il manifesto 27.1.18
Le leggi razziali compimento del fascismo
di Enzo Collotti
Quest’anno il Giorno della Memoria coincide con la ricorrenza dell’ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi contro gli ebrei dell’Italia fascista. Promulgazione ad opera di quel sovrano Vittorio Emanuele III al quale, se non altro per questa ragione, devono essere precluse le porte del Pantheon.
Come giustamente ricorda una importante pubblicazione edita l’anno scorso in Germania per gli ottanta anni dalle leggi di Norimberga, fu una iniziativa tutta italiana senza che vi fosse alcuna pressione da parte del Reich nazista, come si ostina a ripetere qualche tardo estimatore di Benito Mussolini.
Tutto quello che si può dire in proposito è che nell’Europa invasa dall’antisemitismo, l’Italia fascista non volle essere seconda a nessuno, ossessionata come era, fra l’altro, dallo spettro della contaminazione razziale.
Frutto avvelenato dell’appena conquistato impero coloniale e della forzata coabitazione con i nuovi sudditi africani.
Come tutti i neofiti, anche il razzismo fascista ebbe il suo volto truce. La «Difesa della razza», l’organo ufficiale del regime che ebbe come segretario di redazione Giorgio Almirante, ne forniva la prova in ogni numero contraffacendo le fattezze fisiche degli ebrei o rendendo orripilanti quelle delle popolazioni nere.
Il tentativo di fare accreditare l’esistenza di una razza italiana pura nei secoli aveva il contrappasso di dare una immagine inguardabile delle popolazioni considerate razzialmente impure. L’arroganza della propaganda non impedì che essa facesse breccia in una parte almeno della società italiana e ancora oggi non è detto che essa si sia liberata dall’infezione inoculata dal fascismo, come stanno a dimostrare piccoli, ma numerosi episodi che si manifestano, e non solo negli stadi.
Non bisogna fra l’altro dimenticare che non solo tra il 1938 e l’8 settembre del 1943 l’odio razziale ebbe libero corso, ma che dopo l’armistizio e l’occupazione tedesca la caccia agli ebrei divenne uno dei principali motivi dell’esistenza della Repubblica Sociale neofascista.
In nome della purezza della razza il regime costrinse a fuggire o mise in campo di concentramento ebrei che in altre parti d’Europa si erano illusi di trovare un rifugio non precario entro i confini italiani; ma costrinse all’emigrazione scienziati e intellettuali italiani, privando il Paese di una componente culturale che, nella più parte dei casi, non avrebbe fatto ritorno in Italia neppure dopo la liberazione anche a causa degli ostacoli non solo burocratici alla reintegrazione di quanti erano stati costretti a espatriare e che per tornare a esercitare il proprio ruolo in patria non avrebbero potuto contare su nessun automatismo.
Le leggi contro gli ebrei costituirono un’ulteriore penetrazione del regime nel privato dei cittadini: il divieto dei matrimoni con cittadini ebrei; l’espulsione degli ebrei come studenti ed insegnanti dalle scuole e dalle università; l’espulsione degli ebrei dalla pubblica amministrazione.
Di fatto, ma anche di diritto, si venne a creare una doppia cittadinanza con cittadini di serie A e cittadini di serie B, preludio dell’ostracismo generalizzato sancito dalla Repubblica Sociale che proclamò semplicemente gli ebrei cittadini di stati nemici, quasi a dare la motivazione non solo ideologica per la parteicpazione italiana alla Shoah.
Ancora oggi è difficile dare una valutazione sicura delle reazioni della popolazione italiana alle leggi razziali. Le azioni di salvataggio compiute dopo l’8 settembre non devono ingannare a proposito dei comportamenti che si manifestarono prima dell’armistizio.
Gli stessi ebrei non si resero esattamente conto della portata delle leggi razziali. Il fanatismo della stampa, in particolare nella congiuntura bellica in cui gli ebrei vennero imputati di tutti i disastri del Paese, andava probabilmente oltre il tenore dello spirito pubblico che oscillava tra indifferenza e cauto plauso, aldilà del solito stuolo dei profittatori.
Le autorità periferiche non ebbero affatto i comportamenti blandi che qualche interprete vuole tuttora addebitare loro. Il conformismo imperante coinvolse la più parte della popolazione. Il comportamento timido, più che cauto, della Chiesa cattolica non incoraggiò in alcun modo atteggiamenti critici che rompessero la sostanziale omogeneità dell’assuefazione al regime.
A ottanta anni di distanza la riflessione su questi trascorsi è ancora aperta e si intreccia con alcuni dei nodi essenziali della storiografia sul fascismo (per esempio la questione del consenso).
È una storia che deve indurci ad approfondire un esame di coscienza collettivo alle radici della nostra democrazia e a dare una risposta a fatti che sembrano insegnarci come la lezione della storia non sia servita a nulla se è potuto accadere che il presidente del tribunale fascista della razza diventasse anche presidente della Corte Costituzionale della Repubblica.
Corriere 27.1.18
La collana Oggi in edicola con il quotidiano «Se questo è un uomo», il primodi sedici volumi contenenti le opere del grande scrittore ebreo sopravvissuto alla deportazione nel più importante campo di concentramento e di sterminioUna testimonianza di valore inestimabile sotto il profilo civile e quello letterario
Il coraggio di ricordare e il dovere di raccontare La voce di Primo Levi dall’abisso di Auschwitz
di Antonio Ferrari
In Primo Levi tanti si sono specchiati, perché lo scrittore sopravvissuto agli orrori di Auschwitz non sfoggiava coraggio indomito da superuomo, ma aveva la forza che scaturisce dalla volontà di chi ha dominato la paura. La sua storia nasce dalla rabbia per le ferite subite (fisiche, ma soprattutto psicologiche) che lo hanno spinto a voler raccontare subito quel che gli altri sopravvissuti ai campi di sterminio avevano e hanno taciuto per quasi trent’anni, nel timore di non essere creduti.
Questo ebreo, convinto antifascista, dopo qualche dissapore famigliare, si era unito a formazioni partigiane, e dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, aveva raggiunto le montagne della Val d’Aosta. «E ora chi vuole davvero combattere ha preso la via dei monti», aveva scritto Ruggero Zangrandi.
Non fu fortunato, Primo Levi. Catturato dai nazifascisti, preferì confessare la sua appartenenza — «sono ebreo» — piuttosto che rischiare di compromettere i compagni che lottavano con lui contro gli occupanti tedeschi e le forze della Rsi.
Arrestato subito, fu portato a Fossoli, campo di transito non lontano da Carpi, in provincia di Modena. Da lì, caricato su un treno merci in cui c’erano cinquanta persone per carrozza, visse il destino dei tanti sventurati che condivisero quel feroce viaggio, in cui la maggior parte, soprattutto gli anziani e i più deboli, morirono prima di arrivare a destinazione. Levi ebbe una prima «fortuna», se così si può dire. Essendo laureato in Chimica, aveva ottenuto il «privilegio» d’essere dirottato dopo qualche tempo nel campo di Buna-Monowitz, conosciuto come Auschwitz III, che dista poche centinaia di metri dal lager centrale. Non era di salute ferrea, anzi piuttosto cagionevole, ma fu subito circondato dall’umanità di alcune persone che riuscivano a comprenderne il dramma. Ed è qui che Primo Levi scopre il mondo, feroce, solidale e spietato, delle retrovie del campo di sterminio, dove ciascuno aveva un ruolo: i morti viventi, i predestinati, gli intraprendenti, i kapò. Le camere a gas erano a poca distanza, dai camini uscivano fumo e cenere. Se questo è un uomo , capolavoro di testimonianza diretta e realismo, è il racconto-documento che Levi scrisse di getto, tra la fine del 1945 e il gennaio 1947. Un tuffo terribile, nel desiderio di sapere, di vedere e di conoscere, a che cosa può portare l’abiezione, e l’ingresso in un inferno dantesco.
Primo Levi respira la vita del lager, e in particolare si lega al gruppo degli ebrei saloniki , che vengono dalla città al nord della Grecia e che hanno imparato in fretta, essendo stati deportati in anticipo, le immonde regole del lager, dove ogni cosa, ogni oggetto, ogni informazione, ogni pezzo di pane ha un prezzo e un valore. La fame è un incubo, e gli ebrei di Salonicco si dimostrano «ladri, saggi, generosi, furfanti e solidali», come li ha descritti Levi, e come ha ricordato Sergio Luzzatto sulle colonne del nostro «Corriere della Sera» nel 2007. È come se anche ad Auschwitz ci fosse una Borsa valori, che calcolava non soltanto le valute sottratte agli aguzzini nazisti o agli ebrei che le avevano nascoste. Borsa che seguiva indici spietati da mercato ultracapitalistico, altro che hedge fund e Bitcoin.
Per esempio, come racconta Levi, il cambio di biancheria intima al mercato del lager aveva regole ferree: a volte si poteva scambiare una camicia con discrete dosi di cibo, altre volte la camicia o gli «intimi» non valevano neppure un tozzo di pace. Liliana Segre, che il presidente Sergio Mattarella ha nominato senatrice a vita, ha raccontato che una volta, in coda per la distribuzione di un’improbabile minestra a un gruppo di affamati, aveva ascoltato da una detenuta precedente che in quella «brodaglia» nuotava un topo. La Segre disse: «Forse andava bene anche il topo».
La fame era davvero un incubo. I saloniki , che del lager conoscevano ormai tutti i segreti e i sotterfugi, erano diventati, con le buone o le cattive, i padroni delle cucine, contando su una sottile ed esperta catena di spicciola corruzione. Un ebreo di Salonicco, che ormai faceva parte del Sonderkommando , cioè degli ebrei addetti alla pulizia delle camere a gas e dei forni crematori, raccontò alla collega Alessia Rastelli e a chi scrive che si poteva anche tentare di sottrarsi al forno, pagando una forte somma o qualche dente d’oro. Sami Modiano, che veniva da Rodi, ci raccontò che, ormai destinato al gas, si salvò perché era arrivato un carico di patate alla stazione e i nazisti avevano bisogno di braccia giovani per scaricarle. Nedo Fiano, altro sopravvissuto, ci raccontò d’essersi salvato perché conosceva il tedesco, sapeva cantare ed era di Firenze. L’ufficiale-aguzzino, che forse era andato in vacanza nel capoluogo toscano con la fidanzata, lo prese in simpatia.
Primo Levi, nelle pagine più intense di Se questo è un uomo , racconta le prime notti sul pagliericcio e l’ingresso in quel tremendo dormiveglia fra il sogno di rivedere la libertà, la casa, gli amici, e l’incubo di un cibo abbondante che non riusciva mai a raggiungere, perché il sogno-incubo finiva. Poco prima della liberazione del lager da parte dell’Armata Rossa, Levi vive un secondo «incidente fortunato». Si ammala di scarlattina, malattia infettiva, e viene ricoverato nell’infermeria. Evita così la «marcia della morte», con il brutale trasferimento dei prigionieri: chi non ce la faceva e cadeva, veniva ucciso subito. I nazisti non volevano testimoni dei loro crimini.
Dopo molte peripezie, lo scrittore-chimico torna a Torino, cerca di riadattarsi alla vita civile, ma deve prendersi carico della mamma e della suocera, seriamente malate. Levi, a 67 anni, in fondo alle scale della sua casa, cade e muore. Si disse che non era stato un incidente, ma forse un suicidio. Non si può escluderlo. Della vita Primo Levi aveva conosciuto, da fragile coraggioso, soprattutto il peggio.
