il manifesto 26.1.18
Praxis e educazione in Gramsci»
Pensare alla pedagogia come lotta egemonica
Un volume di Massimo Baldacci edito da Carocci, «Oltre la subalternità
di Donatello Santarone
Il libro di Massimo Baldacci, Oltre la subalternità. Praxis e educazione in Gramsci (Carocci, pp. 276, euro 27), riempie un vuoto di conoscenza sul pensiero pedagogico di Antonio Gramsci che durava, in Italia, dagli anni Sessanta-Settanta, da quando cioè su tale questione apparvero i primi fondamentali studi di Urbani, Manacorda e Broccoli (seguiti poi da quelli di Ragazzini).
Massimo Baldacci, docente di Pedagogia generale all’università di Urbino, parte da questa importante tradizione di studi per riproporne l’eredità più feconda ma anche per introdurre con maggior vigore un nesso fondamentale tra tutto il pensiero di Gramsci interamente innervato dalla filosofia della praxis, cioè da una originale e creativa forma di marxismo, e la dimensione pedagogica, che è politica e culturale, del suo pensiero. Il tutto per rispondere a una cruciale domanda educativa del presente: come fare per liberare la mente dalle scorie nocive del pensiero neoliberale che penetra nella forma di un suadente senso comune che rende passivi e docili i soggetti.
TUTTA LA RICERCA di Baldacci e il suo attuale impegno nella denuncia degli aspetti mercantili delle politiche scolastiche e universitarie avviate dagli anni Novanta nasce da qui. Pensare la scuola e l’educazione in modo gramsciano significa per l’autore porsi il problema di come modificare la soggettività dei subalterni, come far arrivare in alto chi sta in basso (per dirla con Brecht), come far diventare governanti i governati. Insomma, pensare all’educazione come una lotta egemonica di tipo pedagogico-culturale per andare, come recita il titolo del libro, oltre la subalternità.
Su tutto questo la miniera inesauribile dei Quaderni e delle Lettere rappresenta ancora oggi una fertile cassetta degli attrezzi che Baldacci rovista con profonda competenza partendo da quello che egli definisce il postulato pedagogico di Gramsci riassunto in queste parole del rivoluzionario sardo: «Ogni rapporto di egemonia è necessariamente un rapporto pedagogico». Un’egemonia vista sempre nella sua contraddittoria dialettica di direzione e dominio, consenso e forza.
La stessa che caratterizza anche il processo educativo, fatto non idealisticamente di buoni sentimenti da dispensare, ma caratterizzato da un nesso inestricabile di autorità e spontaneità, necessità e libertà, norma e infrazione della norma.
«Si deve riconoscere a Gramsci – scrive Baldacci – una profonda onestà intellettuale, oltre a uno spiccato realismo, perché la tendenza dominante nella pedagogia è sempre stata quella di semplificare o mascherare l’ambiguità del rapporto educativo, nascondendo o edulcorando il suo lato coercitivo, per enfatizzare la dimensione dell’amore reciproco educatore/educando.
SARÀ MANACORDA a evidenziare questo aspetto del pensiero di Gramsci», in particolare attraverso la fondamentale categoria del conformismo dinamico. Rispetto ai contributi di Mario Alighiero Manacorda, del quale restano insuperabili non solo gli studi sul comunista sardo ma anche quelli su Marx e in generale sul marxismo e l’educazione, la posizione di Baldacci è critica in quello che definisce un certo economicismo di Manacorda, in particolare nell’enfatizzazione degli aspetti legati al nesso educazione-americanismo-conformismo. Ci sono certamente, in questa critica, elementi di verità, ma bisogna considerare la necessità avvertita da Manacorda di contrastare una certa lettura culturalista di Gramsci e di farlo proprio in nome dell’indiscutibile nesso che c’è tra le riflessioni pedagogiche di Marx e quelle di Gramsci.
Molto pertinente appare, invece, la critica che Baldacci rivolge alla posizione adialettica di Althusser che vede l’apparato educativo solo come luogo di mera riproduzione delle idee delle classi dominanti, non cogliendo la dimensione contraddittoria dei sistemi educativi attraversati invece, secondo Gramsci, da dure lotte egemoniche, da quelle che gli statunitensi chiamano guerre culturali. E molto acutamente, parlando della nozione gramsciana di apparato egemonico, Baldacci scrive in una nota che tale nozione «sembra maggiormente vicina al concetto di campo di Bourdieu – come realtà attraversata da forze contrastanti – che non a quello althusseriano di apparati ideologici di Stato».
UN’ULTIMA fondamentale questione è il nesso tra educazione e filosofia della praxis. Si tratta di uno degli aspetti centrali dell’interpretazione di Baldacci il quale giustamente sostiene che il progetto emancipativo insito nei processi educativi è tale per Gramsci solo se si lega a una prospettiva di liberazione umana che prende il nome di comunismo e si connette, sul piano teorico, con la filosofia della praxis.
Questo perché in Gramsci, e in generale in tutta la tradizione del marxismo pedagogico, l’educazione non è un’entità disincarnata dai rapporti di produzione e dai conflitti di classe, ma è, come tutte le dimensioni dello spirito, espressione in ultima analisi di determinati rapporti storici tra governanti e governati. Anche in questo per il pensatore sardo la lezione di Marx è fondamentale, in particolare nella scoperta della dialettica inesauribile tra dimensione simbolica e dimensione socioeconomica le quali, a dispetto di una certa tradizione interpretativa caricaturale del pensiero di Marx, non sono mai meccanicamente effetto l’una dell’altra ma vivono dinamicamente come momenti di uno stesso processo storico e umano.
il manifesto 26.1.18
Una campagna-appello contro i «nuovi fascismi»
Si stanno moltiplicando nel nostro Paese sotto varie sigle organizzazioni neofasciste o neonaziste presenti in modo crescente nella realtà sociale e sul web.
Esse diffondono i virus della violenza, della discriminazione, dell’odio verso chi bollano come diverso, del razzismo e della xenofobia, a ottant’anni da uno dei provvedimenti più odiosi del fascismo: la promulgazione delle leggi razziali.
Fenomeni analoghi stanno avvenendo nel mondo e in Europa, in particolare nell’est, e si manifestano specialmente attraverso risorgenti chiusure nazionalistiche e xenofobe, con cortei e iniziative di stampo oscurantista o nazista, come recentemente avvenuto a Varsavia, persino con atti di repressione e di persecuzione verso le opposizioni.
Per questo, uniti, vogliamo dare una risposta umana a tali idee disumane affermando un’altra visione delle realtà che metta al centro il valore della persona, della vita, della solidarietà, della democrazia come strumento di partecipazione e di riscatto sociale.
Per questo, uniti, sollecitiamo ogni potere pubblico e privato a promuovere una nuova stagione di giustizia sociale contrastando il degrado, l’abbandono e la povertà che sono oggi il brodo di coltura che alimenta tutti i neofascismi.
Per questo, uniti, invitiamo le Istituzioni a operare perché lo Stato manifesti pienamente la sua natura antifascista in ogni sua articolazione, impegnandosi in particolare sul terreno della formazione, della memoria, della conoscenza e dell’attuazione della Costituzione.
Per questo, uniti, lanciamo un allarme democratico richiamando alle proprie responsabilità tutti i livelli delle Istituzioni affinché si attui pienamente la XII Disposizione della Costituzione («È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista») e si applichino integralmente le leggi Scelba e Mancino che puniscono ogni forma di fascismo e di razzismo.
Per questo, uniti, esortiamo le autorità competenti a vietare nelle competizioni elettorali la presentazione di liste direttamente o indirettamente legate a organizzazioni, associazioni o partiti che si richiamino al fascismo o al nazismo, come sostanzialmente previsto dagli attuali regolamenti, ma non sempre applicato, e a proibire nei Comuni e nelle Regioni iniziative promosse da tali organismi, comunque camuffati, prendendo esempio dalle buone pratiche di diverse Istituzioni locali.
Per questo, uniti, chiediamo che le organizzazioni neofasciste o neonaziste siano messe nella condizione di non nuocere sciogliendole per legge, come già avvenuto in alcuni casi negli anni 70 e come imposto dalla XII Disposizione della Costituzione.
La campagna di raccolta firme per l’appello verrà presentata giovedì 1 febbraio alle 11.30 a Roma nei locali del Museo storico della Liberazione – luogo simbolo del martirio antifascista.
Interverranno: Susanna Camusso, segretaria generale Cgil, Francesca Chiavacci, presidente Nazionale Arci, don Luigi Ciotti, presidente Libera, Carla Nespolo, presidente nazionale Anpi, Roberto Rossini, presidente Nazionale Acli
*** Promuovono: Acli, Aned, Anpi, Anppia, Arci, Ars, Articolo 2, Cgil, Cisl, Comitati Dossetti, Coordinamento democrazia costituzionale, Fiap, Fivl, Istituto Alcide Cervi, L’Altra Europa con Tsipras, Libera, Liberi e uguali, Libertà e giustizia, Pci, Pd, Prc, Uil, Uisp. Aderiscono: Auser, Giovani democratici, I sentinelli di Milano, La Rete per la Costituzione, Link Coordinamento universitario, Movimento federalista europeo Toscana, Movimento giovanile della sinistra, Rete degli studenti medi, Rete della conoscenza, Ugo Nespolo, Aldo tortorella, Unione degli studenti – Unione degli universitari
il manifesto 26.1.18
Shoah, Mattarella demolisce il mito degli italiani brava gente
Cerimonia al Quirinale. Per il giorno della Memoria, il presidente della Repubblica usa parole durissime sulle connivenze all'antisemitismo radicate nella società italiana subito dopo le leggi razziali e sulle colpe del fascismo: inaccettabile dire che ebbe anche dei meriti
La neo senatrice a vita Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, con Mattarella ieri al Quirinale
«Il presidente è stato molto chiaro e mi hanno fatto particolarmente piacere alcune sue frasi sul passato. Speriamo che sia effettivamente il passato». Al Quirinale, Pietro Terracina, uno dei sopravvissuti di Auschwitz, commenta così il discorso di Sergio Mattarella per il giorno della memoria. Il presidente della Repubblica alla condanna dei crimini della storia ha aggiunto un deciso avvertimento per il presente.
La cerimonia si è svolta ieri perché il giorno della memoria – 27 gennaio, anniversario dell’aperture dei cancelli di Auschwitz da parte dell’Armata rossa sovietica (le «truppe russe» nel discorso di Mattarella) – cade quest’anno di sabato, giornata del riposo per gli ebrei. Oggi il capo dello stato è impegnato con l’apertura dell’anno giudiziario in Cassazione. Mattarella aveva in qualche modo anticipato il suo richiamo al valore della memoria – «un antidoto indispensabile contro i fantasmi del passato» – nominando la settimana scorsa senatrice a vita Liliana Segre, anche lei sopravvissuta e testimone dell’olocausto.
«Tutte le vittime dell’odio sono uguali e meritano uguale rispetto, ma la Shoah per la sua micidiale combinazione di delirio razzista, volontà di sterminio, pianificazione burocratica, efficienza criminale, resta unica nella storia d’Europa», ha detto Mattarella. Per la prima volta il capo dello stato ha voluto invitare anche il rappresentante della comunità dei rom, sinti e camminanti. «Speriamo che il passato non torni mai – ha detto Terracina – non temo per me o per i miei correligionari, temo
invece per altre minoranze che sono ancora a rischio».
Con parole mirate, Mattarella ha demolito il mito degli italiani brava gente e della dittatura lieve. «Sul territorio nazionale il regime fascista non fece costruire camere a gas e forni crematori. Ma il governo di Salò collaborò attivamente alla cattura degli ebrei che si trovavano in Italia e alla loro deportazione verso l’annientamento. Le misure persecutorie – ha aggiunto – la schedatura e la concentrazione nei campi di lavoro favorirono enormemente l’ignobile lavoro dei carnefici delle SS». Mattarella ha ricordato l’ottantesimo anniversario delle leggi razziste del 1938, «ideate e scritte di pugno da Mussolini, trovarono a tutti i livelli delle istituzioni della politica, della cultura e della società italiana connivenze, complicità, turpi convenienze, indifferenza».
Di rara nettezza la condanna del fascismo: «Con la normativa sulla razza si rivela al massimo grado il carattere disumano del regime fascista … dopo aver soppresso i partiti, ridotto al silenzio gli oppositori e sottomesso la stampa, svuotato ogni ordinamento dagli elementi di democrazia, il fascismo mostrava ulteriormente il suo volto». «E per questo sorprende sentir dire, ancora oggi, da qualche parte, che ebbe alcuni meriti, ma fece due gravi errori: le leggi razziali e l’entrata in guerra. Si tratta di un’affermazione gravemente sbagliata e inaccettabile, da respingere con determinazione. Perché razzismo e guerra non furono deviazioni o episodi rispetto al suo modo di pensare, ma diretta e inevitabile conseguenza».
In conclusione, Mattarella ha detto che «focolai di odio, di intolleranza, di razzismo, di antisemitismo sono presenti nelle nostre società. Non vanno accreditati di un peso maggiore di quel che hanno ma sarebbe un errore capitale minimizzarne la pericolosità».
Corriere 26.1.18
«Fascismo disumano, non ebbe meriti»
Mattarella ricorda la «pagina infamante» delle leggi razziali: mai minimizzare l’odio nella società
di Marzio Breda
«Un capitolo buio, una macchia indelebile, una pagina infamante della nostra storia». Ecco che cosa sono state, per Sergio Mattarella, le leggi razziali del 1938. Norme rivelatrici del «carattere disumano del fascismo» e che trovarono le «connivenze, la complicità, le turpi convenienze, l’indifferenza di istituzioni, politica, cultura e società italiana». Il frutto malsano, insomma, di un regime che «non ebbe alcun merito»”, come «ci sorprendiamo a sentir dire ancora oggi da qualche parte», con la pretesa che gli «unici errori della dittatura siano stati appunto quelle leggi e l’entrata in guerra». Un’affermazione simile è «gravemente sbagliata e inaccettabile, perché razzismo e guerra non furono deviazioni o episodi rispetto a un certo modo di pensare, ma una diretta e inevitabile conseguenza… erano insite nella natura violenta e intollerante di quel sistema». Il capo dello Stato marchia con durezza la svolta mussoliniana di 80 anni fa, che appaiò l’Italia alla Germania di Hitler. Parole acuminate, le sue. Che forse non a caso cadono all’indomani di quanto ha detto il candidato leghista alla presidenza della Lombardia, Attilio Fontana, piegando il senso dell’articolo 3 della Costituzione in un appello elettorale «in difesa della razza bianca».
