La Stampa 18.1.18
L’ira di Abu Mazen
“Noi a Gerusalemme prima degli ebrei”
Il leader dell’Anp: i palestinesi discendono dai cananei
di Giordano Stabile
La
doppia mossa di Donald Trump ha messo nell’angolo il vecchio raiss. Abu
Mazen ha reagito con rabbia. A ogni discorso i toni, da increduli, sono
diventati sempre più duri. Un salto indietro di trent’anni, fino alla
ricusazione degli accordi di Oslo, del riconoscimento dello Stato
ebraico.
Ieri al Cairo, il presidente palestinese è tornato su una
vecchia tesi, quella della discendenza dei palestinesi dai cananei, che
vivevano a Gerusalemme «anche prima degli ebrei». Un muro posto davanti
a qualsiasi compromesso sulla Città Santa, riconosciuta dalla Casa
Bianca come capitale di Israele.
Abu Mazen, 83 anni il prossimo 26
marzo, è in un angolo. I maggiori alleati arabi, e Egitto e Arabia
Saudita, agiscono in accordo con gli Stati Uniti, anche se non lo
dicono.
Fra Hamas e Israele
Il nuovo piano di pace prevede
la rinuncia a Gerusalemme, e come capitale palestinese il sobborgo di
Abu Dis. I regimi filo-occidentali lavorano per convincere l’opinione
pubblica, e per il raiss sarebbe un suicidio buttarsi nelle braccia di
Iran o Turchia, sponsor dei suoi mortali rivali, prima di tutto Hamas. I
finanziamenti americani, come si è visto con il dimezzamento dei fondi
all’Unrwa, restano decisivi per la sopravvivenza dei palestinesi: un
terzo arrivano dagli Usa, un sesto da Riad.
Domenica a Ramallah
Abu Mazen ha denunciato il piano saudita e le decisioni di Trump come
«un schiaffo in faccia». Ma l’alternativa è ormai cedere a Israele o
cedere ad Hamas, avvallare la «Terza Intifada». Ieri al Cairo il raiss
ha cercato di uscire dall’angolo, ha denunciato «l’ipocrisia» dei
presidenti americani che fingono di «maledire i loro predecessori,
promettono, ma non danno nulla» e non sono più «mediatori credibili».
L’alternativa non si vede, una «conferenza di pace internazionale» che
sostituisca i negoziati bilaterali resta un miraggio.
Abu Mazen ha
bollato come un «peccato» il trasferimento dell’ambasciata americana.
Il richiamo alla sacralità di Gerusalemme non riesce però a mobilitare
le masse palestinesi, figuriamoci arabe. Un altro «schiaffo» Abu Mazen
lo ha ricevuto alla riunione della Lega araba ad Amman, quando il
ministro degli Esteri degli Emirati Abdullah bin Zayed al-Nahyan lo ha
accusato di non essere in grado di «difendere» la Città Santa. Pesa il
consenso, ormai bassissimo, per l’Autorità nazionale, accusata dai
giovani sempre più disillusi di corruzione e nepotismo, e di collaborare
con lo Shin Bet israeliano.
L’intesa sulla sicurezza
Il
punto è: finché regge l’intesa israelo-palestinese sulla sicurezza, la
Casa Bianca può osare. La rinuncia all’accordo sul controllo del
territorio metterebbe a rischio la stessa Autorità nazionale
palestinese, minacciata dagli islamisti. Nonostante i toni da guerra Abu
Mazen alla fine ha ribadito che la violenza non è un’opzione per far
valere i diritti dei palestinesi e che la «nostra posizione resta la
richiesta di uno Stato nei confini del 1967».
La narrativa può
tornare pure agli Anni Ottanta, ma secondo la Casa Bianca, rivela
l’analista del Washington Institute David Makovsky, «è soltanto un raid
preventivo», volto ad arginare le mosse di Washington e sperare di un
cambio della guardia in Israele nelle elezioni del 2019.