Memoria, romanzi e racconti, interviste Una serie che comprende sedici uscite
È in edicola da oggi con il «Corriere della Sera», in occasione della Giornata della Memoria, il romanzo-testimonianza di Primo Levi (Torino, 1919-1987), Se questo è un uomo , al costo di e 7,90 più il prezzo del quotidiano. Il volume è il primo della nuova collana «Opere di Primo Levi» (nel piano dell’opera della pagina accanto sono riportate tutte le 16 uscite), dedicata ai lavori dello scrittore e chimico. I volumi, tutti editi da Einaudi (fatta eccezione per la raccolta di poesie Ad ora incerta , proveniente dal catalogo Garzanti), sono presentati nella versione originale dell’editore; solo i Racconti sono suddivisi in due uscite. Se questo è un uomo (la prefazione è di Cesare Segre) è il volume che Levi pubblicò nel 1947, reduce da Auschwitz, e narra lo sconvolgente inferno dei lager, l’offesa, l’umiliazione e l’inerme degradazione dell’uomo di fronte allo sterminio di massa. È il testo che ha reso Levi uno degli scrittori italiani più letti nel mondo. Tra le prossime uscite, tutte settimanali: La tregua (3 febbraio); Se non ora, quando? (10 febbraio); La chiave a stella (17 febbraio).
Corriere 27.1.18
Ruppe subito il silenzio E molti non lo capirono
Altri preferivano non rievocare tante atrocità
E trovare un editore all’inizio fu un problema
di Frediano Sessi
Il ritorno a casa dalla deportazione, per Primo Levi, fu lungo più del previsto. «Per ragioni non chiare — scrive — il nostro rimpatrio ebbe luogo il 19 ottobre del 1945», dopo trentacinque giorni di viaggio. A Torino, nessuno lo aspettava. «Ero gonfio, barbuto e lacero, e stentai a farmi riconoscere». A casa, si sentiva schiacciato dal peso dei ricordi, più vicino ai morti che ai vivi.
La poesia fu il primo rifugio nella parola scritta; ma sul treno che lo riportava a Torino, Levi aveva cominciato a raccontare la sua storia. Così, quando in novembre prese a scrivere i singoli episodi del libro di ricordi, aveva ben chiaro che cosa dire. Scrisse forse gli ultimi capitoli; come disse poi in alcune interviste, Storia di dieci giorni fu il primo a essere scritto.
Furono gli amici e la sorella Anna Maria a leggere il dattiloscritto e a incoraggiare Primo a pubblicarlo, così il testo fu inviato ad alcuni editori, tra i quali la casa editrice Einaudi. Ma in breve, il libro fu letto e rifiutato da tutte le case editrici interpellate. Che fare? L’amico Silvio Ortona, segretario del Partito comunista di Vercelli, dopo avere letto alcuni capitoli, gli propose di pubblicarli a puntate sul settimanale del partito «L’Amico del Popolo». È il primo passo verso una redazione pubblica dei ricordi di Levi.
Intanto, la sorella Anna Maria, aveva portato il dattiloscritto agli uffici della casa editrice De Silva, di proprietà di Franco Antonicelli, che accolse la proposta di buon grado. In attesa della pubblicazione presso l’editore De Silva, Levi apportò alcune modifiche al dattiloscritto. Aggiunse colore, emozione, precisione e dettagli alle descrizioni, cercando di arrivare in modo più diretto al cuore del lettore: «Ho cercato di mantenere l’attenzione sui molti, sulla norma, sull’uomo qualsiasi, non infame e non santo, che di grande non ha che la sofferenza». Il libro fu stampato in 2.500 copie, ma ebbe poca circolazione al di fuori della città di Torino e del Piemonte. Già nella primavera del 1948, nessuno ne parlerà più, nonostante le ottime recensioni scritte da Italo Calvino e Cesare Cases.
Verso la fine di maggio del 1955, Levi ricorda che fu invitato a commentare una mostra sulla Resistenza in Piemonte e che fu assediato «veramente bombardato», di domande sulla sua esperienza diretta. Allora si decise a riportare il suo libro alla casa editrice Einaudi che, questa volta, l’11 luglio del 1955 firmò un contratto per la riedizione. Nonostante l’impegno previsto di pubblicarlo entro il marzo del 1956, il libro sarà di nuovo in libreria solo nel giugno del 1958.
Le differenze tra la prima edizione De Silva e la nuova edizione Einaudi sono significative: per esempio, mentre la prima edizione comincia con il racconto del campo di Fossoli, la seconda riporta il racconto dell’arresto in Valle d’Aosta.
Levi vuole così stabilire un ponte tra la sua storia di ebreo ad Auschwitz e il breve periodo trascorso nella Resistenza. Molte altre aggiunte vanno nella direzione di attribuire maggiore chiarezza al testo, che deve, assolutamente, raccontare dei fatti. Levi accorda un posto di rilievo al racconto di alcuni bambini deportati. Questo si spiega anche con il fatto che nel 1958, Levi è padre per la seconda volta. Le altre aggiunte riguardano per esempio il terzo capitolo, Iniziazione , che non era presente nella prima edizione; capitolo nel quale Levi presenta la babele concentrazionaria. Interessante notare il senso profondo di queste aggiunte: la volontà di annientare gli ebrei, sembra suggerire Levi, riguarda l’intera umanità, proprio perché colpisce anche i bambini.
La scrittura di Levi, procede già in questo libro per «tessere», vale a dire parti essenziali che si incastrano e che hanno funzioni diverse: a volte sono narrative, altre volte invitano o propongono una riflessione, altre volte servono a costruire il sentimento del tempo, a sollecitare, più che la ragione, l’emozione del fatto narrato, quasi a voler indurre il lettore a provare compassione.
Ma il viaggio di Se questo è un uomo non finisce qui: nel 1964, Levi licenzia una versione radiofonica del libro, che andrà in onda alla radio il 25 di aprile, anniversario della Liberazione. La riduzione teatrale, invece, scritta in collaborazione con l’attore Pieralberto Marché è del 1966.
il manifesto 27.1.18
Come disfare la banalità del male
Giornata della Memoria. Intervista con Piotr M. A. Cywinski, direttore del Museo di Auschwitz. Il luogo che un tempo è stato il più grande campo di sterminio, dal 2006 è diretto dallo storico polacco. «Dobbiamo approdare a una nuova comprensione della responsabilità che pesa su ciascuno di noi»
di Guido Caldiron
«Memoria, consapevolezza, responsabilità». Nel tracciare le coordinate del suo lavoro come direttore del Museo-Memoriale di Auschwitz-Birkenau, creato dove esisteva il più grande campo di sterminio industrializzato del Terzo Reich, ma un luogo assurto anche a tragico simbolo dell’intera barbarie nazista, lo storico polacco Piotr M. A. Cywinski non ha mai avuto dubbi.
Come ha spiegato in Non c’è una fine (Bollati Boringhieri, pp. 148, euro 15), «stando ad Auschwitz giudichiamo molto di più di una specifica generazione, giudichiamo l’umanità. Di conseguenza giudichiamo noi stessi». Il senso di questo ricordo interpella perciò in maniera radicale il presente come il futuro, ciò che si compie ancora oggi nell’indifferenza dei più, il ruolo e le responsabilità della «civile» Europa che in quel luogo perse, definitivamente, la propria innocenza. Altrettanti interrogativi che riecheggiano nel Giorno della Memoria.
Dal 2006 lei guida il Memoriale e il Museo di Auschwitz-Birkenau, quali le sfide più importanti con cui si è dovuto misurare?
Un sito di tale vastità pone a chi se ne deve occupare molte sfide, e di diversa natura. Richiede allo stesso tempo una sorta di attenzione tecnica costante e una delicata preoccupazione emotiva. Il tutto, cercando di mantenere un approccio storico e morale onesto.
Sul piano concreto, la responsabilità maggiore è stata certamente quella di definire e far sì che si mettesse in pratica un meccanismo di finanziamento dei lavori di conservazione che è essenziale per il futuro. Allo stesso modo si è trattato di impegnarsi per mantenere l’autenticità del sito, vale a dire ciò che ne fa un luogo sacro e che «parla» ai visitatori. Questo perché i milioni di persone che vengono ogni anno ad Auschwitz (50 milioni fino a oggi, nda) non lo fanno con lo spirito di chi si reca a visitare un qualunque museo. Sperano di compiervi il proprio rito di passaggio, di avvicinarsi il più possibile alla comprensione dell’essere umano, con tutte le conseguenze che questo comporta.
Lei ha scritto che questo luogo non deve smettere di «urlare», non può essere né normalizzato né pacificato in alcun modo. Corriamo concretamente questo rischio?
Senza dubbio. A lungo termine il rischio è evidente. Oggi, gli strumenti di tortura del Medioevo sono esposti nelle fiere di paese per suscitare la curiosità dei bambini. Un’evoluzione decisamente macabra.
Perciò, la grande sfida è far comprendere che Auschwitz non rappresenta un avvenimento tra i tanti lungo un ampio asse temporale della storia europea. Auschwitz è un punto di non ritorno. Gli enormi sforzi compiuti dopo la Seconda guerra mondiale nella prospettiva della creazione di un mondo più umano, da un punto di vista giuridico, politico, culturale, economico e religioso, rappresentano dei passi senza precedenti nella nostra cultura, ma è proprio la comprensione di ciò che è stato Auschwitz che rappresenta la chiave per comprendere fino in fondo il valore e il significato di questi cambiamenti. È sinceramente impossibile capire cosa è accaduto dopo il 1945 senza vedere nella Shoah un punto di svolta totale nella civiltà europea.
Nel suo libro ha sottolineato come la voce dei sopravvissuti e il Memoriale siano i due pilastri della narrazione di Auschwitz. Con il tramonto dell’«era del testimone» che ruolo sarà chiamato a svolgere quello che lei chiama a giusto titolo il «Luogo»?
Il Luogo rende i racconti dei sopravvissuti più credibili. Esattamente come queste testimonianze rendono il Luogo più comprensibile. È un’esperienza totalmente diversa visitare Auschwitz dopo aver letto Primo Levi, Shlomo Venezia o Elie Wiesel. E la lettura di queste pagine diviene qualcosa di differente quando si è camminato sulla stessa rampa di cui parlano, quando si è entrati in una delle baracche che vi sono descritte, o quando si è passati sotto l’insegna che recita: «Arbeit macht frei». Perciò, nella percezione di tutti, Auschwitz deve e dovrà funzionare in qualche modo anche in futuro all’unisono con le voci dei sopravvissuti. Per questo continuiamo a raccogliere e pubblicare le loro testimonianze.
Il suo ufficio è vicino al punto in cui termina abitualmente la visita al «campo». Milioni di persone, soprattutto giovani, prendono parte ai viaggi della memoria che rappresentano uno dei modi in cui negli ultimi anni molti si sono misurati con quanto accaduto ad Auschwitz e, più in generale, con la Shoah. Cosa legge nei loro volti al momento di lasciare il sito e cosa crede porteranno con sé dopo questa esperienza?
Le persone che vedo ogni giorno ad Auschwitz sono molto diverse tra loro. Questi giovani vengono da società, paesi e continenti differenti. E hanno ovviamente vari e diversi punti di riferimento. Ciò che mi sta davvero a cuore è che dopo aver fatto questa esperienza, nell’immaginare il proprio futuro e il ruolo che intendono svolgervi, varchino la soglia della memoria per acquisire grazie a ciò che hanno visto e sentito qui una visione della propria responsabilità individuale. E perché questo accada credo vada fatto anche un vero lavoro educativo sia prima che soprattutto dopo la visita. La storia da sola non è sufficiente, va legata all’etica e all’educazione civile. Abbiamo un dovere nei confronti delle nuove generazioni: offrire loro tutti gli strumenti perché possano diventare degli adulti consapevoli.
