sabato 20 gennaio 2018

il manifesto 20.1.18
Il Magistero di Liliana
Liana Segre con i ragazzi durante la presentazione della Giornata della Memoria a Milano il 15 gennaio scorso
di Moni Ovadia


Liliana Segre: «Meglio altre cento volte vittima che una sola volta carnefice»

Liliana Segre, deportata ad Auschwitz a soli tredici anni e mezzo e sopravvissuta all’inferno del famigerato lager nazista da cui uscì a 15, è stata una dei grandi testimoni della Shoà: il 19 gennaio 2018 il Presidente Sergio Mattarella, l’ha nominata Senatrice della Repubblica a vita.

Conosco bene Liliana, la considero un’amica e penso che anche lei mi consideri tale.
Ho conosciuto anche l’amore della sua vita intera, diventato suo marito, Alfredo Belli Paci, si incontrarono giovanissimi e si innamorarono per sempre. Belli Paci fu un Ufficiale dell’Esercito del nostro paese, uno di quei soldati che salvarono l’onore dell’Italia rifiutando di aderire alla barbarie nazifascista di Salò. Era un bell’uomo, sopra il metro e ottanta, che ti toccava profondamente per il garbo e la grazia con cui si esprimeva.
Quando uscì dall’internamento pesava 32 chili ma quando parlava di Liliana e del suo calvario, si schermiva per sminuire le proprie sofferenze rispetto a quelle patite dalla moglie.
Liliana è una donna straordinaria, forte, schietta, coraggiosa.
Mi è capitato alcune volte di accompagnarla nel suo magistero di rendere testimonianza nelle scuole, in particolare in occasione delle Giornate della Memoria.
In queste circostanze – l’hanno ascoltata fino a settemila studenti per volta – Liliana racconta la sua storia con un eloquio nitido, fermo e inciso, la sua terrificante esperienza e lo sforzo di sostenere la grande emozione che ho percepito – perché seduto accanto a lei -, non ha intaccato mai il cammino di una parola che doveva toccare i cuori ma anche le menti.
Liliana dichiara sempre il suo obiettivo, minimale ma vitale, far sorgere da quella moltitudine di giovani almeno tre «candele della Memoria».
Per candele della Memoria intende luci dell’anima e della mente che raccolgano da lei il testimone per dare presente e futuro al dovere di ricordare e assumersi l’impegno etico di suscitare altre «candele» per le generazioni future, di generazione in generazione.
Il culmine del suo racconto, è la parte che riguarda il primo momento della liberazione. Approssimandosi le forze dell’Armata Rossa al lager di Auschwitz, i carnefici dettero avvio alle marce della morte. Facevano camminare gli internati ancora in grado di farlo di lager in lager, con l’intento di sfinirli e di farli morire durante le marce forzate.
Ma a un certo punto si udirono crepitare le mitragliatrici sovietiche a poche centinaia di metri, e i super uomini nazisti, presi dal panico, si misero in mutande e gettarono divise e armi lontano da sé. Il più terrorizzato, racconta Liliana, fu lo spietato ufficiale delle SS che dirigeva l’ultimo campo; aveva così paura, il superuomo, che lasciò cadere la sua pistola.
Liliana la raccolse, avrebbe potuto ammazzarlo come un cane, aveva visto mille volte sparare a bruciapelo alla testa di un internato, ma dopo qualche istante la gettò pensando: «Meglio altre cento volte vittima che una sola volta carnefice. Da quel momento sono stata libera».
Ho visto sui giovanissimi volti scendere lacrime copiose in silenzio.
Molto si potrebbe dire su questa figura di donna eccezionale, ma oggi è meglio soffermarsi almeno su un significato reale e simbolico della presenza a vita di Liliana Segre nel Senato, l’impegno dell’intero parlamento e delle istituzioni, a espungere da ogni aspetto della vita pubblica ogni cellula di fascismo e di nazismo in tutte le sue forme, nostalgiche, vecchie, nuove, nuovissime.
Non ci sono fascismi diversi, ce n’è uno solo ed è peste nera.

