Corriere 16.1.18
Novecento L’opera educativa di un giovane
della Galizia orientale, arruolato nell’esercito britannico, viene
ricostruita in un saggio di Sergio Luzzatto (Einaudi)
Gli orfani che costruirono Israele
Ragazzi sfuggiti alla Shoah furono restituiti alla vita sui monti di Bergamo da Moshe Zeiri
di Pierluigi Battista
Era
il 1945 e lui, Moshe Zeiri, il giovane ebreo della Galizia orientale
che già anni prima aveva lasciato il mondo antico dello shtetl in lingua
yiddish per inseguire il sogno della rigenerazione ebraica in
Palestina, raccolse tra i monti di Selvino, non lontano da Bergamo, gli
«orfani della Shoah». Orfani di tutto, scampati allo sterminio dei loro
genitori e dell’intera loro famiglia, in fuga dalla deportazione, dalla
morte, dall’orrore, dalla devastazione del mondo schiacciato dalle orde
naziste. Centinaia di orfani, laceri e affamati, che Moshe Zeiri,
soldato volontario nel Genio militare britannico che aveva attraversato
l’Italia dalla Puglia fino al Nord per combattere i tedeschi, aveva
restituito a nuova vita per prepararli alla aliyah , alla «risalita» in
terra di Israele, dove si forgiava l’ebreo «nuovo», combattente,
vigoroso, sicuro di sé. È la storia, appassionante e sconvolgente
insieme, che Sergio Luzzatto racconta nel suo nuovo libro I bambini di
Moshe in uscita oggi per Einaudi.
Selvino non è località molto
conosciuta. Ma neanche la storia degli «orfani della Shoah» lo Eppure è
sorprendente che qui in Italia, in un edificio chiamato «la casa di
Mussolini», centinaia di bambini provenienti dal cuore dell’inferno
siano stati restituiti alla vita, rifocillati, istruiti, educati in
attesa che una nave li portasse in Israele: che in quegli anni non era
ancora lo Stato di Israele riconosciuto da una risoluzione Onu che ne
autorizzava la costruzione assieme a uno Stato palestinese, risoluzione
che gli ebrei di Palestina riconosceranno, ma gli arabi no. Non era
ancora Stato di Israele e i britannici che avevano il mandato in
Palestina con la dissoluzione dell’Impero ottomano avevano fissato quote
severissime per l’arrivo degli ebrei europei sopravvissuti
all’Olocausto (come è testimoniato dalla vicenda della nave «Exodus»,
conosciutissima anche per via del film che ne ha immortalato la storia).
Una
storia che ha dell’incredibile, ma che pure testimonia
dell’irriducibile complessità di un percorso di dolore estremo e di
redenzione che intreccia inesorabilmente tragedie e rinascite, orrori e
ideali, disperazione e senso di una nuova missione.
La storia
dello stesso Moshe, per cominciare. Luzzatto ha trovato nella ricca
documentazione che la figlia di Moshe ha consegnato alle cure preziose e
meticolose dello Yad Vashem, il museo che a Gerusalemme custodisce le
memorie dello sterminio, fotografie e testimonianze di un’antica
famiglia ebrea della Galizia orientale, con quei vestiti, quegli sguardi
che raccontano un mondo lontano e svanito. Una vicenda umana ed
esistenziale, un’archeologia del sionismo, che ricalca in modo
impressionante quella scolpita nella memoria di chi ha letto Storia di
amore e di tenebra , il capolavoro di Amos Oz. La vicenda di una
tradizione che i giovani nati agli albori del Novecento sentivano come
una prigione angusta e che, infiammati dal mito palingenetico sionista
coniato da Theodor Herzl, volevano lasciarsi alle spalle in una terra da
redimere con il lavoro, la fatica, la comunità. Era la mitologia, prima
ancora dell’ideologia, del kibbutz , che ha plasmato il sionismo e ha
spinto tanti giovani imbevuti di patriottismo ebraico, stanchi di
persecuzioni e rassegnazioni, ad avventurarsi nel mondo nuovo, che poi
era il mondo antico da rievocare attraverso lo spirito di missione.
Un
mondo duro e aspro. Nella comunità dei sabra , degli ebrei nati nelle
terre che poi costituiranno il nerbo dello Stato di Israele, si
coltivava una certa diffidenza verso il mondo della diaspora che non
aveva saputo opporsi alla discriminazione e alla persecuzione, ai pogrom
e ai mille soprusi che gli ebrei, specialmente dell’Est europeo,
subivano e che avevano scatenato l’impulso sionista di Herzl. E si
arrivò, proprio nel mezzo della tempesta dell’Olocausto, a diffidare se
non addirittura a disprezzare gli ebrei che non avevano combattuto e che
si erano fatti portare al macello come docili pecore. Luzzatto
sottolinea come spesso in quella terribile temperie della storia venisse
usata, con una durezza che lascia senza fiato, l’espressione «materiale
umano», generalmente ritenuto scadente, degli ebrei europei che dopo
l’apocalisse si sarebbero recati in terra di Israele.
Chi ha letto
gli scritti di Aharon Appelfeld, scomparso il 3 gennaio scorso, ha già
avuto modo di conoscere il senso di angoscia e persino di vergogna che
ha agitato i superstiti dell’Olocausto nella retorica bellica della
nuova Israele, che stava plasmando il nuovo ebreo reso più forte dal
lavoro e dal fucile. La scuola degli «orfani della Shoah» di Moshe è
stata anche una scuola per educare quei bambini, schiacciati dal peso
insopportabile della storia, al senso di una nuova vita, completamente
differente da quella, costellata di macerie e di lutti, lasciata nella
catastrofe europea. Grazie a quei bambini e al «materiale umano»
sopravvissuto alla Shoah, Israele potè rinvigorire la sua presenza nelle
terre della storia ebraica. E quando scoppiò il conflitto con gli Stati
arabi che avevano spinto i palestinesi a rifiutare il doppio
insediamento statale in quelle terre, quei ragazzi, quei sopravvissuti
diedero un contributo anche militare decisivo. E poiché in quella guerra
ci furono atrocità, villaggi rasi al suolo, morti tra i civili,
tentazioni di pulizia etnica, anche chi era venuto dall’Europa fu
protagonista di eroismi, ma anche di molti orrori, che Luzzatto elenca
con freddezza non indulgente.
Nella scuola di Moshe si insegnò
agli orfani della Shoah la ricostruzione di un’identità infranta, la
salvaguardia di una cultura che non era svanita nelle camere a gas, lo
studio dei testi e la lingua di un popolo che aveva attraversato i
millenni, la necessità del lavoro duro, la forza della coesione
socialista attraverso i kibbutz , ma anche l’etica dell’autodifesa, il
vincolo di un «mai più» che spiega tante caratteristiche degli ebrei che
nel loro Stato hanno riconosciuto il baluardo per non vedere altri
«orfani della Shoah», raccolti e salvati da Moshe Zeiri, una vita spesa
per gli ideali del sionismo.