Elie Wiesel, scomparso lo scorso anno, definiva Auschwitz come il «luogo della verità» e spiegava come ricordare non sia sufficiente, ma vada compreso e trasmesso come la Shoah abbia avuto luogo grazie all’azione e all’indifferenza di tanti, facendo sì che la memoria sia messa in questo modo al servizio di una presa di coscienza. Non crede si tratti di una lezione che dovrebbe tornarci utile oggi che nuove forme di discriminazione e di indifferenza circondano le sorte dei migranti in Europa e le vite di tante vittime della guerra alle porte di casa nostra?
È proprio per questo che rinchiudere la Shoah nello spazio della storia non è sufficiente. Il grido delle vittime non è unicamente un grido che ci arriva dalla storia. È un grido morale, etico, civile. E se qualcuno pensa che provare che un «fatto» è avvenuto sia sufficiente, si sbaglia di grosso. È riflettere sul senso, sul significato di quel fatto, per me e oggi, che rappresenta la vera posta in gioco, se vogliamo approdare a una nuova comprensione della responsabilità che pesa su ciascuno di noi. La nostra indifferenza di oggi ci accusa ancor più di quella del tempo della guerra. Da un lato sappiamo ormai fin troppo bene quale sia il prezzo di questa indifferenza, dall’altra, i nostri strumenti di azione sono di tutt’altro livello rispetto a quelli del passato.
E, elemento che aggrava ancor più la nostra situazione, viviamo in società che conoscono la pace da lungo tempo. È facile dispiacersi per un mondo che non ha fatto abbastanza durante la Seconda guerra mondiale. Ma questo sentimento può essere considerato sincero solo per chi si sforza di fare tutto il possibile ora. Ci saranno in futuro musei dedicati all’ondata di profughi o alla tragedia dei Rohingya in Birmania. E allora saremo tutti noi ad essere considerati responsabili di quanto accaduto.
Nelle nostre società si torna a parlare di «difesa della razza bianca», si denuncia la presenza dei musulmani come un «corpo estraneo», riecheggiano parole d’ordine fasciste e slogan antisemiti, come accade anche nella sua Polonia. Se, come lei ha scritto, ad Auschwitz l’Europa si è perduta, come ripartire da questa presa di coscienza per fare fronte alla nuova barbarie che monta?
Ovunque, nelle nostre società si assiste a una recrudescenza dell’estremismo e della xenofobia. Un fenomeno che è ancor più che inquietante e che chiede si moltiplichino gli sforzi e la presenza sul piano pubblico ed educativo. In questo senso, stiamo sviluppando il lavoro sulla rete, ad esempio attraverso una rivista internazionale (memoria.auschwitz.org) e abbiamo appena lanciato una grande mostra itinerante su Auschwitz destinata nei prossimi anni ad essere esposta nel Vecchio Continente come negli Stati Uniti.
Repubblica 27.1.18
La donna che visse sei volte
Non mi sono mai sentita una vittima, neppure nelle condizioni più avverse. Coltivavo pervicacemente una sorta di estraneità anche perché ignara della tragedia che stavo vivendo
Da Terezín ad Auschwitz, da Mauthausen a Bergen-Belsen Zdenka Fantlová, famiglia ebrea cecoslovacca, fu deportata da un campo all’altro
intervista di Simonetta Fiori
Una fotografia scattata nel 1948 la ritrae spavalda, le labbra ben disegnate, d’una bellezza luminosa, perfino sfrontata. Niente lascia intendere che quella giovane donna con le perle sia una sopravvissuta di Auschwitz. E di altri cinque campi: prima Terezín, più tardi Kurzbach, Gross-Rosen, Mauthausen, Bergen-Belsen. Forse perché Zdenka Fantlová, figlia d’una famiglia ebrea cecoslovacca, non ha mai accettato l’identità di vittima. Anche le sue memorie ora pubblicate in Italia mostrano una tonalità inedita nella letteratura della Shoah, proprio per un’adesione alla vita che non ammette ombre né sospensioni.
Come se l’orrore vissuto nei lager non avesse lasciato un segno nel suo sguardo. Come se davvero fosse possibile sopravvivere integri ad Auschwitz ( 6 campi, l’incredibile storia di una delle ultime testimoni
viventi della Shoah, edizioni tre60, tradotto dall’inglese The tin ring).
A novantacinque anni la voce energica di Zdenka tradisce al telefono un carattere fermo, anche imperioso. Qualche colpo di tosse non la distoglie da un racconto che mescola urgenza morale e liturgia ripetitiva. Alle domande emotivamente più difficili tende a sfuggire, riconducendo l’attenzione su un vissuto che giustamente esige silenzio e ascolto. Oggi vive a Londra, in una strada elegante dalle parti di Kensington. Sbarcata in Australia nell’immediato dopoguerra, per una ventina d’anni ha calcato le scene teatrali con discreto successo, ricevendo anche un riconoscimento per il ruolo di contadina siciliana nella Rosa tatuata di Tennessee Williams. S’è sposata, ha avuto una figlia e due nipoti. «La vita è stata molto generosa con me», dice Zdenka.
Può sembrare un paradosso per una donna che ha preso parte alle “marce della morte”. In realtà non lo è. Nella lotta con il dolore ha vinto lei.
Mrs Fantlová, perché s’è decisa a scrivere la sua storia solo dopo cinquant’anni?
«Perché solo dopo mezzo secolo sono tornata a casa. Nei primi tempi avevo voglia di dimenticare, come molti dei sopravvissuti della Shoah.
Ho vissuto tanti anni in Australia, poi nel 1969 ci siamo trasferiti a Londra. Ma per tornare in Cecoslovacchia ho aspettato la fine del comunismo. Prima non la consideravo un posto sicuro».
Ed è stato il ritorno a casa che le ha fatto venire voglia di scrivere?
«In realtà sono state le domande dei miei vecchi compagni di scuola ritrovati a Rokycany, una cittadina a 80 chilometri da Praga. Non ci vedevamo dal gennaio del 1942, quando la mia famiglia venne deportata a Terezín. “Ma perché sei l’unica sopravvissuta?”.
“Che vita hai fatto nei campi di concentramento?”.
Domande semplici cui però non era facile rispondere. Così, tornata a Londra, mi sono affiorati alla mente tanti particolari che avevo accantonato da qualche parte».
Il suo racconto è diverso da altre testimonianze per il tono incredibilmente vitale. Ma lei ha vissuto realmente la sua prigionia in quel modo o ha scelto di raccontarla così?
«Io l’ho vissuta in quel modo. Questo perché non mi sono mai sentita una vittima, neppure nelle condizioni più avverse. Mi sono sempre percepita come un’osservatrice di eventi che però non mi riguardavano personalmente.
Coltivavo pervicacemente una sorta di estraneità anche perché ignara della tragedia che stavo vivendo. E anche mentre subivo orrende umiliazioni, facevo in modo che non mi dominassero fino in fondo».
Come è stato possibile?
«Non avevo paura. E questo mi ha reso più forte. Anche nel dopoguerra sono rimasta libera da quei ricordi, non ho cercato di soffocarli sotto una pietra come hanno tentato di fare altri sopravvissuti alimentando così le loro ansie. Credo che ciascuno di noi – noi reduci dalla Shoah - abbia sofferto e resistito in modo diverso».
Lei ha vissuto l’esperienza straordinaria del cabaret a Terezín.
«Sì, lavoravo nelle cucine del campo quando fui avvicinata da un ragazzo pallido con l’aria triste da Pierrot.
“Scusi signorina lei sa piangere?”. Poi mi invitò alle prove dello spettacolo nella baracca Magdeburgo. Era Josef Lustig, attore e drammaturgo famoso per le commedie satiriche».
Cosa significava fare teatro in un campo?
«Non era intrattenimento o distrazione, ma speranza! ( ndr Zdenka ripete tre volte: hope hope hope). Speravamo che la guerra sarebbe finita presto e noi saremmo tornati a casa. Tutte le iniziative culturali – anche musica, concerti, recital – ci riportavano alla vita civilizzata che facevamo prima della guerra. Il teatro ci dava la forza per andare avanti, più prezioso d’un pezzo di pane. Mi ricordo ancora la canzone finale dello spettacolo di Karel Svenk, una sorta di Charlie Chaplin ceco. Le sue satire erano smaccatamente politiche e rispecchiavano i desideri di ciascun ebreo seduto in platea. “Volere è sempre potere, quindi tenetevi per mano, stringetevi forte, e sopra le rovine del ghetto potremo finalmente scoppiare a ridere”.
Eravamo tutti convinti che sarebbe successo».
Molte erano pièce comiche.
Cosa comportava ridere insieme ai propri persecutori?
«Ma noi non ci concepivano come prigionieri. Indossavamo i nostri vestiti, incontravamo gli amici. C’era più libertà a Terezín di quanta ne avremmo avuto nel mondo normale. Nel giro di pochi mesi la città si venne popolando di artisti, attori, registi, musicisti che erano il meglio della società culturale ceca: per una ragazzina come me fu un’occasione irripetibile. E poi noi i tedeschi non li vedevamo neppure. Avevamo soltanto guardie ceche che naturalmente ricevevano gli ordini dal comando nazista».
Tra le disposizioni più temute c’era l’ordine di salire su un treno diretto a Est.
«Sì, in fondo era come ballare sotto la forca. Ma tenga conto che allora non sapevamo niente di Auschwitz.
Vivevamo in una sorta di inganno totale. I tedeschi ci avevano condannato a morte senza dircelo, permettendoci di suonare e cantare fino all’ultimo. Ricordo ancora un gruppo di vecchi signori a cui fu promessa una gita in un rinomato centro termale: la loro preoccupazione fu di mettere in valigia l’abito a sera. E invece furono spediti in una camera a gas».
Poi il treno per Auschwitz è arrivato anche per lei, sua madre e sua sorella. Pur restituendo l’orrore, la sua testimonianza è ricca di speranza. Qualcuno ha sollevato l’obiezione che potrebbe essere “pericolosa” perché c’è il rischio che i lettori non comprendano fino in fondo la barbarie dei campi e le ferite lasciate sulle vittime.
«Io ho raccontato la mia esperienza esattamente come l’ho vissuta. E l’unico momento in cui la mia voglia di vivere è venuta meno è stato quando arrivata a Stoccolma, subito dopo la liberazione, ho scoperto che la mia famiglia era stata annientata.
Ero l’unica sopravvissuta.
Sopravvissuta anche ad Arno, il mio grande amore perduto e ritrovato a Terezín: a casa conservo ancora l’anello di latta in cui aveva inciso la data della nostra separazione».
Oggi quali sono i suoi sentimenti in un’Europa attraversata da pulsioni neonaziste e razziste?
«La gente mi chiede spesso se l’Olocausto sia ripetibile. Io rispondo sì. Perché non è stata una catastrofe naturale ma il prodotto dell’umanità. E gli uomini purtroppo non cambiano. Finché non impareranno cos’è la tolleranza, ci sarà il pericolo d’una tragedia anche peggiore».
il manifesto 27.1.18
Viene prima la forza lavoro
Libri. Forza Lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale (DeriveApprodi) di Roberto Ciccarelli. Un capitolo di etica rivoluzionaria e spinoziana: «Non sappiamo di cosa è capace una forza lavoro, non sappiamo fino a dove può arrivare una potenza». Il «lavoro vivo» alimenta le piattaforme ed è sfruttato dal capitalismo digitale. I nuovi padroni cercano sempre di tirare la corda che lega i lavoratori, ma non possono impiccarli perché impiccherebbero se stessi
di Toni Negri
Nel settembre 1969, il primo numero di «Potere Operaio» incitava i lavoratori a lottare contro «automazione e negromazione» (con questo neologismo si indicavano coloro che sarebbero stati dall’automazione esclusi dal lavoro e destinati alla miseria sociale).