No, insiste il presidente, celebrando l’Olocausto e le responsabilità riconducibili anche al nostro Paese. «La Repubblica non teme di fare i conti con la propria storia», dice, ricordando due cose: 1) la parte che nella persecuzione degli ebrei in Italia ebbero «intellettuali, giuristi, scienziati, storici», con il loro supporto teorico alla «ignominia» del Manifesto della razza; 2) «l’antitesi più netta» a tutto questo ci è offerta dalla Carta del ’48 con quell’articolo 3 che ora qualcuno vorrebbe storpiare calpestando il principio che esclude discriminazioni di ogni genere.
Purtroppo, avverte, non possiamo ancora «minimizzare i focolai di odio, intolleranza, razzismo e antisemitismo nelle nostre società». Perciò «i fantasmi del passato, il rischio che si possano di nuovo spalancare le porte dell’abisso devono esser sempre tenuti presenti». Abbiamo «il dovere», che per lui è un antidoto, «della memoria», spiega guardandosi attorno nell’affollato salone dei corazzieri del Quirinale. Ci sono gli ormai pochi superstiti dei lager nazisti, fra i quali, insieme a Piero Terracina, Liliana Segre (appena nominata senatrice a vita), molti studenti e la cantante israeliana Noa, con le sue struggenti canzoni.
La Stampa 26.1.18
Mattarella, monito ai politici: no al mito del fascismo buono
Avviso contro l’odio: “Sorprende che ancora adesso qualcuno parli di meriti”
di Ugo Magri
Verso gli ebrei l’Italia è colpevole. Anche contro «gitani, omosessuali, testimoni di Geova, disabili»: 80 anni fa, con le leggi razziali, fu commesso nei loro confronti «un crimine turpe». E sebbene la vergogna ricada sul fascismo, tutti noi «abbiamo il dovere di riconoscere quanto di terribile e disumano» fu fatto allora. Sergio Mattarella non chiede formalmente «perdono» alla comunità ebraica perché la Repubblica, che egli rappresenta, è nata proprio in contrapposizione a quegli orrori (basta leggere l’articolo 3 della Costituzione). Ma il discorso presidenziale marca comunque una responsabilità collettiva. Taglia netto con lo stereotipo auto-assolutorio degli italiani sempre brava gente. Ci fu, riconosce Mattarella, la «complicità di organismi dello Stato, di intellettuali, giuristi, magistrati, cittadini asserviti». In troppi tacquero, restarono indifferenti. Non si può dimenticare né nascondere quanto accadde, con la nostra storia dobbiamo «fare i conti». Un’ammissione così esplicita mai si era udita finora sul Colle.
Basta banalità
Mattarella è un uomo politico moderato che però, se vede in gioco i valori, diventa intrattabile. Nei ricordi di famiglia, mai messi in pubblico, c’è il padre che nel 1938 passò i guai a Palermo proprio per aver condannato le leggi razziste sul giornale diocesano. Contestarle era dovere. Chi ora minimizza o prova a giustificare merita disapprovazione. Difatti il passaggio più intenso del discorso pronunciato al Quirinale nel Giorno della Memoria, con tutte le massime cariche pubbliche sedute dinanzi, tra queste la neo senatrice a vita Liliana Segre sopravvissuta ad Auschwitz, picchia duro su chi banalizza. «Sorprende sentir dire, ancora oggi, da qualche parte, che il fascismo ebbe alcuni meriti ma fece due gravi errori: le leggi razziali e l’entrata in guerra. Si tratta di un’affermazione», secondo il Capo dello Stato, «gravemente sbagliata e inaccettabile». Ovvio che il pensiero corra a quanti, tra i leader in circolazione, si sono travestiti da storici. Ne vengono in mente un paio che in piena campagna elettorale Mattarella, ovviamente, non cita. Un mese fa Berlusconi aveva negato al Duce la qualifica di dittatore, lo era fino lì. E Salvini non risulta si sia mai pentito di quanto disse: «Prima delle leggi razziali, per vent’anni Mussolini, aveva fatto tante cose buone, la previdenza sociale l’ha portata lui mica i marziani». Errore, reagisce Mattarella a questi discorsi che ogni tot rispuntano: «Razzismo e guerra non furono deviazioni o episodi, ma diretta e inevitabile conseguenza» di un certo modo di pensare. La sua condanna è a 360 gradi.
Anticorpi in azione
I «focolai di razzismo e di antisemitismo» sono tuttora presenti e non vanno sottovalutati. Però Mattarella, al quale non è sfuggito l’allarme lanciato domenica dal rabbino Riccardo Di Segni, è fiducioso: certi fenomeni «non vanno accreditati di un peso maggiore di quel che hanno. Il nostro Paese e l’Unione europea hanno oggi gli anticorpi necessari».
La Stampa 26.1.18
Dietro la condanna del Ventennio l’ombra dei populismi autoritari
di Giovanni Sabbatucci
Nella cerimonia al Quirinale che ha inaugurato le celebrazioni del Giorno della memoria, il presidente della Repubblica non si è limitato alla celebrazione rituale o alla deplorazione generica. Ha invece affrontato la questione ancora scabrosa e dolente delle leggi razziali varate ottanta anni fa dal fascismo con toni decisi e argomentazioni nette, non scontate né usuali nei discorsi ufficiali di un capo di Stato. Anche per questo, oltre che per il suo contenuto, il discorso di ieri è destinato a occupare un posto di rilievo nella storia degli interventi presidenziali.
Già in altre occasioni - da ultimo nelle motivazioni della nomina a senatrice a vita di Liliana Segre - Sergio Mattarella aveva manifestato una speciale sensibilità al tema: un’attenzione certo giustificata dal riproporsi - nelle piazze, sui social networks, in certe scritte murali, persino nella campagna elettorale - di atteggiamenti e slogan esplicitamente razzisti e neonazisti. In questo caso, però, l’obiettivo polemico principale è un altro: è la persistenza, è la sostanziale invarianza nel tempo di quei luoghi comuni consolatori che gli appartenenti alla generazione dei nati alla fine della seconda guerra mondiale sentono ripetere da sempre come un monotono ritornello: «il fascismo ha fatto anche cose buone», «la responsabilità delle persecuzioni razziale è tutta dei tedeschi», per finire col classico «ah, se Mussolini non fosse entrato in guerra…».
Su questi punti, il capo dello Stato è entrato decisamente nel merito, ricordando agli immemori e ai minimizzatori di turno alcuni dati di fatto non confutabili. Primo: il fascismo avrà fatto anche cose buone (quale regime non ne ha fatte?), ma questo non significa che fosse «in parte» buono, visto che le cose cattive bastano e avanzano per qualificarlo. Secondo: è certo che la primazia (logica e cronologica) delle persecuzioni razziali e dei relativi orrori, culminati nella Shoah, spetta alla Germania nazista, ma è altrettanto vero che gli italiani (quasi tutti) si adattarono alla legislazione antisemita senza proteste o intimi trasalimenti; e non pochi di loro (non tutti per la verità) si prestarono al ruolo di «volonterosi carnefici» sotto la Repubblica sociale, collaborando per la parte di loro competenza alla fase preliminare delle operazioni di sterminio. Terzo: la storiella di un Mussolini rovinato dalle cattive compagnie si basa su un’ipotesi del tutto infondata. Mussolini non poteva non fare la guerra, perché - come ha giustamente ricordato il presidente - il fascismo era un fenomeno costitutivamente autoritario e liberticida e inesorabilmente votato alla violenza e alla guerra. Questa almeno era la deriva assunta dal regime già prima dell’alleanza con Hitler e delle leggi razziali. Che poi Mussolini, come molti italiani, credesse poco alla teoria e alla mistica della razza e che vedesse la campagna antisemita come un’iniezione di spiriti bellicosi nel corpo del popolo, è altro discorso: ma dal punto di vista etico - mi sentirei di aggiungere - questo rappresenta un’aggravante più che un attenuante.
E’ dunque, quella del presidente Mattarella, una presa di posizione che non lascia adito a dubbi interpretativi e che non ha solo il valore di una precisazione storiografica. Serve, in una difficile fase pre-elettorale, a ribadire i confini della legittimità repubblicana, collocando decisamente l’Italia nel novero delle democrazie liberali, e ad allontanarla dal modello delle democrazie autoritarie e populiste (le «democrature«), verso cui alcuni Paesi dell’Est Europa stanno pericolosamente inclinando.
Repubblica 26.1.17
Mattarella e la macchia indelebile
di Ezio Mauro
Ci sono due modi di confrontarsi con la memoria. Il primo è la contemplazione archeologica di un reperto del passato.
Il secondo è la relazione pedagogica con ciò che noi siamo e con ciò che vorremmo essere: per capire se abbiamo fatto i conti con la lezione della storia o se viviamo in un presente disincarnato ed estemporaneo, dove ogni improvvisazione è possibile, perché è saltato qualsiasi vincolo culturale, politico e morale con le responsabilità che nascono dalla nostra vicenda nazionale.
Ieri, nel ricordare il giorno in cui i cancelli di Auschwitz si sono aperti sull’orrore, il presidente della Repubblica si è fatto carico fino in fondo di questa responsabilità del passato chiedendo di fatto scusa agli ebrei italiani per i crimini commessi dal fascismo che si era impossessato dello Stato, deformandolo.
È un atto che mancava e che era doveroso, perché va al di là della memoria, della solidarietà e della stessa condivisione. La denuncia dell’orrore italiano nato con le leggi razziali e il manifesto della Razza diventa infatti un impegno della Repubblica e della democrazia italiana contro le tentazioni razziste, xenofobe, discriminatorie, contro le insorgenze isolate e ignoranti di un richiamo postmoderno al fascismo come espressione materiale, situazionista, testimoniale di antagonismo sociale.
Riaffermando l’unicità della Shoah nella storia dell’occidente, Mattarella ha ricordato il consenso che accompagnava i carnefici, senza che le radici di umanità e di pietà, le conquiste della scienza, della cultura, dell’arte, e quindi del progresso e della civiltà — potremmo dire la “ bellezza” dell’Europa — agissero da freno e da schermo: ma anzi permettendo che le persone venissero prima ridotte a numeri, liste, elenchi, cose e oggetti, spogliati di ogni dignità e di ogni diritto, come talvolta capita nuovamente.
L’Italia ha partecipato a questa discesa nell’abisso: non solo con la caccia agli ebrei da parte della repubblica di Salò e con la deportazione, ma con la “ pagina infamante” e la “ macchia indelebile” delle leggi razziali che portarono alla schedatura, alla discriminazione, all’esclusione dalla vita civile, alla concentrazione nei campi di lavoro dei cittadini ebrei. Nel consenso, nella complicità e nell’indifferenza della cultura, della politica, della pubblica opinione.
Ma le leggi razziali non sono un semplice errore, bensì una diretta conseguenza dell’ideologia di sopraffazione, autoritarismo e supremazia tipica del fascismo, dunque perfettamente coerenti e conseguenti ad una politica che sopprime il pluralismo politico, imbavaglia i giornali, calpesta l’opposizione, cancella la democrazia istituzionale. Ecco perché Mattarella respinge il riduzionismo risorgente, che oggi cerca di distinguere i presunti meriti del fascismo dai suoi errori. La lettura è opposta: proprio le norme sulla razza “ rivelano il carattere disumano” del regime e il “ distacco definitivo” della monarchia dai valori del Risorgimento e dai principi dello Statuto.
Con questa testimonianza il Capo dello Stato condanna la banalizzazione del fascismo praticata oggi quotidianamente, e distrattamente introiettata dal sistema politico e culturale, la riduzione della dittatura a vizio del carattere nazionale, la derubricazione del regime ad ambiguità politica, incidente casuale, esperimento italico, folclore della storia.
Questa condanna si accompagna al recupero del nesso troppo facilmente smarrito in questi anni tra la Resistenza ( come moto nazionale autonomo di ribellione alla dittatura), la riconquista della democrazia, la Costituzione, la nascita della Repubblica e delle sue istituzioni. Una Repubblica, ricorda il presidente, che “ si è definita e sviluppata in totale contrapposizione al fascismo”, una Costituzione che all’articolo 3 rifiuta ogni discriminazione. Un Paese che proprio per questo deve sentire il dovere oggi “ di riconoscere che un crimine turpe e inaccettabile è stato commesso nei confronti dei nostri concittadini ebrei”.
Si afferma così, insieme, l’unicità e l’universalità della persecuzione razziale antiebraica, davanti a rischi di antisemitismo, di razzismo, di intolleranza e di odio che ritornano oggi: non vanno ingigantiti, dice Mattarella, sapendo però che all’ombra della globalizzazione timori identitari e paure per il futuro possono far riemergere fantasmi del passato, quando la semplificazione della storia suggerisce scorciatoie pericolose.
Una democrazia costituzionale consapevole delle sue radici, che comportano obblighi e doveri, è una risposta a questi pericoli. Una Repubblica cosciente della sua storia è una garanzia: quando le istituzioni sanno leggere i segni del passato, non quando si propongono, come avveniva qualche anno fa, di abolire il 25 aprile.
il manifesto 26.1.18
Pd e Leu, artiglieria pesante sulle liste. Mdp-Si sotto assedio
Orlandiani in rivolta, la direzione dem rischia di slittare. Grasso alle prese con forfait eccellenti, no di Bartolo e Iacomini. Civati indeciso su un referendum fra i suoi iscritti. Al ’nazionale’ minimizzano: «Normali malumori». A notte il presidente convoca i vertici dei due partiti, ora toccherà a lui mettere la faccia su tutte le scelte
di Daniela Preziosi
I guai iniziano presto nella sede di Liberi e uguali. La vicenda abruzzese – dirigenti regionali contro «catapultati» – si è conclusa male, con una rottura con il ’nazionale’, e dirigenti che si scusano con i militanti di averli «coinvolti» in questo «schifo». L’uscente Melilla tuona: «Una delusione, un’infinita tristezza».
