il manifesto 23.1.18
La via tutta italiana al razzismo fascista
Alcune
considerazioni a 80 anni dalla promulgazione delle Leggi razziali.
Fenomeno politico diffuso, decisamente ratificato con la sua inclusione
nella legislazione del paese. Antecedenti: i progetti di una revisione
degli equilibri nell’area balcanica. E l’impresa etiope del 1935-1936
di Claudio Vercelli
Sulla
dirompenza che l’insieme di norme e di disposizioni
giuridico-amministrative conosciute come «leggi razziali» ebbero sulla
società italiana si è iniziato a scrivere soprattutto in anni recenti. È
un segno, a modo suo, della tardiva attenzione attribuita ai diversi
significati e agli effetti di lungo periodo generati dall’introduzione,
durante il 1938, di un collaudato dispositivo istituzionale di
stigmatizzazione, discriminazione e poi di persecuzione. Efficace,
purtroppo, nei suoi devastanti effetti. Tali norme, infatti, entrarono
pesantemente in gioco nelle dinamiche dell’evoluzione collettiva del
Paese, determinandone per alcuni aspetti i suoi successivi sviluppi. In
altre parole, la questione del razzismo di Stato è risultata senz’altro
catastrofica per l’ebraismo italiano ma, non di meno, ha condizionato
anche la parte restante della popolazione.
L’ISTITUZIONALIZZAZIONE
e la legittimazione di prassi vessatorie nell’età dello Stato moderno
regola, infatti, non solo le condotte delle minoranze ma anche gli
atteggiamenti della maggioranza. A tale riguardo, le leggi del 1938 si
sono rivelate efficienti strumenti di uniformazione e disciplinamento
della società italiana, consegnandola ad un’illusoria unitarietà, quella
che sembrava derivare dalla stigmatizzazione delle diversità,
identificate come fattori di alterazione dell’ordine collettivo. Ci si è
quindi ripetutamente interrogati sulle radici del razzismo fascista.
Con esso, del maturare nel corso del tempo del suo antisemitismo, da
originaria posizione variamente sostenuta e condivisa da una parte degli
esponenti del regime, così come fra gli intellettuali a esso organici, a
fenomeno politico diffuso, ratificato definitivamente con la sua
inclusione nella legislazione del Paese.
Significativi sono in
merito gli studi di Michele Sarfatti, di Giorgio Israel e Pietro
Nastasi, di Roberto Maiocchi, di Francesco Cassata, di Marie Anne
Matard-Bonucci, solo per richiamare alcuni nomi, anche nella diversità
dei loro giudizi. Alcuni aspetti risultano decisivi. Un primo dato da
considerare è la maturazione e la cristallizzazione del rapporto tra
fascismo politico e razzismo di Stato, in una dialettica di
rafforzamento reciproco.
Nell’autonomia che le istituzioni regie, e
con esse di una parte delle amministrazioni pubbliche, preservarono nel
corso del Ventennio, un ingrediente di crescente importanza nella
formulazione di una politica del regime per accreditarsi nella sua
soggettività fu l’articolazione di una formulazione razziale delle
questioni geopolitiche, sia rispetto agli interlocutori europei che,
soprattutto, nelle dinamiche interne al Paese. Il rapporto con il
nazismo, da questo punto di vista, non si pose mai nei termini di una
concessione formale alle esigenze di Berlino. Piuttosto, si trattava di
una collaborazione competitiva, dove la tematica razzista era un fattore
di accrescimento e valorizzazione delle proprie istanze. La vecchia e
inconsistente formula giustificazionista, che leggeva le leggi del 1938
come il risultato di una subordinazione alle logiche dell’Asse, non ha
peraltro mai considerato la complessità e la stratificazione, nel corso
del tempo, del tema razzista in Italia. I cui fondamenti risalgono, per
alcuni aspetti, alle stesse impostazioni positiviste del secolo
precedente, trovando tuttavia il punto di svolta nel trasformarsi da
motivi culturali a politiche pubbliche.
STORICAMENTE, non c’è solo
il fondamentale antecedente della radicalizzazione impressa
dall’impresa etiope del 1935-1936. Prima ancora, infatti, pesò il
confrontarsi con i progetti di una revisione degli equilibri nell’area
balcanica, di cui Mussolini era un attore di primaria grandezza. Una
sorta di spinta italiana verso l’Est, che individuava l’altra sponda
dell’Adriatico come spazio elettivo per l’espansione egemonica del
Paese. Ciò facendo, introduceva da subito il tema del rapporto con le
popolazioni slave, intese come soggetti subalterni agli interessi di
Roma.