Dinnanzi a quel primo apparire di congegni automatici, gli operai rispondevano: più salario, meno orario. L’automazione sembrava un alleato nel definire la forza lavoro in lotta come una «variabile indipendente» dello sviluppo.
QUALCHE SETTIMANA FA, in un seminario parigino, riders di «Deliveroo» ricordavano che le loro rivendicazioni erano, certo, «più salario», ma anche «controllo dell’algoritmo» per conquistare più decenti condizioni di vita. A cinquant’anni di distanza, mentre il padrone, senza vergogna, lesina sempre sul salario, i lavoratori puntano dunque la loro attenzione sulla governance automatica, considerandola un elemento fondamentale nella determinazione del comando sulle loro condizioni di vita.
Se osservassimo solo le rivendicazioni, ieri orario, oggi flessibilità della giornata lavorativa, poco sembrerebbe essere cambiato – quando invece guardiamo alle riflessioni sui congegni automatici, scopriamo che è mutata una cosa essenziale: la maggiore interiorità che oggi il lavoratore ha rispetto all’organizzazione del lavoro, all’algoritmo.
Quindi, sia la debolezza della sua collocazione nel processo lavorativo, sia la virtuale capacità, ovvero la forza, di rompere in maniera decisiva con l’organizzazione capitalista della valorizzazione.
QUESTA DIFFERENZA ci introduce a un paradosso: quanto più il lavoro è sottomesso al capitale, agli automatismi della valorizzazione, come avviene oggi, quanto più ogni momento della vita del lavoratore è utilizzato dal capitale per produrre valore; tanto più il lavoratore è posto nella necessità di lottare per essere autonomo nell’organizzare la giornata lavorativa e la sua vita.
Il processo lavorativo sembra così, ora, essersi sganciato dal processo di valorizzazione e quest’ultimo sembra sussumere il primo, non immediatamente ma, collocandolo dentro un rapporto fluttuante e lasco.
PERCHÉ AVVIENE QUESTO? Perché l’operaio, il lavoratore (generalmente «cognitivo») ha una certa autonomia («cognitiva») che porta con sé quando si inserisce nel processo lavorativo – un’autonomia che il padrone deve assumere in quanto tale per utilizzarla nella produzione.
Ma questo uso è difficile, il «valore della forza lavoro» non è totalmente riconducibile al «valore di scambio», l’autonomia del lavoratore è potenza lavorativa e, virtualmente, rifiuto di subordinazione. Tutto ciò costituisce lotta di classe e, come minimo, va contrattato: questa è la situazione. Fino a che punto si potrà stringere la supremazia del processo di valorizzazione, organizzato dal padrone, sopra il processo lavorativo vissuto e relativamente posseduto dal lavoratore?
IL PADRONE CERCA CONTINUAMENTE di tirare la corda che lega il lavoratore, ma non può impiccarlo – impiccherebbe se stesso – sa dunque che le cose sono cambiate, che il lavoratore non è più quello schiavizzato nella piantagione e neppure quello massificato nella grande industria, ma è, per lo più, e comunque nella tendenza, «cognitivo» – quindi sempre più essenziale e sempre meno controllabile, perchè la sua produttività aumenta quanto più il lavoratore è autonomo e potente nel rapporto cooperativo.
LEGGIAMO Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale (DeriveApprodi) di Roberto Ciccarelli, in particolare il magistrale capitolo nel quale appunto di «forza lavoro» si parla.
Qui essa è crudamente «anatomizzata in vita», in movimento – come fare altrimenti quando la classe produttiva è caratterizzata dalla spontaneità e dalla mobilità del lavoro vivo cognitivo?
IL LAVORO VIVO è qui descritto nella sua qualità di potenza immediatamente produttiva, tanto più potente perchè questa sua facoltà è moltiplicata dalla cooperazione ed estesa nell’ulteriore rapporto che lega produzione e riproduzione.
QUELLO CHE SOPRA DEFINIVAMO, oggettivamente, un paradosso, cioè la convivenza fra soggetto della valorizzazione capitalista (la forza lavoro sfruttata) e il lavoro vivo, cioè la personalità vivente nel lavoro, il lavoro di soggettivazione – quella convivenza che mal si combinava, anzi, che veniva spezzandosi, quel matrimonio difficile da celebrare fra processo di valorizzazione e processo lavorativo, è qui colto dal punto di vista del lavoro vivo stesso, dalla sua soggettivazione.
TALE È infatti il senso della domanda: «cosa può una forza lavoro?» Nel capitolo conclusivo del libro si fissa così la scoperta della dualità potente della forza lavoro, nell’autonomia di quel lavoro vivo che si oppone, pur nutrendolo, al capitale costante.
A CIO’ CONSEGUE una questione ancore più importante: come può questo potere del lavoro vivo cognitivo, farsi forza? Come può farsi sovversivo? Questa domanda è da proporre, meglio, da riproporre, perchè il libro di Ciccarelli comincia di lì, dall’ingabbiamento della forza lavoro nell’algoritmo, nelle piattaforme – e ne mostra con grande lucidità le vischiosità e le latenti contraddizioni, ne chiarisce la sempre virtuale dialettica oppositiva.
Una controversia, è l’eufemismo che Ciccarelli usa drammatizzando quella dualità di potenza e soggezione/sfruttamento e concludendo, senza alcun eufemismo, la critica della forza lavoro con un capitolo di etica rivoluzionaria. E spinoziana: «viviamo in un non sapere: non sappiamo di cosa è capace una forza lavoro, non sappiamo fino a dove può arrivare una potenza».
BISOGNERÀ proseguire la ricerca sul terreno che è stato fin qui dissodato, e chiedersi come colpire il capitale sul terreno dell’algoritmo imprenditoriale (quando lo si sia riconosciuto come «soggettività del capitale costante») che organizza lo sfruttamento del capitale variabile.
In secondo luogo, si tratterà di comprendere quali siano le condizioni nelle quali i lavoratori possono organizzare strategie di rottura di quel dominio – questo è il terreno della «conricerca», cioè di un’etica divenuta prassi politica; e infine, si tratterà di cogliere, attraverso la lotta, i dispositivi di «riappropriazione proletaria» di quel «comune» che sta sotto le macchine della nuova organizzazione della valorizzazione.
Corriere 27.1.18
La classe operaia va ai Cinque Stelle Tra i pensionati primo il Pd, bene FI
Giovani e lavoratori autonomi, M5S avanti
Nel complesso il Movimento sale al 29,3%, dem in calo (22,7). Forza Italia stacca la Lega
di Nando Pagnoncelli
Il risultato più eclatante delle elezioni europee del 2014 non fu tanto il risultato ottenuto dal Pd (40,8% dei voti), quanto l’eccezionale trasversalità del voto: il partito di Renzi si affermò in 105 province su 110 e tra tutti i segmenti sociali con due sole eccezioni, i lavoratori autonomi e gli elettori di età compresa tra 35 e 44 anni (tra i quali il M5S risultò il primo partito). I dem si imposero tra i più giovani come tra gli anziani, tra gli imprenditori come tra i disoccupati, tra i laureati come tra gli analfabeti, tra i cattolici come tra gli atei: l’ultimo voto espresso su scala nazionale, insomma, ancorché segnato da una elevata quota di astenuti (41,3%) fece registrare la trasformazione del Pd in «partito pigliatutti».
Oggi lo scenario è profondamente mutato, si sono verificate scissioni e aggregazioni tra partiti e, con la nuova legge elettorale, si sono costituite nuove coalizioni. Così i singoli segmenti sociali presentano una graduatoria e preferenze tra i partiti molto più variegate rispetto a quattro anni fa. Vediamone alcuni.
Le donne oggi sono nettamente più indecise e manifestano una maggiore disaffezione rispetto agli uomini (42% contro 27%), sono più inclini a votare per Forza Italia e meno per il M5s.
Gli elettori più giovani (18-24 anni) sono spesso oggetto di attenzione da parte dei partiti e dei media: per la maggior parte di loro si tratta delle prime elezioni politiche. Sono poco numerosi (all’incirca l’8% degli elettori) e, come i loro coetanei europei, non sembrano molto mobilitati (il 37,4% si dichiara indeciso o astensionista); il voto per i due principali partiti (M5S e Pd) è sostanzialmente in linea con la media nazionale e sono più propensi a votare per Liberi e uguali, i partiti minori del centrosinistra e Lega. Tra i 25 e i 54 anni l’astensione scende, i dem ottengono meno voti (tra il 15% e il 18,9%), al contrario dei pentastellati che risultano stabilmente sopra il 30%. Tra gli elettori meno giovani (65 anni e oltre), il segmento più numeroso con il 26,4% del totale, indecisione ed astensione toccano il 39% e i partiti preferiti risultano Pd (36,1%) e FI (19,5%), mentre M5s e Lega raggiungono il valore più basso.
Riguardo al livello di istruzione si è tornati alle dinamiche tradizionali: i laureati presentano un tasso di astensione più contenuto, una maggiore propensione per la sinistra e il centrosinistra e un consenso decisamente più contenuto per Forza Italia e Lega. Tra le persone meno istruite (con licenza elementare o nessun titolo di studio), che rappresentano un elettore su quattro, il Pd si attesta al primo posto sfiorando il 30% dei voti validi, confermando la tradizionale «doppia anima» del proprio elettorato, seguito dal M5S (24%) che risulta incalzato da FI (22,7%).
Anche l’analisi per ceti professionali mostra dati interessanti: tra operai e lavoratori esecutivi il M5S ottiene il consenso più elevato superando il 40%, la Lega vanta un risultato superiore alla media sfiorando il 20%, mentre Pd e sinistra sono in sofferenza. I ceti dirigenti esprimono propensioni al voto abbastanza in linea con la media degli elettori con l’eccezione di Leu e dei partiti minori di centrosinistra (tra cui + Europa di Emma Bonino) che risultano più graditi, mentre il Pd pur confermandosi secondo partito ottiene meno consenso.
I cedi medi (impiegati e insegnanti) propendono nettamente per il M5S come pure i lavoratori autonomi (artigiani e commercianti): tra i primi FI è in difficoltà, tra i secondi la Lega ottiene un buon risultato. Tra le casalinghe il M5s è il primo partito, in linea con il dato complessivo, ma si distinguono in positivo Forza Italia (secondo) e Fratelli d’Italia (unico partito con una leader donna). Tra i pensionati Pd e FI sono decisamente sopra la media mentre M5s e Lega sotto. Gli studenti privilegiano Pd e Leu, mentre è più contenuto il consenso per FI e quello per Lega e M5S è in linea con la media generale.
Infine i cattolici, un elettorato sempre inseguito dalla politica ma, da tempo, assai poco incline a riconoscersi in uno specifico partito: infatti tra coloro che partecipano assiduamente alla messa domenicale il Pd risulta primo partito, seguito dal M5S che precede di qualche decimale FI. La Lega, presso i cattolici praticanti, ha un consenso più contenuto rispetto alla media.
