mercoledì 31 gennaio 2018

«La parola chiave è: “Simultaneo”»
Repubblica 31.1.18
Guarire dalla fretta
Elogio dell’attesa nell’era WhatsApp
di Marco Belpoliti


Non sappiamo più attendere. Tutto è diventato istantaneo, in “tempo reale”, come si è cominciato a dire da qualche anno. La parola chiave è: “Simultaneo”. Scrivo una email e attendo la risposta immediata. Se non arriva m’infastidisco: perché non risponde? Lo scambio epistolare in passato era il luogo del tempo differito. Le buste andavano e arrivavano a ritmi lenti. Per non dire poi dei sistemi di messaggi istantanei cui ricorriamo: WhatsApp. Botta e risposta. Eppure tutto intorno a noi sembra segnato dall’attesa: la gestazione, l’adolescenza, l’età adulta. C’è un tempo per ogni cosa, e non è mai un tempo immediato. Il libro in cui il fisico Carlo Rovelli spiega cos’è il tempo ( L’ordine del tempo, Adelphi) inizia così: «Mi fermo e non faccio nulla.
Non succede nulla. Non penso nulla. Ascolto lo scorrere del tempo. Questo è il tempo.
Famigliare e intimo». Alla fine Rovelli ci dice che per la fisica quello che non esiste è proprio il presente, la dimensione della realtà cui siamo tutti legati.
“Attendere” significa rivolgere l’animo verso qualcosa. I suoi significati implicano ascolto, attenzione, applicazione, mantenere la parola data. La giornalista tedesca Andrea Köhler in L’arte dell’attesa (add editore), uscito da poco, ci ricorda come nel più grande vocabolario tedesco, il Dizionario Grimm, la locuzione “attendere qualcosa” compare solo nel XIV secolo, e per almeno quattro secoli non contiene complementi che manifestano il tormento d’attendere. Sarà il Romanticismo, e Goethe in particolare, a definire l’attesa «con desiderio», «con impazienza» e persino «con dolore». L’attesa d’amore comincia allora, ma è già un’altra storia, come ha spiegato Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso: «Sono innamorato? — Sì, perché sto aspettando». L’innamorato sa attendere, ne conosce la passione e il tormento, come argomenta lo scrittore francese, perché il tempo dell’attesa è un tempo soggettivo, che confina con la noia e con il tedio. Lo scrittore austriaco Alfred Polgar l’ha detto in modo icastico: «Quando, alle dieci e mezzo, guardai l’orologio, erano solo le nove e mezzo». Attendere significa non solo fremere, ma anche annoiarsi e Walter Benjamin ha sottolineato come questa attesa sia piena di promesse, ovvero creativa, dal momento che la noia è «l’uccello incantato che cova l’uovo dell’esperienza».
Chi ha oggi tempo di attendere e di sopportare la noia? Tutto e subito. È evidente che la tecnologia ha avuto un ruolo fondamentale nel ridurre i tempi d’attesa, o almeno a farci credere che sia sempre possibile farlo.
Certo a partire dall’inizio del XIX secolo tutto è andato sempre più in fretta. L’efficienza compulsiva è diventato uno dei tratti della psicologia degli individui. Chi vuole aspettare o, peggio ancora, perdere tempo? Hartmut Rosa, un sociologo tedesco, ha spiegato come funziona questo processo contemporaneo in Accelerazione e alienazione (Einaudi). Rosa ritiene che il motore di tutto questo non sia tanto la tecnologia, che pure vi contribuisce, ma la competizione sociale: risparmiare tempo è uno dei modi più sicuri per partecipare alla grande competizione in corso nelle società occidentali. Sarebbe la circolazione sempre più rapida del denaro, creata dal capitalismo finanziario, a determinare l’accelerazione. Eppure ci sono ancora tanti tempi morti: «Si prega di attendere» è la risposta che danno i numeri telefonici che componiamo quasi ogni giorno.
Aspettiamo nelle stazioni, negli aeroporti, agli sportelli, sia quelli reali che virtuali. Attendiamo sempre, eppure non lo sappiamo più fare. Come minimo ci innervosiamo. L’attesa provoca persino rancore. Pensiamo: non si può fare più velocemente? Anche se chi organizza lo spazio dell’attesa — medico, avvocato, centro clinico — possiede i mezzi economici per renderlo piacevole, risulta comunque qualcosa d’irrisolto, d’interstiziale.
La verità è che noi non sopportiamo queste zone intermedie, gli spazi e i tempi in cui siamo costretti a esercitare la pazienza. Aspettare è vissuto come un’imposizione. I potenti fanno sempre attendere, dilatano il tempo d’attesa e mettono a dura prova.
Perché è così insopportabile?
Perché siamo diventati intolleranti, perché non sappiamo guardare al tempo futuro, perché non sappiamo differire. La verità è che l’attesa ha a che fare con l’unica cosa che ci spaventa davvero: la nostra morte.
Nell’attesa si sperimenta il tempo vuoto, che è l’immagine di un tempo futuro, quello vuoto di noi.
Senza di noi. Per i filosofi, da Kierkegaard a Heidegger, questa sarebbe l’apertura verso l’autenticità, verso il pensare profondo. Acceleriamo per questo, riempiamo il tempo perché temiamo l’horror vacui.
Kafka, Blanchot, Beckett, Handke e molti altri ce l’hanno detto. In Aspettando Godot dice Vladimiro: «Questo ci ha fatto passare il tempo». «Sarebbe passato lo stesso», gli risponde Estragone.

Repubblica 31.1.18
Un Atlante delle emozioni umane, edito in Italia da Utet
Il dizionario dell’anima dimmi cosa provi e ti dirò chi davvero sei
di Alessandra Balla


Atlante delle emozioni umane di Tiffany Watt Smith Da domani in edicola (a richiesta) con Repubblica, a 9,90 euro più il prezzo del giornale. Un dizionario completo dei nostri modi di sentire: “156 emozioni che hai provato, che non sai di aver provato, che non proverai mai”, recita il sottotitolo. La traduzione è di Violetta Bellocchio

Awumbuk, gezelligheid, kaukokaipuu. Parole incomprensibili? Certo.
Ma anche stati d’animo che forse abbiamo provato almeno una volta nella vita, e a cui finora non sapevamo dare un nome. Ed è proprio per colmare questo vuoto che Tiffany Watt Smith, storica culturale e ricercatrice presso il Centre for the History of the Emotions di Londra, ha scritto un Atlante delle emozioni umane, edito in Italia da Utet e da domani (primo febbraio) in edicola con Repubblica, a 9,90 euro più il prezzo del giornale. Si chiama atlante, in realtà è un dizionario, accattivante nella forma ed esaustivo nei contenuti, in cui l’autrice cataloga 156 emozioni raccolte in luoghi, culture e società diverse.
Una geografia dei sentimenti in cui ci si muove tra storia, letteratura e antropologia: il risultato è un quadro accurato di tutte quelle sensazioni, spesso familiari, che però non siamo in grado di decifrare e riconoscere.
Qui invece scopriamo che proprio per quello specifico stato d’animo in un’altra parte del mondo c’è un termine pronto a identificarlo.
Scorrendo tra i lemmi – oltre alle emozioni note come rabbia, odio e amore – troviamo, ad esempio, awumbuk: il senso di vuoto che rimane dopo la partenza di un ospite. Deriva da una credenza della tribù Baining che vive sulle montagne della Papua Nuova Guinea. Secondo quel popolo l’ospite che se ne va lascia dietro di sé una sorta di pesantezza, che si tramuta in malinconia per chi resta. E ancora l’emozione che prende il nome di broodiness, termine che l’Oxford English Dictionary associò alle donne solo negli anni Ottanta. Prima era utilizzato esclusivamente per il pollame perché letteralmente significa “istinto alla cova”, poi è diventato in senso più ampio “desiderio di maternità”. Oppure gezelligheid, che i danesi identificano con una sensazione di conforto, o la parola kaukokaipuu che in finlandese rappresenta la nostalgia di un luogo remoto, dove non si è mai stati. E così via, fino all’ultima lettera dell’alfabeto.
Ma che cosa sono le emozioni?
Tiffany Watt Smith scrive che la risposta non si trova solo nella biologia o nella storia personale di un individuo. Noi siamo condizionati dall’esterno: dal linguaggio, dalle convinzioni religiose, dalle mode, dalla politica e dall’economia.
Anche il valore e la percezione di ogni stato d’animo variano in base alla cultura e al tipo di società.
Una ricerca antropologica, psicologica e sociologica a 360 gradi. Ma l’Atlante non è solo una storia culturale dei sentimenti: è anche una guida affascinante, con mille spigolature spesso divertenti. Perché è la curiosità la bussola dell’intero lavoro.
Tiffany Watt Smith non tralascia alcun dettaglio, passa dagli studi scientifici sulle emozioni a piacevoli aneddoti che stuzzicano il lettore. Vincendo la sfida di dare un nome a tutto quel che accade nella nostra mente.

Corriere 31.1.18
Strasburgo, i giudici: “Sì a Gesù e Maria nelle pubblicità”
Lo spot con Maria e Gesù tatuati Per la Corte Ue è libertà di espressione
Casa di moda lituana multata per «offesa alla morale». Strasburgo ribalta il verdetto
Salvini: “Sono indignato!”
di Luigi Offeddu


«Madonna, che vestito!». «Gesù, che jeans!». «Gesù e Maria, che cosa state indossando?». E sullo sfondo delle scritte le immagini di un Cristo tatuato, con i jeans abbassati sui fianchi, e di una Madonna sbracciata, incoronata di fiori in stile hippie. Gli slogan pubblicitari campeggiavano nel 2013, e da domani probabilmente campeggeranno ancora, sui manifesti di una nota casa di moda lituana, la Sekmaniedis Ltd., multata dal governo di Vilnius per «offesa alla pubblica morale». Quel verdetto è stato appena ribaltato dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo: scritte e immagini, dice la sentenza che sigilla il caso protocollato con il numero 69317/14, «non appaiono gratuitamente offensive o profane, né sembrano incitare l’odio sulla base di una credenza religiosa, o attaccare una fede in modo immeritato o abusivo». Non sarebbero dunque «dissacranti».
Conclusione della Corte, dopo varie altre considerazioni: è stata violata la libertà d’espressione della casa di moda, che aveva fatto ricorso a Strasburgo, e la multa di 580 euro che le era stata appioppata dall’Autorità per la protezione dei diritti dei consumatori dovrà esserle restituita. Più precisamente, le decisioni prese a suo tempo da Vilnius «provano che è stata data priorità totale alla protezione dei sentimenti delle persone religiose, senza prendere adeguatamente in considerazione il diritto alla libertà d’espressione». Mentre avrebbe dovuto essere raggiunto «un giusto equilibrio tra protezione della morale pubblica e diritti delle persone religiose da una parte e diritto alla libertà d’espressione dell’azienda dall’altra».
Insomma: definire «inappropriato» e «superficiale» l’uso di immagini religiose al di fuori del loro contesto, come avevano fatto appunto le autorità lituane, non basta a giustificare la condanna morale, e neppure la multa. «Accogliamo la decisione favorevole, ma né allora né adesso voglio offendere o ridicolizzare le persone che credono a questa o quella religione», è stato il primo commento dello stilista Robert Kalinkin, capo creativo dell’azienda.
La sentenza non sarà senza strascichi. E i primi si sono già avuti in Italia. Matteo Salvini, candidato premier della Lega, attacca i giudici di Strasburgo: la loro, dice, «più che Corte per i diritti umani dovrebbe chiamarsi Corte islamica. Sono indignato. Se invece di Gesù e Maria nudi e tatuati usati per vendere ci fosse stato Maometto avremmo già assistito all’assalto alle ambasciate. Per me non si scherza su alcun simbolo e figura religiosa». Gli fa eco il collega di partito Roberto Calderoli: «Da questa Europa di tecnocrati lontani anni luce dal comune sentire del popolo arriva l’ennesima offesa alla nostra storia».