Il Fatto 20.1.18
Leggi razziali e lager: la marcia di Liliana fino a Palazzo Madama
Esempio vivente - Mattarella nomina la Segre, sopravvissuta ad Auschwitz e testimone dell’antisemitismo, senatrice a vita
Leggi razziali e lager: la marcia di Liliana fino a Palazzo Madama
di Leonardo Coen


Sono passate da poco le undici del mattino. Liliana Segre è ancora a casa, si sta preparando per le cerimonie del primo pomeriggio – la posa di alcune “pietre d’inciampo” per ricordare le vittime del nazifascismo – quando squilla il telefono di casa. È la “batteria” del Quirinale: “Il presidente della Repubblica desidera parlarle”. Liliana ignora per quale motivo. Forse vogliono coinvolgerla in qualche manifestazione ufficiale legata alla Giornata della Memoria, sabato 27 gennaio. Si sbaglia. Mattarella le annuncia che ha deciso di nominarla senatrice a vita. Alla Segre manca il respiro, per l’emozione. Lo ringrazia e assicura quale sarà il suo impegno: “Porterò in Senato la voce degli umiliati dalla Patria che amavano, cercherò di perpetuare la memoria, contrastare il razzismo, costruire un mondo di fratellanza, comprensione e rispetto, in linea coi valori della nostra Costituzione finché avrò forza a raccontare ai giovani l’orrore della Shoah, la follia del razzismo, la barbarie della discriminazione e della predicazione dell’odio”.
Mattarella si convince che la sua è stata una scelta coraggiosa, opportuna e anche politicamente significativa: la nomina della Segre, una personalità di altissimo profilo, in fondo può essere letta anche come una ferma presa di posizione contro chi voleva stravolgere Senato e Costituzione. Per Roberto Jarach, vicepresidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane e della Fondazione Memoriale della Shoah, “vedremo finalmente sedute in Parlamento l’etica, la morale, la Storia”.
La notizia “mi ha colto completamente di sorpresa”, dirà subito al figlio Luciano Belli Paci. Vuol subito far sapere che la sua nomina non è stata sponsorizzata dai partiti, “non ho mai fatto politica attiva… sono una persona comune, una nonna con una vita ancora piena di interessi e impegni”. Ma è consapevole che lei è vista come una sorta di baluardo contro le pericolose derive razziste, xenofobe e antisemite che crescono nel Paese. Lei è una sopravvissuta dell’Olocausto – non suo padre Alberto, col quale venne deportata ad Auschwitz: “Certamente il presidente ha voluto onorare, attraverso la mia persona, la memoria di tanti altri in questo anno 2018 in cui ricorre l’ottantesimo anniversario delle leggi razziali. Sento su di me l’enorme compito, la grave responsabilità di tentare almeno, pur con tutti i miei limiti, di portare nel Senato le voci ormai lontane che rischiano di perdersi nell’oblio.
Le voci di quelle migliaia di italiani, appartenenti alla piccola minoranza ebraica, che nel 1938 subirono l’umiliazione di essere degradati… che furono espulsi dalle scuole, dalle professioni, dalla società dei cittadini di serie A”. Non ha mai dimenticato. Liliana, il giorno che le impedirono di entrare a scuola. Aveva otto anni.
E la colpa d’essere nata ebrea. La discriminazione tolse voce e identità: gli ebrei vennero perseguitati, braccati, deportati per la “soluzione finale”. La Segre vuole che non ci si dimentichi mai di loro, di chi non ha più tomba, di chi è svanito nel vento: “Salvare quelle storie, coltivare la Memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza. E la può usare”. Certo, “non dimenticando e non perdonando – l’ho sempre fatto – ma senza odio e spirito di vendetta: sono una donna di pace e una donna libera: e la prima libertà è quella dall’odio”.
Oggi, per esempio, l’attendono gli studenti del liceo Carducci. A loro, come da lustri e lustri, dirà che è nata a Milano il 10 settembre 1930, che i suoi genitori si chiamavano Alberto Segre e Lucia Foligno, che abitava in corso Magenta al numero 55. Che il 7 dicembre del 1943, insieme al padre a due cugini, tentò invano di riparare in Svizzera, aiutati da qualche contrabbandiere. Ma la “barca era piena”, dissero impietosi gli svizzeri che la ricacciarono indietro. L’arrestarono il giorno dopo a Selvetta di Viggiù, poi la trasferirono al carcere di Como e da qui a San Vittore. Ci rimase 40 giorni. Il 30 gennaio del 1944 la misero col padre dentro un vagone piombato. Il convoglio partì dal famigerato Binario 21. Oggi, quel luogo è diventato un Memoriale. L’anno scorso l’hanno visitato
26 mila studenti.