In buona sostanza i partiti tendono ad avere alcuni blocchi sociali di riferimento, le cosiddette costituencies , che esprimono bisogni, priorità, aspettative e valori talora molto diversi. La componente prevalente tra i pentastellati è costituita da coloro che lavorano e appartengono al ceto medio impiegatizio e ai ceti esecutivi; il Pd ha il suo zoccolo duro tra i pensionati; Forza Italia tra le casalinghe e i pensionati (non a caso Berlusconi ha ipotizzato di istituire un ministero per la terza età) mentre, rispetto al passato, ha perso la propria capacità di rappresentanza dei ceti produttivi. La Lega compete con il M5S rappresentando prevalentemente ceti medi e operai. Liberi e uguali ritrova alcune componenti tradizionali della sinistra (pensionati, impiegati e studenti) e, sorprendentemente, gli elettori dei ceti dirigenti sono più numerosi di quelli operai.
Il sondaggio odierno fa registrare piccole variazioni per i singoli partiti rispetto a dieci giorni fa (il M5S sale al 29,3%, il Pd scende al 22,7%, mentre Forza Italia è in crescita: 16,9% contro il 13,7% della Lega). Nella fase finale della campagna l’attenzione sarà rivolta prevalentemente all’elettorato più contendibile, rappresentato dall’«area grigia» dell’astensione (21,9%) e dell’indecisione (12,9%) che nell’insieme riguarda oltre un terzo dell’elettorato (34,8%), composto prevalentemente da donne, da elettori meno giovani, poco scolarizzati, casalinghe e pensionati. Poco più della metà di costoro (51,9%) già si astenne nel 2013. Escludendo costoro, tra gli attuali indecisi il segmento più numeroso è di provenienza Pd (15,1%), seguito da centrodestra (12,3%) e M5s (10,3%).
Si tratta di elettori che attualmente stanno alla finestra. Una parte (soprattutto i più scolarizzati) appare più disorientata che disillusa e ciò rende la sfida non meno complicata: si tratta di elettori non pregiudizialmente ostili alla politica, ma alla ricerca di proposte convincenti nelle quali identificarsi e di leader credibili a cui fare riferimento. Mancano cinque settimane al voto, il tempo stringe.
Il Fatto 27.1.18
Pd, la minoranza non vota sulle liste
Renzi: ‘Esperienza devastante’
Orlando: ‘Nomi? Non li abbiamo neanche letti’
qui
La Stampa 27.1.18
Notte tra urla e pianti nasce il PdR di Renzi e si rischia la scissione
Il Guardasigilli fa un sondaggio con Bonino
di Fabio Martini
Tra urla e pianti, nella lunga e patetica notte consumata al Nazareno, sede del Pd, è diventato più chiaro quel che accadde 11 mesi fa, quando l’ala sinistra di Bersani e D’Alema lasciò il partito. Allora Matteo Renzi non fece nulla per impedire la scissione, perché già aveva in mente quel che ha messo in pratica nelle ultime 48 ore: la «normalizzazione» dei futuri gruppi parlamentari del Pd. I numeri hanno una loro eloquenza. Alle Primarie di maggio che lo avevano incoronato segretario, Matteo Renzi aveva ottenuto il 69,2% dei consensi popolari, ma ieri notte quando la direzione del Pd si è riunita per l’okay alle liste, quasi il 90 per cento dei posti «sicuri» appartenevano all’area del leader. Le minoranze congressuali (Orlando ed Emiliano) sono state strette all’angolo: avranno un manipolo di parlamentari, così come li avranno gli alleati più riottosi del segretario (Franceschini), ma si tratta di rappresentanze frammentate, piccole percentuali, gruppi destinati all’irrilevanza, quando arriverà l’ora delle grandi scelte. Una «libanizzazione» del dissenso interno che tornerà utile fra 40 giorni.
Dopo le elezioni del 4 marzo incombono decisioni decisive nella vita del Pd e in quella personale di Renzi. Se il partito dovesse restare sotto il minimo storico, il 25,4% raggiunto nel 2013 da Bersani, potrebbe aprirsi un processo al leader e per Renzi disporre di una pattuglia parlamentare ad alta fedeltà rappresenta un’assicurazione sulla vita. E gruppi renziani serviranno anche davanti a scenari meno drammatici ma potenzialmente divisivi: quale governo? Quale maggioranza? Quale presidente del Consiglio?
Naturalmente quando si fanno le liste per le elezioni più che ai massimi sistemi, i notabili di partito guardano ad interessi più prosaici. E nella giornata di ieri gli sherpa di Renzi hanno tirato la corda in modo così teso che ad un certo punto, senza che la notizia trapelasse, Andrea Orlando è stato costretto ad accarezzare un’idea clamorosa: lasciare il partito e trovare accoglienza elettorale nella lista «+Europa» di Emma Bonino. Uno degli amici del Guardasigilli ha fatto un sondaggio preliminare e non impegnativo ma poi l’ipotesi - che poteva diventare dirompente - è stata lasciata cadere. Almeno per ora.
È stata davvero una giornata di passione quella che si è consumata al piano nobile del Nazareno. L’orario di inizio dei lavori della Direzione è slittato per ben tre volte, dalle iniziali 10,30 si è via via andati sino alle 22,30: uno scivolamento di dodici ore, quasi un record. E a forza di rinvii l’«assedio» a Matteo Renzi si è fatto assillante: lo guatavano amici, nemici, alleati, semi-alleati. Qualcuno urlando («ci ha imbrogliato»), qualcuno piangendo. Un giovane democratico confida di aver visto Debora Serracchiani con gli occhi lucidi, ma chissà se era lei, chissà cosa è vero, o verosimile nel racconto di una delle giornate umanamente più intense nella storia del Pd.
Lui, Matteo Renzi, ad un certo punto ha staccato il cellulare, per ore non ha risposto più agli sms, ha scritto e cancellato nomi di candidati assieme al suo amico Luca Lotti. Un assedio anche umano, come racconta lo stesso Renzi: «E’ una disperazione far fuori 150 uscenti... C’è quello che ti dice, ho il mutuo da pagare, l’altro che ti fa sapere che gli manca una legislatura per la pensione, un altro che accampa un buon motivo....».
Certo, nella grande «mattanza» che ha accompagnato la febbrile fattura delle liste del Pd c’è stato anche un coté patetico. Ma il grande sospetto dei non-renziani è che, con la scusa del dimagrimento che doveva investire tutte le «aree» interne del Pd, il leader ne stesse approfittando per aumentare il proprio peso specifico, per dare un’accelerata a quel progetto di trasformazione del Pd in «PdR», quel «Partito di Renzi» che è la sintesi un po’ grossolana ma preferita dai detrattori del leader. I conti si potranno fare soltanto quando le liste saranno definitivamente vistate e approvate, ma ieri sera quando si è aperta la Direzione del Pd chiamata al formale via libera, i pesi interni erano ridistribuiti, con una presenza massiccia dell’area Renzi. Alle Primarie quell’area aveva conquistato il 69,2% dei consensi, contro il 20% di Andrea Orlando e il 10% di Emiliano: dei 200 posti “sicuri” (tra listini e collegi), quasi il 90% andranno a candidati vicini al segretario. In questo «correntone» di maggioranza, il 70-72% dei parlamentari sarebbero renziani doc, l’ 8-10% amici di Martina e Orfini, il 5-7% amici di Franceschini. Alle minoranze restererebbe il restante 10% .
Il Fatto 27.1.18
Nel suk del Nazareno Renzi vuol scegliere tutti gli eletti
Il leader azzera correnti e minoranze interne e poi, di fronte alle proteste, “minaccia” Orlando: “Troppe cariatidi, cambiate nomi”
Nel suk del Nazareno Renzi vuol scegliere tutti gli eletti
di Wanda Marra
La direzione del Pd per presentare le liste doveva esserci ieri mattina alle 10. Poi è slittata alle 16, poi alle 20, poi alle 22.30. Il Nazareno è un suk da lunedì. Tra giovedì notte e venerdì non dorme nessuno di quelli che stanno nella war room o nella stanza accanto: né Matteo Renzi, né Luca Lotti, nè Matteo Orfini o Matteo Richetti, né Lorenzo Guerini, né Maurizio Martina, né Ettore Rosato. Al gruppone ieri si sono aggiunti i preoccupati Maria Elena Boschi e Dario Franceschini.
Il segretario sta lavorando al progetto concepito fin dal giorno dopo la vittoria congressuale: la “renzizzazione” del Pd attraverso le liste. Gli altri cercano di arginarlo. L’ostacolo finale è il Guardasigilli, Andrea Orlando. Per tutta la giornata di ieri si inseguono voci su una rottura quasi definitiva tra il segretario e il ministro. Riassunto: per evitare la congiura pre-elettorale, Renzi aveva assicurato che le candidature avrebbero rispettato le proporzioni congressuali: per Orlando significa una quarantina di posti “sicuri” (il 20% preso alle Primarie dei 200 seggi su cui fa i conti il Pd). L’offerta finale di Renzi ieri era circa 15. Di fronte alle lamentele dell’interessato, Renzi lo avrebbe sfidato così: “Il problema non sono i numeri, ma i nomi. Bisogna trovare gente nuova. Togli qualche cariatide”, obiettando così anche sulla lista che gli era stata sottoposta. Un modo per scegliere pure i candidati della minoranza.
Orlando, dunque, ha dovuto valutare le mosse da fare. Prima di tutto, l’“arma fine di mondo”: decidere di non candidarsi né lui, né nessuno della sua componente, non fare campagna elettorale, sfilarsi anche dal sostegno a Giorgio Gori in Lombardia. E così far deflagrare il Pd prima del voto. A sera, la soluzione pareva scartata. A favore di una dinamica molto più ordinaria: la guerra interna per i pochi posti garantiti. “Andrea non ha il coraggio di scegliere chi deve entrare di noi e chi no”, si sfogavano i suoi. A rischio Cesare Damiano e Andrea Martella. Fuori Barbara Pollastrini e Marco Meloni, in origine della corrente “lettiana”.
Renzi ha motivato con il “bisogno di cambiare” il suo tentativo di prendere tutto (150 posti su 200, lasciando le briciole agli altri capibastone: Orlando, Emiliano, Franceschini, Orfini e Martina). Ma questi volti appetibili il segretario non li ha trovati. Entreranno nelle liste Piero De Luca, figlio di, l’ex presidente del Friuli Riccardo Illy e il capogruppo dei Socialisti e democratici Gianni Pittella. Tra i volti “nuovi” l’economista Tommaso Nannicini (che sta scrivendo il programma del Pd), l’intellettuale Giuliano da Empoli e alla fine pure Tommaso Cerno, condirettore di Repubblica. In quota società civile il pediatra Paolo Siani, l’ex segretaria dello Spi-Cgil Carla Cantone; Beppe Vacca, presidente dell’Istituto Gramsci; la scienziata Anna Grassellino, l’avvocatessa sfregiata dall’acido Lucia Annibali, l’avvocatessa milanese disabile Lisa Noja. E il rettore di Messina Pietro Navarra, l’ex rettore di Camerino Flavio Corradini e il rettore di Udine Alberto Felice De Toni. E ancora: le giornaliste Federica Angeli e Annalisa Chirico.
In campo, quasi tutto il governo uscente. Bolzano ha provato a protestare contro la Boschi paracadutata, ma senza successo. La notte è lunga e la trattativa con Orlando va avanti a oltranza. Tra i renziani moltissimi sono in bilico. Roberto Giachetti ha rinunciato al paracadute del proporzionale. Tra chi dovrebbe arrivare in Parlamento Debora Serracchiani, governatrice del Friuli e Filippo Sensi, portavoce prima di Renzi, ora di Gentiloni. Riconferma anche per Daniela Cardinale, figlia dell’ex ministro, nonostante le proteste del Pd di casa sua, quello di Caltanissetta.