Repubblica 31.1.18
La sentenza
Gesù e Maria testimonial sul mercato
di Marino Niola


Marino Niola è antropologo della contemporaneità Insegna all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Il suo libro più recente è “Il presente in poche parole” (Bompiani, 2016)

Gesù e Maria testimonial del dio mercato? È cosa buona e giusta. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha legittimato l’uso dei simboli religiosi in pubblicità e condannato la Lituania per aver multato un’azienda che nel 2012 aveva usato le immagini di Cristo e della Vergine per una campagna promozionale. Lui in jeans attillatissimi, tatuaggi al punto giusto, un po’ hippie un po’ hipster. Lei, coronata di fiori, con un candido vestitino bon ton, un rosario fra le mani mentre fissa l’obiettivo con incanto virginale. Gli slogan, in verità, suonano più scemi che blasfemi. “Gesù, che pantaloni!”, “Cara Maria, che vestito!”. Per finire con “Gesù e Maria, cosa indossate!”. Una giaculatoria commerciale per far desiderare un jeans da dio e un abito della Madonna.
La pubblicità aveva suscitato proteste, coinvolgendo anche la Conferenza episcopale lituana e l’Agenzia nazionale per la difesa dei diritti dei consumatori.
Che aveva condannato l’azienda a 580 euro di multa per violazione della morale pubblica e offesa alla religione.
Ma il verdetto della Repubblica baltica ieri è stato ribaltato dalla Corte europea.
I giudici di Strasburgo hanno sentenziato che le immagini dei sacri testimonial «non sembrano essere gratuitamente offensive o profane». Né incitano all’odio.
E ancor meno sono contrarie alla morale pubblica. I togati della Comunità hanno criticato le autorità di Vilnius per aver affermato che le pubblicità «promuovevano uno stile di vita incompatibile con i principi di una persona religiosa». Ma, in realtà, non hanno spiegato in cosa consista questo stile di vita. Né dove sia l’incompatibilità con i principi dell’homo religiosus.
Un profilo peraltro difficile da definire.
E qui i giurati europei hanno affondato il colpo, rilevando che il solo gruppo religioso consultato per dire la sua sul caso è stato quello cattolico. Trasformato così nel paradigma unico per definire l’ortodossia, pubblicitaria e non.
La questione è solo apparentemente frivola. Perché in realtà non si tratta solo di fashion. In fondo per l’azienda sarebbe stato più facile pagare quella bazzecola di ammenda. Invece in difesa del designer Kalinkin è sceso in campo lo Human rights monitoring institute. Che ne ha fatto una questione di principio per affermare la libertà di espressione. Dimostrando che abiti e abitudini sono fatti della stessa stoffa. Sia gli uni che le altre, infatti, sono la forma materiale di un habitus mentale.
E proprio per questo sono destinati a cambiare foggia e disegno, peso e misura di pari passo con il cambiamento dei valori sociali, delle sensibilità morali, delle istanze culturali. Esattamente quel che successe negli anni Settanta, quando il manifesto pubblicitario dei jeans Jesus, ideato da quel genio della provocazione che risponde al nome di Oliviero Toscani fece drizzare i capelli ai benpensanti e scatenò un’autentica guerra di religione.
Mobilitando liturgia e ideologia.
L’immagine resta insuperata. Un lato B provocante con una scritta evangelicamente irriverente. “Chi mi ama mi segua”. Era un cortocircuito incendiario tra religione e trasgressione che compendiava lo spirito dissacrante di quegli anni pieni di adrenalina. Quando il referendum sul divorzio, il femminismo e la liberazione sessuale agitavano le intelligenze e le coscienze. Certo la bomba di Toscani era di gran lunga più devastante. Ma in compenso questi Gesù e Maria griffati fanno giurisprudenza.
Perché le libertà all’inizio si scrivono sui corpi. E poi si trascrivono sui Codici.

Il Fatto 31.1.18
Toni Negri vota Gentiloni: è tutta colpa di D’Annunzio
di Marco Palombi


Il professor Toni Negri ha sempre avuto, fra le altre, una passionaccia per la frase apodittica, il colpo a effetto, meglio se destinato, per così dire, a épater le bourgeois. In Francia, dove insegna, fece scalpore nel 2005 la sua pronuncia a favore della Costituzione europea poi bocciata dagli elettori. Ora, promuovendo la seconda parte della sua autobiografia (Storia di un comunista), intervistato – absit iniuria verbis – da Vanity Fair, butta la palla ancora più avanti: “Mi auspico che Bruxelles prenda le redini dell’Italia dopo il 4 marzo. Non lo desidero, per me la burocrazia europea è il grande nemico. Però è meglio avere qualcosa che il nulla più completo. Angela Merkel, fatti avanti…”. Non voterebbe, ovviamente, il compagno Negri: “Mi fa schifo votare questo sistema di partiti. Spero che un Gentiloni o un Padoan di turno prendano in mano il governo. Altrimenti salta anche l’euro italiano”. Tanta passione per la stabilità, e in particolare quella della moneta, commuove in un uomo che, calandosi il passamontagna, sosteneva di “sentire il calore della comunità operaia”. D’altra parte, va detto, i nemici ideologici di Negri sono da tempo “la proprietà e il confine”, nel senso dello Stato nazione: posizione legittima, per carità, anche se c’è il rischio, diciamo così, che preparando – ormai sempre più a chiacchiere – la rivoluzione mondiale, si finisca per fare intanto da stampella al governo mondiale. Ogni eroe, d’altronde, ha bisogno d’un antagonista per (r)esistere come personaggio, soprattutto se, dannunzianamente, confonde la vita con l’arte.

Il Fatto 31.1.18
La catastrofe dello status quo
Non abbiamo capito il messaggio dei giovani che nel 2016 al referendum hanno votato in massa No: non erano contro Renzi ma a difesa dei diritti garantiti ormai solo dalla Costituzione - Incubo larghe intese
di Salvatore Settis


“La vera catastrofe è lasciare che tutto continui come ora”. Questa profezia di Walter Benjamin par fatta su misura per l’Italia di oggi. Ma anche di ieri. Lo capirono bene gli elettori del 2013, regalando al M5S 8.691.406 voti e facendone il primo partito d’Italia, e non perché avesse programmi di governo credibili, bensì per una vaga ma forte speranza di novità.
E fu solo grazie al Porcellum che non i singoli partiti, ma le coalizioni raccolte intorno al Pd e a Berlusconi raccattarono più seggi.
All’indomani di quelle elezioni, Barbara Spinelli lanciò su Repubblica (9 marzo) un appello a Beppe Grillo, Un patto per cambiare: se non ora, quando?; un simile appello fu lanciato il giorno dopo sullo stesso giornale da Michele Serra (Spinelli e io li firmammo entrambi). Chiedevamo che “la speranza di cambiamento non venga travolta da interessi di partito, calcoli di vertice, chiusure settarie, diffidenze, personalismi”. Chiedevamo di impedire le “larghe intese” con Berlusconi che erano dietro l’angolo, formando un governo a termine che affrontasse alcune urgenze, come il conflitto d’interessi e la legge elettorale e lanciando nuovi “investimenti su territorio, energia, ricerca, scuola pubblica”. L’esito di quegli appelli è noto: dal Pd non una sillaba, e da Beppe Grillo sberleffi e facezie contro “gli intellettuali”. Così abbiamo avuto, in compenso, larghe intese con Berlusconi e poi Alfano e Verdini, un aborto di riforma costituzionale, due leggi elettorali nuove ma pessime, norme fallimentari sulla scuola e il lavoro, un diluvio di parole e una sostanziale stagnazione sull’orlo dell’abisso.
Cinque anni e tre governi dopo val la pena di ricordarsene, perché si fissò allora la regola del gioco che ancora ci affligge: lo scontro fra due opposte retoriche, entrambe con poco contenuto, il mito della stabilità e la bandiera del rinnovamento. Sono cambiati gli schieramenti, si sono spostate le pedine sulla scacchiera, ma il gioco è sempre quello, un perpetuo surplace che porta il Paese allo sfinimento. Chi voleva stravolgere la Costituzione in nome della stabilità, anzi ci aveva già provato (Berlusconi, Brunetta), ha strumentalmente bocciato la riforma Renzi-Boschi, pronto a cucinarne domani un’altra assai simile. Domina la scena un’eterna quadriglia di alleanze, in cui quel che importa non è il futuro dell’Italia, non è l’analisi dei suoi problemi, non è un progetto di governo, ma il gioco delle candidature e delle appartenenze, e si recitano a giorni alterni le litanie della stabilità e del rinnovamento. Purché non si entri nel merito, mai e poi mai. Pur avendo contribuito a questa eterna situazione di stallo, Giorgio Napolitano lo ha detto lucidamente al Corriere della Sera (28 gennaio): “I programmi che i partiti hanno delineato sono in larga misura indeterminati e inattendibili”, senza “nessuna presa di distanza da questa corsa demagogica che coinvolge un po’ tutti”.
La legge elettorale, col suo inossidabile principio di impedire agli elettori la scelta dei parlamentari, è ormai alla sua terza edizione consecutiva, in un braccio di ferro con la Consulta che è destinato a durare. Questa legge è dunque lo strumento principale con cui la politica politicante si gioca la pelle alla roulette russa del 4 marzo, puntando a ogni costo su un Parlamento di nominati da eleggersi puntando a qualcosa che si scrive stabilità e si legge stagnazione; che invoca il rinnovamento ma non sa dire di che cosa, né per fare che cosa.
In assenza di progetti meditati e plausibili, si ricorre a promesse improbabili, largizioni ed elemosine, dagli 80 euro alla flat tax, dall’università sempre peggiore purché gratis alle mendaci promesse di lavoro. In assenza di un traguardo, si invitano gli elettori a votare sempre e comunque, per chicchessia, indipendentemente da quel che ognuno pensa e da quel che i candidati sono disposti (o preparati) a fare. Perfino il momento più felice della democrazia italiana da molto tempo a questa parte, l’afflusso di giovani elettori al referendum sulla riforma costituzionale e la sua conseguente, solenne bocciatura, viene svilito a spuntata arma retorica, sognando che esista una sorta di “partito della Costituzione”, che voterebbe per questo o per quello sulla base di liste bloccate, programmi fumosi, petizioni di principio, slogan vuoti e bugiardi, ostentazioni di muscoli, lealtà di partito.
Ma fra quanti hanno votato per la Costituzione il 4 dicembre 2016 i più non hanno “votato per votare”, e nemmeno in nome di uno schieramento eterogeneo, di fatto una sorta di “larghe intese” anti-Renzi senza alcuna possibilità di tenuta. Gli elettori più significativi di quel referendum, i giovani che la strategia Renzi-Boschi immaginava si astenessero, decisero allora di votare non per fare un favore a chi glielo chiedeva, né in cambio di promesse e chiacchiere. Votarono No a quella riforma perché si convinsero che la Costituzione così com’è tutela i loro diritti più e meglio della de-Costituzione cucinata in casa Renzi-Boschi. Eppure, in nome ora di una presunta “stabilità”, ora di un nebbioso “cambiamento”, la Costituzione viene delegittimata e ferita ogni giorno. Lo ha detto con implacabile precisione il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato: “Le leggi ordinarie hanno in buona misura svuotato di reali contenuti diritti costituzionali fondamentali come quello del lavoro. Una decostituzionalizzazione strisciante funge da lasciapassare per politiche economiche che determinano una crescita vertiginosa delle disuguaglianze sociali e dell’ingiustizia. (…) Il tradimento delle promesse della Costituzione determina la disaffezione di larghe componenti popolari non solo nei confronti della politica ma anche nei confronti dello Stato”.
Di fronte a questa situazione di vera emergenza sarebbe necessaria la forte riaffermazione dei principi costituzionali, ma anche la chiara indicazione delle politiche di bilancio che ne assicurino la praticabilità. Ma nulla di simile si è sinora visto in una campagna elettorale che si finge accesa, ed è fiacca e inerte. È dunque certo che, se qualcosa di più serio non interviene di qui a un mese (ed è improbabile), l’astensionismo tornerà ai livelli record pre-referendum, e il Paese sarà ostaggio di uno scontro perenne fra una “stabilità” e un “rinnovamento” accomunati da una desolante mancanza di progetti e di idee. Questa e non altra è la vera catastrofe che ci attende: che tutto continui come ora.

