il manifesto 25.1.18
Shoah, i nodi tra passato e presente
Tempi
presenti. Riflessioni intorno al senso della Giornata della Memoria,
tra ritualizzazione mediatica e il baratro dell'oblio alle porte
di Lia Tagliacozzo
È
il diciassettesimo anno di celebrazione del giorno della memoria:
giornata deputata al ricordo di quando, nel 1945, le truppe dell’Armata
Rossa liberarono il campo di sterminio di Auschwitz. La strage degli
ebrei e degli altri rinchiusi in quei campi non si fermò quel giorno:
per porre fine alla strage bisognò arrivare alla primavera. E qualche
mese dopo, solo ad estate inoltrata, arrivò anche la fine del secondo
conflitto mondiale.
Se quel 27 gennaio del 1945 sul territorio
italiano non accadde una vicenda assurta a data pubblica il 27 gennaio è
comunque il giorno scelto dal Parlamento per ricordare «la Shoah
(sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione
italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la
deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e
schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a
rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i
perseguitati».
UN VENTAGLIO AMPIO di eventi e di soggetti da
ricordare ma così recita la legge istitutiva. Delle leggi razziali
ricorre quest’anno l’ottantesimo dalla promulgazione: volute dal
fascismo e controfirmate da Vittorio Emanuele di Savoia la cui salma è
di recente tornata in Italia accompagnata da accese polemiche.
Eppure
quest’anno, più che i precedenti, sembra che passato e presente si
intreccino in un’ignoranza immemore e arrogante. Il discorso pubblico
sembra, sempre più spesso, abdicare a valori che si presumevano
condivisi. È proprio l’intreccio tra parole del passato e nodi del
presente che inquieta: come se un argine sia venuto meno e il razzismo
sia diventato moneta corrente e legittima che tracima dagli stadi alla
politica, dai social al linguaggio corrente. C’è da aver paura.
Una
posizione molto ferma viene però dalla neo senatrice a vita Liliana
Segre, sopravvissuta ai campi di sterminio di Auschwitz e Ravensbrueck:
«Chi mi ha nominato si aspetta che io prosegua la mia missione di
testimone – ha affermato nelle sue prime dichiarazioni – in un tempo,
questo, in cui il mare si chiude sopra decine di persone che rimangono
ignote, senza un nome, così come sono stati quelli che ho visto io
andare al gas».
Questo non significa, ovviamente, che il
Mediterraneo dei barconi e dei migranti si sia trasformato in una nuova
Auschwitz, ma che quelle morti di sconosciuti anonimi ci riguardano come
negli anni del nazismo e del fascismo al potere avrebbero dovuto
riguardare i concittadini di allora le morti degli ebrei, degli
omosessuali, dei testimoni di Geova, dei portatori di handicap, degli
oppositori politici. E il nodo tra passato e presente si stringe ancora
perché, come un’ eco alle parole di Liliana Segre, a Milano è stata
vandalizzata un’altra pietra della memoria: uno di quei piccoli
sanpietrini dorati posti dall’artista tedesco Günter Demnig di fronte
alla casa da cui le persone sono state deportate e che ne reca inciso il
nome, la data di nascita e, quasi sempre, quella di morte. Una «pietra
di inciampo», in cui ciò che inciampa è, dovrebbe essere, l’attenzione
di una cittadinanza consapevole. Invece anche le parole pubbliche
perdono la memoria: Attilio Fontana, candidato del centrodestra alla
Regione Lombardia, non si è vergognato mentre inneggiava alla «razza
bianca». Lo stesso candidato, dopo aver azzardato scuse poco
sostenibili, ha aggiunto: «La razza bianca? Mi ha portato fama e
consensi». Un’enormità a cui pure è possibile credere. E con la quale
sarà necessario misurarsi ad elezioni avvenute.
L’articolo 2 della
Legge istitutiva prosegue: «In occasione del Giorno della Memoria sono
organizzate cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di
narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole
di ogni ordine e grado».
L’INTERO MONDO della scuola, non sempre
ma spesso appassionato e partecipe, ha in questi anni letto, recitato,
riflettuto anche quando, paradossalmente, le ore di studio della storia
sono diminuite. Proprio le scuole sono forse il luogo dove il giorno
della memoria appare meno «ritualizzato»: ogni studente e ogni classe
impone ogni volta di ricominciare da capo, di leggere nuovi libri, di
inventare nuovi lavori. E ogni bambino o studente formula nuove domande.
L’elenco
delle questioni che pone la celebrazione oggi del giorno della memoria è
infinito, quelle che seguono sono solo alcune: la relazione tra storia e
memoria, il ruolo dell’arte accanto a quello della testimonianza, la
scomparsa degli ultimi testimoni, la formazione degli insegnanti, la
necessità di inserire la Shoah dentro la storia dell’Occidente e non
farne un mausoleo a parte, decontestualizzato dalla vicenda del
Novecento, l’esigenza di non lasciare il dovere della memoria del
nazifascismo alle sue vittime, la riflessione sull’unicità della Shoah e
sugli altri stermini che l’umanità non ha risparmiato a se stessa. E
poi la necessità di trovare un nuovo equilibrio tra la ritualizzazione
delle istituzioni e l’esposizione mediatica.
SEMBRA ANCHE sempre
più urgente interrogarsi se la memoria porti davvero con sé qualcosa di
buono o se piuttosto non rischi di diventare una pianta velenosa a
fronte però di una certezza: senza il giorno della memoria la
consapevolezza della Shoah in questo paese sarebbe minore. Così è stato,
infatti, nella riflessione collettiva fino al momento della sua
istituzione. Eppure caricarsi di una memoria tanto dolorosa ha senso
solo se si riesce ad integrare nel suo racconto che è esistita perfino
allora, durante la guerra e sotto il dominio totalitario, la possibilità
di scegliere: se stare dalla parte dei perseguitati o dei persecutori,
degli ignavi o degli amici, dei soccorritori o dei delatori. Proprio per
questo, si impone una riflessione attenta, in grado di definire gli odi
di ieri e quelli di oggi. Si tratta da un lato di rifiutare
equiparazioni impossibili dall’altro di ricordare quello che scriveva,
con tragica lucidità, Primo Levi: «A molti, individui o popoli, può
accadere di ritenere che ’ogni straniero sia nemico’. Per lo più questa
convinzione giace in fondo agli animi come un’infezione latente. Ma
quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo,
allora, al termine della catena, sta il Lager».