vivere la fine del mondo a porte
chiuse.
Settant’anni di anticipo
Di Sansal è stato
pubblicato in Italia nel 2016 da Neri Pozza un efficace e spietato
romanzo sul futuro, 2084 la fine del mondo. Metafora dichiaratamente
orwelliana in cui si immagina una teocrazia totalitaria che ha vinto:
nell’Abistan sono cancellate tutte le miscredenze e vegeta l’uomo nuovo
islamico. Lo stesso editore manda oggi in libreria un altro libro di
Sansal, In nome di Allah, che non è romanzo, ma «riflessione di un
testimone», meticolosa, quasi scolastica radiografia delle sfaccettature
del fenomeno islamista. Ho letto i due libri: e mi sono accorto che fa
più paura il resoconto della realtà che la utopica ricostruzione
romanzesca. È come se Sansal, guardandosi attorno, si accorgesse che
2084 la fine del mondo si è già realizzata, con settant’anni di
anticipo!
Come hanno fatto? Come hanno fatto a passare dalle
galere e dalla marginalità di ottusi nostalgici del Medioevo a fondatori
di califfati e eversori della geopolitica in vaste parti del mondo?
Come fanno, mentre la cronaca diffonde ovunque di loro una immagine
ripugnante, a conquistare sempre nuovi seguaci, ad ammaliare giovani,
pastori uzbeki e laureati britannici, spacciatori maghrebini e pii
alunni di madrasse pakistane, con l’epopea rivoluzionaria e le promesse
di eternità, qui e ora? L’islamismo controlla e amministra milioni di
uomini in varie parti del mondo. Signori! L’Abistan esiste già. Hanno
conquistato il potere o sotto le vesti di califfato totalitario, con il
kalashnikov e la jallabia, o sotto le spoglie di rassicurante islam
conservatore, in giacca e cravatta. In Algeria li chiamano «Jekyll
& Hyde».
All’ombra delle spade
Perché questa è la
lezione di Sansal: il segreto dell’islamismo è il suo carattere
maleficamente proteiforme o se volete politicamente duttile. I
predicatori dell’apocalisse sanno essere ipocriti, si adattano a luoghi,
tempi, circostanze e avversari con rabdomantica sottigliezza.
Brandivano il pugnale o lo nascondono per diventare interlocutori
affidabili, spariscono nella moschea per pregare e li ritrovi armati su
un pick-up nel deserto. Come tutti i nemici della libertà sanno
incatenare il pensiero. Costruiscono una moschea e quella diventa terra
di islam, attorno sparisce subito tutto quello che per loro è proibito.
In Algeria dove impugnavano negli Anni 90 il Corano gridando «per questo
viviamo e per questo periremo», sconfitti sul campo, hanno firmato un
patto segreto con gli oligarchi del potere petrolifero. I boia in nome
di Allah camminano liberi per le strade guardando negli occhi i parenti
delle loro vittime. E l’Algeria dei martiri laici del terzomondismo si è
senza chiasso islamizzata.
Il segreto degli islamisti è quello
che gli psicologi sociali chiamano la fusione di identità: mescolare
quello che io sono con l’identità collettiva, quello che noi siamo.
Questa fusione totale porta a una sensazione di invincibilità e alla
volontà di sacrificarsi per gli altri. Sappiate che il paradiso è,
purtroppo, all’ombra delle spade.