Repubblica 3.1.18
Dal People’s Party al M5S
Perché cresce l’anti-partito
di Nadia Urbinati


Benché il partito politico abbia costituito l’ossatura delle democrazie moderne, la democrazia dei partiti non ha mai goduto di un’egemonia incontrastata. Scrivere la storia dell’anti-partito, come ideologia e forma partecipata, significa scrivere quella della democrazia dei partiti. La storia americana è esemplare: insieme ai partiti ricostituiti dopo la Guerra civile, nella seconda metà dell’ 800, si sviluppò la resistenza contro il loro dominio di istituzioni e società. Il People’s Party — il primo partito populista della storia — si coagulò intorno a questioni che sarebbero poi ritornate in altri momenti e in altri Paesi: il dualismo tra “onesti cittadini” e “casta corrotta”, tra “la gente che lavora” e “chi vive del sudore di chi lavora occupando posizioni di privilegio”.
Parole simili ritornano nei momenti di declino di legittimità morale dei partiti organizzati e attecchiscono quando le identità di partito sono diventate gusci vuoti di obbedienza a una linea che non corrisponde a null’altro che alla volontà di sopravvivenza di una classe dirigente, spesso invisa e oggetto di diffidenza. L’anti- partito è parallelo alla debilitazione dei partiti, ne è una risultante meccanica. A fine ’ 800 per la crisi dei partiti oligarchici, oggi per quella dei partiti di massa che si sono fatti oligarchici a loro volta. È in questo contesto che dobbiamo leggere il successo di gradimento del Movimento 5 Stelle, che non può essere esorcizzato demonizzandolo.
Nell’America ottocentesca si rispondeva all’obiezione per cui i seguaci del Partito del popolo erano incompetenti con questa massima: l’incompetenza non è dannosa quanto la corruzione. A questo servono le elezioni: a selezionare non tanto i competenti quanto i candidati che meglio rispondono al sentire popolare. E il partito non-partito propone persone “simili” agli elettori. Non devono essere adusi al potere, esperti di trame. Il potere cerca l’arcano per poter distribuire posti e favori senza mostrarlo al pubblico, perché presume che quel che fa non sarebbe gradito né legittimo. E dunque, il non- partito risponde con la trasparenza: mettere tutto in Rete, come dicono i pentastellati, mostrare quel che gli altri politici tendono a nascondere.
La fine dei partiti di massa nel nostro Paese ha spalancato le porte a questa dimensione di politica dell’ordinario. L’anti-partito è nato insieme alla democrazia dei partiti, come diffidenza a priori. Poi quella diffidenza ha messo radici, conquistando quel che restava dei partiti tradizionali, desiderosi di cambiar nome, di togliere la parola “partito”, di essere vicini alla “società civile”.
La scesa in campo di Berlusconi nel 1993-94 fu prorompente nel plasmare l’Italia dell’anti-partito, anche se l’uomo di Arcore era figlio della democrazia dei partiti e fondatore di un partito che non era per nulla post. Eppure il linguaggio che mise in circolo fu segnato da una visione anti-partitica: un linguaggio fatto di “odio” e “amore”, di emozioni esposte senza mediazione; la demolizione della persona pubblica con l’arma dell’epiteto, dell’offesa, del nomignolo. Pochi programmi molte emozioni.
Oggi l’Italia è figlia matura di questa realtà. In questo terreno il Movimento 5 Stelle si è stabilizzato, filtrando nella sua identità quel che è stato edificato ( o distrutto) da trent’anni — passando dalle piazze urlanti di Grillo al pacato stile di Di Maio, concludendo una parabola di mutazione da opinione-contro a forza per governare. Il Movimento gentista per eccellenza, che può affermare che l’incompetenza fa meno danni della corruzione; e quindi non sembra soffrire le conseguenze di amministrazioni comunali non governate benissimo. Ma, come per i neofiti, anche per i politici che si formano artigianalmente, fuori dei partiti, vale quel che vale per tutti noi a scuola: sbagliamo ma apprendiamo. La forza del Movimento sta in questo. Non comprendere quanto radicata sia nella vicenda convulsa di democrazia post- partitica significa non comprendere il bacino largo e trasversale di simpatizzanti di queste visioni semplici.

il manifesto 31.1.18
La metà degli italiani crede alla propaganda razzista sui migranti
30° rapporto Eurispes: più del 50% ne sovrastima la presenza. Ritratto di un paese dove i penultimi fanno la guerra agli ultimi
di Roberto Ciccarelli


Smontare le fake news che alimentano la propaganda contro i migranti e per il rafforzamento delle politiche securitarie. Per di più in campagna elettorale dove le destre razziste e liberiste sono lanciatissime. Succede nel trentesimo rapporto Euripses, pubblicato ieri da cui risulta che più della metà del campione interpellato «sovrastima» la presenza di immigrati nel nostro Paese.
PARTIAMO DAI DATI conosciuti. Gli stranieri residenti in Italia sono oltre 5 milioni, pari all’inizio del 2017 all’8,3% della popolazione residente. Se agli stranieri regolari si sommano quelli che la legge «Bossi Fini» definisce «clandestini (tra le 500-800 mila unità) si arriva al massimo al 10% sulla popolazione. Ancor prima delle politiche, discutibilissime di Minniti, secondo l’Istat le immigrazioni si sono ridotte del 43% Negli ultimi dieci anni, passando da 527mila nel 2007 a 301mila nel 2016. La percezione di questa realtà è completamente diversa grazie al ruolo propagandistico a favore del neo-razzismo di molti media e delle conseguenti decisioni della politica «democratica» che cerca di inseguire il panico mediatico con strumenti che, invece di calmarlo, lo consolidano. Risultato: pur in presenza di dati inequivocabili, il sistema mediatico e quello politico cancellanola realtà della situazione.
ECCO I RISULTATI. Per il 35% degli interpellati dall’Eurispes sarebbe presente sul territorio nazionale una quota di stranieri pari al 16% della popolazione totale. Per il 25,4% degli interpellati un residente su quattro in Italia sarebbe non italiano. La realtà è, invece, un’altra. L’incidenza di stranieri sulla popolazione è, come detto, all’incirca del 10%. Il problema è che lo sa solo il 28,9% degli interpellati. Va un po’ meglio il dato sulla conoscenza di quanti cittadini stranieri di religione musulmana sono presenti nel nostro paese: il 31,2% è consapevole che si tratta di una quota minima: allo stato è il 3%. In tutti gli altri casi (68,7%) gli interpellati rivelano una percezione distorta di una presenza in fondo molto minoritaria. Per non parlare della presenza in Italia di immigrati di origine africana. Stando alla rilevazione risulta che solo il 15,4% degli italiani è consapevole del fatto che la loro presenza è esigua rispetto alla popolazione residente (l’1,7%). Non si conosce esattamente nemmeno da quale nazione africana provengano queste donne e uomini. Per il 27,4% degli interpellati arrivano dall’«Africa del Nord». In realtà, le statistiche riportano un dato del tutto diverso: i cittadini arrivati da questa zona sono meno della metà: solo il 12,9% degli stranieri in Italia.
QUESTI DATI sono già emersi nel lavoro della commissione «Jo Cox», istituita alla Camera, e sono stati citati nel quindicesimo «Rapporto Diritti globali 2017», curato da Sergio Segio. Qui si è appreso che l’Italia è il paese con il più alto tasso di ignoranza sullo stato dell’immigrazione. La maggioranza pensa che gli immigrati siano il 30% della popolazione, anziché l’8%, e che i musulmani siano il 20%, mentre sono solo il 3%. Sui richiedenti asilo la situazione è la seguente: nel 2016 sono stati registrati in Italia 123.600 richiedenti asilo. Nel 60% dei casi la loro richiesta è stata respinta. In Germania sono stati 722.300, il 60% del totale all’interno dell’Ue. Alla faccia dell’invasione.
QUESTO SENSO COMUNE è alimentato dal «razzismo istituzionale e democratico», che ha gradatamente permeato la società italiana impedendo – anche a causa della gestione politica timorosa del Pd e del governo Gentiloni, l’approvazione di una misura molto condizionata di «ius soli». Secondo l’Eurispes solo il 17,7% degli interpellati conosce i contenuti della proposta. E solo il 17,7% la associa non solo alla nascita, ma anche alla frequentazione della scuola italiana. In realtà la prima proposta risale al 1992 e prevedeva che chiunque nasca in uno Stato ne ottenga automaticamente la cittadinanza.
DAL RAPPORTO EURISPES emerge, in generale, il ritratto di un paese deluso e confuso,tradito da un «sistema» che non riesce più a garantire crescita,stabilità, sicurezza economica e prospettive per il futuro. In questo paese quattro persone su 10 arrivano a fine mese usando i risparmi e solo il 30,5% riesce a far quadrare i conti. Il 18,7% riesce a risparmiare, mentre il 29,4% ha difficoltà a pagare le utenze. Inoltre, il 23,2% ha difficoltà ad affrontare spese mediche, il 25,4% a sostenere il mutuo e il 38% a pagare l’affitto.
È IL RITRATTO di un paese dove i penultimi odiano gli ultimi e il «sistema» contrappone poveri a disperati, giovani a genitori, attivi a pensionati.

Il Fatto 31.1.18
Parte in Commissione banche l’inciucio tra Pd e Forza Italia
La relazione della maggioranza passa grazie alle assenze strategiche dei forzisti
Parte in Commissione banche l’inciucio tra Pd e Forza Italia
di Carlo Di Foggia


Un finale pirotecnico, ma anche il prologo di ciò che potrà accadere dopo il 4 marzo. Il testamento che lascia la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche ha poco a che fare col credito, è politico: si compie l’inciucio tra Pd e Forza Italia. Resta solo Renato Brunetta a gridare all’“insabbiamento” nelle file del partito berlusconiano.
Ieri la commissione doveva approvare la relazione finale. Come noto, il presidente Pier Ferdinando Casini, eletto grazie ai dem dopo aver pubblicamente denigrato la necessità di istituire la commissione, doveva trovare l’intesa per un testo condiviso da tutti i gruppi, che l’avrebbero poi integrato con proprie appendici sui temi più cari. Semmai fosse esistito, l’intento è naufragato subito. L’ex Udc, la cui gestione dei lavori gli è fruttata la candidatura nella coalizione di centrosinistra nel seggio “rosso” di Bologna, si presenta con un testo assai blando. Nessun cenno alle responsabilità del governo sui disastri bancari e sulle attenzioni particolari di Maria Elena Boschi per l’Etruria cara al padre, leggero sui peccati in opere e omissioni di Banca d’Italia e Consob che hanno fatto infuriare migliaia di risparmiatori e con qualche buon proposito per il futuro. Troppo poco per le opposizioni dopo 200 ore di audizioni dove è emerso di tutto.
A quel punto si è materializza il patto del Nazareno in salsa creditizia. Viene messa ai voti la relazione di maggioranza predisposta dal vicepresidente Mauro Marino (Pd), in teoria priva dei 21 voti (su 40) necessari per essere approvata. Il testo però passa grazie a 19 voti a favore, 15 contrari e 6 strategiche assenze che permettono di abbassare l’asticella: Camilla Fabbri (Pd), Francesco Molinari (Misto), e ben tre commissari di FI – Remigio Ceroni, Antonio D’Alì e Sandra Savino – l’intera pattuglia azzurra in commissione con l’eccezione di Brunetta che salva le apparenze votando contro, e Paola De Pin (Gal). “Abbiamo fatto un miracolo”, esulta Casini, facendo infuriare le opposizioni. “La commissione finisce con l’inciucio tra Pd e Forza Italia”, attacca Giovanni Paglia (LeU). Carlo Sibilia (M5S) va giù duro: “Si è infranta la verità sulle coperture che il Pd ha dovuto assicurare ai suoi conflitti di interessi, specie quelli della Boschi. Non c’è nessuna proposta seria”. I 5Stelle annunciano esposti in Procura sulle vicende emerse in commissione.
Tocca poi ad Andrea Augello (Idea) fissare il punto: “Un vero peccato che fossero assenti i forzisti. Un peccato anche più grave che la senatrice De Pin, del Gruppo Gal e quindi vicina a Forza Italia, sia dovuta improvvisamente uscire dall’aula prima del voto”, spiega il senatore, che associa la “strana coincidenza” al suo siluramento avvenuto “per un eccesso di rigore nello svolgere il mio ruolo di commissario”. Su Augello si è infatti consumato il banco di prova dell’inciucio. L’uomo che più di tutti ha contribuito a far emergere le contraddizioni tra Consob e Banca d’Italia e a far esplodere il caso dei conflitti d’interesse della Boschi (comprese le rappresaglie su Unicredit per il mancato aiuto dell’ad Federico Ghizzoni nel salvare la banca Etruria) non è stato ricandidato. È stato escluso a sorpresa dalle liste della “quarta gamba” del centrodestra – raccontano – per decisione del plenipotenziario berlusconiano Antonio Tajani, pur avendo un forte seguito politico nel Lazio. Stando ai rumors la decisione sarebbe stata, per così dire, consigliata a Tajani – che aspirare a fare il premier – da ambienti vicini al segretario Pd. Che così ha evitato l’implosione della maggioranza e una nuova figuraccia. Magra consolazione per chi aveva fatto nascere la commissione con l’intento di inchiodare l’odiata Banca d’Italia ed è stato invece travolto dalle miserie bancarie del governo emerse dalle audizioni, finendo così per approvare una relazione priva di colpevoli. Non proprio un capolavoro.