SULLA CARTA RISULTANO ancora aperti i dossier Sicilia e Sardegna, due territori le cui assemblee hanno scatenato la rivolta contro i candidati ’stranieri’. Ma in pratica le liste non si toccano: «Non ci sono margini di modifica», spiegano dal quartier generale di via Zanardelli a Roma. Spostare uno dei candidati contestati (Grassi in Sardegna, Costantino e Leva in Abruzzo, Epifani in Sicilia, per dire solo delle baruffe principali) significherebbe cambiare troppi tasselli del domino.
SULLA CHAT degli onorevoli di Mdp esplode il malcontento. Ad essere furiosi non sono solo gli ex di area Pisapia, tutti fuori dalle liste «senza neanche una telefonata», ma anche alcuni ex Pd. Nel Lazio c’è il caso Filiberto Zaratti: l’ambientalista eletto nei Castelli è stato rimpiazzato dalla toscana Elisa Simoni, ora in bilico in extremis con una candidata romana.
INTANTO LA ’QUOTA CIVICA’ tanto voluta da Piero Grasso evapora. Il medico di Lampedusa, Pietro Bartolo, portato fin qui in processione nei teatri, annuncia la sua rinuncia: «Il mio posto è qui, con gli isolani e i migranti». Ha parole amichevoli per Grasso e per Leu, e le conferma a chi lo interpella direttamente. Ma in Mdp in molti credono che la proposta del seggio di Pavia non era quello a cui pensava quando gli hanno chiesto di candidarsi. Qualche giorno fa aveva rinunciato anche Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia. E il sociologo Marco Omizzolo, ricercatore e vicepresidente della Onlus In Migrazione, chiarisce sui social che anche lui non accetta: «Leu si è dimostrata coerente con la peggiore tradizione politica dei partiti», scrive, «logiche solo spartitorie e non di cambiamento reale». Da più parti (Sardegna, Sicilia) viene invocato Grasso come garante. Ma a sua volta anche il presidente è oggetto di malumore per aver candidato il suo portavoce Alessio Pasquini: «Se chiede una persona di sua fiducia, non possiamo dirgli di no», è la replica imbarazzata che arriva da via Zanardelli.
DALLA SUA SICILIA, oltre a comunicati di fuoco contro la corsa di Epifani, arrivano anche le parole di Claudio Fava, eletto da Mdp e Si: «Non mi riconosco nel progetto di Leu, la Sicilia è vista come una colonia, serbatoio per prendere voti, per accompagnare in parlamento e salvare chi con la Sicilia non c’entra nulla», dichiara a Sicilialive.
NON È FINITA. PIPPO CIVATI spiega al politburo di Leu che in queste condizioni deve convocare un referendum fra gli iscritti di Possibile: «In nove regioni non ho neanche i candidati». Dei suoi solo tre sono eletti ’sicuri’. Ma dei tre uno è meno sicuro, ed è proprio Civati, nel collegio di Bergamo-Brescia. Un altro, quello marchigiano, ha però provocato le proteste dei militanti di Mdp che volevano invece Lara Ricciatti, deputata del territorio.
Confronto ruvido, quello fra Civati e gli altri due segretari di Leu, Speranza e Fratoianni. Proseguito nella notte.
C’È CHI DESCRIVE UN BERSANI imbarazzato e chi intercetta alla camera un Nichi Vendola molto preoccupato. A notte la situazione rischia di diventare ingestibile e Grasso convoca i vertici Mdp e Si.
SE ATENE PIANGE SPARTA non ride. La giornata dei guai al Nazareno inizia presto e prosegue per tutta la notte. Oggi la direzione che dovrebbe ratificare le liste è convocata per le 10 e mezza. Ma gli uomini di esperienza – nella sede del Pd svuotata di funzionari dalla cassa integrazione comunque non mancano – dubitano che non debba slittare. Renzi, barricato nella sua stanza a occuparsi personalmente del dossier candidati – insieme a Lotti, Guerini, Orfini, Rosato, Martina – ha in agenda incontri anche per stamattina.
Molti i tasselli delle liste ancora incerti. Innanzitutto non c’è ancora a quadra con Andrea Orlando. Il ministro, capo di una minoranza che ’pesa’ il 20 per cento (dati dell’ultimo congresso) ieri mattina ha smentito le minacce di disimpegno dalla campagna elettorale riferite dalla stampa. Si è incontrato a lungo con Renzi, ma la situazione è rimasta tesa per tutta la giornata, soprattutto dopo che sono filtrate voci di esclusione dalle liste di Cesare Damiano e Barbara Pollastrini (rispettivamente area Orlando e Cuperlo). Voci subito smentite dal Nazareno.
DELICATI I CASI CAMPANIA e Sicilia. Ieri la delegazione campana ha incontrato due volte Renzi, alla fine sembra certa la candidatura di Pietro De Luca, figlio del governatore, e del il suo braccio destro Franco Alfieri, «l’uomo delle fritture». IN SICILIA ieri il sottosegretario Giuseppe Castiglione, uomo forte di Alfano, ha lasciato Civica popolare di Beatrice Lorenzin. E invece il sindaco Leoluca Orlando si è iscritto al Pd, per garantire la candidatura del suo braccio destro Giambrone. Infine i tre alleati arancioni, Nencini-Bonelli-Santagata. Respinti al Nazareno mercoledì, ieri in serata ancora aspettavano di essere ricevuti
Il Fatto 26.1.18
Liberi, Uguali e incazzati: terremoto per le liste
Candidati paracadutati, vecchi ras con poltrona sicura. E il medico di Lampedusa si ritira
di Luciano Cerasa
“Rivolgo un estremo appello a Pietro Grasso e ai gruppi dirigenti di LeU affinché si ponga immediato rimedio a quanto sta accadendo in tante realtà regionali, compresa la mia, sulla formazione delle liste, i territori sono in rivolta in tutto il Paese”. Michele Piras, deputato sardo di Liberi e Uguali si fa portavoce del malcontento che sta squassando alla prima prova elettorale l’alleanza nata a sinistra del Pd, che rischia di finire in una gigantesca rissa per le poltrone.
Le liste,spiega l’ex coordinatore regionale sardo di Sel, sono “deboli, contrastate, escludenti”. Gli appelli provenienti dai territori finora sono serviti a poco. “Sia chiaro – mette in guardia il deputato – che così si rompe tutto” prefigurando l’ennesimo naufragio della sinistra. Le grida di dolore per le candidature non condivise o mal digerite e per l’abuso delle pluricandidature, provenienti dagli esponenti locali, si moltiplicano e anche i deputati e i senatori uscenti ed esclusi soffiano sul fuoco. In Piemonte ci si chiede quale sia il valore aggiunto che potrebbe apportare alla lista la riproposizione della vecchia guardia di Sel attraverso il grimaldello di LeU, con Giorgio Airaudo e Nicola Fratoianni a fare da apripista. A Bologna vecchio e nuovo corrono appaiati: nell’uninominale la “pasionaria” del Brancaccio, Anna Falcone, si presenta insieme a Pierluigi Bersani capolista nel proporzionale. Il nome della Falcone ritorna anche nelle pluricandidature nel Friuli e a Sondrio. Acque agitate in Abruzzo, dopo che la candidatura di Nico Stumpo di Mdp – impegnato in queste ore a Roma nella compilazione delle liste – nei due listini proporzionali in Calabria ha provocato uno tzunami che ha scaraventato la deputata calabrese Celeste Costantino in cima alla Maiella, affiancata da Danilo Leva proveniente dal vicino Molise.
Mal di pancia sui social anche in Basilicata, dopo che negli elenchi dei candidati a Potenza è spuntata la figlia del’anziano notabile lucano della Dc, Romualdo Coviello. I Liberi e Uguali siciliani sono in rivolta per la scelta di candidare capolista al Senato Pietro Grasso e Guglielmo Epifani alla Camera, togliendo spazio a diversi che ambivano a queste posizioni, da Giuseppe Zappulla a Gianni Battaglia e Pino Apprendi. La missione di Davide Zoggia nell’isola non ha placato i tanti mal di pancia per le scelte “calate dall’alto”, con qualcuno che pensa addirittura di defilarsi.
In Sicilia si consuma uno strappo anche con Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa protagonista di Fuocoammare. Per lui ci fu una standing ovation nel giorno della presentazione di LeU ma ieri Bartolo ha comunicato la rinuncia alla candidatura annunciata da Massimo D’Alema: “Vorrei che al molo Favaloro non ci fosse più bisogno di me, ma, purtroppo, gli sbarchi continuano senza sosta, il mio posto è qui”. Secondo Peppino Caldarola le ragioni sono altre: “Lo avevano spostato al Nord per lasciare spazio in Sicilia a qualche iperprotetto: se per favorire un burocratino si sacrifica Bartolo siamo veramente alla frutta”.
Lo sguardo è puntato ora verso le mosse del leader Pietro Grasso, che domenica aprirà ufficialmente la sua campagna elettorale a Palermo. A Napoli i fan di Antonio Bassolino si dividono tra delusi e furiosi per l’esclusione del loro leader dalle liste. Nei fatti, LeU – che a Napoli deve fare i conti anche coi mal di pancia di Possibile, che ha ritirato le sue candidature – ha preferito aprire agli uomini di Luigi de Magistris: tre di loro – Mario Coppeto, Elpidio Capasso e Josi Gerardo Della Ragione – saranno candidati nell’uninominale a Napoli e provincia.
La Stampa 26.1.18
Scatta la lite sui candidati
Anche nel partito di Grasso
di Marcello Sorgi
Giunta ormai in vista del traguardo, la composizione delle liste si sta rivelando più sanguinosa del previsto. Al punto da far temere una sorta di voto a dispetto, annunciato dalle organizzazioni locali e dai territori che si sentono traditi dalla giustapposizione delle nomenklature centrali, in cerca di collegi sicuri che a questo punto sicuri non saranno. L’ultima rissa interna è scoppiata dentro Liberi e Uguali, con il «no» del medico simbolo dei migranti Pietro Bartolo, che ha rinunciato alla candidatura propostagli dal leader di LeU Grasso, ufficialmente, per restare a Lampedusa e continuare a salvare le vite degli immigrati che affrontano in condizioni proibitive la traversata del Canale di Sicilia. A smentirlo è arrivato Peppino Caldarola, direttore della rivista dalemiana «Italianieuropei», che ha rivelato che l’addio di Bartolo è stato determinato da un trasferimento dell’ultima ora della sua candidatura nel collegio incerto di Pavia, per ragioni, spiega Caldarola, «di implosione di un ceto politico che mira all’autosopravvivenza», e lo fa riservando a se stesso le collocazioni geografiche e in lista che meglio possano garantire la rielezione. Altre proteste arrivano dalle segreterie regionali di Mdp, componente forte di LeU, per il mancato rinnovamento delle liste e per il rifiuto di inserire candidati locali, cancellati per far spazio ai grandi nomi piovuti dal centro.
Analoghi rifiuti si erano verificati nei giorni scorsi nel centrosinistra (il più clamoroso quello di Roberto Burioni, medico in prima fila nelle battaglie a favore dei vaccini), e nel Pd è aperta la sfida finale sul numero di collegi da assegnare alla minoranza di Orlando, che minaccia di non presentarsi. Nel centrodestra si tratta a oltranza, ma pur essendo in teoria maggiore, stando ai sondaggi, il numero dei candidati eleggibili, allo stato non si riesce a trovare l’intesa neppure su chi dovrà correre per la Regione Lazio. E nel Movimento 5 Stelle non si placano le polemiche per l’esito, in buona parte predeterminato, delle primarie on line.
Se questa doveva essere la tornata in cui si sarebbe dovuta ridimensionare, anche grazie al terzo di seggi riservata all’uninominale, la quota di parlamentari nominati dalle segreterie dei partiti e imposti a un elettorato che ha finora reagito con l’astensione, ciò che sta accadendo è esattamente il contrario. Con il rischio che la cosiddetta base (per non parlare dei potentati locali) di partiti ormai inesistenti come strutture sul territorio reagisca, in campagna elettorale e nelle urne, aggiungendo un pizzico di suspence a elezioni già incerte in partenza.
il manifesto 26.1.18
Cento piazze giallo-Giulio e le verità del pm Pignatone
Anniversario. Borse di studio intitolate al ricercatore assassinato in Egitto, messaggi per ricordarlo anche da Gentiloni e Boldrini
di Rachele Gonnelli
Si chiama «giallo Giulio», ormai, in Italia il colore che altrove è una tonalità tra l’evidenziatore e il limone, come gli striscioni che pendono dai balconi di palazzi comunali e facoltà universitarie. Ieri era il secondo anniversario della sua sparizione e insieme ad Amnesty international Italia attorno alle 19,41 – ora in cui Giulio Regeni mandò il suo ultimo sms, sua ultima presenza viva, ultimo atto libero – in cento piazze si sono svolte fiaccolate e sit-in attorno a una candela in ricordo del suo «giallo», fatto però più di segreti di Stato e ambigue posizioni diplomatiche che di mistero.
Nel giorno del secondo anniversario della sparizione di Giulio al Cairo il procuratore Giuseppe Pignatone ha voluto, con una lunga lettera ai giornali, fare il punto, in modo pubblico, sulle indagini e sui rapporti con gli inquirenti egiziani. Rapporti di cui non nasconde, pur nella cooperazione al di là dell’assenza di trattati specifici, i problemi, dai tentativi di depistaggio iniziali su false piste come lo spionaggio di Regeni fino alla mancata condivisione dei dati grezzi dei tabulati telefonici. Due sono le «risultanze» che Pignatone mette in qualche modo agli atti, ribadendo che la magistratura inquirente, che deve risolvere il caso, resta quella cairota: il primo riguarda il movente del barbaro omicidio.
Giulio Regeni, chiarisce il magistrato italiano oltre ogni ragionevole o non ragionevole dubbio, è stato ucciso per le sue ricerche, che riguardavano – è bene ricordarlo – le lotte sindacali nell’Egitto di Al Sisi. «Il movente dell’omicidio va ricondotto esclusivamente alle attività di ricerca di Giulio – mette nero su bianco – ed è importante la ricostruzione dei motivi che lo hanno spinto ad andare al Cairo e l’individuazione delle persone con cui ha avuto contatti sia nel mondo accademico sia negli ambienti sindacali egiziani». Sottolinea come sia «emerso con chiarezza» che alcune delle persone che conobbe nel corso delle sue ricerche lo abbiano «tradito». Così pure appare acclarato che «apparati pubblici egiziani» avevano preso a sorvegliarlo nei mesi precedenti alla sparizione «con modalità sempre più stringenti».