IL CORREDO razzizzante era quindi immediatamente dietro
l’angolo, avendo trovato già nel brutale fenomeno del «fascismo di
confine» dei primi anni Venti, e nell’italianizzazione forzata delle
popolazioni risiedenti nei territori della penisola istriana, un
repertorio di motivi e una plausibilità di riscontri. D’altro canto, il
tema del razzismo fascista, nel corso di tutta la sua esistenza, si pone
nella logica ossessiva dei confini, sia geografici che simbolici.
È
l’idealizzazione di un’integrità da ripristinare, quella del corpo
della nazione, corrotto da stili di vita e sistemi di relazioni
interpersonali basati sulla promiscuità e sul «permissivismo» delle
condotte borghesi. Ma è anche simbolizzazione di una dimensione
accrescitiva, quella da garantire agli spazi fisici del Paese, nel 1936
transitato ad effimero «Impero». Le politiche dell’immaginario hanno un
grande peso in queste dinamiche e concorrono a creare una sorta di
sistema mitopoietico, dove la menzogna della razza diventa affermazione
di una cognizione alternativa, quella che si alimenta del reiterarsi
della sua stessa falsità, divenendo pregiudizio di senso comune.
È
IN QUESTO MENTRE che il percorso di nazionalizzazione delle masse
abbandona l’individualismo liberale per consegnarsi all’uniformazione
degli spiriti e dei corpi, nel nome di un nuovo ordine collettivo,
basato sull’omologazione di stili di vita, atteggiamenti, aspettative e
condotte. Il tema pseudo-salutista e igienista, che coniugava caserma a
palestra, moschetto a disciplina, comando a controllo non datava di
certo al solo fascismo, essendo una delle componenti dei fantasmi
viriloidi delle subculture nazionaliste. Il regime diede però a esso
spessore e legittimazione, cercando di ispirare una via italiana al
razzismo, sia del punto degli studi scientifici e accademici sia sul
piano delle politiche pubbliche.
L’EQUAZIONE tra fascismo storico e
razzismo è quindi più che mai pertinente, celebrandosi sotto i
paradigmi della modernità e della progettazione sociale. I quali
reclamavano un’opera di sistematica rielaborazione del rapporto di
cittadinanza, ora identificato anche in un legame di ordine biologico.
Tutto l’impianto delle leggi del 1938 demanda a quest’ultimo elemento,
palesandone la centralità per la stessa identità politica fascista. Con
l’approssimarsi della guerra il regime optò apertamente per questo
indirizzo, trovando in esso nuovi motivi di rigenerazione, soprattutto
dinanzi alla prospettiva di un impegno bellico che richiedeva, per
essere sostenuto, di dotarsi di una carica propulsiva sul piano
ideologico. Tutto ciò non si consumava peraltro in assenza di
compartecipazioni.
Le oggettive responsabilità della Corona, e
delle istituzioni non fasciste che le ruotavano intorno, si concentra
soprattutto nella politica di condivisione che fu realizzata con
solerzia dagli apparati pubblici. La premura con la quale le
amministrazioni dello Stato regio si adoperarono per tradurre le norme
astratte in vincoli concreti, indica la loro reale disposizione di
fondo. A essa, infatti, si ricollega la compromissione politica della
casa regnante, che fu protagonista nel processo di accelerazione
impresso dal regime. Non si trattò di omissione e neanche di cedimento
bensì di collusione, dentro una dinamica di rinegoziazione dei
rispettivi ambiti di potere, confidando che la guerra avrebbe
distribuito benefici a quanti vi avrebbero preso parte come attori di
prima fila.
LE LEGGI RAZZIALI del 1938, quindi, sono semmai un
punto di arrivo e non di partenza, come la rilettura revisionista
intende invece continuare ad accreditare. Non costituiscono un errore ma
una scelta ponderata nel corso del tempo, cercando di presidiare e
rafforzare il proprio ruolo nel nuovo scenario europeo che andava
configurandosi. Segnano la traiettoria ideologica e operativa del
fascismo ma anche il livello di compiacente collusione delle istituzioni
pubbliche nei suoi confronti. Non abbiamo quindi a che fare con un
fenomeno residuale ma piuttosto dell’assunzione integrale della dottrina
fascista nella sua intima essenza, quella per l’appunto razzista. La
qual cosa, nel momento in cui ci dice che il regime mussoliniano è
consegnato al passato, ci interroga tuttavia sulla persistenza e sul
ripetersi di alcuni suoi inquietanti motivi di fondo, non importa se
sotto nuove e raffazzonate spoglie.