La Stampa 31.1.17
Banche, Forza Italia salva il Pd
Credito e politica. La commissione d’inchiesta sul sistema bancario si spacca sulle conclusioni e la relazione Pd passa grazie agli assenti: decisiva l’assenza di 4 commissari di area Forza Italia
La relazione Pd passa grazie agli assenti
Il documento finale approvato con 19 voti a favore (Dem e centristi) e 15 contrari Decisivi 4 di area Forza Italia che non si presentano. Destra e LeU: un inciucio
di Gianluca Paolucci


La commissione d’inchiesta sul sistema bancario si spacca sulle conclusioni e la relazione di maggioranza passa solo grazie alle assenze del centrodestra. Se il primo esito era scontato fin dai giorni scorsi, quando hanno iniziato a circolare le bozze della relazione Casini, le cinque assenze nelle file del centrodestra (sei in totale, una del Pd) riaccendono polemiche e retroscena intorno ai lavori della commissione.
Alla fine la relazione di maggioranza passa con 19 voti favorevoli (Pd e centristi), 15 contrari (Cinquestelle, LeU e centrodestra e sei assenti). Una relazione illustrata dal vice presidente della commissione ed esponente del Pd Mario Maria Marino e definita «seria, decisa e allo stesso tempo equilibrata, non elettorale che risponde agli obiettivi istituzionali che la commissione aveva nel suo oggetto istitutivo» dal presidente Pier Ferdinando Casini.
Accanto alla relazione «di maggioranza» ne arrivano però altre tre (centrodestra, Cinquestelle e LeU) con molti punti in comune sulle riforme possibili ma radicalmente diverse dalla relazione Casini sulle cause e sulla individuazione delle responsabilità.
Ma il dato politico della giornata sta nelle assenze al voto. Il più duro è Andrea Augello, senatore di Idea, tra i firmatari della relazione di centrodestra: «Un vero peccato che fossero assenti alla votazione i senatori Ceroni, D’Alì e la senatrice Savino, tutti e tre di Forza Italia - ha detto Augello -. Un peccato anche più grave che la senatrice De Pin, del gruppo Gal e quindi vicina a Forza Italia, sia dovuta improvvisamente uscire dall’aula prima del voto. Se tutto ciò non fosse accaduto la relazione Marino sarebbe stata respinta, evidenziando tutte le debolezze e le contraddizioni della maggioranza». Augello, nei giorni scorsi al centro di un caso politico per la sua esclusione dalle candidature per le prossime elezioni, esclusione legata secondo alcune ricostruzioni proprio al suo impegno in commissione banche,
A parlare esplicitamente di «inciucio» è Giovanni Paglia, in commissione per Liberi e uguali. «La Commissione banche si è conclusa come era iniziata: con un inciucio tra il Pd e Forza Italia per non farsi del male. A presiedere il tutto Casini, in attesa di raccogliere a Bologna il frutto di quanto seminato. D’altra parte le larghe intese sono il programma del futuro e allora meglio non perdere tempo».
Critiche dure alla relazione Casini sono arrivate anche dai commissari Cinquestelle. «Non potevamo convergere su una relazione unitaria con proposte vaghe, insufficienti e persino reticenti a proposito di molti dei temi che ci stanno a cuore, dal fondo misselling alle porte girevoli, dall’efficienza ed efficacia della vigilanza fino all’apparato sanzionatorio e alla separazione bancaria». I parlamentari M5s annunciano anche la loro intenzione di portare i lavori della commissione fuori dai palazzi della politica. «Dal lavoro della commissione di inchiesta stiamo traendo il materiale per avviare una battaglia anche giudiziaria che sfocerà nella presentazione di alcuni esposti alla magistratura relativi ai filoni trattati dalla bicamerale», spiegano in una nota.
Sui contenuti, la superprocura per i reati finanziari trova ampi consensi (contraria solo LeU), mentre è unanime il riconoscimento della necessità di rafforzare la collaborazione tra Bankitalia e Consob, anche se le varie proposte differiscono anche radicalmente sulle soluzioni possibili. Auspicati unanimemente anche maggiori ristori per i risparmiatori colpiti dai crac bancari.

il manifesto 31.1.18
Cassati o nel girone dei voti a perdere. L’ultimo repulisti degli ex Pci-Pds-Ds
Democrack. La notte del lunghi bianchetti: Renzi e Fassino accompagnano i compagni all’uscita. Via tutti i dem passati per la Fgci, si salvano pochi, per lo più quelli trasformati in ultras del leader
di Daniela Preziosi


B. «Beccattini, Beni, Bianchi, Bolognesi». C. «Carloni, Coscia». F. «Filippi, Fiorio». Basta scorrere i gruppi parlamentari del Pd in ordine alfabetico per capire la dimensione del fenomeno. La ’M’, per esempio, è un’ecatombe. Manciulli, Manfredi, Maran, Marchi, Martini, Marroni, Martella, Meta, Miccoli, Marantelli. Tutti ex ds, in alcuni casi ex pds-ds, nella stragrande maggioranza ex pci-pds-ds, rimasti fuori dalle liste Pd per la XVIII legislatura. È ovvio che un Pd che passa da 378 eletti a 200 previsti deve lasciare a casa metà dei suoi. E che c’è anche una ragione statistica (erano la maggioranza) se il disboscamento si abbatte su di loro. Eppure. Eppure c’è chi ironizza sull’ultima «de-comunistizzazione». Perseguita con precisione scientifica. Non più una simbolica rottamazione.
IN TOSCANA, PER ESEMPIO, solo due nomi della parrocchia rossa sono in posizione eleggibile: Silvia Velo e Susanna Cenni. In Sicilia, altro esempio, viene spiegato che «sono stati falcidiati». A casa Beppe Lumia, notabile dell’antimafia. Il giovane intellettuale Peppe Provenzano si è ritirato per non essere candidato dietro alla deputata Daniela Cardinale, figlia del più noto ex ministro Totò. «Renzi voleva mortificarlo», spiega Emanuele Macaluso. Rifiuti anche altrove: nel Lazio quello di Mario Ciarla, unico orlandiano della regione (e vicino a Zingaretti), piazzato nel fondo di un listino. Ai dignitosi no, come quello di Cuperlo candidato a Sassuolo dove poi è stato recuperato il ministro De Vincenti, vanno aggiunti i big che se ne sono andati per raggiunti limiti di pensione (Anna Finocchiaro, Walter Tocci, Ugo Sposetti, Mario Tronti). Ne esce un quadro del Pd inedito: in cinquanta sfumature di bianco.
E NON BIANCO genere ’sinistra dc’. In Emilia Romagna, terra di comunisti e ulivisti, per compensare l’elezione degli ex centrodestra Pierferdinando Casini e Beatrice Lorenzin, Renzi ha mandato Piero Fassino. Ma l’arrivo del ’big’ rosso antico non cancella l’effetto paradosso della sfida Casini-Errani per il collegio senatoriale di Bologna. «Eh sì, cari ex compagni bolognesi: dovrete votare Casini», ha sfottuto ieri su facebook Mauro Zani, storico segretario del Pds e poi dei Ds a Bologna, che fu richiamato in servizio nel 1999 dopo la vittoria di Guazzaloca, primo sindaco di destra nel capoluogo emiliano.
A PROPOSITO DI QUEI TEMPI: in questa storia di rimozioni forzate, l’ultimo segretario dei Ds Fassino merita una menzione d’onore. Chi lo ha visto in azione al Nazareno la notte delle liste descrive il suo zelo nella parte di «esecutore materiale» dei depennamenti di Renzi ai danni della minoranza orlandiana (da oltre 100 parlamentari a 15): «Ha completato la sua missione storica, quella di mettere una lapide sopra i Ds».
marantelli
FABIO MUSSI, che proprio nel congresso del 2007 abbandonò Piero e compagni e non aderì al Pd, si stupisce dello stupore: «Dentro il Pd il processo di rimozione della sinistra era in atto da tempo, per trasformarsi in un partito di centro dal profilo vago. Fin qui è stato un processo culturale, ora siamo alla cancellazione fisica anche dei rari nantes». Mussi oggi milita in Liberi e uguali e spera nel «travaso» verso il suo partito. Appelli in questo senso si moltiplicano da Leu all’indirizzo dei militanti della sinistra Pd.
ANCHE PERCHÉ GLI ESCLUSI spesso sono dirigenti emblematici, noti o meno, ’cassati’ o collocati nel girone dei candidati a perdere: da Daniele Marantelli a Varese, uomo-chiave del rapporto con il nord leghista nonché tesoriere del gruppo di Montecitorio, a Paolo Beni a Firenze, ex segretario dell’Arci, a Lorenzo Beccattini ex segretario dei Ds di Firenze, alla femminista Francesca Puglisi a Bologna. Al sottosegretario agli Esteri Enzo Amendola, ex dalemiano e molto vicino a Napolitano. Al torinese Daniele Borioli, abbandonato ai margini di un plurinominale di Alessandria.
A PROPOSITO DI PIEMONTE: qui gli ex ds resistono. Vedasi le candidature di Bragantini, Esposito, Fregolent, Giorgis, Rossomando. Ma, a parte gli ultimi due, sopravvissuti orlandiani, gli altri sono compagni “intuitivi” che da tempo sono diventati ultras renziani. Non a tutti però è andata bene: neanche l’intuito ha salvato Nicola Latorre, ex dalemiano, sodale del ministro Minniti dunque convinto di essere in una botte di ferro: ha scoperto solo la notte dei lunghi bianchetti di essere rimasto a terra.

