martedì 16 gennaio 2018

La Stampa 16.1.18
“Napoleone III ha imbavagliato la mia Francia”
Vanno all’asta domani a New York le lettere di Tocqueville all’amico Vivien, quasi un’anticipazione dello spleen di Baudelaire
di Fabio Sindici


La Francia intera per noi, in questo momento, è come una grande prigione, in cui l’ozio forzato, l’esclusione coatta, l’assenza di emozioni, di notizie, perfino di rumori, il silenzio universale abbattono lo spirito». C’è quasi una eco di disperazione baudelairiana nelle righe che Alexis de Tocqueville verga con calligrafia stretta, soffocata, in una lettera indirizzata all’amico Alexandre-Francois Vivien, datata 14 marzo 1853. È un’eco anticipata, perché la prima edizione delle poesie dei Fiori del male va alle stampe quattro anni più tardi. E non ci sono caratteri più diversi, opinioni e umori all’apparenza più distanti di quelli dell’autore della Democrazia in America e del cantore dello spleen parigino. Ma deve essere lo spirito del tempo.
La Seconda Repubblica è defunta da pochi mesi. Luigi Napoleone Bonaparte è il nuovo imperatore dei francesi con il nome di Napoleone III. Ancora prima di dichiarare la restaurazione dell’Impero, ha conquistato un potere semiassoluto, dopo il colpo di Stato militare del 2 dicembre 1851. La stampa è sottoposta a una censura ferrea, le rivolte popolari schiantate dall’esercito, decine di migliaia di oppositori, soprattutto in provincia, vengono imprigionati senza un reale processo, con lo strumento del giudizio amministrativo, e deportati in Algeria o alla Cayenna.
Charles Baudelaire scrive, con un ghigno al cianuro: «La grande gloria di Napoleone III sarà quella di aver provato che il primo venuto può, impadronendosi del telegrafo e della stamperia nazionale, governare un grande paese». Tocqueville, nella stessa missiva a Vivien, tratta il neo imperatore come un cospiratore subdolo, «che si è finto democratico, nascondendo le proprie origini napoleoniche». Un lupo travestito da agnello. C’è una sincerità piena di angosce che non è frequente nell’aristocratico liberale che ci tiene in genere a mostrare un certo distacco dalle preoccupazioni. La lettera fa parte di un gruppo di sedici, tutte destinate a Vivien, che andrà all’asta da Sotheby’s domani a New York con una stima tra i 60 mila e gli 85 mila euro. La corrispondenza, che va dal 1839 al 1854, è stata scoperta da poco ed è inedita, affermano gli specialisti di Sotheby’s. Non è solo uno scambio di pensieri tra due amici, due intellettuali.
Tocqueville e Vivien conoscono dall’interno i segreti del mondo politico e culturale francese dell’epoca. Il primo è stato membro dell’Assemblea Costituente nel 1848 e ministro degli Affari Esteri della Seconda Repubblica; il successo della Democratie en Amerique, nel 1835, gli ha dato fama di pensatore politico e di difensore della libertà. Il secondo aveva ricoperto la carica di ministro della Giustizia sotto Luigi Filippo e dei Lavori Pubblici nella Seconda Repubblica. Dopo il colpo di stato di Napoleone si ritrovano di colpo emarginati dalla vita pubblica.
«Provo una sorta d’impotenza che assomiglia a quella della prigionia, dove la noia, lo scoraggiamento, l’assenza di fatti nuovi, concorrono a rendermi improduttivo» scrive sempre Tocqueville a Vivien nel maggio del ’53, mentre pure lavora a L’Ancien Régime et la Révolution. In prigione, nel castello di Vincennes, c’era finito sul serio, anche se per pochi giorni, quando, con altri deputati, riuniti nel decimo arrondissement di Parigi, aveva tentato di far destituire Luigi Napoleone dalla carica di presidente, nelle ore successive al coup, con l’accusa di alto tradimento. Il visconte Alexis, a Vincennes, secondo quanto racconta Victor Hugo, giace sul pavimento, senza pagliericcio, malato, avvolto solo nel suo mantello. Da quel momento soffrirà di una salute altalenante, come ripete nella corrispondenza.
Nelle lettere a Vivien si vede come la diffidenza verso Luigi Napoleone inizi già dal tempo dell’affaire Lesseps e con il tradimento verso la Repubblica Romana. Ferdinand de Lesseps era stato infatti inviato come ambasciatore a Roma per trattare una tregua e assicurare l’amicizia della Francia, mentre il generale Oudinot aspettava rinforzi per attaccare. La corruzione dell’esercito, per Tocqueville, è il primo intrigo del presidente. Il nuovo potere pare al nipote dei Lumi - più che un positivista era un erede di Voltaire e Rosseau - come goffo e terribile. È una prova concreta del totalitarismo la cui ombra lo ha spaventato fin dai giorni americani, in cui meditava sul difficile equilibrio tra libertà e uguaglianza. In realtà, la stretta del Bonaparte sulla Francia è dura soprattutto nei primi tempi. Tocqueville lo accusa di aver sfruttato la «paura del 1852», ovvero delle previste prossime elezioni, e della impossibile vittoria dei socialisti. Però non ricorda che come esponente del conservatore parti de l’ordre aveva provato la stessa paura e appoggiato le repressioni del generale Cavaignac. A Vivien confessa di temere un futuro incerto dopo la caduta dell’imperatore. Nei diari dell’economista inglese Nassau William Senior, Tocqueville lancia una frase di elegante scoramento all’amico d’oltremanica: «Dio vi preservi dagli errori che portano alle rivoluzioni e alle rivoluzioni che finiscono in mascherate». Ha un suono più letterario che politico.
L’uomo politico, nei suoi ultimi anni (muore nel ’59), pare aver perso il suo fiuto, almeno nel breve termine. Vede l’Austria sicura in Italia, la Prussia come potenza di second’ordine. È molto più fine nell’analisi del costume e della società culturale. Nel maggio del ’53, affacciato al balcone dell’appartamento di Nassau su rue de Rivoli, guardando lo spettacolo delle donne eleganti e degli splendidi equipaggi sulla via, ammette, a denti stretti, «di non aver mai visto Parigi così animata e prospera». Ma allo stesso tempo denuncia la speculazione dietro le spese folli per rifare la capitale. In un’altra lettera a Vivien nell’ottobre dello stesso anno descrive l’atteggiamento della cultura di fronte al nuovo padrone della Francia: «Il mondo letterario, per lo più, è ostile al governo attuale. Tra i grandi talenti, non conosco che Saint Beuve e Merimée che abbiano osato indossare la livrea del nuovo potere, e quanto agli uomini nuovi delle lettere non vedo nessuno che si accosti all’Impero». Victor Hugo è in esilio. Il 1857 è l’anno dei tre più clamorosi processi di censura letteraria della storia: sul banco degli imputati siedono tre libri: I Fiori del Male di Charles Baudelaire, Madame Bovary di Gustave Flaubert, i Misteri del Popolo di Eugène Sue. Il grande accusatore è il procuratore imperiale Ernest Pinard. Il «silenzio universale» di Tocqueville suona straziante come le campane urlanti e i funerali senza tamburi né bande che chiudono lo Spleen di Baudelaire.