«La parola chiave è: “Simultaneo”»
Repubblica 31.1.18
Guarire dalla fretta
Elogio dell’attesa nell’era WhatsApp
di Marco Belpoliti
Non
sappiamo più attendere. Tutto è diventato istantaneo, in “tempo reale”,
come si è cominciato a dire da qualche anno. La parola chiave è:
“Simultaneo”. Scrivo una email e attendo la risposta immediata. Se non
arriva m’infastidisco: perché non risponde? Lo scambio epistolare in
passato era il luogo del tempo differito. Le buste andavano e arrivavano
a ritmi lenti. Per non dire poi dei sistemi di messaggi istantanei cui
ricorriamo: WhatsApp. Botta e risposta. Eppure tutto intorno a noi
sembra segnato dall’attesa: la gestazione, l’adolescenza, l’età adulta.
C’è un tempo per ogni cosa, e non è mai un tempo immediato. Il libro in
cui il fisico Carlo Rovelli spiega cos’è il tempo ( L’ordine del tempo,
Adelphi) inizia così: «Mi fermo e non faccio nulla.
Non succede nulla. Non penso nulla. Ascolto lo scorrere del tempo. Questo è il tempo.
Famigliare
e intimo». Alla fine Rovelli ci dice che per la fisica quello che non
esiste è proprio il presente, la dimensione della realtà cui siamo tutti
legati.
“Attendere” significa rivolgere l’animo verso qualcosa. I
suoi significati implicano ascolto, attenzione, applicazione, mantenere
la parola data. La giornalista tedesca Andrea Köhler in L’arte
dell’attesa (add editore), uscito da poco, ci ricorda come nel più
grande vocabolario tedesco, il Dizionario Grimm, la locuzione “attendere
qualcosa” compare solo nel XIV secolo, e per almeno quattro secoli non
contiene complementi che manifestano il tormento d’attendere. Sarà il
Romanticismo, e Goethe in particolare, a definire l’attesa «con
desiderio», «con impazienza» e persino «con dolore». L’attesa d’amore
comincia allora, ma è già un’altra storia, come ha spiegato Roland
Barthes in Frammenti di un discorso amoroso: «Sono innamorato? — Sì,
perché sto aspettando». L’innamorato sa attendere, ne conosce la
passione e il tormento, come argomenta lo scrittore francese, perché il
tempo dell’attesa è un tempo soggettivo, che confina con la noia e con
il tedio. Lo scrittore austriaco Alfred Polgar l’ha detto in modo
icastico: «Quando, alle dieci e mezzo, guardai l’orologio, erano solo le
nove e mezzo». Attendere significa non solo fremere, ma anche annoiarsi
e Walter Benjamin ha sottolineato come questa attesa sia piena di
promesse, ovvero creativa, dal momento che la noia è «l’uccello
incantato che cova l’uovo dell’esperienza».
Chi ha oggi tempo di
attendere e di sopportare la noia? Tutto e subito. È evidente che la
tecnologia ha avuto un ruolo fondamentale nel ridurre i tempi d’attesa, o
almeno a farci credere che sia sempre possibile farlo.
Certo a
partire dall’inizio del XIX secolo tutto è andato sempre più in fretta.
L’efficienza compulsiva è diventato uno dei tratti della psicologia
degli individui. Chi vuole aspettare o, peggio ancora, perdere tempo?
Hartmut Rosa, un sociologo tedesco, ha spiegato come funziona questo
processo contemporaneo in Accelerazione e alienazione (Einaudi). Rosa
ritiene che il motore di tutto questo non sia tanto la tecnologia, che
pure vi contribuisce, ma la competizione sociale: risparmiare tempo è
uno dei modi più sicuri per partecipare alla grande competizione in
corso nelle società occidentali. Sarebbe la circolazione sempre più
rapida del denaro, creata dal capitalismo finanziario, a determinare
l’accelerazione. Eppure ci sono ancora tanti tempi morti: «Si prega di
attendere» è la risposta che danno i numeri telefonici che componiamo
quasi ogni giorno.
Aspettiamo nelle stazioni, negli aeroporti,
agli sportelli, sia quelli reali che virtuali. Attendiamo sempre, eppure
non lo sappiamo più fare. Come minimo ci innervosiamo. L’attesa provoca
persino rancore. Pensiamo: non si può fare più velocemente? Anche se
chi organizza lo spazio dell’attesa — medico, avvocato, centro clinico —
possiede i mezzi economici per renderlo piacevole, risulta comunque
qualcosa d’irrisolto, d’interstiziale.
La verità è che noi non
sopportiamo queste zone intermedie, gli spazi e i tempi in cui siamo
costretti a esercitare la pazienza. Aspettare è vissuto come
un’imposizione. I potenti fanno sempre attendere, dilatano il tempo
d’attesa e mettono a dura prova.
Perché è così insopportabile?
Perché
siamo diventati intolleranti, perché non sappiamo guardare al tempo
futuro, perché non sappiamo differire. La verità è che l’attesa ha a che
fare con l’unica cosa che ci spaventa davvero: la nostra morte.
Nell’attesa si sperimenta il tempo vuoto, che è l’immagine di un tempo futuro, quello vuoto di noi.
Senza
di noi. Per i filosofi, da Kierkegaard a Heidegger, questa sarebbe
l’apertura verso l’autenticità, verso il pensare profondo. Acceleriamo
per questo, riempiamo il tempo perché temiamo l’horror vacui.
Kafka,
Blanchot, Beckett, Handke e molti altri ce l’hanno detto. In Aspettando
Godot dice Vladimiro: «Questo ci ha fatto passare il tempo». «Sarebbe
passato lo stesso», gli risponde Estragone.