Repubblica 31.1.18
Bersani: “Il Professore ha davvero scelto Casini invece di Errani?”
I leader di Liberi e Uguali criticano le affermazioni dell’ex premier. Grasso: “Le colpe sono di Renzi”
intervista di Giovanna Casadio


Roma «Ma Romano cosa farà davvero nelle urne: voterà Pier Ferdinando Casini invece che Vasco Errani a Bologna al Senato? » . L’assist di Romano Prodi a Renzi è un brutto rospo da ingoiare per Liberi e uguali. Reagiscono i leader di Leu, che hanno avviato una campagna elettorale ottimista con la previsione di Roberto Speranza di potere arrivare al 15%. La “censura” di Prodi, emiliano e amico personale degli scissionisti emiliano- romagnoli come Pier Luigi Bersani e l’ex governatore Vasco Errani, è vissuta come un colpo basso che «non rende giustizia alla verità dei fatti». Se il centrosinistra si è rotto, dando un innegabile vantaggio al centrodestra, è per colpa delle politiche renziane e della mutazione genetica del Pd. È la reazione della nuova sinistra.
Il leader Pietro Grasso alla doccia fredda della dichiarazione di Prodi risponde che è «sotto gli occhi di tutti che il centrosinistra non si è potuto ricomporre per volontà di Renzi. La composizione delle liste e le otto fiducie sulle legge elettorale sono segnali inconfutabili della volontà del Pd e di Renzi di fare altre scelte». Non solo. « Davvero Prodi ritiene che la finta coalizione che ha messo in piedi Renzi, che lo costringerà a votare Casini a Bologna anziché Errani, un centrosinistra unito? Noi in quel tipo di coalizione non ci possiamo stare» . Rincara sempre Grasso. Bersani maschera la « delusione » che, confida, le parole di Prodi gli hanno provocato, con un aggettivo: «opinabile». In tv su La7, a Di martedì, Bersani definisce appunto opinabile quella presa di posizione. E contrattacca: « Che il Pd sia per l’unità del centrosinistra è abbastanza curioso. Stiamo andando a votare con una legge che il Pd ha fatto con la destra, non l’ha mica fatta con noi. Nel Pd è stata liquidata buona parte di quelli che parlavano di centrosinistra. Quando candidi in Sicilia sodali di Cuffaro o di Lombardo, in Lombardia il braccio destro di Formigoni, nel cuore dell’Emilia Casini e Lorenzin... È tutta gente che quando pensa al centrosinistra pensa di farlo con Berlusconi » . Ancora: «Comprendo veramente anche il disagio e la sofferenza dei tanti militanti del Pd a cui voglio bene: il disegno è fin troppo chiaro, “faccio fuori tutto quello che è di sinistra perché poi vado a ereditare gli elettori di Berlusconi”. Ma non esiste...». Speranza ricorda le scelte dem su articolo 18, scuola e alleanze. « Un’agenda di destra quella di Renzi», denunciano Arturo Scotto e Nicola Fratoianni.
Per Leu ieri è anche la giornata della polemica sulla presenza delle donne nel partito. Durante la presentazione dei candidati per l’estero con Massimo D’Alema, una giornalista canadese chiede conto dell’assenza di donne al tavolo e ritiene insufficiente la risposta data. «Cosa doveva fare D’Alema andare a Casablanca per diventare donna? Noi abbiamo molte donne capolista», replica Chiara Geloni, candidata nel listino a Massa.

Corriere 31.1.18
Enrico Rossi
«Prodi voleva dire ai suoi: a sinistra non si va Come fa a votare Casini e non Errani?»
di M .Gu.


Enrico Rossi, si aspettava l’endorsement dell’ex premier per Matteo Renzi?
«Non è questo che mi ha colpito quanto l’attacco a Leu, francamente gratuito», risponde il presidente della Toscana, fondatore di Liberi e uguali.
Come se lo spiega?
«Per Prodi competition is competition . Dichiara che voterà per la coalizione di centrosinistra, perché noi non saremmo per l’unità. Ma dov’è la sua coerenza?».
Perché ritiene incoerente la posizione di Prodi?
«Dovrà sostenere Casini a Bologna, già uomo di punta del centrodestra di Berlusconi. Prodi può dire ciò che vuole, ma noi siamo fieri di votare per Errani, un uomo di sinistra, un compagno e un grande e onesto presidente di Regione».
È rottura tra voi e il fondatore dell’Ulivo?
«Credo che questo mondo ulivista sia in grave difficoltà a riconoscersi nel Pd di Renzi e che alla fine Prodi abbia voluto costruire un argine, dare un’indicazione. Come a dire che a sinistra non si va. Mi pare un segno di debolezza del suo gruppo e delle sue idee, ridotte a un ruolo di testimonianza dentro un Pd a guida renziana».

Corriere 31.1.18
La new entry del fattore «catapulta»
di Pierluigi Battista


Ora che sta svanendo l’effetto «radicamento nel territorio» sarebbe necessario che si studiasse, a beneficio di chi è stato nominato in collegi remoti, per così dire lontano da casa, l’«effetto catapulta». Sarebbe necessario per esempio che Nunzia De Girolamo di Forza Italia, messa fuori dal suo «territorio» per complicate ma non indecifrabili dinamiche tutte intrinseche al caso Campania, studiasse, per impratichirsi con le popolazioni locali, espressioni dialettali e usi e costumi del collegio Bologna-Imola in cui l’hanno gettata a sua insaputa dopo una notte di intrighi e voltafaccia. Così come sarebbe necessario che un severo spin doctor sconsigliasse Maria Elena Boschi, asserragliata nel suo collegio sudtirolese, espressioni boomerang tipo: «Sono felice perché il mio rapporto con questo territorio era già molto forte, perché trascorro qui le vacanze». Ecco, non esattamente un esempio di saldo legame con il territorio.
Perché comunque queste elezioni contano una vittima illustre: l’idea che i collegi uninominali leghino l’eletto ai suoi elettori. Svanisce la retorica del territorio, essendo gli unici territori funzionanti quelli di Arcore, del Nazareno o i meandri di un blog fuori controllo o le sedi della Lega di Salvini o quella di Liberi e uguali. Beninteso, non è che con il Mattarellum con ci fossero catapulte, paracaduti e spedizioni lontane. Ma almeno un minimo di incertezza e di sorpresa dava al voto un senso di competizione. Invece oramai i collegi sono come una scacchiera in cui gli unici giocatori autorizzati suddividono i famosi territori in sicuri, incerti, o perduti, con un effetto di predeterminazione dei risultati che cancella ogni traccia di rischio. L’unico rischio è che i candidati non sappiano evitare di fare brutte figure, ostentando un’ignoranza troppo accentuata del territorio del Risiko che è stato assegnato loro per grazia ricevuta, e di confondere Torino 3 con Cagliari 2 e così via. Poi, chi li sente quei poveretti dei territori?

Repubblica 31.1.18
Quando si tradisce il patto di civiltà
di Sergio Rizzo


Dunque ci risiamo. Alla vigilia di ogni elezione amministrativa o politica si allunga su certe liste l’ombra indecente degli inquisiti per reati gravissimi. Con l’aggravante, rivelata su questo giornale da Conchita Sannino, di un magistrato che li dovrebbe giudicare pizzicato a brigare per ottenere una candidatura nel loro stesso partito. Forza Italia, per l’esattezza: il solo a non aver risposto all’appello lanciato dall’Espresso a metà gennaio perché le formazioni politiche si impegnassero a presentare al giudizio degli elettori candidati al di sopra di ogni sospetto. «Non c’è una scadenza. Vediamo più avanti», è la risposta attribuita dal settimanale a Licia Ronzulli, personaggio chiave nella scelta delle candidature alle Politiche del 4 marzo per il partito di Silvio Berlusconi. Ma più avanti, fatalmente, si va a sbattere. Com’è già successo nel caso dell’ex sottosegretario Nicola Cosentino, condannato a 9 anni in primo grado per concorso esterno in associazione camorristica.
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Il fatto è che Forza Italia in Campania ha un bel problema. E non da adesso.
Basterebbe ricordare le discussioni e gli scontri che l’ex ministra delle Pari opportunità Mara Carfagna dovette affrontare nel 2010 all’interno del suo partito rivendicando la necessità di presentarsi con liste pulite alle regionali in Campania.
Senza dire di quanto fu costretto a penare il futuro governatore Stefano Caldoro durante quella stessa tornata elettorale per divincolarsi dall’abbraccio di inquisiti e condannati piovuti nelle liste. Sarà forse perché c’è chi ritiene che i voti, come il denaro, non abbiano alcun odore: l’importante è prenderli, poco importa il profilo morale di chi te li porta. Ma di sicuro quel problema non è stato mai seriamente affrontato, né ovviamente risolto.
Immaginiamo la replica: la faccenda delle liste pulite non riguarda solo il centrodestra.
Giusto. Vero è che l’intero sistema politico si è sempre mostrato piuttosto refrattario a dare a questa emergenza morale una risposta collettiva convincente. Il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone si è letteralmente sgolato per ripetere che nessuna legge può fare da argine se prima di tutto non ci pensano i partiti. Inutilmente. Nessun partito ci ha pensato mai. Qualcuno, forse, ha fatto la mossa: e niente più.
Nel nulla è caduta pure la proposta del ministro dell’Interno Marco Minniti, che intervistato a novembre dal nostro Massimo Giannini aveva chiesto ai partiti di firmare un “patto di civiltà”.
L’aveva chiamato proprio in questo modo. Ecco le sue parole: «Tutte le forze politiche che si presentano nelle varie competizioni elettorali si impegnino a non ricercare e a rifiutare il voto delle mafie. Rompiamo questo scellerato “patto faustiano”. Le mafie offrono voti e poteri alla politica. Ma in cambio, proprio come a Faust, gli rubano l’anima.
Questo non dobbiamo consentirlo mai più».
Se però la questione degli impresentabili può essere considerata un malessere profondo e diffuso in tutta la nostra politica, la storia che raccontiamo in queste pagine indica una patologia ben più allarmante. Perché fa sospettare l’esistenza di un patto non scritto addirittura contrario rispetto a quello proposto da Minniti: un patto del quale naturalmente non si conoscono i contraenti, ma che se esiste va avanti da troppi anni in quella terra meravigliosa e martoriata. E al confronto ogni richiamo morale sembra una barzelletta.

Repubblica 31.1.18
Verso le elezioni
Dove vince chi perde
di Michele Ainis


Più che un’elezione, è un rebus. Perché voteremo con una legge elettorale incomprensibile, che disegna scenari imprevedibili. Grande coalizione? Governo del presidente? Legislatura breve come un sospiro? Vattelappesca. Eppure non è vero, non è del tutto vero, che avanziamo su sentieri inesplorati. Non è vero che ci manchino le regole, i criteri. La regola c’è, però non sappiamo ancora riconoscerla. Proviamo a decifrarla.
Premessa: la terza Repubblica è sbocciata già da un lustro, dal 2013. Non ce ne siamo accorti perché la Costituzione è rimasta tale e quale, perché nessun sovrano si è mai alternato con i vecchi presidenti. Ma l’Italia non è mica la Spagna, dove Felipe VI regna dopo due Repubbliche. Non è neanche la Francia, dove si contano le Repubbliche ( cinque) contando le Costituzioni. No, alle nostre latitudini la successione interviene per ragioni extragiuridiche, viene scandita da elementi sostanziali, anziché formali. Dipende dalla Costituzione “ materiale”, non da quella scritta. Sicché cambia la Repubblica quando cambia la politica, il suo modo di proporsi.
Così, nel primo tempo delle nostre istituzioni quest’ultima configurava un sistema multipolare ( a multipartitismo estremo, per usare la formula di Leopoldo Elia). Poi, nel 1993, Berlusconi mise in campo Forza Italia e il sistema diventò bipolare. Fino al 2013, quando il M5S fu il partito più votato, consegnando agli italiani un assetto tripolare. Con quali conseguenze? Che nella prima Repubblica c’era un vincitore certo: la Dc, per 45 anni di fila sui banchi del governo. Nella seconda Repubblica, invece, la vittoria è sempre stata incerta, con un testa a testa fra Berlusconi e Prodi. E nella terza? È certa la non vittoria, nel senso che nessun partito, nessun polo, nessuna coalizione trova i numeri per dominare il Parlamento. Accadde nel 2013, accadrà di nuovo nel 2018, stando a ogni previsione. Dalla primazia della non vittoria discende la primazia del non vincitore. Eccola infatti la regola non scritta della terza Repubblica, osservata durante tutto l’arco della legislatura scorsa. Nessuno dei leader che si erano presentati agli elettori — Bersani, Berlusconi, Grillo, Monti — ha poi ottenuto le chiavi del governo. A palazzo Chigi fecero ingresso anzitutto Enrico Letta, che nel 2007 aveva perso le primarie del Pd vinte da Veltroni. Poi Matteo Renzi, anch’egli un perdente di successo alle primarie del 2012 (vinse Bersani). Infine Paolo Gentiloni, battuto a sua volta da Marino (sempre nel 2012) alle primarie del centrosinistra come sindaco di Roma. Se il futuro dipende dal passato, succederà di nuovo. Quindi è inutile sgranare le pupille misurando il profilo dei capipartito, per individuare il nuovo presidente del Consiglio. Meglio allungare lo sguardo su chi nelle fotografie ufficiali sorride in terza fila, su chi ha già rinunziato a candidarsi in Parlamento per tenersi di riserva, su chi recita da attore non protagonista, in attesa di diventare il primattore.
Da qui la grammatica costituzionale della terza Repubblica, che dopotutto si riassume in un paio di regolette. Primo: perdono peso le elezioni, la cattura dei consensi presso il popolo votante, e acquista peso, viceversa, il consenso del popolo votato. È fra gli eletti, non fra gli elettori, che si decide la partita. Dunque torna centrale il Parlamento, come d’altronde mostra l’esperienza che si è appena conclusa: senza la diaspora di Alfano o di Verdini, senza i 566 cambi di casacca della XVII legislatura, quest’ultima sarebbe morta in culla. Secondo: cresce il ruolo del capo dello Stato, cui spetta l’identikit del non vincente da proclamare vincitore. Dovrà trattarsi d’un personaggio non troppo colorito, non troppo esposto nella girandola d’insulti di questa campagna elettorale. Difficile accettare chi ti ha preso a schiaffi fino al giorno prima. E impossibile appoggiare il governo di chi non sia situato a metà strada fra tutti i contendenti. Insomma, nella terza Repubblica vince chi perde, oppure vince chi non gioca. Basta saperlo.