Quanto agli accertamenti disposti dalla procura italiana a Cambridge, Pignatone dice solo che c’erano contraddizioni tra le dichiarazioni «acquisite in ambito universitario e quanto emerso dalla corrispondenza recuperata nel suo computer». I primi risultati del materiale sequestrato durante la perquisizione della tutor Maha Abdelrahman, «ad un primo esame sembrano utili», scrive Pignatone, ma lo studio non è ancora concluso.
Il caso non è chiuso e l’Italia intesa come Paese – lo dimostrano le cento piazze che hanno aderito alla campagna di Amnesty «per la verità su Giulio Regeni» e il palinsensto Rai scombussolato da banner e servizi speciali sulla giornata e sulla storia di Giulio – non intende lasciare che il tempo e la stanchezza del non avere risposte copra tutto con un manto di oblio e indifferenza. Quest’anno anche molte scuole e università hanno partecipato a questa palestra di memoria individuale e collettiva, con lettere, dibattiti (a Firenze e a Sassari) e borse di dottorato intitolate a Regeni (a Bologna e alla Federico II di Napoli). Mentre a Genova alla fiaccolata ha partecipato l’Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani.
Dalla politica molti i messaggi su di lui via twitter, tra cui quello telegrafico del premier Paolo Gentiloni che sottolinea: «L’impegno per la ricerca della verità continua». E quello della presidente della Camera e candidata di LeU Laura Boldrini, che condivide l’appello dei genitori sul fatto che già «due anni sono troppi» senza verità e giustizia.
Il Fatto 26.1.18
A Bolzano tutti d’accordo su Boschi: non la vogliono
In trasferta - Dagli altri partiti autonomisti ai Verdi locali (alleati con LeU) a pezzi di Pd: “Lei e Bressa non sono di qui”
di Ferruccio Sansa
“Complimenti a Maria Elena Boschi! È riuscita in un miracolo politico: mettere d’accordo italiani e sudtirolesi del Sudtiroler Freiheit. Tutti uniti contro la candidatura. C’è un grande consenso… nel dissenso”, è l’opinione di Hans Heiss, consigliere provinciale dei Verdi di Bolzano. Difficile trovare in Alto Adige chi sostenga Boschi. Tra gli italiani come tra i sudtirolesi (o altoatesini che dir si voglia), tra il centrodestra e perfino nel centrosinistra. Ma il discorso è più profondo: Boschi è la punta dell’iceberg. La parte immersa, concordano tutti, “è la nuova legge elettorale che di fatto cancella la presenza in Parlamento dei rappresentanti italiani locali e anche degli altoatesini esterni al Süd Tiroler Volkspartei (Svp)”.
Racconta Roberto Bizzo, presidente del Consiglio Provinciale di Bolzano (Pd): “I due unici parlamentari italiani eletti a Bolzano rischiano di essere Boschi e Gianclaudio Bressa. Lei viene da Arezzo e lui da Belluno! Il Pd aveva un’immensa responsabilità: portare a Roma i rappresentanti del centrosinistra riformista e autonomista di questa terra. Boschi è stata voluta dal partito nazionale. A livello locale invece è stato espresso Bressa, voluto dall’Svp. Lo stesso Bressa che aveva raggiunto il limite di mandati previsti dallo Statuto Pd, ma ha ottenuto la deroga. Anche perché – conclude Bizzo – lo stesso Svp, incredibilmente, si era offerto di candidarlo se non lo avessero fatto i dem”.
Per dirla con Riccardo Dello Sbarba, lui pure consigliere provinciale dei Verdi: “In questa legislatura Bressa da Roma ha fatto avere all’Svp il possibile e l’impossibile. Siamo alla liquidazione del Pd di Bolzano”. Ma, come spiega Dello Sbarba, il primo passo della candidatura Boschi era stata la legge elettorale: “Fatta su misura per l’Svp” che all’epoca puntellava il governo di centrosinistra e domani potrebbe portare una decina di parlamentari a sostenere il centrosinistra. Lo stesso ragionamento che aveva ispirato la riforma costituzionale (la madre era Boschi) che regalava al Trentino Alto Adige un numero di “senatori nominati” tre volte superiore in proporzione rispetto a regioni come Marche, Umbria o Liguria. Racconta Dello Sbarba: “Qui è previsto un meccanismo opposto rispetto alle altre regioni: due terzi maggioritario e un terzo proporzionale. Per giunta senza lo scorporo. Così l’Svp con il 46% dei voti a Bolzano avrà il 90% dei seggi. Nella legge elettorale c’è perfino una norma scritta apposta per un singolo collegio, Bolzano Bassa Atesina (quello di Boschi, ndr)”.
Così le prossime elezioni saranno accompagnate da novità clamorose: i Verdi qui non si schiereranno col Pd, ma con Liberi e Uguali. Tra i candidati diverse figure che si sono allontanate dal Pd come Oktavia Brugger e Vanda Carbone. Non solo. Il Sud Tiroler Freiheit di Eva Klotz ha deciso di non correre nemmeno: “Non mettiamo la nostra faccia su una finta democrazia”, annuncia il consigliere regionale Sven Knoll. Aggiunge: “Boschi, che si era detta contro le regioni a statuto speciale, si candida proprio qui!”. Risultato: i sudtirolesi più accaniti guarderanno sempre più a Vienna che promette di concedere la doppia cittadinanza. E la tensione tra le due comunità aumenta. Racconta Christoph Franceschini, penna di punta del seguitissimo sito Salto.bz: “Si parla tanto del disagio degli italiani in Alto Adige. E poi, quando si vota, nemmeno un italiano di questa provincia andrà a Roma”.
il manifesto 26.1.18
A Fiumicello per Giulio e per tutti i Giulio che ogni giorno spariscono in Egitto
Due anni senza verità. Nel paese di Regeni ieri tantissima gente e forti emozioni per stringersi intorno alla famiglia e ricordare il giovane ricercatore nel secondo anniversario della sua scomparsa
Ivan Grozny Compasso
Fiumicello (Udine) Sono le 19 e 41 quando nel piazzale dei Tigli si accendono centinaia di fiaccole. C’è tantissima gente, non solo chi qui a Fiumicello ci vive. È la mamma di Giulio, Paola, a dare il via a questo momento emotivamente fortissimo. A due anni dalla scomparsa del giovane ricercatore ci si ritrova, poco prima delle 18 e 30, fuori la scuola media Ugo Pellis che lui stesso ha frequentato da ragazzo. C’è chi è arrivato dalle provincie vicine, chi da più lontano. Tra tanta gente comune anche volti noti della cultura, dello spettacolo, del giornalismo.
«UNA GIORNATA – commenta Giuseppe Giulietti, presidente nazionale della Fnsi – essenziale e importante. Ma a questo 25 gennaio dobbiamo far seguire il 26, il 27 e tutti gli altri giorni del calendario. È possibile arrivare a verità e giustizia solo continuando a chiedere, se non si spegne l’attenzione mediatica e collettiva su Giulio e, come dicono i suoi genitori con uno straordinario esempio di civiltà, su tutti quei Giulio egiziani che ogni giorno spariscono e perdono la vita».
Ci sono tantissimi giovanissimi, anche bambini. Sono loro ad aprire quello che di fatto è un corteo silenzioso che attraversa tutta Fiumicello. E sono sempre loro che ogni tanto si fermano e leggono quella che è una vera e propria rivisitazione della Costituzione ripensata e adattata secondo la loro sensibilità e visione della vita. Le parole diritti e pace risuonano nelle strade, come l’eco di qualcosa che dovrebbe scontato e invece è ancora tutto da guadagnare.
A TENERE LO STRISCIONE GIALLO che apre invece lo spezzone degli adulti, assieme ai genitori di Giulio, c’è, tra gli altri, anche Pif. «Vengo da una città come Palermo dove ogni giorno ci si confronta con la memoria, con l’esigenza di non dimenticare. Eppure venendo qui, entrando in casa di Giulio, visitando i suoi luoghi, conoscendo i suoi genitori, si ha come l’impressione che da un momento all’altro lui debba arrivare. Invece… Fa molta impressione essere qua, a casa sua». Più defilato, quasi in incognito, tra la gente, un infreddolito e partecipe Valerio Mastandrea. Sarà proprio lui, più tardi, verso le 20 e 30, a leggere proprio degli scritti di Giulio a una platea numerosa che lo ascolta attentamente. Legge questi pensieri con garbo ma evidentemente emozionato.
«I genitori di Giulio – commenta Mastandrea – come la famiglia di Cucchi o la sorella di Uva, hanno reagito a queste ingiustizie con un atteggiamento che solo chi giudica superficialmente queste vicende può vedere come una reazione legata alla relazione parentale. Sono proprio loro a dimostrare invece a noi il loro saper rendere un’ingiustizia patrimonio collettivo e allo stesso tempo mostrano l’incapacità della politica di saper cogliere il lato umano e culturale di queste tragedie, di saperle fare proprie e di saperle trasformare. Questa gente che sa coinvolgere così tante altre persone in tutta Italia, ha una percezione dell’ingiustizia di questi episodi più alta delle istituzioni. La famiglia Regeni – prosegue l’attore -, quella di Cucchi o altre non chiedono solo verità per i propri cari, ma per tutte le situazioni di questo tipo che si ripetono ogni giorno, non solo in Egitto, dove spariscono e muoiono giovani come Giulio ogni giorno, ma anche da noi».
INFINE LE PAROLE di Paola Defendi, la mamma di Giulio che si rivolge alla tanta gente presente nel teatro di Fiumicello: «A Roma si sono accorti di cosa sta succedendo? Hanno visto che mobilitazione c’è stata oggi? Piazze intere piene di gente, tutte gialle. Oggi quindi ribadiamo che se noi riusciamo a ottenere davvero verità e giustizia, facciamo tutti insieme cambiare un intero Paese. E questo, se lo riusciamo a ottenere, sarà proprio grazie a Giulio che continua a darci forza e coraggio per raggiungere questo risultato».
Il Fatto 26.1.18
Pignatone, Regeni e quelle finte verità
di Guido Rampoldi
In una irrituale lettera a due giornali amici, il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ha rivendicato la linearità dei comportamenti del suo ufficio nell’affiancare gli inquirenti egiziani che indagano, o dovrebbero indagare, sull’assassinio di Giulio Regeni. La collaborazione con il Cairo, scrive in sostanza Pignatone, per quanto sia complicata e tortuosa ci ha messo nelle condizioni di sventare depistaggi, scoprire informatori che avevano segnalato il ricercatore agli apparati di sicurezza, e (ma questo non è detto esplicitamente) identificare poliziotti egiziani coinvolti a vario titolo nel delitto.
Perché nessuno di questi ultimi è stato incriminato? Come per rispondere a questa obiezione Pignatone fa presente che la cooperazione tra le due magistrature ha i suoi tempi e “qualunque fuga in avanti da parte nostra si trasformerebbe in un boomerang in grado di vanificare quanto fin qui con fatica costruito”. Infine il procuratore difende le indagini condotte a Cambridge e accompagnate da gran fracasso mediatico, in quanto avrebbero offerto materiale “utile alle indagini”. Anche se quest’ultima formula pare troppo vaga per non essere furba, la ricostruzione del procuratore nel complesso rispecchia dati di fatto. Il problema è che contiene solo una parte della verità, e non potendo dire la parte mancante Pigantone avrebbe fatto meglio a tacere, essendo una verità a metà di fatto una menzogna.
Per cominciare ciò che rende del tutto anomala la collaborazione tra le due magistrature non è la differenza tra i due ordinamenti, tantomeno la “mentalità araba” chiamata in causa da Pignatone, quanto il paradosso italiano per il quale Roma chiede all’assassino chi sia l’assassino. Ragione per la quale in testa al fascicolo della procura andrebbe scritto a chiare lettere: questa indagine non condurrà mai alla verità. Il Cairo non ci dirà mai come è morto Regeni, chi l’ha materialmente torturato, chi ha dato l’ordine di sopprimerlo, e perché. Potremo al più individuare figure di contorno, quelle che peraltro già conosciamo, essenzialmente per merito degli investigatori italiani, carabinieri del Ros e poliziotti del Servizio centrale operativo. Ma appena le indagini arrivassero sulla soglia della camera di tortura, o più esattamente al sistema della tortura e degli omicidi extragiudiziali col quale il regime governa, le informazioni offerte dal Cairo diventerebbero scarse e lacunose: come peraltro è già successo. Se infatti in questa storia c’è una cosa ovvia è che il vertice egiziano sa tutto sulla morte di Regeni dal primo minuto, ma nasconde e mistifica. Questo rende semplicemente farsesca la determinazione a trovare la verità che al-Sisi ripete a italiani compiacenti, politici o ministri.
Di questa indecorosa commedia fa parte anche il Procuratore generale Nabil Sadek, che Pignatone ringrazia pubblicamente nella sua lettera benchè il personaggio sia un magistrato sui generis, e forse neppure un magistrato. Insediato da al-Sisi dopo il golpe in quanto fidatissimo, Sadek garantisce quantomeno col suo silenzio il sistema che ha inghiottito Regeni. Il rapporto di Human Right Watch del 5 settembre scorso descrive quel sistema come una gigantesca “catena di montaggio”: “La polizia e gli ufficiali della sicurezza nazionale torturano regolarmente detenuti politici con metodi che includono pestaggi, scosse elettriche, posizioni dolorose e talvolta stupri”; i dissidenti spariscono nel nulla; e le procure, che Sadek ispira, perseguono non queste sistematiche violazioni ma i magistrati e gli avvocati che le denunciano.
Il rapporto di Human Right Watch ammonisce Sadek che questi comportamenti sono configurabili come “crimini contro l’umanità”. Non risulta che il procuratore generale si sia convinto a pentirsi. Il suo predecessore fu fatto saltare in aria nel 2015 da un gruppo di ragazzi alle prime armi, tutti in seguito arrestati, torturati, condannati a morte e ora in attesa di esecuzione. ‘Terroristi’, concorderebbero magistrati egiziani e italiani. Ma eliminarono lo strumento mortale di un regime golpista con un’azione di resistenza armata che l’etica liberale e i principi degli stati di diritto occidentali tendono a considerare legittima. Non immagino quale sia in merito l’opinione di Pignatone ma il procuratore converrà che le speranze di conoscere l’intera verità sulla morte di Giulio Regeni non dipendono dalla buona volontà di al Sisi e della sua banda, incluso l’esimio procuratore generale, semmai dalla possibilità che costoro spariscano presto della scena, e un regime di transizione autorizzi finalmente a indagarne le malefatte.