La Stampa 20.1.18
Missione testimone: la numero 75190è senatrice a vita
Ieri la telefonata del presidente Mattarella“La mia pelle racconta l’orrore di Auschwitz”
di Paolo Colonnello


Liliana Segre, 87 anni, neo senatrice a vita della Repubblica, è una signora d’altri tempi: gentile e apparentemente fragile. In realtà è una delle donne più forti e lucide che sia mai capitato di conoscere. Del resto non si sopravvive a una deportazione in un carro bestiame, a un campo di concentramento come Auschwitz, allo sterminio dei propri genitori, degli amici, all’indifferenza del ritorno, alle cicatrici indelebili della persecuzione, se non si ha nell’anima un filo d’acciaio. Che poi è quello che hanno tutti coloro che scelgono di essere testimoni del proprio tempo. Così Liliana si batte da anni per la «memoria», perché nessuno dimentichi l’orrore delle leggi razziali, degli stermini nazisti, dello zelo fascista.
Certo non se l’aspettava la telefonata del Presidente, ieri mattina: «Un fulmine a ciel sereno. Ero già stata contattata per andare a Roma il 25 e così celebrare al Quirinale la giornata della Memoria. Poi ho risposto al telefono: “Buongiorno, sono Mattarella”. Gli ho detto: “Aspetti che prima mi siedo...”. Non sapevo neanche che potesse nominare 5 senatori a vita...». La casa di Porta Magenta piano piano si è riempita di gente. Ma Liliana non si è fatta travolgere.
Che memoria può esistere nel mondo dell’effimero, delle verità che scompaiono per lasciare il posto a chi si fa strada tra la menzogna? «Questo è un mondo pronto a negare il passato per mille motivi, perché fa comodo, in molti casi. Certo, non sono molto ottimista, ma è una battaglia che non si può smettere di combattere. È la mia missione: me la sono data 30 anni fa, dopo aver trascorso 45 anni in silenzio, dal ritorno dal campo di sterminio». E qui la voce si fa sottile. Perché a 13 anni, dopo essere respinta dalla Svizzera, portata con suo padre, a San Vittore, nella stessa strada in cui era nata; infine al famigerato «binario 21» della Centrale, da cui partivano i treni della morte e dove ora c’è il Memoriale della Shoah, la memoria di Liliana è stata incisa nella carne, come il numero di Auschwitz sul suo braccio sinistro: «Per la vergogna di chi lo ha fatto: numero 75190. Non lo toglierei per nessuna ragione al mondo. Perché in fondo io sono quel numero». Un numero che per anni ha destato curiosità nella gente ma che Liliana non aveva mai la forza o la voglia di spiegare. «Perché dopo essere tornata da quel tormento, mi accorsi che ero da sola: eravamo partiti in 605 e tornati in 22, era l’agosto del ’45, compivo 15 anni. Mi aggiravo in una Milano di indifferenti. Incontravo le mie ex compagne di classe che si stupivano, mi chiedevano: “Ma come mai? A un certo punto sei sparita, non ti abbiamo vista più…”». Come se fosse partita per una malattia che poi in fondo di questo si tratta: una malattia dell’umanità. «Poi a un certo punto ho deciso che dovevo ricordare che ero matura per mettermi davanti ai ragazzi senza parlare mai di odio o di vendetta per raccontare una storia italiana».
Eppure, c’è ancora qualcuno che parla di “razza bianca”, che effetto le fa? «A me la parola razza mette sempre ansia. Voglio credere che sia stato “un lapsus” perché non posso credere altrimenti». In Europa c’è un ritorno delle destre estreme, la preoccupa? «Sì, primo perché ho sempre creduto nei ricorsi storici e poi perché nella mancanza totale di valori di oggi il rischio è ritrovarsi un Hitler al potere senza rendersene conto. Io faccio la mia parte, che ognuno faccia la sua».