Corriere 31.1.18
Formazione. La scuola non insegna a scrivere
Nella Primaria manca una programmazione didattica adeguata, e intanto aumentano considerevolmente i bambini giudicati «disgrafici»
Il corsivo cede a stampatello e digitale, con gravi ricadute sui processi di apprendimento
di Claudio Ambrosini


Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, di recente ha pubblicato sul «Corriere della Sera» un articolo dal titolo La scuola maltratta l’italiano . L’articolo muove dalla considerazione che gli studenti nelle fasi avanzate del loro percorso formativo evidenziano una «...difficoltà a comprendere con buone capacità il linguaggio complesso della lingua italiana nella sua forma più strutturata, prima che nelle sue specificità settoriali... assente una cognizione scientifica del ruolo che ha la lingua prima nello sviluppo generale cognitivo del bambino».
La lingua prima, dichiara Sabatini, è alimento per il cervello la cui funzione è quella di «conoscere nella maniera più ravvicinata e stabile il mondo: le cose e i fenomeni, e sviluppare su di essi i ragionamenti, da quelli elementari a quelli più complessi, che si sono formati in tutti i campi del sapere, specialmente attraverso la scrittura… la quale… nella scuola primaria “modernizzata” viene insegnata in maniera sempre più approssimativa, per la mancata considerazione del complicato processo cerebrale che consente il suo apprendimento, attraverso l’attivazione, a fini linguistici, di un nuovo canale sensoriale, la vista, in aggiunta all’udito, con l’apporto fondamentale delle operazioni della mano».
Pochi giorni dopo, sempre sul «Corriere», Giovanni Belardelli in Smartphone in classe. Deriva da contrastare discute sull’insediamento di una commissione da parte del ministro Valeria Fedeli sull’uso degli smartphone in classe. Teme, Belardelli, che «il titolare della Pubblica istruzione — ma anche… il nostro intero ceto politico — abbiano smarrito l’idea di quali dovrebbero essere i compiti e la funzione della scuola. Il punto non sta, evidentemente, nel fatto che la Rete rappresenta una fonte di informazioni ormai irrinunciabili, ma nella mancata consapevolezza che il processo di apprendimento è una cosa diversa, che non può essere sostituita dal ricorso a Internet». Un’ulteriore conseguenza negativa, prosegue Belardelli, non dello smartphone in sé, «ma della mitizzazione della sua funzione didattica» ricade sulla scrittura corsiva, in via di estinzione nonostante «pedagogisti e neuroscienziati osservano che la scrittura a mano, a differenza della scrittura su tastiera, coinvolge e mette in relazione più parti del cervello, stimola la memoria, aiuta a sviluppare le capacità percettive e di organizzazione del pensiero».
Eccoci dunque alla scrittura corsiva per la quale, data la mia professione ultradecennale di terapista della neuro- e psicomotricità, ho un interesse personale e professionale essendo quotidianamente a contatto con bambini «disgrafici» i quali, così come coloro appesantiti dal Disturbo specifico di apprendimento, sono aumentati progressivamente e considerevolmente con il nuovo millennio.
Sia Sabatini che Belardelli sollevano, a pochi giorni di distanza, la stessa questione, scrittura corsiva e sua funzione attorno alla quale pongo alcune riflessioni.
Sgombriamo immediatamente il campo dagli equivoci: la scrittura corsiva intesa unicamente nella sua funzione esecutivo-motoria non è uno strumento del pensiero, è essa stessa, nella sua fase di apprendimento, pensiero. Non scomodo qui i lavori neuroscientifici sul rapporto azione-cervello, piuttosto invito a riflettere sulle modalità e il tempo necessario a costruire il grafema in rapporto sia ai processi organizzativo-motori, sia alla loro contemporaneità nei processi di significazione della singola lettera e della successiva fusione sillabica quando il bambino costruisce i primi legami grafo-motori tra consonante e vocale pa , ta , ma , ecc. Il dito sulla tastiera annulla questo processo e può essere che ne favorisca di altri, ma allo stato attuale ciò non è ancora avvenuto o non si è ancora stati in grado di verificarlo.
La realtà scolastica ci pone a confronto con una grande quantità di bambini certificati come Dsa (Disturbo specifico di apprendimento) e Bes (Bisogni educativi speciali). Le ragioni sono diverse e non tutte riconducibili alla scuola, ma è indubbio che sono completamente assenti linee guida del ministero dell’Istruzione sugli strumenti necessari e indispensabili affinché gli scolari della scuola primaria apprendano in funzione della costruzioni delle basi, linguaggio e movimento, su cui si costruirà il sapere futuro.
Non essendo un logopedista non entro in merito al linguaggio, ma esprimo la più evidente mancanza di programmazione nell’insegnamento della scrittura: nella stragrande maggioranza delle situazioni si insegnano contemporaneamente a inizio del percorso scolastico primario i caratteri stampato, maiuscolo, minuscolo, corsivo e talvolta si introduce anche il corsivo maiuscolo. Si prosegue poi, in molti casi, nel lasciare «libero» il bambino di usare quello che vuole. È evidente a tutti la confusione in cui può trovarsi il bambino: quello abile, forse, ne uscirà indenne, quello più piccolo (vi sono bambini che accedono alla scuola a 6 anni non ancora compiuti) o quello con debolezze nell’ambito motorio ne verrà sicuramente penalizzato.
A fine del primo ciclo, cioè a fine secondaria di primo grado, ecco che vengono dichiarati disgrafici e lo sono indubbiamente, ma alcuni o molti di loro, potrebbero esserlo proprio per una assenza di una didattica corretta. Si ritiene, allora, che il passaggio automatico allo stampato maiuscolo o alla tastiera risolva la questione dimenticando che il tratto dello stampato maiuscolo e ancor più quello del minuscolo, completamente inutile anche per l’apprendimento della lettura, complicano la dimensione motoria e spaziale dello scrivere in quanto il tratto deve essere continuamente interrotto. I bambini disgrafici nel corsivo, spesso e non tutti, lo sono anche con gli altri caratteri, nel senso che la scrittura risulta illeggibile (i test usati in Italia valutano la scrittura corsiva e non quella in stampatello). Inoltre l’atto grafico si estende dal quaderno di italiano a quello a quadretti di matematica dove il problema, mancando i riferimenti spaziali del rigo, si complica ulteriormente.
Altri sarebbero gli argomenti da affrontare, quello visuo-spaziale e quello dell’uso dello strumento che porterebbe ancor più al centro del problema la questione motoria dello scrivere, ma mi avvio a concludere dichiarando che la scrittura corsiva, perfettamente funzionale ai movimenti fluidi e curvilinei umani, non così gli altri caratteri segmentati e i prevalenza rettilinei, è invece con grande probabilità destinata a soccombere, a sparire sotto il dominio della tecnica. Se così è, sarebbe opportuno che il passaggio, già in atto, venisse calibrato in modo tale che a soccombere fosse solo la scrittura corsiva e non il bambino, anche questo, purtroppo, già in atto, ma credo sarebbe più utile per il nostro Paese che organismi ministeriali, insegnanti, terapisti, medici, psicologi e neuroscienziati riflettessero con attenzione sul rapporto scrittura corsiva/apprendimento/sviluppo del bambino senza assoggettarsi passivamente al dominio della tecnica che, come afferma Umberto Galimberti negli stessi giorni su «D» de «la Repubblica», ha prodotto nell’individuo un secondo inconscio «che potremmo chiamare tecnologico, con riferimento alla razionalità della tecnica che prevede il conseguimento del massimo degli scopi con il minimo impiego di mezzi».
Facciamo, quindi, attenzione che anche lo sviluppo infantile non divenga funzionale alla tecnica.

il manifesto 31.1.18
Irlanda, a primavera il referendum sull’aborto
Ottavo emendamento. Agli elettori sarà chiesto se intendono cambiare la costituzione per permettere che sia il parlamento a legiferare sull’interruzione di gravidanza. Il governo si è impegnato a proporre una legislazione che segua le raccomandazioni emesse dalla commissione
di Vincenzo Maccarrone


DUBLINO Il premier irlandese Leo Varadkar ha annunciato martedì notte che questa primavera si terrà finalmente un referendum sull’aborto. Ad oggi la Repubblica d’Irlanda è uno dei pochissimi paesi europei dove l’aborto non sia legale, se si escludono le situazioni in cui la madre sia in pericolo di vita. Colpa dell’ottavo emendamento della costituzione che, equiparando la vita della madre a quella del feto, rende l’aborto pressoché impossibile, perfino in caso di stupro. La legislazione vigente costringe ogni anno migliaia di donne a utilizzare senza alcuna assistenza medica la pillola abortiva acquistata illegalmente su internet. L’alternativa più sicura ma anche più costosa è recarsi a proprie spese in Inghilterra o Galles, dove l’interruzione di gravidanza è legale.
Agli elettori sarà dunque chiesto se intendono cambiare la costituzione per permettere che sia il parlamento a legiferare sull’interruzione di gravidanza. Se il referendum dovesse passare, il governo si è impegnato a proporre una legislazione che segua le raccomandazioni emesse dalla commissione parlamentare sull’ottavo emendamento, che prevedono il diritto per la madre ad abortire legalmente fino a 12 settimane dal concepimento. Passate le 12 settimane, l’aborto sarebbe consentito solo in circostanze eccezionali, ad esempio in caso di rischio per la salute della madre.
È una prima e importante vittoria per la coalizione di movimenti per i diritti civili, associazioni e gruppi femministi che da anni animano la campagna Repeal the 8th, chiedendo di convocare un referendum abrogativo dell’ottavo emendamento. Le imponenti manifestazioni convocate regolarmente e lo sciopero sociale promosso lo scorso 8 marzo sembrano dunque avere sortito il loro effetto. Furibondi i gruppi anti-abortisti, che si preparano dare battaglia contro l’abrogazione.
Il vento sembra decisamente cambiato rispetto al referendum confermativo del 1983, che aveva visto l’ottavo emendamento approvato dal 67% degli elettori. Sia il primo ministro Varadkar sia Micheál Martin, il leader del principale partito di opposizione, si sono espressi a favore del diritto all’aborto fino a 12 settimane dal concepimento. Il traguardo adesso per le donne d’Irlanda sembra davvero più vicino.