La Stampa 27.1.18
Dalla corazzata alla nascita dell’incrociatore del segretario
di Marcello Sorgi
Si può leggere la lunga e sofferta trattativa per la definizione delle liste come estrema contorsione di un Pd ridotto com’è ridotto, se solo si riflette che nella primavera di quattro anni fa lo stesso partito aveva superato il 40 per cento alle europee e oggi nei sondaggi è quotato poco più della metà. Oppure, e forse siamo più vicini alla realtà, si può interpretare il travaglio a cui si sta assistendo, tra il marciapiede e i corridoi del Nazareno, come il parto del famigerato PdR, il «Partito di Renzi» che il leader ha sempre immaginato da quando ha assunto la guida del Pd, e mai è riuscito a realizzare.
Certo, pensando alle ambizioni originarie di questa sorta di «Partito della Nazione», collocato al centro del sistema politico nel ruolo di una Dc 2.0, tutto appare molto ridimensionato, a cominciare dalle aspettative in termini di seggi, anche in questo caso dimezzate rispetto a quelle gonfiate dal Porcellum nella scorsa legislatura con quasi quattrocento parlamentari tra Camera e Senato, mentre adesso sarà grasso che cola se il centrosinistra ne porterà a casa duecento. Ma si sa: la sconfitta al referendum del 4 dicembre 2016, la caduta del «governo dei mille giorni», il tira e molla sulla data del voto fin quasi alla scadenza naturale della legislatura, la scissione dei bersanian-dalemiani, la nascita di Liberi e Uguali, con l’obiettivo dichiarato di assestare il colpo finale alla stagione renziana, a maggior ragione dopo che il leader battuto era riuscito a farsi rieleggere alla segreteria del partito, hanno portato a un drastico ripensamento, per non dire rimpicciolimento, del disegno originario.
Tal che, in linea con il ritorno al proporzionale, è abbastanza chiaro che Renzi non pensa più alla portaerei uscita dalle urne del 2014, ma piuttosto a un agile incrociatore, con il quale, tenendo ben saldo il timone e con un equipaggio di fedelissimi, tentare l’aggancio del nuovo, incerto equilibrio politico che occorrerà costruire dopo il 4 marzo. Obiettivo realistico, solo che non si capisce più cosa c’entri con il centrosinistra.
il manifesto 27.1.18
Pd, la notte di Renzi pigliatutto
Grasso: Il 70 per cento dei capilista e oltre l’80 dei candidati sarà espressione del territorio di appartenenza. IL dem Giachetti annuncia che correrà solo all’uninominale: in un collegio che era destinato al radicale Magi
di Daniela Preziosi
Alle otto della sera Piero Grasso annuncia su twitter: «Siamo pronti!», «Vi anticipo qualche dato: il 70 per cento dei capilista e oltre l’80 per cento dei candidati sarà espressione del territorio di appartenenza». Le cifre servono a respingere le critiche che piovono come grandine sulle liste di Liberi e uguali: mancata «territorialità» dei candidati, cioè nomi catapultati dal centro. E blindatura degli uscenti di Si e di Mdp. Tutto falso, s igiura al quartier generale di via Zanardelli a Roma: «Il 50 per cento dei parlamentari non è stato ricandidato». Va detto che gli uscenti sono più di 80 e una stima non pessimistica ne dà come rientranti la metà. Ma soprattutto, si sottolinea «il 69 per cento dei capilista è stato indicato dai territori. Se aggiungi gli uninominali si arriva oltre il 90 per cento».
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I NUMERI, DA VERIFICARE appena le candidature saranno accettate e firmate, non raccontano la burrasca delle ultime ore. Nella notte di giovedì Grasso convoca Speranza, Fratoianni e gli ambasciatori di Civati. Pippo è furibondo, i suoi di Possibile chiedono un referendum tra gli iscritti. C’è chi parla di un confronto ruvidissimo con Fratoianni (si racconta anche di un posacenere volante, i presenti smentiscono). Possibile si sente penalizzata dalla manciata di seggi ’sicuri’ concessi dall’asse di ferro Mdp-Si, lo stesso Civati corre nel listino di Lombardia 3 e a differenza degli altri due segretari non ha un seggio sicuro. È la terra di Giorgio Gori, che Leu non appoggia alle regionali lombarde. Dagli sherpa di Mdp arriva l’ultimatum: o tutti dentro, o tutti fuori. La situazione si sblocca alle tre di notte con una telefonata distensiva di Grasso: oltre a Civati, Pastorino e Brignone, il giornalista Giulio Cavalli sarà schierato in Lombardia e l’avvocato Maestri in Umbria. «Resta l’amarezza e la profonda delusione, non per i posti, ma per il metodo e per il trattamento ricevuto», si sfoga Civati, «e pensare che il 3 dicembre avevo parlato di fratellanza».
SEMBRA RIENTRATA la protesta dell’assemblea regionale sarda: il candidato contestato di Si resta al suo posto ma al senato a Cagliari viene schierato Yuri Marcialis, assessore e uomo forte di Mdp. È l’unico caso in cui viene modificata la lista. Non si tocca nulla in Calabria e in Sicilia. Né in Abruzzo: lì ieri in dodici si sono ritirati dalle liste per protesta contro i due «catapultati da Roma» (Costantino di Si e Leva di Mdp). «Neanche con il Porcellum andò così», tuona Gianni Melilla, deputato uscente, «nel 2013 sia il Pd che l’allora Sel fecero le primarie per i parlamentari. Oggi tutto viene deciso da Roma. Se pensano che del vecchio partito conservano solo il centralismo democratico si sbagliano di grosso». Oggi a Pescara una nuova assemblea. Ma da via Zanardelli non trapela preoccupazione. Anzi, c’è soddisfazione: «Abbiamo chiuso le liste, e siamo i primi».
AL NAZARENO VA MOLTO PEGGIO. Mentre il manifesto va in stampa è convocata la direzione per la ratifica delle firme. Slittata fin qui tre volte: dalla mattina alle 10 e 30 al pomeriggio alle 16 alla sera alle 20 alla notte alle 22 e 30. Alle quattro di mattina della notte precedente Renzi ha mandato tutti a casa, per poche ore: il braccio di ferro con Orlando era a un punto morto. «È chiaro che si riducono i parlamentari, ma tutti devono assumersi una quota di questo peso che va equamente ripartito», avverte Gianni Cuperlo.
UN NUOVO INCONTRO in giornata viene intercettato dai cronisti ma smentito dal Nazareno. Le delegazioni regionali in rivolta sfilano nel pomeriggio davanti al segretario, Guerini, Lotti, Rosato e Orfini. Molti nomi ballano. In tarda serata non sono ancora stati ricevuti (neanche stavolta) il trio di Insieme, Bonelli-Nencini-Santagata. Che lancia l’ennesimo appello disperato.
MA RENZI HA BEN ALTRE gatte da pelare. In mattinata Roberto Giachetti annuncia che si sfila dal proporzionale e corre all’uninominale di Roma-Monteverde. Un bel gesto, il collegio non è sicuro: ma era destinato al radicale Riccardo Magi. Che dovrebbe traslocare all’Eur. Dove però c’è già la combattiva Prestipino. Insomma, la matassa invece di sbrogliarsi si imbroglia.
ANCHE PERCHÉ Andrea Orlando minaccia di non votare le liste, e il problema non sono solo i numeri. Il segretario vuole «facce nuove» e fra gli orlandiani non ce n’è molte. Sarebbe escluso Cesare Damiano. Lorenzo Guerini smentisce veti. «Stiamo lavorando tutti assieme per individuare le candidature che possano avere sul territorio maggiori possibilità di vittoria», giura. In tarda serata la proposta renziana è quella iniziale: 15-16 posti sicuri a Orlando (che forse ne spunterà 20), 6-7 a Emiliano. Tutte le altre correnti sono ridotte ai minimi: con quella di Franceschini, fin qui la più numerosa, quella di Orfini e quella di Martina, cinquanta posti in tutto (erano con il segretario al congresso, non hanno una quota di riferimento). A Renzi invece, andrebbero 150 parlamentari. Vengono annunciati i nomi del saggista Giuliano Da Empoli e del condirettore di Repubblica Tommaso Cerno. Maria Elena Boschi rinvia la presentazione della sua candidatura a Bolzano prevista nel pomeriggio. Ma, fa sapere, «è solo un rinvio tecnico».
il manifesto 27.1.18
Non solo Casini. A Bologna i dem sbandano a destra
Verso le elezioni. Minniti è in città e il sindaco Merola ha un’idea: «Aprire centri di rimpatrio per i delinquenti». A rischio anche la candidatura di Lo Giudice
di Giovanni Stinco
BOLOGNA Soffia il vento elettorale, Marco Minniti passa da Bologna, e tanto basta per fare inclinare il sindaco a destra. E’ successo giovedì quando Virgilio Merola ha proposto al ministro l’apertura in città di un Cpr, un centro per il rimpatrio, nuovo nome con cui sono stati ribattezzati i ben più conosciuti e disumani centri di identificazione e espulsione. Ma Merola ha preferito coniare l’espressione «centro di rimpatrio per i delinquenti», zucchero per ogni palato leghista che si rispetti.
«Parole di destra, sembra di sentire il leghista Attilio Fontana», tuona il presidente nazionale di Antigone Patrizio Gonnella.
In realtà a ben vedere tutto il Pd bolognese sta volente o nolente sbandando paurosamente. Priorità assoluta sono ovviamente le candidature per le politiche del 3 marzo. Da almeno un mese, e nonostante le infinite trattative che tra i dem hanno fatto cadere e risorgere a fasi alterne praticamente ogni aspirante candidato al parlamento, ad essere certa è solo la candidatura tra le file Pd del democristiano Pierferdinando Casini.
Alla faccia di tutte le lamentele e dei maldipancia di una base a cui non basterà turarsi il naso per dare il proprio voto a quello che fino a ieri era l’avversario di sempre, e che oggi è semplicemente un «alleato serio e fedele».
Se Casini è al sicuro, e con ogni probabilità sarà schierato in un collegio uninominale blindato, di quelli dove si dice sia impossibile perdere, le cose si fanno complicatissime per Sergio Lo Giudice. Senatore dem uscente, presidente onorario dell’Arcigay e una vita nell’attivismo lgbt, Lo Giudice assieme a Monica Cirinnà ha lavorato più di tutti per l’approvazione della legge sulle unioni civili, ci ha messo la faccia anche quando non conveniva ed è stato capace di portare a casa un provvedimento che, comunque lo si giudichi, ha fatto avanzare i diritti civili in Italia.
Per gli scontri interni al Pd, alla voglia di Renzi di fare piazza pulita dei suoi avversari interni e al gioco delle correnti (anche locali) almeno fino a ieri notte era Lo Giudice e non Casini a rischiare di restare fuori dalla lista degli eleggibili.
Un paradosso che fa gridare molti allo scandalo: fuori un campione dei diritti lgbt, dentro l’ormai lodatissimo democristiano del Family Day. «Casini ama la sua città, anche a Roma porta sempre la sciarpa rossoblu del Bologna», è arrivato a dire qualcuno per giustificare politicamente la sua candidatura.
«Un partito che blinda Casini e non riserva lo stesso vantaggio a uno come Sergio Lo Giudice – dice il presidente del Cassero Lgbt center di Bologna Vincenzo Branà, – dà un segnale chiaro a noi come comunità lgbt. Perché al di là dei programmi elettorali ci sono le persone che quei programmi li rendono attuabili in parlamento».