Il Fatto 26.18
Anatomia degli ultimi istanti Giulio nel cuore nero del Cairo
Alle 19.41 - L’ultimo segnale di Regeni dal metrò: poi sarà prelevato dai Servizi segreti egiziani che lo hanno sequestrato e torturato per otto giorni
di Pierfrancesco Curzi
Tutti chiedono verità per la morte di Giulio Regeni. L’onda ‘gialla’ ieri ha riempito decine di piazze in Italia, a due anni dalla scomparsa dell’allora 28enne ricercatore della Cambridge University. Al Cairo il clamore del caso sta svanendo, resta solo un tiepido ricordo. Ieri sera, esattamente due anni fa, alle 19.41 Giulio lasciava il suo ultimo segnale captato, prima di essere inghiottito da un buco nero senza ritorno.
La Procura di Roma ammette gli ottimi progressi dell’inchiesta dopo cento giorni di fastidiosi depistaggi, eppure la verità ufficiale, quella giudiziaria, non appare imminente e soprattutto certa. Col presidente al-Sisi al potere per altri 4 anni – così appare, dopo le fughe e gli arresti dei contendenti a 2 mesi dal voto – difficile pensare a una svolta.
Il Cairo non ha alcuna intenzione di mettere sotto processo se stessa. I faldoni consegnati dal procuratore generale, Nabil Sadeq, ai colleghi italiani e ai legali della famiglia Regeni sono incompleti. Nei giorni a cavallo dei due tragici anniversari, scomparsa e ritrovamento del cadavere di Giulio, spuntano fuori nuove prove e nuovi testimoni, altri ritrattano. Solo rumore e depistaggi. Gli inquirenti si aspettano un ‘miracolo’ dalle immagini registrate dal circuito di videosorveglianza della metropolitana del Cairo: “Le hanno bruciate, sono scomparse, stop. Non dobbiamo aspettarci nulla da quel fronte”. Maaty Elsandoubi è un giornalista egiziano scappato dall’Egitto l’anno scorso dopo le pressioni subìte dal regime, adesso vive a Roma. Dal 3 febbraio 2016 ha lavorato sul caso del ricercatore di Fiumicello: “Si è parlato di imprese specializzate nel recupero dei video, tedesche, russe, tutto inutile. Potranno sbattersi quanto vogliono, ma in quegli apparati non troveranno più nulla. Sono pessimista, credo che fino a quando al-Sisi sarà al potere la verità sulla morte di Giulio non emergerà. O di sicuro sarà incompleta”.
Il 25 gennaio 2016, quinta ricorrenza della rivoluzione di piazza Tahrir, la città era in fermento, polizia e militari schierati. Il regime blindò la zona centrale, da Garden City a Downtown, passando per Bab al-Luq. L’obiettivo? Evitare gli scontri e le violenze degli anniversari precedenti. Tra le strategie messe a punto anche la chiusura della stazione Sadat della metro (ieri non è mai stata chiusa, segno che il regime non ha annusato rischi), proprio quella sotto piazza Tahrir.
Giulio aveva previsto tutto. Dovendo recarsi in centro per incontrare un amico, e da lì raggiungere un docente universitario per festeggiare il suo compleanno, sarebbe sceso alla fermata successiva, al-Naguib. Da al-Bahoos, la stazione nel quartiere di Dokki a trecento passi da casa sua, fino ad al-Naguib sono 4 fermate. Si pensava che Giulio fosse comunque salito sul treno per essere poi fermato dal personale dei servizi di sicurezza immediatamente dopo essere sceso dal treno. In realtà è molto probabile che Regeni su quel treno non ci sia mai salito. Il colpo di mano per sequestrarlo sarebbe avvenuto dentro la stazione di al-Bahoos. Per 8 giorni e mezzo è finito nelle mani degli aguzzini. Ci sono nomi e cognomi, prove circostanziate e la conferma di ripicche e sgarbi tra servizi segreti civile e militare. La conferma sta proprio nel ritrovamento del corpo di Regeni, la mattina del 3 febbraio, ai margini dell’autostrada Cairo-Alessandria. Luogo e tempistica tutt’altro che casuali: a poca distanza da una base dei servizi e nel giorno della missione politico-economica del nostro governo.
Di recente, le attenzioni si sono spostate anche nel Regno Unito, all’Università di Cambridge, il committente per la ricerca sul campo. Giulio Regeni è stato rapito, torturato e ucciso al Cairo e ha iniziato a morire dal giorno dell’approccio verso il mondo dei venditori ambulanti e dei sindacati autonomi. Un covo di serpi, di informatori della polizia, assoldati per registrare ogni movimento sospetto in chiave anti-regime, strumenti per tastare il polso della situazione.
Dopo la morte di Giulio i sindacati indipendenti in pratica sono scomparsi, quanto meno nessuno rappresenta più gli ambulanti. Tutto inglobato all’interno del sindacato ufficiale (Etuf, Egyptian trade union federation). Lo stesso Mohamed Abdallah, intervistato ieri dal Fatto, ha ammesso d’aver perso il lavoro dopo tutto il clamore suscitato dalla sua denuncia. Tra gli ambulanti, però anche brava gente: “Dal giorno del rapimento a oggi ho paura a rispondere alle chiamate di chiunque sia collegato a Giulio – racconta un venditore che vuole restare anonimo – Continuo a fare il mio mestiere, ma intanto sono andato via dal mercato Ahmed Helmy (quello del video registrato in incognito da Abdallah un mese prima del rapimento di Regeni, in cui il sindacalista chiede i soldi per curare sua moglie malata di cancro, ndr.), non sono mai andato d’accordo con Abdallah, è una brutta persona. Ricordo ancora il primo giorno in cui vidi quel giovane. Prima non mi fidavo degli stranieri, gente strana che vedi nei film, li tenevo lontani. Poi è arrivato Giulio, col suo idealismo, le buone maniere, il sorriso sincero. Ci ha coinvolto tutti. Un ragazzo eccezionale, disposto ad ascoltare seriamente i nostri problemi, di chi fa una vita da cani in mezzo alla strada. Mi ero affezionato, oggi piango spesso pensando a lui e ho gli incubi”.
il manifesto 26.1.18
Trump attacca di nuovo i palestinesi. Anp: «Non ti incontreremo»
Usa/Israele/Palestina. Il presidente Usa ha condannato i palestinesi per aver scelto di non incontrare il suo vice Mike Pence. E minaccia un ulteriore taglio degli aiuti Usa. «La minaccia della politica di fame e sottomissione non funzionerà con noi» replica l'Anp.
di Michele Giorgio
«Rifiutarsi di incontrare l’oppressore non è una mancanza di rispetto, è un segno di rispetto di se stessi». È stata secca e immediata la replica di Hanan Ashrawi, del Comitato esecutivo dell’Olp e storica portavoce palestinese, a Donald Trump che ieri a Davos, incontrando il premier israeliano Netanyahu, ha accusato i palestinesi di mancanza di rispetto nei confronti del vice presidente Usa Mike Pence che non hanno voluto incontrare durante la sua visita nella regione.
Trump ha ribadito la sua minaccia di bloccare gli aiuti Usa all’Anp se il presidente Abu Mazen non andrà a negoziare, senza condizioni, con Israele. Minaccia respinta al mittente da Nabil Abu Rudeina, portavoce di Abu Mazen, che ha confermato che non ci sarà un incontro a meno che la Casa Bianca non ritiri il riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele. «La minaccia della politica di fame e sottomissione non funzionerà con il popolo palestinese» ha detto Abu Rudeina «e se la questione di Gerusalemme è fuori dal tavolo gli Usa resteranno fuori da quel tavolo». Il portavoce dell’Anp ha spiegato che i palestinesi non rifiutano la trattativa ma «sono pronti a impegnarsi in negoziati solo se basati su uno Stato palestinese con Gerusalemme est capitale».
Si aggrava con il passare dei giorni lo scontro tra palestinesi e Stati Uniti provocato dalla dichiarazione su Gerusalemme fatta da Trump a dicembre. E Washington spara a zero proprio su Abu Mazen descritto non più come un leader moderato bensì come un estremista. Megafono di questa linea dura è in particolare l’ambasciatrice Usa all’Onu Nikki Haley. «Abu Mazen ha insultato il presidente americano» ha detto ieri Haley durante una riunione del Consiglio di Sicurezza. A suo dire al leader palestinese mancherrebbe «il coraggio e la volontà di cercare la pace».
La Stampa 26.1.18
Trump avverte Abu Mazen
“Basta aiuti se non negoziate”
Affondo contro il leader palestinese: ha mancato di rispetto agli Usa E il capo dell'Anp: “Gli americani non sono più degli interlocutori”
di Paolo Mastrolilli
Se i palestinesi vogliono continuare a ricevere gli aiuti economici americani, devono riprendere il negoziato. Ma se vogliono davvero la pace, probabilmente dovranno cambiare leadership. L’attacco contro Abu Mazen è stato lanciato ieri insieme dal presidente Trump a Davos, e dall’ambasciatrice Usa all’Onu Nikki Haley. Forse lo scopo era spingerlo al tavolo delle trattative, in vista della proposta che il genero del capo della Casa Bianca Jared Kushner sta preparando.
Però i toni usati lasciando intendere che se non lo facesse, Washington punterebbe alla sua sostituzione. Nelle stesse ore, sempre dalla Svizzera, il premier israeliano Netanyahu ha spiegato la sua visione per il futuro della regione: i palestinesi possono avere l’autogoverno, ma devono delegare la questione della sicurezza allo Stato ebraico.
Incontrando Netanyahu a margine del World Economic Forum di Davos, Trump ha accusato Abu Mazen di aver «mancato di rispetto» agli Stati Uniti, quando la settimana scorsa non ha voluto vedere il vice presidente Pence. Lo ha fatto per protestare contro la decisione di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv, ma il capo della Casa Bianca ha risposto che con questa mossa ha favorito la pace, invece di farla deragliare: «Nei negoziati precedenti non riuscivamo mai ad andare oltre la questione di Gerusalemme. Ora l’abbiamo tolta dal tavolo, così non dobbiamo più parlarne». Quindi Trump ha minacciato: «Diamo centinaia di milioni di dollari ai palestinesi. Quei soldi sono sul tavolo, non li riceveranno più se non si siedono a trattare». Il presidente ha detto che la sua proposta di pace sta arrivando, «ed è una grande proposta per i palestinesi». È molto buona anche per Israele, che però «dovrà pagare» per il riconoscimento di Gerusalemme, facendo concessioni nel negoziato. Trump non ha voluto commentare le dichiarazioni di Abu Mazen su di lui, ma si è augurato che «alla fine le teste più fredde prevarranno».
Proprio nelle stesse ore, con una coincidenza che è difficile considerare casuale, l’ambasciatrice Haley ha attaccato il leader palestinese durante un discorso all’Onu: «Ha insultato il presidente». Quindi, esaltando il coraggio che Sadat e re Hussein avevano avuto nel guidare Egitto e Giordania verso la pace con Israele, si è chiesta: «Dov’è il Sadat e il re Hussein palestinese?».
Lo scopo immediato di questa offensiva è spingere Abu Mazen a tornare al tavolo della trattativa, in vista della proposta di pace elaborata da Kushner. Fonti diplomatiche spiegano che si basa su un approccio regionale in cui l’Arabia Saudita, in cambio dell’appoggio ricevuto dagli Usa contro l’Iran, spingerà i palestinesi ad accettare l’offerta fornendo forti compensazioni economiche per i territori perduti. Il leader dell’Anp, però, ha risposto così alle dichiarazioni del capo della Casa Bianca: «Se gli Usa hanno tolto Gerusalemme dal tavolo, noi toglieremo gli Usa dal tavolo». Una chiusura per ora netta, che sembra cancellare il ruolo di Washington come mediatore. Se non cambierà, gli americani cercheranno di convincere i palestinesi che la leadership di Abu Mazen non è più nei loro interessi.
Poco dopo il bilaterale col capo della Casa Bianca, in un colloquio con Fareed Zakaria, Netanyahu ha indicato la sua visione per la pace: «Qualcosa di simile a quanto gli Usa avevano offerto alla Germania dopo la Seconda guerra mondiale». L’obiezione di Zakaria è stata che senza la creazione di due Stati Israele dovrà cessare di essere un Paese democratico, per negare ai palestinesi il diritto di influenzare col voto la sua linea politica, oppure di essere ebraico, perché la crescita demografica renderà gli arabi maggioranza. Netanyahu allora ha indicato una terza via: «I palestinesi possono autogovernarsi, ma Israele deve continuare a garantire la sicurezza nei loro confini. Per evitare che finiscano nelle mani dell’Isis e di al Qaeda, o in quelle dell’Iran, come era accaduto quando ci ritirammo da Gaza».
il manifesto 26.1.18
Padova e il fantasma del 7 aprile
Il procuratore Calogero ha querelato Umberto Contarello per dei commenti espressi sul processo all'Autonomia Operaia nel 1979. Lo sceneggiatore ha poi fatto marcia indietro parlando di «scherzi della memoria»
di Ernesto Milanesi
PADOVA Padova è sempre «impiombata» dal 7 aprile. Anche dopo quasi 40 anni scatta il riflesso pavloviano. E si riapre il campo di battaglia sul teorema di Pietro Calogero (sposato dal Pci) e sulla «supplenza giudiziaria» (contestata dai garantisti dell’epoca) nei confronti dell’Autonomia e dei «cattivi maestri» di Scienze Politiche.
Mercoledì sera al Centro universitario di via Zabarella si discuteva, senza tanti problemi e con una completa gamma di opinioni, la tesi di laurea di Giulia Princivalli (che è nata nel 1993) Padova di piombo. Lo scontro fra Pci e Autonomia Operaia negli anni ’70 (Alba Edizioni, pagine 102, euro 10). È il medesimo sforzo di libera riflessione che nel 2002 aveva prodotto Luca Barbieri con I giornali a processo: il caso 7 aprile al termine del corso in Scienze della comunicazione. Ma paradossalmente non fa notizia.