Corriere 31.1.18
«Basta fughe all’estero» E Caoimhe gira l’Irlanda per il «sì» all’aborto
La ragazza è testimonial nel referendum di maggio
di Luigi Ippolito


Londra Il viaggio di Caoimhe è appena iniziato. La giovane ingegnera informatica attraverserà tutte le province della sua Irlanda per persuadere i suoi connazionali a cambiare la legge sull’aborto, la più restrittiva d’Europa.
Il governo di Dublino ha infatti appena deciso di indire per fine maggio un referendum popolare per abrogare l’ottavo emendamento della costituzione: introdotto nel 1983, il provvedimento riconosce eguali diritti alla madre e al feto fin dal concepimento e di fatto impedisce ai medici di portare a termine interruzioni di gravidanza anche quando la vita della madre è in pericolo. In base alle leggi in vigore, le donne colpevoli di aborto illegale rischiano fino a 14 anni di carcere, anche se le irlandesi sono libere di andare all’estero per interrompere una gravidanza: e in migliaia lo fanno, soprattutto in Inghilterra.
Ed è proprio questa dolorosa esperienza che ha spinto Caoimhe Anglin, oggi 28enne, a diventare il volto della campagna per la liberalizzazione dell’aborto in Irlanda. Lei stessa nel 2016 è andata a Manchester, accompagnata dal suo fidanzato, per terminare una gravidanza: e nei bagni dell’aeroporto ha visto una ragazza giovanissima, da sola e sconvolta, che chiaramente aveva intrapreso lo stesso viaggio. «Quante donne e ragazze come lei dovevano passare attraverso quest’esperienza da sole? — ha raccontato al Guardian . — È stato allora che ho cominciato a capire che dovevo prendere posizione».
Caoimhe (che in gaelico significa «gentile») riferì per caso la sua esperienza a un’amica che era impegnata nella campagna pro-aborto e nel dicembre del 2016 venne messa in contatto con il movimento per la riforma della legge. «Ho cominciato a raccontare la mia storia — continua la giovane — e sempre più spesso incontravo risposte del tipo “Oh mio dio, anche io”, oppure “mia sorella ci è passata, o mia zia, o la mia migliore amica”, e così via. Mi sono ritrovata in compagnia di migliaia e migliaia di donne che avevano questa esperienza in comune nelle loro vite. E così, all’inizio del 2017, la mia amica attivista mi ha suggerito di lanciare un progetto basato su storie personali come la mia, in modo da aggiungere umanità alla questione e renderla più reale».
Ed è così che Caoimhe si appresta ora a compiere il suo pellegrinaggio attraverso l’Irlanda, consapevole che occorrerà convincere la gente delle contee rurali, distante dall’enclave liberal della capitale Dublino: «Anch’io ho un retroterra personale di campagna e mi rendo conto di quanto sia importante andare in ogni cittadina e villaggio a raccontare la mia storia».
La giovane dice di aspettarsi «un dibattito pubblico velenoso»: e infatti se pure la maggioranza sembra orientata ad abrogare il famigerato emendamento, non tutti sono d’accordo nell’adottare le politiche liberali del resto d’Europa. Dopo il referendum, il governo intende introdurre una nuova legge che autorizzerà l’aborto fino alla dodicesima settimana di gravidanza: ma la questione spacca trasversalmente tutti i partiti.
«L’aborto esiste in Irlanda — ha detto il premier Leo Varadkar — ma è pericoloso, non regolato e illegale: è mia opinione che non possiamo continuare a esportare i nostri problemi». Questa dell’aborto è l’ultima trincea dei cattolici tradizionalisti contro la completa secolarizzazione della società irlandese, dopo che nel 2015 era stato introdotto il matrimonio omosessuale. E il referendum avrà luogo poche settimane prima della visita di papa Francesco. Ma il viaggio di Caoimhe comincia ora.

il manifesto 31.1.18
La rivoluzione silenziosa delle donne contro l’obbligo del velo
Iran. Le donne iraniane rappresentano una forza sociale che ogni giorno combatte per la libertà di scelta, scardinando così un sistema che lentamente sta implodendo
di Farian Sabahi


Rischiano due mesi di carcere e venti euro di multa.
È questa la pena per le donne che osano liberare la chioma al vento nella Repubblica islamica dell’Iran, dove il velo è obbligatorio nei luoghi pubblici dal 1980.
Negli anni successivi alla Rivoluzione del 1979 il codice di abbigliamento era severo: nelle università era di norma il maghnaeh che somiglia al velo delle suore perché è cucito in modo da lasciare lo spazio per infilare la testa senza dovere fare il nodo al collo e quindi senza il rischio che scivoli; il maghnaeh era consuetudine anche negli uffici pubblici, dove ad attendere noi donne erano le dipendenti pubbliche munite di detergente per togliere il trucco troppo pesante; il chador era l’abito di ordinanza per i ceti bassi ed era obbligatorio nei mausolei meta di pellegrinaggio: in quello di Masumeh nella città santa di Qum e in quello dell’Imam Reza a Mashhad.
IL VELO È SEMPRE stato l’oggetto della discordia in Iran, basti pensare che nel 1936 lo scià di Persia lo aveva vietato, mettendo in difficoltà tante signore non abituate a mostrarsi agli estranei a capo scoperto.
Abolendo il velo, Reza Shah aveva evitato di occuparsi di questioni più significative: gli uomini continuavano a vantare svariati privilegi, come la possibilità di contrarre matrimonio con quattro donne, divorziare a proprio piacimento ed ereditare una quota maggiore rispetto alle sorelle.
Reza Shah fu costretto all’esilio dagli inglesi, nel 1941. Con suo figlio Muhammad Reza Shah, il divieto del velo venne meno e ognuno tornò a vestirsi come voleva: la buona borghesia a capo scoperto, la stragrande maggioranza con il velo nelle sue diverse declinazioni.
Il velo è poi diventato obbligatorio dopo la Rivoluzione del 1979.
In questi quattro decenni il foulard è diventato sempre più striminzito, per mostrare un numero di ciocche di capelli sempre maggiore.
Ma rimane l’obbligo di coprirli almeno in parte con un tessuto. Leggero, trasparente. Poco importa. Ma resta il fatto che il velo resta obbligatorio: per alcune può essere una libera scelta, mentre per altre non lo è.
Con un pizzico di solidarietà femminile, ora le iraniane protestano di fronte all’obbligo dell’hejab. Anche le donne che invece lo mettono per libera scelta.
QUELLA delle donne iraniane è così diventata una rivoluzione. Silenziosa, non violenta.
Scelgono di indossare il velo bianco, per distinguersi dalle tante che optano, convinte, per il nero. Alcune se lo tolgono, si fanno fotografare, vengono arrestate.
Era successo a Vida Movahed, il 27 dicembre. Trentun anni, un bimbo di 19 mesi, si era tolta il velo in pubblico il giorno prima delle proteste in via Enghelab, la via della Rivoluzione a Teheran. Il giorno dopo era stata arrestata. Domenica è stata rilasciata, a comunicarlo su Facebook è stata il suo avvocato, Nasrin Sotoudeh, nota attivista per i diritti umani.
«La sua liberazione viene attribuita alla pressione internazionale, ma in realtà è la pressione interna che preoccupata le autorità iraniane, anche perché nei giorni scorsi una delegazione parlamentare ha potuto visitare il carcere di Evin, dove si trovano i prigionieri politici», spiega Anna Vanzan, esperta di Iran e docente all’Università Statale di Milano. E aggiunge: «Le donne in Iran rappresentano ormai una forza sociale che, con una protesta silenziosa ma quotidiana, stanno scardinando la presunta monoliticità di un sistema che lentamente – ma inesorabilmente – sta implodendo».
È EFFETTO domino: lunedì mattina un’altra ragazza si è tolta il velo ed è salita su un blocco di cemento. Bene in vista. È stata fotografata per dieci minuti. Poi sono arrivati gli agenti in borghese ad arrestarla.
Si chiama Nargues Hosseini. Al polso ha un braccialetto verde, segno che gli iraniani hanno memoria del movimento verde d’opposizione del 2009 e dei suoi leader, agli arresti domiciliari dal 14 febbraio 2011.
Il luogo è il solito, significativo: via Enghelab, ovvero via della Rivoluzione. Ieri, la stessa iniziativa è stata presa da altre tre ragazze.
Sui social network circolano le loro foto. Si trovano nella capitale Teheran, per terra c’è la neve. Alcune hanno i capelli scuri, lunghi e mossi. Un’altra li ha corti, colorati di verde. Alcune si tolgono il velo nella capitale, altre a Isfahan, Shiraz e località minori.
LA LORO è una forma di ribellione. Non necessariamente contro il velo, ma contro l’obbligo del velo che dovrebbe essere invece una libera scelta.
Di certo, conclude Anna Vanzan, «eliminare l’obbligatorietà del velo non è una priorità per le iraniane, ma la loro protesta in questo senso diviene simbolica di altre ingiustizie che da anni le donne patiscono e per le quali da anni combattono, come la riforma del codice di famiglia che contiene articoli discriminanti le donne in istituzioni fondamentali quali, per citare i più importanti, il matrimonio, il divorzio e l’affidamento dei figli minori, la ripartizione dell’eredità perché in Iran alle figlie femmine spetta la metà rispetto ai maschi».

Il Fatto 31.1.18
“Scordatevi la verità su Giulio Regeni”
Hazem Hosni - Il docente universitario e le elezioni: “In Egitto la democrazia è morta”
di Piefrancesco Curzi


Al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi piace usare bastone e carota. Da una parte toglie pezzi di libertà e democrazia, dando il via libera attraverso apparati dello Stato a misure rigide nei confronti dei suoi antagonisti politici; dall’altra, trasformandosi in benefattore, non fa una piega alla decisione della Corte del Cairo che ieri ha ridotto da tre anni a un mese la condanna di Osama Morsi, figlio di Mohamed, leader della Fratellanza Musulmana.
Restano vivi i segni della deriva autoritaria del regime nell’ultima settimana, quella che ha portato alla presentazione delle candidature per le presidenziali di marzo (26-28, eventuale ballottaggio a fine aprile). Su tutti l’arresto del generale Sami Anan: “Il presidente al-Sisi – attacca Hazem Hosni, docente universitario, portavoce e responsabile della campagna elettorale dell’ormai ex candidato Anan – non si ferma davanti a nulla, ha deciso di spazzare via ogni resistenza, chi non gli va a genio viene arrestato o rischia di essere ucciso. Voleva uno sfidante? Eccolo (Hosni si riferisce a Moussa Mustafa Moussa, vicino ad al-Sisi, iscritto quindici minuti prima della scadenza dei termini, ndr), un candidato-decorazione piuttosto. In Egitto la democrazia è morta, ma è necessaria una reazione a questo stato di cose. La gente da sola non ce la può fare, ha bisogno dell’appoggio di pezzi dello Stato. Margini per un ritorno in politica di Anan? Lo escludo”.
Tra martedì e sabato scorsi, Hosni ha vissuto nella paura che qualcosa di brutto potesse accadere anche a lui. Prima Sami Anan, arrestato per strada, poi il suo vice, Hisham Ghenina, che stava per essere rapito da presunti criminali comuni: “Siamo riusciti a metterci in contatto col generale Anan, di cui per tre giorni non abbiamo più saputo nulla – aggiunge il suo portavoce – ha detto di star bene e di essere tenuto in una struttura militare, ma non sappiamo quale. C’è poi la storia di Ghenina, sfuggito ad un rapimento per un colpo di fortuna: i criminali, dopo aver bloccato la sua vettura, con dentro anche sua moglie, non sono riusciti a portarlo via perché si era incastrata la cintura di sicurezza. La matrice dell’attacco? Faccia lei, le dico soltanto che Ghenina, un avvocato, stava andando in tribunale per un caso contro il presidente al-Sisi”.
Gli altri candidati sono spariti come foglie al vento. L’ex premier Shafiq non è mai rientrato in Egitto dagli Emirati, il nipote di Anwar Sadat si è tirato fuori dalla lotta due settimane fa e Khaled Alì, l’avvocato attivista ha annunciato il suo ritiro due giorni dopo l’arresto di Anan “a causa di un clima elettorale deteriorato”. Egitto, specie in questi giorni a cavallo tra gennaio e febbraio, significa anche Giulio Regeni. Le parole di Hazem Hosni non lasciano spazio all’ottimismo: “Fino a quando il Paese sarà guidato da Abdel Fattah al-Sisi la verità giudiziaria non verrà mai fuori. La famiglia deve mettersi l’anima in pace. I metodi del regime li conosciamo bene e quanto accaduto al vostro connazionale ne è la prova. Possiamo tutti immaginare come siano andate le cose, ma non vi aspettate i nomi di mandanti ed esecutori. Non è bastata la fine orribile di Regeni, gli apparati di sicurezza hanno sulla coscienza anche la fine dei cinque uomini accusati di essere gli assassini dello studente. Erano innocenti, chiedo giustizia anche per loro”.