Non è solo il Cassero a insorgere. Tutta la comunità lgbt italiana si è mobilitata. «La buona politica – è la dichiarazione del circolo Mario Mieli di Roma – si misura anche con la scelta delle persone giuste e con il riconoscimento del lavoro svolto; la cattiva politica si misura anche con scelte dettate dalla fedeltà al capo partito a prescindere del valore e del lavoro svolto».
Aspettando che si componga definitivamente il puzzle delle candidature per le prossime elezioni politiche, resta la situazione in città, con un sindaco che, applaudito da suoi, ha proposto l’apertura di un nuovo Cie cittadino. Si tratta dello stesso Merola che nel 2013 definì «cuore di tenebra» il centro di identificazione ed espulsione di Bologna. E solo 12 mesi fa, alle prime indiscrezioni di stampa sull’apertura di nuovi mini-Cie in tutta Italia, disse seccamente: «Da noi non passeranno».
Ma il vento politico è evidentemente cambiato. Tant’è vero che ad applaudire la proposta del sindaco giovedì c’era anche il segretario del Pd di Bologna Francesco Critelli. Lo stesso che assieme a tutta la maggioranza Pd nel 2013 votò in Consiglio comunale per impedire la riapertura del Cie cittadino.
Un «centro di rimpatri per delinquenti». La proposta del sindaco di Bologna Merola, che al ministro Minniti ha offerto la propria città per l’apertura di nuovo Centro per il rimpatrio dei migranti (il nuovo nome dei Cie), non è passata inosservata.
A bollare come «leghista» l’idea del primo cittadino democratico non c’è solo l’associazione Antigone, che da sempre si occupa dei diritti dei detenuti.
Il deputato Giovanni Paglia di Liberi e Uguali ha deciso di citare le stesse parole che Merola usò 5 anni fa: «Mi chiedo che bisogno ci sia di utilizzare la peggiore demagogia di destra per giustificare il ritorno del cuore di tenebra della città».
«Ricordo al sindaco che i Cie e i Cpr – dice Yasmine Accardo della campagna LasciateCIEntrare – sono usati per rimpatri a volte illegittimi, una settimana fa abbiamo purtroppo assistito all’espulsione di 30 nigeriani che stavano ancora aspettando una risposta alla loro richiesta di asilo. In un Cie non si entra in quanto delinquenti ma in quanto persone che lo Stato italiano vuole espellere».
«Se dici che il Cie è disumano tutti sono contrari al Cie, se però dici che ci metti i delinquenti allora fai una sparata di destra, guadagni pure consensi, e soprattutto fai passare il concetto che i Cie possano essere utili. Non è così», dice l’avvocato Guido Savio dell’Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.
«Le dichiarazioni del sindaco di Bologna – spiega il ricercatore dell’Università di Bari Giuseppe Campesi, tra i fondatori dell’Osservatorio pugliese sulla detenzione amministrativa – rilanciano un vecchio cortocircuito, e cioè la tendenza a confondere il diritto penale con il diritto dell’immigrazione. Se in città c’è un problema di ordine pubblico va risolto col diritto penale, i Cie non sono la soluzione».
Infine Patrizio Gonella di Antigone: «Le dichiarazioni come quella del sindaco di Bologna rischiano di alimentare il clima di paura e di odio che respiriamo oggi, vorremmo che almeno le forze che si ispirano ai principi liberali e democratici cambino linguaggio, e poi magari anche politica».
Il Fatto 27.1.18
Sinistra: pluricandidature e big blindati
Grasso chiude le liste ma non i litigi: i territori insorgono, Civati non parla
di Tommaso Rodano
Le liste della discordia sono chiuse: tra polemiche e silenzi, Liberi e Uguali ha trovato la quadra sulle candidature per le elezioni del 4 marzo. La griglia con i nomi – in buona parte anticipati in questi giorni – sarà resa pubblica tra domenica e lunedì. Il prezzo politico dell’operazione però è piuttosto elevato: i territori dei partiti coinvolti hanno contestato vivacemente, e continuano a farlo, le decisioni sulle liste calate dagli apparati dei partiti (e dominate nella sostanza da Mdp).
Si litiga sull’abuso delle pluricandidature e la generosa distribuzione dei “paracadutati”: dirigenti ed ex parlamentari piazzati nelle poche posizioni eleggibili delle liste, anche in territori molto lontani da quelli di provenienza.
Poi c’è il caso Civati: il fondatore di Possibile – uno dei tre movimenti che compongono l’alleanza guidata da Pietro Grasso – dopo aver minacciato di mollare tutto (a causa del metodo di selezione dei candidati) e aver lasciato polemicamente uno degli ultimi tavoli della trattativa, ieri ha firmato l’accettazione delle candidature. Ma ha conservato per tutta la giornata un risentito silenzio, anche sui social network dove è solitamente molto attivo. Non esce dall’alleanza – anche perché il suo partito malgrado tutto ha portato a casa quattro parlamentari quasi sicuri (lo stesso Civati, Beatrice Brignone, Andrea Pertici e Luca Pastorino) – ma il suo malumore è una spia delle lacerazioni non superficiali prodotte nella lista di Grasso. E in Sardegna il braccio destro di Civati, Thomas Castangia, ha annunciato la rinuncia a correre dei candidati di Possibile (oltre all’ex Sel Massimo Piras): “Prendiamo atto della candidatura di Claudio Grassi nella nostra Isola come capolista nel collegio plurinominale Sardegna Sud – ha scritto su Facebook – nonostante una proposta unitaria e condivisa da parte di tutti i dirigenti di Liberi e Uguali della Sardegna, che prevedeva solo candidati sardi”.
Grasso ha provato a sedare le polemiche: “Un primo dato che posso dare, checché se ne sia detto, è che il 70% dei capilista viene dai territori. L’altro dato – ha aggiunto – è che nelle liste i capilista saranno per il 50% da parlamentari uscenti e per il 50% da persone nuove”. Il gruppo dirigente però – questo Grasso non lo dice – si è blindato con le pluricandidature in più listini proporzionali.
Il Fatto 27.1.18
Viaggio attraverso l’Italia a testa in giù
Dal Vajont a Sanremo, passando per Lampedusa, Arcore e Dagospia: i luoghi che hanno cambiato la nostra storia
di Pino Corrias
Esce oggi per Chiarelettere “Nostra incantevole Italia” di Pino Corrias. Ne pubblichiamo uno stralcio.
La mappa dei luoghi. Le carte geografiche contengono il mondo. Quando siamo in viaggio, calcolano le distanze. Ci raccontano dove siamo. Cosa ci lasciamo alle spalle e cosa troveremo al prossimo orizzonte. Questo libro è la mappa del mio viaggio nell’incantevole Italia di ieri e di oggi. È fatto di luoghi dove il tempo si è addensato, dilatandosi in un racconto da tramandare con i testimoni di quel tempo, di quel luogo. E, insieme con loro, dirne l’intreccio che ne scaturì e le conseguenze che ancora ci riguardano. […] Nostra incantevole Italia è il resoconto di un viaggio durato molti anni, alla fine del quale ho provato a rimettere ordine a storie che in tanti si sono esercitati a complicare anche quando erano semplici. Perché viviamo in uno strano paese scandito dal trasformismo delle classi dirigenti, dove tutte le verità sono sempre provvisorie.
Siamo il paese del doppio Stato, delle doppie verità, della doppia velocità di crescita tra il Nord e il Sud, ammalato di quattro mafie. Siamo il paese delle commissioni di inchiesta. Ne abbiamo avute ottantasei in una settantina di anni, la prima, nel 1948, sulla miseria degli italiani, l’ultima, nel 2017, sulla ricchezza fraudolenta delle banche, affidata niente di meno che a Pier Ferdinando Casini, l’ex portaborse di Forlani, ex socio di Mastella, ex galoppino di Berlusconi, ultimamente alleato di Renzi. Siamo una incantevole Italia appesa a testa in giù, con 2.300 miliardi di debito pubblico, il 130 per cento del nostro Prodotto interno lordo.
Dipendiamo dallo spread e facciamo finta di dimenticarcene anche se pesa come una catastrofe sempre imminente. Evadiamo 111 miliardi di tasse ogni anno, senza riuscire a porvi rimedio, come sa fare qualunque altro paese, appena superato il confine di Chiasso. Tre milioni e mezzo di persone lavorano in nero. L’economia sommersa vale 208 miliardi. Quella legale è ammalata di clientelismo, familismo, confraternite, cordate, tutte forme non sanguinarie della cultura mafiosa che coltiviamo dal basso. Perfezionando una trappola che mette in fuga migliaia di giovani laureati, ricercatori, imprenditori, artisti che cercano fortuna altrove, a Londra, Berlino, New York, lontano dalle falangi di raccomandati, figli, nipoti, portaborse delle infinite nomenklature che intasano tutte le tubature della Repubblica.
Strilliamo contro gli immigrati, ma sappiamo come sfruttarli a fondo, nelle fabbriche del Nord, nelle campagne del Sud, persino nei centri di prima accoglienza, dove rubiamo loro gli spiccioli dell’assistenza, e dentro le casse dell’Inps, dove versano più di quello che otterranno. Vorremmo ributtarli in mare, salvo quelli che ci servono per la cura della casa, dei nostri figli, dei nostri anziani. Abbiamo la classe politica tra le più corrotte d’Europa, la più ignorante, ma che è lo specchio fedele di un paese che muore di furbizia e conformismo. Dove si venera a chiacchiere la famiglia, ma non si consente alle giovani coppie di avere un lavoro decente e di fare figli. Eppure andrebbe sempre ricordato da dove siamo partiti, cosa eravamo settant’anni fa, residui di un paese fascista, razzista, analfabeta, distrutto dalla guerra costata mezzo milione di morti, e nutrito dai massacri compiuti dai nostri italiani brava gente in Albania, Grecia, Jugoslavia, Eritrea, Libia, dove abbiamo stuprato, impiccato, torturato. Per poi essere sconfitti dagli angloamericani, puniti, sottomessi. E poi salvati grazie al riscatto finale della Resistenza, e agli equilibri della Guerra fredda. Che ci hanno consentito di entrare nel nuovo consorzio di nazioni europee uscite anche loro distrutte dalla guerra, dalle dittature, dalla Shoah, dall’orrore. Tutti paesi in ginocchio, non solo noi e la Germania, gli sconfitti, ma anche l’Inghilterra e la Francia, i vincitori.
Coi quali abbiamo imboccato l’unica via di rinascita possibile, quella dell’Europa unita. Imperfetta, burocratica, lenta, ma che ci ha garantito uno sviluppo economico e culturale mai visto prima. La copertura della moneta unica, il mercato senza frontiere. Oltre a settant’anni di pace che ha voluto dire intelligenza non sprecata a ucciderci. Ha voluto dire democrazia, tolleranza, giustizia, emancipazione femminile, diritti delle minoranze, benessere sociale. Vantaggi che ci sembrano così naturali, dentro al nostro paesaggio di vita quotidiana, da non vederne più la lucentezza. Ipnotizzati dalla miserabile mistica delle piccole patrie, della piccola ricchezza conquistata lavorando dentro la complessità del mondo, dal quale crediamo di difenderci con la semplificazione dei muri. Senza neanche sospettare che i muri imprigionano più di quanto proteggano. C’è un palazzo in cima al nostro bagnasciuga che è il simbolo di tutti i palazzi: il Quirinale con le sue milleduecento stanze, apoteosi del potere e dei pennacchi, che ho scelto come ultima tappa del viaggio. Immaginando quanto sarebbe bello chiuderlo per riaprirlo. Traslocando il presidente in un luogo più adatto alla sobrietà di una Repubblica, piuttosto che lasciarlo tra le ombre nere che furono dei papi, dei re, di quel potere distante, minaccioso e ottuso. Restituirlo agli italiani, in forma di spazio pubblico […]. Cominciare da lì a rimettere la nostra incantevole Italia a testa in su.
il manifesto 27.1.18
Sessantotto, dibattito giovedì 1 febbraio a Roma
SESSANTOTTO! Giovedì 1 febbraio – a 50 anni dall’occupazione della facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Roma La Sapienza, si svolgerà il dibattito Sessantotto, per ritrovarsi che concernerà la presentazione dei due volumi che la rivista «MicroMega» dedica all’importante anniversario del ’68.