È squillato l’allarme rosso per combattenti e reduci. Calogero ha querelato Umberto Contarello, in gioventù segretario cittadino della Fgci, per la sua testimonianza nel web che faceva passeggiare il pm dentro le stanze della Federazione di via Beato Pellegrino.
Nello stesso modo social lo sceneggiatore da Oscar si è rimangiato lo «scherzo della memoria», ottenendo una raffica di insulti da Flavio Zanonato, padre-padrone del Pci-Pds-Ds ora eurodeputato dopo un ventennio da sindaco. Così Padova torna ad avvelenarsi, come se il tempo si fosse cristallizzato. Per fortuna, la storia restituisce quella stagione tutt’altro che univoca. E la città dell’altro secolo si è «riconciliata», soprattutto grazie a chi ha preservato passioni meno tristi e più critiche.
Un altro «ricordo» di Contarello era passato sotto silenzio: il 17 novembre 2011 aveva già scritto on line di Pecchioli, Folena e Longo, ma anche del faccia a faccia con Calogero prima della deposizione in tribunale. «Arriva con la toga sotto braccio che mi pare un cencio. Mi dice ciao perché ci conosciamo…».
Per la giustizia, valgono sempre le parole di Giovanni Palombarini che ricopriva il ruolo di giudice istruttore: «L’impostazione del pm ha goduto a lungo di forza interna, nell’ideologia della magistratura del tempo prima ancora che nel sistema delle impugnazioni, e sostegni esterni, anche di un partito politico, affidati a strumenti di informazione spesso partecipi di quella impostazione. È ipotizzabile che si possa sviluppare una riflessione su questo dato, che nella sua drammatica oggettività è emerso dalla storia del processo 7 aprile?».
Per «il manifesto», parla l’editoriale di Rossana Rossanda: «Un uomo come Luciano Ferrari Bravo, assolto, fu condannato in primo grado a 14 anni e 5 ne aveva già fatti in carcere. Chi glieli restituirà? Forse “l’Espresso”, che regalò ai lettori la voce del telefonista delle Br a Eleonora Moro, perché fosse riconosciuta come quella di Negri? “Repubblica” che ne titolò festosamente l’arresto come capo delle Br a piena pagina? Questa non è stata soltanto una pagina scandalosa della giustizia italiana, come rilevava da tempo Amnesty International. È stata una storia di silenzi,codardi e coperture. Abbiamo contato sulla punta delle dita giuristi e intellettuali disposti a spendere impegno e riflessione, a trovare abominevole che un’idea politica che si poteva non condividere affatto fosse consegnata non alla lotta politica ma a un trucco giudiziario».
Per la politica, infine, a Padova chiunque può sorridere. Chi aveva l’indice puntato e chi stava alla sbarra, massimi dirigenti del Pci e militanti del Movimento del ‘77, funzionari e portavoce dei centri sociali nella campagna elettorale del 4 marzo si ritrovano insieme nello stesso «contenitore» guidato da un ex magistrato.
Comunque, ben oltre il fantasma del 7 aprile e il desueto ring scenografico, a Padova ci si preoccupa ancora del futuro. Senza più «cassaforti» né rendite di posizione, bisogna preservare dalle lobby sussidiarie al declino almeno la libertà dell’Ateneo e il servizio pubblico nella «fabbrica della salute».
il manifesto 26.1.18
Anticomunismo e principio di libertà
Botta e risposta tra Carlo Antoni e Ranuccio Bianchi Bandinelli sull’interpretazione del concetto di libertà
di Alberto Olivetti
Nel dicembre del 1951 Carlo Antoni stese un ‘manifesto’ per la «Libertà della Cultura». Fu sottoscritto, tra gli altri, da Piero Calamandrei, Ferruccio Parri, Gaetano de Sanctis, Luigi Salvatorelli, Gaetano Salvemini. «Riteniamo, vi si affermava, che qualsiasi risultato si possa conseguire nello sforzo di rendere più degna l’esistenza umana, esso sia precario o addirittura illusorio, ove sia ottenuto con detrimento della libertà». A questa dichiarazione di principio fa seguito un trasparente richiamo alla vicenda ed alla situazione dell’Unione Sovietica: «se, in conseguenza di rivolgimenti e sviluppi sociali o economici o di accadimenti militari, le circostanze possono suggerire ai responsabili del governo della cosa pubblica una stretta disciplina, questa non può arrivare all’estrinseca imposizione di formule e di dogmi che sostituiscano alla libera ricerca, all’invenzione originale, alla scoperta, la mortificante uniformità delle opinioni di regime». Il principio della libertà di coscienza, di pensiero e di espressione è tutt’uno con lo sforzo di rendere più degna l’esistenza umana. Così, l’ordinamento politico che comprime ed espunge quella libertà «confessa con ciò stesso la sua interna debolezza e artificiosità» dice Antoni, e mostra la «sua ingiustizia e la scarsa fiducia nella propria bontà». Sta di fatto, in ogni caso, che coloro che professano le arti e le scienze e sono responsabilmente impegnati nella vita politica e civile, hanno il dovere di custodire quel principio di libertà «al di fuori delle tendenze e degli ideali politici e delle preferenze per l’una o l’altra forma di ordinamento sociale e di struttura economica». «Gravissima e senza perdono» conclude il manifesto, «la loro responsabilità ove rinuncino a questa difesa».
Il 13 dicembre l’Unità pubblica una «Lettera aperta a Carlo Antoni» di Ranuccio Bianchi Bandinelli che giudica il manifesto «una cattiva azione sul terreno politico e sul terreno culturale». È «un’opera di divisione», intenzionata a rendere «più difficile in Italia proprio la lotta per la libertà in generale e per la libertà della cultura in particolare». Antoni invoca «valori universali» e non affronta «i problemi concreti posti a ciascuno di noi, oggi, nel nostro Paese», stretto tra il «pericolo clericale» e «l’ingerenza americana». Coglie, invece, «ogni occasione per minare subdolamente le istituzioni sulle quali si regge quel mondo nuovo che avanza» come accade a «coloro che hanno elevato a dogma l’anticomunismo». Bianchi Bandinelli conclude osservando che «chi ha il dogma dell’anticomunismo non è libero. E perciò, replica ad Antoni, il tuo manifesto non è il manifesto di uomini liberi, ma il manifesto di una mentalità da Santa Alleanza trasportato nel nostro tempo». Antoni, con l’articolo «Un vecchio errore», risponde sul Mondo. Nega che la difesa della libertà della cultura dal manifesto invocata abbia carattere anticomunista, ma scrive, «non nascondo che il manifesto era, nel mio pensiero, rivolto in gran parte a voi, comunisti, perché in voi si manifesta una contraddizione». Tanto sensibili alle costrizioni della libertà di espressione in Italia, e poi «non mostrate nessuna sensibilità per divieti, restrizioni e condanne che siano emanati dalle autorità sovietiche».
Antoni prende un tono diretto («redigendo quel manifesto ho pensato proprio a te»): «è inquietante trovarsi di fronte ad uomini come te, della medesima vita intellettuale, uomini della cui finezza ed intelligenza, del cui disinteresse non si ha modo di dubitare», e si chiede come sia possibile una tale rottura. Si risponde che essa risiede, per l’appunto, nell’interpretazione che si dà del concetto di libertà. «Tu affermi che chi ha il dogma dell’anticomunismo non è libero. Io invece, sono persuaso che tu, nel comunismo, sei libero e ti senti libero». È che, argomenta Antoni, Bianchi Bandinelli si attiene a Rousseau «che concepiva la libertà come l’inserzione totale del proprio spirito nella volonté générale della comunità e quindi negava la libertà di coscienza e di pensiero». Un errore. Organismi storici particolari, scrive, mai possono «riassumere ed esaurire l’universa vita e cristallizzare l’infinita nostra coscienza».
La Stampa 26.1.18
“In laboratorio la sfida è conoscere
È così che funziona la scienza”
Giorello: chi si affanna a condannare non dovrebbe dimenticare l’abiura di Galileo
di Gabriele Beccaria
«Sono d’accordo con chi sostiene che la scienza riconosce i propri limiti, a cominciare da quelli teorici, ma è altrettanto vero che poi lavora per superarli oppure per aggirarli. È da questo tipo di sfida che sono nati nuovi settori di indagine, molti anche con ricadute potenti sul piano pratico. Mi viene in mente il biologo Carlo Alberto Redi, il quale sottolinea questo continuo gioco dell’impresa scientifica»: così riflette Giulio Giorello, decano dei filosofi della scienza.
Professore, i limiti - in questo caso per una tecnica che spaventa molti, come la clonazione - ci vogliono? E come devono essere stabiliti?
«I limiti in assoluto alla scienza? Ma chi li fissa, poi? Certo, li hanno fissati a Galileo Galilei e si sono viste le conseguenze. L’Italia, che era all’avanguardia della nuova filosofia naturale, è regredita grazie a quei giudici che senza pietà, e sotto la minaccia della tortura, costrinsero Galileo all’abiura nel 1633. E si tratta di una pagina vergognosa, e ancora aperta, della storia del nostro Paese».
Se questa è la logica ineluttabile della ricerca, non è però fondamentale una migliore - e più consapevole - comunicazione su ciò che accade e sta per accadere nei laboratori?
«La comunicazione dei risultati della scienza è una materia estremamente delicata. Oggi si parla di fake news, ma ben prima che questa locuzione fosse di uso comune si sono viste le conseguenze negative di notizie premature o di altre presentate in modo sbagliato: penso, nel campo della fisica, al caso della fusione fredda. Ma è successo anche nel settore della biologia».
Più cautela e, quindi, anche più sensibilità verso gli interrogativi e le comprensibili paure di tanta parte dell’opinione pubblica?
«Penso che la cautela sia molto importante e, in particolare, la sobrietà: credo che nella comunità scientifica si senta il bisogno di ricercatori che non si vergognano di parlare delle prospettive e delle linee metodologiche dei loro studi, oltre che degli eventuali risultati. Un buon esempio italiano di equilibrio è Edoardo Boncinelli, esperto di biologia che nasce fisico e che, quindi, ha una vasta conoscenza di entrambi i domini, delle “scienze dure” e anche di quelle della vita. Non a caso è tra coloro che, al contrario di personalità teologiche e filosofiche che partono subito con una condanna, dice: “Aspettiamo e vedremo”. Il nostro primo dovere è capire. Non lasciamoci prendere dalla smania di giudicare immediatamente. Di Minosse ne esiste già uno, messo a giudicare e a condannare nell’Inferno di Dante. Non ne abbiamo bisogno di altri».
Quando si parla di esperimenti che toccano la vita, molti critici evocano la natura, e i suoi diritti, contrapponendola alla cultura, descritta come sfrenata e perversa: lei cosa risponde?
«Violiamo la natura fin dai tempi dell’agricoltura, ma bisogna rendersi conto che fa parte della natura anche la natura umana e lì è scritto il bisogno di capire e di sperimentare. Può essere, a volte, declinato male, ma rappresenta la linfa vitale della migliore ricerca scientifica».
La Stampa 26.1.18
Nelle roccaforti della rivoluzione dove resiste il sogno di Chavez
Le cittadelle dei privilegiati del regime, circondate dalla metropoli con i supermercati vuoti
di Nadia Ferrigo
Miguel Suarez Barroso abbassa il vetro scuro della sua nuova Chery di un paio di dita, quel che basta per mostrare il Carnet de la Patria a un giovanissimo soldato che giocherella con il fucile e alza la sbarra che protegge l’ingresso della cittadella militare di Fuerte Tiuna. Trent’anni appena compiuti, giornalista, da due nell’ufficio stampa del presidente Nicolas Maduro.
Chi come lui lavora per lo Stato può comprare a un prezzo stracciato - circa quindici milioni di bolivares, al cambio parallelo 150 euro, venti volte meno del prezzo sul mercato libero - un appartamento in uno dei centocinquanta palazzoni rossi con connessione Internet e aria condizionata.
Siamo nella roccaforte della rivoluzione venezuelana, una città nella città abitata dalle famiglie di militari e burocrati che coltivano l’utopia della rivoluzione chavista, pronti a sostenere il presidente Maduro alle elezioni indette alla fine di aprile e bollate come «né libere né giuste» da Nikki Haley, ambasciatrice americana all’Onu.
Le lunghe file di auto nuove importate dalla Cina e i ragazzini che al tramonto giocano nei campetti di basket della cittadella militare sembrano quasi arrivare dal passato, prima che Caracas si trasformasse in una megalopoli con code infinite per comprare il pane o ritirare in banca somme ridicole, con le strade che dopo il tramonto si animano solo dei disperati che frugano nell’immondizia. Frutta e verdura non si trovano tutti i giorni nemmeno al Fuerte, ma la salsa di soia d’importazione cinese - da preferire al sempre più raro sale - e i preziosi barattoli di cioccolato in polvere stanno ben allineati sugli scaffali. Miguel ne afferra un paio e paga distrattamente, mentre recita la tiritera sui nemici del Paese che ogni sera il presidente ripete in tutte le trasmissioni radio e in tv, a reti unificate.
«Il cambio impazzito è colpa della guerra economica degli Stati Uniti e dell’Europa. Da mangiare non si trova perché i proprietari dei supermercati alzano i prezzi per arricchirsi sulla pelle del popolo» spiega Miguel, passeggiando davanti ai condomini sorvegliati ventiquattr’ore su ventiquattro dove vivono i rappresentati dell’Assemblea Costituente voluta da Maduro e che ha sostituito il Parlamento, in mano all’opposizione. «Quando ci sarà il Petro, il nostro Bitcoin, torneremo a essere il Paese più ricco del mondo».
La moneta virtuale
Il Petro è la nuova criptomoneta, presentata a gennaio dal governo, il cui valore dovrebbe dipendere dalle risorse naturali di cui il Paese è ricco: petrolio, oro, gas e metalli preziosi. Niente più mazzette di banconote che giorno dopo giorno valgono sempre meno, basterà il Carnet de la Patria, tesserina magnetica con dati personali e codice Qr. Comparso per la prima volta lo scorso dicembre, è indispensabile per poter ritirare la clap, provvista alimentare mensile non gratuita, ma a un prezzo controllato dal governo. Anche se tanti raccontano di non aver mai ricevuto nulla, il governo assicura di aver distribuito ai cittadini tesserati 500 mila bolivares come regalo di Natale.