Il Fatto 31.1.18
Record di desaparecidos. È peggio di una dittatura
Uno scomparso ogni 90 minuti: accuse e denunce contro le forze di polizia
Record di desaparecidos. È peggio di una dittatura
di Orsetta Bellani


Quando arrivò alla Procura di Azcapotzalco, a Città del Messico, la madre di Marco Antonio Sánchez Flores, 17 anni, scoprì che suo figlio non era mai stato lì. Era il 23 gennaio, e una chiamata l’aveva informata del fatto che il ragazzo era stato fermato della polizia mentre fotografava un graffito. Lo accusarono di voler rapinare un passante e, anche se la presunta vittima lo negò, un agente con il casco gli diede una testata e gli altri lo picchiarono.
“Lo portiamo alla Procura di Azcapotzalco”, dissero i poliziotti all’amico che lo accompagnava. Ma ad Azcapotzalco non c’era traccia di lui. “In Procura ci hanno detto che probabilmente era scappato con la sua fidanzatina”, afferma la madre del minorenne. La stessa frase che migliaia di famiglie messicane si sono sentite dire dalle autorità quando hanno denunciato la sparizione del proprio figlio.
A molti il termine desaparecido fa pensare alle dittature sudamericane degli anni ’70. A film o romanzi che raccontano di oppositori politici torturati e uccisi, i cui cadaveri venivano buttati in mare.
Ma nel “democratico” Messico la parola desaparecido riempie ogni giorno le pagine dei giornali. Da una parte la sparizione di un gruppo di giovani, dall’altra il ritrovamento di una fossa comune. A volte la responsabilità viene data alle organizzazioni criminali, altre volte la connivenza delle autorità è più difficile da nascondere. E ci sono situazioni in cui la responsabilità dello Stato è accertata e, in questo caso, nel diritto internazionale si parla di sparizione forzata. L’esempio più noto è quello dei 43 studenti di Ayotzinapa, fatti sparire nel 2014. Il coinvolgimento delle autorità è stato documentato da una commissione indipendente.
Ma in Messico ci sono migliaia di casi che non sono arrivati alla cronache internazionali. Leticia Hidalgo si trovava nella sua casa di Monterrey nel gennaio 2011, quando un gruppo di uomini armati entrò e si portò via Roy, suo figlio, 18 anni. Alcuni di loro indossavano la casacca della polizia.
Come molte altre madri messicane, Leticia Hidalgo milita in un collettivo di familiari di desaparecidos, che non solo tengono viva l’attenzione sul problema delle sparizioni forzate, ma organizzano gruppi per cercare fosse comuni, con pale e picconi alla mano.
Storie come quella di Roy sono tanto comuni in Messico che non fanno più scalpore. Secondo cifre ufficiali, in Messico più di 34 mila persone sono state denunciate come desaparecidas. Tra agosto e ottobre 2017, è stata fatta sparire una persona ogni 90 minuti. E la cifra ufficiale sicuramente sottostima la realtà, perché molto spesso per paura le famiglie non sporgono denuncia. Un timore giustificato, visto che alcuni genitori che si sono organizzati per cercare i propri figli sono stati assassinati. La sorte di Marco Antonio è stata differente. Forse perché la foto del giovane sdraiato a terra e picchiato dai poliziotti è circolata rapidamente nelle reti sociali, forse perché quello che succede nella capitale ha più risonanza, ma questa volta la risposta della popolazione alla denuncia della famiglia è stata immediata. Domenica le strade della capitale si sono riempite di gente che chiedeva: “Dov’è Marco Antonio?”.
La notte stessa, il ragazzo è stato rintracciato mentre vagava in stato confusionale a Melchor Ocampo. Presto le autorità si sono vantate di aver trovato una persona che loro stessi avevano fatto sparire, e le domande sono ancora molte: com’è arrivato Marco Antonio a Melchor Ocampo, che si trova a 40 chilometri dal posto in cui era stato arrestato? Cosa gli è successo durante quei cinque giorni?
Quel che si sa è che il ragazzo è apparso con sangue sul volto, con segni di percosse e vestiti differenti a quelli che indossava. Non riconosce i suoi genitori e a loro sembra un’altra persona: non parla ed è in stato confusionale.

il manifesto 31.1.18
L’impietoso sangue delle congiure rinascimentali
Storia. Tre volumi recenti individuano il tragitto di famiglie e dinastie cinquecentesche, tra Firenze, Roma e Genova. Dal più noto Lorenzo il Magnifico, alla vicenda dei Pazzi, per proseguire con gli aristocratici Fieschi. Percorso di letture tra saggi di Barbara Frale, Franco Cardini, Luigi Mascilli Migliorini e Gabriella Airaldi
di Martina Montesano


Serie televisive recenti come i Tudors e i Medici ci hanno abituati a pensare al Rinascimento come a un’età di intrighi e congiure, oltre che di splendori artistici. E in un certo senso, il libro di Barbara Frale e Franco Cardini, La Congiura. Potere e vendetta nella Firenze dei Medici (Laterza, pp. 306, euro 20) sembra andare incontro alle aspettative di un pubblico ben predisposto. Si apre infatti con un affresco della cultura fiorentina del Quattrocento, per molti versi ineguagliata in Europa, per poi stringere sui Medici e sulla cosiddetta congiura dei Pazzi.
PARTIAMO dalla storia dell’Italia di quall’epoca. Verso la metà del Quattrocento, era chiaro che nessuno dei maggiori stati territoriali italiani maggiori avrebbe mai potuto prevalere sull’altro, e che dal proseguimento della guerra per la successione al ducato di Milano tutte le parti in conflitto avrebbero avuto da perdere.
Alfonso V, re di Napoli e d’Aragona, si rassegnò dinanzi al dato reale che Firenze non gli avrebbe mai consentito di impadronirsi anche di Milano, tanto più che la stessa Venezia aveva compreso che in fondo, come duca di quella città, il condottiero Francesco Sforza era un pericolo minore che non l’aragonese. Né si potevano escludere ingerenze dai paesi d’oltralpe. La Francia stava uscendo dalla guerra dei Cent’Anni: la corona francese vantava diritti di successione sia su Milano (a causa del matrimonio tra Giangaleazzo Visconti e Isabella di Francia), sia su Napoli (attraverso i diritti vantati dagli Angioini). Uno stato di discordia non giovava né allo Sforza, né ad Alfonso: avrebbe potuto richiamare sulla penisola l’attenzione del re francese.
Inoltre, nel 1453 Costantinopoli era caduta in mano ai turchi ottomani: la sua ultima notte è stata di recente raccontata assai bene da Luigi Mascilli Migliorini, Le verità dei vinti. Quattro storie mediterranee (Salerno, pp. 144, euro 12). Papa Niccolò V aveva risposto proclamando una crociata che non si fece mai, ma alla quale sia Alfonso di Napoli sia il duca di Borgogna avevano risposto con entusiasmo. Il possesso di Costantinopoli da parte del sultano Mehmet II minacciava gli interessi commerciali di Firenze, di Venezia e di Genova, ma era idea corrente in tutte queste città che in fondo ci si potesse accordare con i nuovi padroni: tutto ciò richiedeva comunque una pausa di ripensamento in tutta la politica italica. Si giunse perciò alla pace di Lodi (1454), con la quale si fissava il confine tra Milano e Venezia all’Adda e si stabiliva una specie di implicita intesa, sulla base della quale i cinque grandi stati territoriali italiani – ducato di Milano, repubblica di Venezia, repubblica di Firenze, stato della Chiesa, regno di Napoli – s’impegnavano praticamente a mantenere lo status quo nel reciproco interesse.
Il «sistema dell’equilibrio» fu forse d’altronde sopravvalutato dalla storiografia italiana cinquecentesca, a partire dal Guicciardini, che, in un momento d’invasione straniera e di guerre continue sul suolo italico, guardò con nostalgia alla seconda metà del Quattrocento e prestò ai protagonisti della politica di quegli anni intenzioni che forse non erano mai state loro, interpretando la «politica dell’equilibrio» come un’intesa programmatica tesa a tener fuori i non-italiani dalla penisola.
IL QUARANTENNIO 1454-94 fu pertanto caratterizzato da una pace generale, ma molto imperfetta: anzi, qua e là infranta da congiure e da colpi di mano che davano luogo a tentativi di destabilizzazione e a guerre che però venivano subito risolte o quanto meno localizzate da un’intesa che impediva loro di dilagare. Ai primi degli Anni Settanta, una spinta destabilizzatrice fu impressa da papa Sisto IV (1471-84), il francescano genovese Francesco della Rovere, che intendeva servirsi del soglio pontificio per portare avanti una politica «nepotista», tesa a sistemare – con cardinalati, vescovati e signorie di città e di terre – i suoi congiunti. Per una lunga serie di ragioni, che La congiura spiega nei dettagli, tra il pontefice e Lorenzo de’ Medici la situazione si fece presto tesa.
Sisto IV giunse a convincersi che la politica fiorentina avrebbe potuto venir modificata in suo favore solo se il potere fosse sfuggito di mano a Lorenzo; anzi, che sarebbe stato possibile addirittura mettere le mani sulla città rivale. Era necessario, a tal fine, accordandosi con le grandi famiglie fiorentine che detestavano casa Medici fra le quali, i Pazzi, legati economicamente al papa.
IL SUSSEGUIRSI di violenze e intrighi finirono per coinvolgere non solo Firenze e Roma, bensì l’Italia intera e lo scacchiere mediterraneo nel quale era inserita. Addentrarsi troppo nel dettaglio toglierebbe il piacere della lettura, visto che a tratti il libro si legge come un giallo.
Meno di un secolo più tardi, un’altra congiura, altro sangue, altre vendette si consumano intorno alla città di Genova. Una città la cui storia è meno universalmente nota di quella fiorentina, ma che nel Cinquecento gioca un ruolo di primo piano nella storia europea. È la congiura dei Fieschi, grande famiglia dell’aristocrazia genovese, che ci viene raccontata da Gabriella Airaldi in La congiura dei Fieschi. Un Capodanno di sangue (Salerno, pp. 140, euro 12). Sullo sfondo, il passaggio del celebre ammiraglio Andrea Doria, che abbandona il campo del re di Francia, Francesco I, per unirsi a quello dell’imperatore Carlo V d’Asburgo. Nel frattempo, proprio come nella Firenze di Lorenzo, anche a Genova si andava consumando un cambio della guardia che opponeva alcune fra le grandi famiglie cittadine.
A FARE LE SPESE della congiura Giannettino Doria, giovane e promettente erede della grande famiglia, passato dalla storia al mito grazie alla penna di celebri scrittori. Anche nel caso de La congiura dei Fieschi, la «grande storia», nel senso della storia istituzionale, si fonde alla perfezione con le trame noir indispensabili in ogni intrigo.
Non tanto per la congiura, quanto per ciò che ne consegue, ossia la ritorsione, nella quale convergono gli interessi di tre soggetti: l’Impero, la Repubblica (ossia l’apparato istituzionale della città), e il clan familiare della vittima.
Perché, come scrive l’autrice: «Per tutti e tre la congiura è un atto di tradimento contro il quale si deve esercitare una giustizia che secondo i canoni del tempo, è anche vendetta. Infatti nel primo caso si tratta di fellonia (…); nel secondo, si tratta di un tradimento parricida nei confronti della Repubblica; nel terzo, di una atto di sangue compiuto verso una famiglia che, come sempre è accaduto, deve cancellare quest’atto di sangue con altro sangue».