Da Luciana Castellina a Letizia Battaglia, da Paul Auster e Axel Honneth a Martin Walser, Eva Cantarella, Gustavo Zagrebelsky, i due volumi comprendono moltissime altre firme del panorama politico-culturale sia nazionale che internazionale.
Sono testimonianze, analisi e articoli che raccontano mezzo secolo di distanza dall’anno della «contestazione».
Alle ore 11 (Aula I), ne discutono con le e gli studenti Luciana Castellina, Francesco Pardi, Franco Piperno, Franco Russo (Coordina Lucia Annunziata). alle 16.30 (Aula magna del Rettorato), alla presenza di Andrea Camilleri, Paolo Mieli, Luciana Castellina, Paolo Flores D’Arcais e altri verrà introdotto il lavoro del doppio numero di MicroMega.
Numerosi sono anche i materiali d’epoca, tra cui si segnala una intervista inedita a un’intervista inedita a Rudi Dutschke.
Ampio spazio è dedicato alla polemica che seguì la pubblicazione della poesia che Pasolini scrisse «in difesa» dei poliziotti.
Corriere 27.1.18
La via polare della seta: Shanghai-Rotterdam risparmiando 20 giorni
Pechino immagina una rotta commerciale tra i ghiacci
di Guido Santevecchi
PECHINO Quante sono le nuove Vie della Seta immaginate da Xi Jinping? Se si realizzerà la visione del presidente cinese abbracceranno tutto il globo, compreso l’Artide. Pechino ha svelato ieri il progetto per una Via della Seta Polare, che sfruttando l’opportunità del restringimento dei ghiacci dovuto al riscaldamento terrestre può permettere al traffico commerciale di accorciare i tempi di navigazione dall’Asia all’Europa. Un mercantile salpato da Shanghai, usando il passaggio a Nordest della Russia risparmierebbe quasi tremila miglia nautiche per raggiungere il porto di Rotterdam in Olanda, che significano venti giorni, evitando il percorso tradizionale attraverso l’Oceano Indiano, il Canale di Suez e il Mediterraneo che dura circa 48 giorni.
L’idea cinese per la zona artica è appoggiata dalla Russia, ma è vista dai Paesi occidentali come la prova che i cinesi vogliono lanciarsi nella corsa allo sfruttamento delle sue risorse naturali, perché si calcola che nella regione più settentrionale del globo ci sia il 22 per cento delle risorse di combustibile fossile non ancora sfruttate. Seguono preoccupazioni per l’ecosistema. Presentando il Libro Bianco sulla Politica artica, il viceministro degli Esteri di Pechino Kong Xuanyou ieri ha assicurato «sviluppo sociale ed economico per tutti». E ha aggiunto: «A proposito del ruolo della Cina negli affari artici voglio sottolineare che non essendo un Paese della regione non interferiremo». Nel documento si legge che il governo incoraggerà le aziende cinesi a costruire infrastrutture lungo la rotta artica.
Il linguaggio ecumenico è tipico della diplomazia di Pechino. Ma secondo il Center for Strategic and International Studies di Washington, in realtà le iniziative della «Belt and Road» (nome internazionale del piano Vie della Seta di Xi) offrono grandi opportunità principalmente alle aziende della Repubblica popolare. Al momento è cinese l’89% delle aziende impegnate nella realizzazione delle infrastrutture, dei porti, delle autostrade e delle ferrovie; il 7,6% è dei Paesi attraversati, dall’Asia all’Africa all’Europa e il 3,4% è internazionale.
Il cambiamento climatico è un dato di fatto e la Cina è pronta a sfruttarne un aspetto commercialmente utile. Lo scioglimento dei ghiacci ha liberato la nuova rotta: nel 2010 furono quattro i mercantili a passare a Nord durante l’estate, con un carico complessivo di 110 mila tonnellate, ma nel 2017 la via polare è stata seguita da 46 navi, che hanno trasportato 1,26 milioni di tonnellate di prodotti. Tra quei cargo c’era una petroliera cinese che dalla Norvegia alla Sud Corea ha impiegato solo 19 giorni di navigazione. A settembre il rompighiaccio «Xue Long» (Dragone della neve) ha seguito il Passaggio a Nordovest del Canada, riducendo di una settimana la rotta tradizionale da Shanghai a New York attraverso il Canale di Panama. Mentre Pechino esultava per l’apertura di un nuovo percorso commerciale, il governo del Canada protestava perché la crociera del Dragone era stata autorizzata per «puri motivi di ricerca scientifica».
Il Mar glaciale artico si estende su una superficie di circa 14 milioni di chilometri quadrati che rientrano nelle giurisdizioni di Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Russia, Svezia e Stati Uniti. Nel 2013 la Cina ha ottenuto lo status di Paese osservatore nel Consiglio Artico (anche l’Italia è stata accolta). Da allora, Pechino si è mossa su diversi fronti. Ricerche di petrolio offshore con l’Islanda; un gasdotto con la Russia; la posa di un cavo a fibra ottica lungo 10.500 chilometri, dalla Cina sino all’Europa attraverso il territorio della Finlandia.
Repubblica 27.1.18
2018, l’anno dell’Europa
di Thomas Piketty
Dieci anni dopo la crisi finanziaria, il 2018 sarà l’anno del balzo in avanti dell’Europa? Diversi elementi inducono a ritenere che andrà così, ma l’esito è tutt’altro che scontato. La crisi del 2008, che ha portato alla recessione mondiale più pesante dopo quella del 1929, nasceva dalle debolezze sempre più eclatanti del sistema americano: eccesso di deregolamentazione, esplosione delle disuguaglianze, indebitamento dei più poveri. L’Europa, con il suo modello di sviluppo più egualitario e inclusivo, avrebbe potuto cogliere quell’occasione per promuovere un sistema di regole migliore per il capitalismo globale. E invece è successo un disastro: senza un’adeguata fiducia fra gli Stati membri, e prigioniera di regole rigide applicate a sproposito, l’Unione Europea nel 2011-13 provocò una nuova recessione, da cui solo ora, a fatica, si sta riprendendo.
L’arrivo al potere di Trump, nel 2017, ha messo a nudo una nuova, evidente falla del modello americano, e questo rilancia la domanda d’Europa, tanto più se si considera che l’evoluzione dei modelli alternativi (Cina, Russia) è tutt’altro che rassicurante.
Per rispondere alle aspettative, tuttavia, l’Europa dovrà superare molteplici sfide. Innanzitutto una sfida generale: la deriva verso la disuguaglianza della globalizzazione. L’Europa non rassicurerà i suoi cittadini spiegando che la situazione qui da noi è migliore che negli Stati Uniti o in Brasile. Le disuguaglianze avanzano in tutti i Paesi, incoraggiate da una concorrenza fiscale esacerbata che favorisce i più mobili, e che l’Europa continua a rinfocolare. I rischi di ripieghi identitari e logiche del capro espiatorio saranno superati solo se si riuscirà a proporre ai ceti popolari e alle giovani generazioni una strategia concreta di riduzione delle disuguaglianze e investimento nel futuro.
La seconda sfida è il divario fra Nord e Sud, che all’interno della zona euro si è drammaticamente allargato, e che fa leva su versioni contraddittorie degli eventi. In Germania e Francia la gente continua a pensare che abbiamo aiutato i greci perché abbiamo prestato loro soldi a un tasso di interesse inferiore a quello che viene praticato a noi sugli stessi mercati. In Grecia la lettura dei fatti è diversa e si mette l’accento sul cospicuo utile finanziario realizzato. In realtà, il salasso imposto all’Europa del Sud, con conseguenze secessioniste drammatiche in Catalogna, è il risultato diretto di un miope egoismo franco-tedesco.
La terza sfida è il divario fra Est e Ovest. A Parigi, Berlino o Bruxelles non ci si capacita dell’ingratitudine di Paesi che hanno beneficiato di imponenti trasferimenti pubblici. Ma a Varsavia o Praga vedono la questione diversamente, sottolineando che gli investimenti privati sono stati pagati a caro prezzo e i flussi di profitti versati ai proprietari delle imprese superano i trasferimenti europei che viaggiano nell’altro senso.
In effetti, se si vanno a esaminare i numeri, i Paesi dell’Est non hanno torto. Dopo il crollo del comunismo, gli investitori occidentali ( in particolare tedeschi) hanno acquisito la proprietà di parte del capitale dei Paesi dell’ex blocco orientale: circa un quarto, se si considera l’intero stock di capitale ( incluso il settore immobiliare) e più della metà se ci si limita alla proprietà delle imprese ( e ancora di più per le grandi imprese). Gli studi di Filip Novokmet hanno dimostrato che la ragione per cui in Europa dell’Est le disuguaglianze sono cresciute meno che in Russia o negli Usa è da addebitarsi al fatto che una grossa fetta degli ingenti redditi prodotti dal capitale esteuropeo finiscono all’estero.
Tra il 2010 e il 2016, i flussi annui in uscita di profitti e redditi da capitale (al netto dei flussi in entrata corrispondenti) hanno rappresentato in media il 4,7 per cento del Pil in Polonia, il 7,2 per cento in Ungheria, il 7,6 per cento in Repubblica Ceca e il 4,2 per cento in Slovacchia, riducendo in egual misura il reddito nazionale di questi Paesi. Per fare un confronto, nello stesso periodo i trasferimenti annui netti provenienti dall’Unione Europea, vale a dire la differenza fra il totale degli esborsi ricevuti e dei contributi versati al bilancio comunitario, sono stati sensibilmente inferiori: il 2,7 per cento del Pil in Polonia, il 4 per cento in Ungheria, l’1,9 per cento in Repubblica Ceca e il 2,2 per cento in Slovacchia.
Certo, si può obiettare che gli investimenti occidentali hanno consentito di accrescere la produttività delle economie in questione e quindi hanno portato benefici a tutti. Ma i dirigenti esteuropei non mancano mai di ricordare che gli investitori abusano della loro posizione di forza per comprimere i salari e mantenere margini di profitto eccessivi. Esattamente come successo con la Grecia, le potenze economiche dominanti tendono, al contrario, a considerare naturali le disuguaglianze: si parte dal principio che il mercato e la “libera concorrenza” conducono a una ripartizione giusta delle ricchezze e si considerano i trasferimenti realizzati a partire da questo equilibrio “ naturale” come un atto di generosità da parte di quelli che con il sistema ci guadagnano. In realtà, i rapporti di proprietà sono sempre complessi, soprattutto all’interno di comunità politiche di grandi dimensioni come l’Unione Europea, e la loro regolazione non può essere affidata al buon volere del mercato. Potremo uscire da queste contraddizioni solo attraverso una rifondazione intellettuale e politica, accompagnata da una reale democratizzazione delle istituzioni europee. Speriamo che il 2018 possa dare un contributo in tal senso.
(Traduzione di Fabio Galimberti)