Sul Correo del Orinoco - uno dei due giornali di governo in edicola a prezzo stracciato, quaranta volte meno che l’unico di opposizione rimasto - ogni giorno si aggiorna il calcolo dei tesserati. A inizio gennaio erano quattro milioni di persone, una settimana più tardi e dopo l’annuncio di un nuovo bonus, ribattezzato Bono de Reyes perché distribuito il sei gennaio, il doppio. Difficile stabilire quanto e se il numero sia gonfiato, ma certo il regime di Maduro scommette sulla possibilità di trasformare le regalie in voti, contando così il popolo della Gran Misión Vivienda Venezuela, il piano di edilizia popolare inaugurato da Chavez. In dieci anni sono stati costruiti, anche grazie alla collaborazione di Cina e Russia, più di due milioni di alloggi destinati alle famiglie più povere e ai sostenitori della rivoluzione bolivariana.
Il Comandante Eterno
A vegliare sulla città sono ancora gli occhi di Chavez, che spuntano dai murales per strada e sui muri rovinati dei palazzoni popolari. Ribattezzato «Comandante Eterno», il suo volto e le sue parole trasmesse e riportate all’infinito in ogni occasione ora torneranno anche sui social. In occasione delle elezioni è stato riattivato il suo account Twitter, così da «preservare il pensiero del comandante». A Caracas se ne parla al presente, come se non fosse morto cinque anni fa.
Leggenda vuole che fu lui, durante un volo in elicottero, a indicare il punto ideale per costruire Ciudad Caribia: sulla strada per l’aeroporto di La Guardia, a poco meno di un’ora di autostrada dal centro e arrampicata tra le colline che circondano la capitale. Nessuna sbarra all’ingresso, ma l’esercito controlla chi entra e chi esce da questo microcosmo di palazzine semplici ma ordinate, una piazzetta, giochi per i bimbi e uno stadio per il baseball ancora in costruzione.
C’è tutto, anche l’idea di costruire un’Università, tranne la possibilità di lavorare. Esclusa qualche estetista che lavora in casa e un paio di bancarelle di gallette e dolciumi, le oltre 100 mila persone che hanno ricevuto un appartamento dal governo vivono tra impieghi saltuari e la clap. Chi come Jennifer Amorez, 40 anni e una figlia di 20 che ha cresciuto sa sola, ha un lavoro come segretaria in città, deve prendere una navetta: ogni viaggio sono 700 bolivares. Dieci volte meno dei servizi di autobus cittadini, anche se di mese in mese il prezzo del biglietto cambia con l’inflazione e una corsa in metro sta ancora a 16 bolivares. «Non avevamo una casa, ma una baracca a Petare, con il pavimento di terra. Da quando Chavez mi ha dato questa casa, la mia vita è cambiata: ho trovato un posto sicuro dove crescere i miei figli».
Corriere 26.1.18
San Frediano, il quartiere più cool del mondo. Secondo Lonely
L’Oltrarno di Firenze Batte Seul, Lisbona e Copenaghen: ecco tutti i suoi «segreti»
di Lorenza Cerbini
Non è a New York, né a Londra, né a Rio de Janeiro, né a Dubai. Il quartiere più «cool» al mondo si trova «Oltrarno», a Firenze ed è San Frediano. L’ha stabilito la rivista Lonely Planet con la Top 10 dei quartieri più «fighi» del pianeta. San Frediano ha superato Seongsu-dong (Seul), Triangolo (Lisbona), Vesterbro (Copenaghen), Business Bay (Dubai) e Damansara Heights (Kuala Lampur).
«Qualcuno ha pagato», «Si sono sbagliati, non c’è dubbio», «San Frediano più cool di New York? Ma chi ci crede!», queste le reazioni dei “san fredianini”, dubbiosi sui criteri di selezione usati. Li elenca Phil Harper, direttore Pubbliche Relazioni di Lonely Planet. «Abbiamo chiesto ai collaboratori locali di scegliere i quartieri in sviluppo basandosi su nuovi hotel e ristoranti, su vita notturna e trasporti. Quindi, i nostri esperti hanno redatto la classifica».
Il vicolo di Borgo San Frediano da nome al quartiere (da rispolverare il romanzo “Le ragazze di San Frediano” di Vasco Pratolini da cui il regista Valerio Zurlini nel 1955 ha tratto un film). Passata via dei Serragli, il Borgo si trasforma nella nobile e raffinata via di Santo Spirito (in zona vive Matteo Renzi), piena di negozi di antiquariato.
Fino a qualche decennio fa, San Frediano abbondava di artigiani, corniciai, intagliatori, candelari e falegnami. Molti oggi hanno chiuso. Un cambiamento repentino lamentano i commercianti e puntano il dito contro la Ztl con orari diktat. «Siamo stati in piazza dei Nerli dal 1967 al 2012. Poi, ci siamo spostati di poco, in via Pisana, ma qui si può parcheggiare», dice Stefania Checcucci, della torrefazione Oke Caffè. «Di giorno il quartiere è desolato. Spariti macellai, fruttivendoli e bronzisti». Veronica Moradei (Flores Fiori) vende rose e orchidee da un lustro. «I pensionati sono la vera particolarità del quartiere. Gli affari sono lenti e dopo le sette non si vendono più fiori». Chi ama il jazz d’autore si ferma da Twisted. «Sono qui dal 2002 – dice Stefano Nuzzo – Oggi si fanno solo mangiare i turisti».
Chi vi giunge per la prima volta, tuttavia, ha la sensazione di vivere un’atmosfera di segreti. Nel quartiere c’è l’Antico Setificio Fiorentino coi telai disegnati da Leonardo da Vinci. La Moleria Locchi forgia cristalli per i Reali. C’è lo studio di scultura Galleria Romanelli. Le vetrine di Ceramic Art illuminano il borgo come pure lo studio del fotografo delle spose Marco Sabatini. Nella Cité “libreriacafé per la resistenza culturale” si ascolta musica dal vivo. Questo mix di vecchio e nuovo deve aver attratto Lonely Planet e le conseguenze di quella classifica si fanno sentire. «S’è impennata la richiesta di edifici da comprare e ristrutturare», dice Enea Porta titolare di GR Immobiliare. «La corsa a comprare era iniziata già mesi prima dell’articolo», dice Maurizio Di Cara di Sanfrediano Immobiliare. «Siamo qui da 25 anni e con il cambio generazionale, il quartiere è migliorato, molti appartamenti sono stati restaurati».
Il quartiere vive soprattutto di notte, attraendo giovani in cerca di movida. Una tendenza non del tutto nuova. A San Frediano sono nati tanti amori a colpi di cin-cin. Su piazza del Carmine si affaccia dal 1985 Dolce Vita, un cocktail bar civettuolo a cui piace lo slogan «la moda passa, lo stile resta» e ideatore dell’aperitivo all’italiana. San Frediano, insomma, sta attirando un pubblico nuovo, sperando ne rispetti quello che rimane della sua antica l’identità.
Repubblica 26.1.18
La storia
Rock, rimmel, pace l’idolo israeliano contro il governo Nel nome del padre
Aviv Geffen è il cantante più popolare del Paese e figlio di un artista censurato per aver paragonato ad Anna Frank una sedicenne palestinese in cella
di Alberto Stabile
BEIRUT Aviv Geffen contro Avigdor Lieberman. La stella del rock israeliano contro il ministro della Difesa. La creatività a volte sfrontata che ammicca alla sinistra contro il conformismo nazionalista preoccupato di conservare il potere. Più distanti di così non potrebbero essere. Ma a metterli l’uno di fronte all’altro è stata la poesia che il padre del cantante, il poeta Yehonatan Geffen, ha composto per Ahed Tamimi, la sedicenne palestinese diventata un’icona della lotta contro l’occupazione, incarcerata e messa sotto processo per aver schiaffeggiato un soldato israeliano.
Nella sua lirica, Geffen padre paragona Ahed ad Anna Frank ( oltre che alla poetessa israeliana di origine ungherese Hanna Szenes, considerata un’eroina nazionale, e a Giovanna D’Arco). Apriti cielo. Per Lieberman quel confronto con Anna Frank è blasfemo e inaccettabile e allora ordina immediatamente che Yehonatan Geffen venga bandito dalla radio militare. Il poeta che ha osato tanto non dovrà più essere intervistato, né le sue canzoni ( anche Yehonatan è un apprezzato autore di musica) dovranno più essere trasmesse.
Ovviamente non finisce qui. La prima a contrattaccare è la figlia del poeta, l’attrice e a sua volta poetessa, Shira Geffen che interviene con una sua poesia in difesa del padre. Poi, scende in campo Aviv, il mito rock di un’intera generazione di giovani israeliani cresciuti ascoltando le sue canzoni che parlavano di amore e di suicidio, di pace, di politica e di vita militare, i temi ricorrenti nell’esistenza di una gioventù alla quale vengono imposti molti sacrifici che ai giovani di altri paesi non vengono chiesti. “ The moonlight children”, i ragazzi del chiaro di luna, come li aveva battezzati Aviv, lo avrebbero seguito ovunque, quel folletto che si presentava al suo pubblico avvolto in costumi luccicanti di lustrini ( un po’ alla Renato Zero) e con gli occhi cerchiati di rimmel.
Ma qui, nella sua risposta a Lieberman in difesa della libertà di espressione Aviv è serio e tagliente. Per cominciare, ricorda al ministro della Difesa di chi è figlio ( « Mio padre è stato un ufficiale dei paracadutisti » , in Israele considerato il corpo d’elite per antonomasia) e soprattutto di chi è nipote. Una sorella di Moshè Dayan, è infatti la sua nonna materna. « In famiglia abbiamo avuto un ministro della Difesa — dice Aviv — che sapeva guardare da lontano alla sicurezza d’Israele, nonostante avesse un occhio soltanto » . Un ministro che prevalse sui paesi arabi e venne considerato un eroe. « Lei invece è un eroe soltanto a parole » . Per concludere che finché Lieberman sarà ministro della Difesa, « Anyeh ( Ismail, il leader di Hamas, ndr) e i versi di mio padre potranno stare tranquilli » . Parole che sicuramente Lieberman non gradirà. Ma che mettono in luce la spaccatura profonda che percorre la società israeliana in questi anni segnati dal dominio della destra nazionalista e religiosa. Aviv Geffen appartiene ad un altro mondo, inconciliabilmente lontano da quello di Lieberman e di molti ministri del governo Netanyahu. Nella esperienza formativa di Aviv c’è sicuramente la sua partecipazione alla grande manifestazione di sostegno al processo di pace che si tenne a Piazza dei Re d’Israele, oggi rinominata, Piazza Yitzhak Rabin, a Tel Aviv, il 4 novembre del 1995. Davanti ad un mare di gente, il popolo della pace, Aviv cantò una sua canzone, “ Livkot lekhà” ( Piangere per te). C’era anche Ytzhak Rabin quella sera fra le personalità schierate a favore del negoziato, anzi la manifestazione era per lui e per Shimon Peres. Quella sera stessa, lasciando la piazza, Rabin venne ucciso da Yigal Amir. Solo dopo si seppe che Aviv aveva scritto quella canzone presentendo e temendo la fine di Rabin.
Il Procuratore generale, Mendelblit ha deliberato che Lieberman non ha l’autorità per emanare gli ordini emessi contro Yehoanatan Geffen.
Repubblica 26.1.18
Teorie scolastiche
L’ora di filosofia anche per i ragionieri
di Salvo Intravaia
Lo studio della filosofia sbarca negli istituti tecnici e professionali.
Tra qualche mese, un milione e 300mila ragazzi che mirano ad acquisire un titolo immediatamente spendibile nel mercato del lavoro potrebbero affiancare allo studio dei bilanci aziendali e dei circuiti elettrici quello del pensiero di Socrate e Kant.
L’annuncio arriva direttamente dal Ministero dell’Istruzione, dove il sottosegretario Vito De Filippo ha presentato gli “ Orientamenti per l’apprendimento della filosofia nella società della conoscenza” e il relativo Sillabo, un sorta di manuale per gli insegnanti. Due documenti che, appunto, propongono ai docenti delle scuole superiori una nuova didattica della filosofia che insegni agli studenti come usare quella materia per orientarsi in un mondo sempre più complesso e risolvere i problemi di tutti i giorni. L’obiettivo dichiarato è fornire ai ragazzi più competenze per affrontare al meglio la sfida del terzo millennio. L’intelligenza artificiale, spiega il Sillabo, sta mettendo a rischio una serie di profili professionali e il mondo del lavoro richiede nuove competenze ( come soft skills, progettualità, problem solving e metacognizione) che la filosofia più aiutare a costruire.
Ma in che modo lo studio delle idee di Cartesio e Leibniz può aiutare un ragazzo che si misura con i circuiti elettronici o che impara a cucinare all’istituto alberghiero? «In questo mondo complesso e con tecnologie sempre più avanzate, non basta più acquisire i contenuti, che si trovano ormai in rete», risponde Adriano Fabris, professore di Filosofia morale dell’Università di Pisa. «Occorre essere capaci di vagliarli criticamente, approfondirli e selezionarli in modo da orientarsi al meglio. La filosofia aiuta a sviluppare la capacità di utilizzare al meglio questi contenuti mettendoli in relazione con tutti gli altri campi». Per farlo, le scuole potranno ritagliare ore di filosofia ridimensionando (fino a un massimo del 30 per cento, come prevede l’Autonomia scolastica) quelle delle altre discipline, oppure chiedere al ministero di viale Trastevere docenti di Filosofia per realizzare attività didattiche oltre l’orario curricolare. “Orientamenti” e Sillabo sono stati elaborati da una commissione di esperti coordinata dalla professoressa Carla Guetti, direttore generale al Miur ma, nelle intenzioni, sono aperti al contributo degli insegnanti.
Un lavoro che sembra ispirato alle parole del grande filosofo austriaco Karl Popper, secondo il quale “tutta la vita è un risolvere problemi”. Anche Roberto Esposito, ordinario di Teoretica alla Scuola Normale di Pisa, è convinto che lo studio delle teorie filosofiche apparentemente più astruse possa aiutare nella pratica di tutti i giorni. «In America e in tanti altri paesi anche europei» spiega Esposito «i funzionari e i dirigenti di maggiore successo che si occupano di gestione del personale o della comunicazione sono laureati in filosofia. È una disciplina che sviluppa lo spirito critico e il ragionamento sintetico, capacità che consentono di affrontare i singoli problemi inserendoli in un contesto più generale. Una modalità che rende più elastico il ragionamento e più rapida la soluzione». Sembrano confermarlo le carriere di alcuni dottori in filosofia: dal numero uno di Fca Sergio Marchionne, al presidente francese Emmanuel Macron, all’ex premier britannico David Cameron, al tycoon Rupert Murdoch.
D’accordo solo in parte il sociologo Domenico De Masi: «Non è importante che i laureati in filosofia abbiano successo nelle aziende, che non si occupano certo della felicità dei lavoratori.
Un essere umano lavora in media 80mila ore sulle 700mila che rappresentano la vita media. La scuola si dovrebbe occupare di preparare i ragazzi anche alle 620mila ore rimanenti. Per questo oltre alla filosofia farei studiare la sociologia».
Repubblica 26.1.18
Pd e destra quale classe dirigente
di Stefano Folli
Sono noti i punti deboli del Pd in questa campagna elettorale. Il principale riguarda il declino del segretario Renzi, confinato agli ultimi posti negli indici di popolarità quando meno di quattro anni fa aveva trionfato nelle elezioni europee. La frattura fra l’immagine del leader e l’opinione pubblica spiega quasi tutto dello psicodramma in cui si sta avvitando il Pd. Tuttavia il centrosinistra allargato ha ancora un vantaggio rispetto ai concorrenti: riesce a esprimere in modo visibile una classe dirigente sperimentata. Pur non esenti da critiche, i volti e i nomi di Gentiloni, Padoan, Delrio, Calenda (benché non candidato), per citare i principali, costituiscono un piccolo patrimonio di serietà offerto agli italiani. L’intesa con Emma Bonino e altri esponenti di correnti politiche varie, dai centristi cattolici ai Verdi, rafforza questa tendenza a presentarsi come un’area coerente nel segno del realismo.
Può darsi che tutto questo serva a poco o sia addirittura controproducente nel momento in cui prevale la spinta a rovesciare i vecchi equilibri e a cercare soluzioni radicali al malessere diffuso.
Ma è quanto di meglio il Pd può mettere in campo nel confronto con gli avversari. I quali fra tre giorni dovranno dimostrare agli italiani se sono in grado o no di esprimere a loro volta una classe dirigente. Finora non sembra che ci stiano riuscendo. I Cinque Stelle, e non è una novità, si affideranno al solito esercito di sconosciuti, simbolo della società civile che si auto-governa perché non si fida dei “professionisti” della politica. Con qualche minima eccezione: un economista che lavora in Sud Africa, Fioramonti, l’ex direttore di Sky, Carelli, e pochi altri.
Quanto al centrodestra, non è un caso se Berlusconi, a intervalli di tempo quasi preordinati, tira fuori dal suo cilindro un candidato premier, offerto ai mass media con un bel sorriso ma anche con scarsa convinzione. L’ultimo è Antonio Tajani, presidente da pochi mesi del Parlamento europeo e probabilmente destinato a restare a Bruxelles. In ogni caso non si tratta di un’investitura che Berlusconi sarebbe comunque impossibilitato a garantire, visto che non si vota per scegliere il premier (il compito, come è noto, spetterà al capo dello Stato e solo a lui). È invece il tentativo di legare la causa del centrodestra a un volto riconoscibile.
Anzi, a più volti evocati nel corso delle settimane. Tutti insieme formano quel gruppo dirigente valido anche sul piano mediatico che il centrodestra non ha e di cui Berlusconi a tratti sente la mancanza. Ma è un gruppo avvolto dalla nebbia, non una squadra di governo potenziale come quella messa in campo dal centrosinistra.
Può darsi che di qui al 4 marzo Berlusconi corra ai ripari. Ma la stessa logica della sua coalizione, dove è in atto una serrata competizione interna, rende poco credibile questa eventualità.
Salvini e in misura minore Giorgia Meloni hanno il problema di distinguersi da Berlusconi, cioè dall’uomo che è una sorta di cannibale nei loro confronti. Per cui ognuno cercherà di indicare attraverso le candidature un proprio mini-gruppo dirigente che varrà più che altro come copertura del leader. In questo Salvini ha agito con una certa tempestività: i nomi dell’avvocato Bongiorno e degli economisti euro-scettici Bagnai e Borghi sono la risposta leghista al tema della classe dirigente. Leghista ma non dell’intero centrodestra. E infatti non si riesce a immaginare come possano convivere, in un ipotetico governo di destra, Tajani e Bagnai.
Repubblica 26.1.18
1968
La rivolta
di Paul Auster
Lo scrittore aveva poco più di vent’anni, era studente alla Columbia Ecco come ricorda quegli avvenimenti, i pestaggi dei neri, gli scontri, le divisioni nella sinistra, la deriva terroristica presa da alcuni gruppi. E la notte del suo arresto
Il 1968 è stato probabilmente l’anno più importante, folle e confuso della mia vita.
Sono nato nel 1947, ciò significa che nel ’ 68 ho compiuto ventuno anni. A quell’epoca ero perciò giovane, ma non così giovane. Durante gli anni precedenti, da adolescente, ho sempre seguito con attenzione quello che accadeva negli Stati Uniti e nel mondo. M’interessavo al movimento per i diritti civili negli Stati Uniti e seguivo gli sviluppi dell’escalation in Vietnam. Ero sostenitore dei Sane ( National Committee for a Sane Nuclear Policy), un gruppo pacifista negli Stati Uniti, che si opponeva all’uso delle armi nucleari. Seguivo con attenzione gli avvenimenti, ma non ero un attivista. Stavo maturando la decisione di fare lo scrittore e avevo già iniziato a scrivere poesie e racconti. Nel 1965, a diciotto anni, sono entrato alla Columbia University. Ero ormai risoluto nel voler diventare uno scrittore.
Il 1967 è stato un anno molto turbolento, quello della guerra dei Sei giorni in Israele e dei giganteschi disordini a Newark, nel New Jersey, la città dove vivevano mia madre e il mio patrigno, avvenimenti che ho visto con i miei occhi.
Gli scontri razziali scoppiarono nel luglio, più o meno in contemporanea con la guerra dei Sei giorni in Israele. I neri insorsero contro gli amministratori di Newark, ma loro protestavano esclusivamente contro il razzismo. Il mio patrigno, il secondo marito di mia madre, era un avvocato del lavoro. Era una brava persona, che ho sempre ammirato moltissimo. Era consulente legale del comune di Newark. Non era un grande incarico, ma era un’attività importante per la comunità, e lui godeva di grande rispetto da parte di tutti gli amministratori e i cittadini. A quel tempo io abitavo a New York, a Manhattan, e una sera mia madre e il mio patrigno vennero per portarmi a mangiare fuori. Finita la cena, siamo saliti nella macchina del mio patrigno, che doveva riaccompagnarmi a casa. Il mio appartamento era uptown. Lui aveva un’auto di proprietà del comune di Newark.
In macchina c’era una ricetrasmittente che stava trasmettendo un frastuono di voci. Dicevano che Newark era in preda ai disordini, che era scoppiata una rivolta. Il mio patrigno disse che non poteva riaccompagnarmi perché doveva rientrare immediatamente a Newark. Ci recammo subito al municipio e incontrammo il sindaco, un italoamericano di nome Hugh Addonizio. Era seduto alla sua scrivania, con la testa fra le mani, e stava piangendo. Disse al mio patrigno: « Norman, Norman, che cosa devo fare? » .
Quella notte Addonizio commise un gravissimo errore: lui e il governatore del New Jersey, Richard J. Hughes, decisero di chiamare la guardia nazionale e la polizia di Stato del New Jersey. Io mi trovavo in quella stanza quando entrò il capo della polizia.
Sembrava un marine, con i capelli tagliati cortissimi. Disse al sindaco: « Li prenderemo tutti dal primo all’ultimo quei neri figli di puttana, gli daremo la caccia » .
Sempre quella notte il mio patrigno, in quanto avvocato del comune, andò a controllare la situazione nelle celle del seminterrato e io lo accompagnai.
Le celle erano piene di neri. Erano stati tutti picchiati, sanguinavano dalla testa. Dunque la reazione della guardia nazionale e della polizia di Stato si era già scatenata, ed è una cosa che non dimenticherò mai. Mi sembrò di trovarmi nel bel mezzo di una guerra. Ero lì e vidi tutto con i miei occhi. I tumulti andarono avanti per qualche altro giorno e poi, finalmente, terminarono. (…) Nella primavera del 1968, alla Columbia University – io frequentavo il terzo anno – si sviluppò un grande movimento di sinistra, guidato da una delle organizzazioni studentesche, gli Students for a Democratic Society ( Sds). L’Sds contestava l’establishment dell’università su svariate questioni. Una delle più importanti era la partecipazione delle università alla ricerca per il ministero della Difesa. La protesta era in realtà contro la guerra in Vietnam e il razzismo, ma la Columbia era un’istituzione privata, non pubblica come le università europee, per cui le nostre proteste erano inevitabilmente, come dire, un po’ periferiche. La contestazione dei rapporti fra la Columbia University e il ministero della Difesa rappresentava una protesta simbolica, che innescò comunque un’enorme esplosione nell’aprile del 1968, quando gli studenti occuparono cinque edifici della Columbia e l’università chiuse. Io stesso, che non ero un militante dell’Sds ed ero impegnato soprattutto a leggere filosofia, letteratura e a scrivere le mie poesie e le mie prose, rimasi talmente coinvolto da quanto succedeva da diventare uno degli occupanti.
Il giorno in cui scoppiò l’occupazione ci fu una coalizione fra l’Sds e l’organizzazione degli studenti neri, la Sas, Student African- American Society e i due gruppi occuparono insieme una facoltà dell’ateneo. Gli studenti bianchi e quelli neri dissentivano sulle tattiche e a un certo punto i neri dissero ai bianchi che erano disposti a morire pur di non lasciare l’edificio. Secondo me stavano esagerando, ma in ogni caso dissero che sarebbero stati pronti a portare dentro delle armi per combattere. Gli studenti bianchi non volevano arrivare a tanto.
La divisione rappresentò un momento molto triste. Tutto successe alle 5 del mattino del 24 aprile: gli studenti bianchi lasciarono la facoltà prendendo possesso di un altro edificio dell’ateneo. E poi continuarono, arrivando a occupare cinque edifici. Quindi, in un certo senso, se gli studenti bianchi e neri fossero rimasti uniti, la protesta forse non avrebbe raggiunto certe proporzioni. La divisione costrinse gli studenti bianchi a intraprendere un’azione diversa, che si allargò a tutto l’ateneo.
Molti anni dopo, nel 2008, nel quarantesimo anniversario di questi fatti, fu organizzato un weekend alla Columbia per ricordare quello che era accaduto quattro decenni prima. Io partecipai, ma notai che a quarant’anni di distanza la spaccatura era ancora fonte di grande dolore, soprattutto per i bianchi. Proprio durante l’anniversario, gli studenti neri spiegarono con più chiarezza le loro posizioni e credo che alla fine le due parti siano giunte a una sorta di intesa. Ma ci sono voluti quarant’anni per arrivarci.
Rimanemmo in quell’edificio per cinque- sei giorni, dopodiché, visto che il braccio di ferro tra gli studenti e l’amministrazione continuava, il rettore della Columbia chiamò la polizia antisommossa di New York . E così la notte del 30 aprile fui arrestato insieme ad altri settecento studenti e passai la notte in cella.
Alla fine ritirarono le accuse, anche perché era complicatissimo procedere legalmente contro ogni singolo studente, e non subii nessuna condanna.
Di quella notte ricordo che eravamo tantissimi tutti insieme, ci avevano stipati nelle celle.
L’unica cosa che mi torna in mente con precisione è un poliziotto che ghignava e si fregava le mani, era molto contento che tutti quegli studenti capelloni fossero finiti in prigione. Scherzava sul fatto che era la notte del 30 aprile e disse: « Domani è il primo maggio, mi sa che non potrete partecipare alla vostra bella manifestazione di sinistra perché, ah- ah, siete in prigione » .
Una parte dei Weathermen teorizzava e praticava la lotta armata. È successo, credo, a partire dal ’ 69. A Chicago ci furono i cosiddetti “ Giorni della rabbia”, durante i quali i manifestanti si scontrarono con duemila agenti. Fu un vero disastro. Dopo quei fatti entrarono in clandestinità. Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta compirono molti attentati dinamitardi. La gente adesso non ne parla più. Si trattava di un movimento clandestino piuttosto attivo.
Fecero parecchie stupidaggini anche diversi anni dopo: nel 1981, per esempio, rapinarono il furgone portavalori di una banca – la chiamarono la Brink’s robbery.
Nello scontro a fuoco rimasero uccisi un agente di sicurezza della banca e due poliziotti. Uno degli studenti della Columbia, Dave Gilbert, è ancora in carcere a causa di quella rapina, sta scontando una condanna a settantacinque anni.
Il problema dell’estrema sinistra radicale dell’epoca era che si illudeva che negli Stati Uniti ci fossero davvero le condizioni per fare la rivoluzione. Erano solo cento o duecento, e si lasciarono talmente trascinare dalle ideologie su cui basavano la loro esistenza, al punto da convincersi che loro, duecento ex studenti del college, fossero in grado di abbattere il governo degli Stati Uniti. Era un’idea assurda, del tutto irrealistica. Alla fine qualunque loro azione è stata un fallimento e il gruppo andò in pezzi. Che spreco. Ma a quei tempi era così: c’era gente convinta che quelle azioni avrebbero davvero cambiato le cose. Voglio raccontare un’ultima cosa, per dare l’idea dell’importanza che ha avuto la Columbia per il movimento. Nell’estate del 1969 entrai in un ufficio postale. Negli uffici postali ci sono delle bacheche in cui sono esposti i dieci criminali più ricercati dall’Fbi. Guardai le fotografie e scoprii che ne conoscevo sette: i miei ex compagni di studi appartenenti all’estrema sinistra radicale erano ricercati dall’Fbi.
Non dimenticherò mai il momento in cui vidi le facce di quelle persone che conoscevo, identificate come criminali dal governo degli Stati Uniti.
– Testo raccolto da Paolo Flores d’Arcais, tradotto e curato da Cristiana Mennella