Repubblica 20.1.18
Intervista a Liliana Segre
“Io, da Auschwitz a senatrice a vita ma non dimentico e non perdono”
di Simonetta Fiori


Quando ho sentito il Presidente il puzzle della mia vita s’è rimesso a posto. Amore e dolore si sono composti.
Non capita spesso Mi sono tornati tutti in mente. E mi sono riaffiorate tutte le persone offese, derise, violate, deportate che non hanno potuto raccontare

«Ha presente quei vecchi puzzle a cui ci si affeziona?
Quando ho sentito il presidente Mattarella, il puzzle della mia vita s’è rimesso a posto. Non capita spesso. Non sempre i pezzi d’un vissuto pieno di dolore ma anche di amore riescono a comporsi. Stamattina mi è successo questo». Liliana Segre è frastornata. La giornata è cominciata con la telefonata del presidente della Repubblica che la nomina senatrice a vita ed è proseguita tra squilli, visite, mazzi di fiori, soprattutto tanti ricordi: case, luoghi, volti che hanno segnato la sua storia di ragazza braccata, perseguitata, sopravvissuta per caso. «Non me l’aspettavo.
Nei giorni scorsi il cerimoniale mi aveva parlato genericamente d’una decorazione, ma un incarico così prestigioso era fuori dalla mia immaginazione. Sono rimasta senza parole». Il padre perso ad Auschwitz, stesso destino per i cugini e gli adorati nonni paterni. «Mi sono tornati tutti in mente. E mi sono riaffiorate tutte le persone offese, derise, violate, deportate che non hanno potuto raccontare. Uomini e donne che amavano la patria e dalla patria sono stati degradati, sviliti a cittadini di serie B, consegnati alla Soluzione Finale. Quello Stato oggi non esiste più. Ma il gesto del presidente della Repubblica assume il significato di un risarcimento.
E insieme a me porta nel cuore delle istituzioni repubblicane anche le voci meno fortunate, le voci di chi non è tornato. Di quelli che non hanno una tomba e sono finiti nel vento».
Un gesto dal significato chiaro, in un’Italia percorsa da rigurgiti neofascisti: l’icona sfigurata di Anna Frank è forse l’immagine più forte di questa temperie.
«Quella è stata una vergogna che mi ha lasciato stupefatta.
Ma chi può solo pensare un gesto così miserabile? Provo una grande pena. Sì, si avvertono questi umori violenti, con simboli che evocano periodi terribili. Sono ferita, addolorata. La sensazione è che sia stato tutto inutile. Sapranno i giovani distinguere il vero dal falso?
Spero di sì. Perché altrimenti significa che noi testimoni abbiamo perso».
Come tanti sopravvissuti di Auschwitz, lei per decenni è rimasta chiusa nel silenzio.
«Appena uscita dal lager, ho capito fin dal principio che nessuno aveva la capacità di ascoltarci, di comprendere quello che era accaduto. Per quarantacinque anni ne ho parlato solo con gli amici più intimi, con mio marito. Con gli altri no. E solo a sessant’anni questo mio groviglio interiore s’è sciolto. Il mondo non ci capiva e non aveva voglia di capirci. Sa cosa vuol dire indifferenza? Sì, la parola che oggi è scolpita al binario 21 della Stazione Centrale a Milano, quello da cui partimmo per Auschwitz. L’indifferenza è più colpevole della violenza stessa.
È l’apatia morale di chi si volta dall’altra parte: succede anche oggi verso il razzismo e altri orrori del mondo. La memoria vale proprio come vaccino contro l’indifferenza».
Nel 2018 ricorre anche l’ottantesimo anniversario delle leggi razziali.
«Frequentavo a Milano la quarta elementare della scuola Fratelli Ruffini.
Improvvisamente venni espulsa. Divenni una vittima.
Avevo solo otto anni. La mia era una famiglia milanese di patrioti, perfettamente inserita nel contesto della città. Quello che vissi con mortificazione era solo l’inizio. Il principio d’una storia di perseguitati, braccati, deportati, alcuni anche ammazzati».
Cosa le ha dato la forza di resistere?
«Non lo so dire. Io sono viva per caso. Ognuno di noi ha un destino, evidentemente non dovevo morire. Nel 1944, quando fummo deportati a Birkenau, ero una ragazza di quattordici anni, stupita dall’orrore e dalla cattiveria.
Sprofondata nella solitudine, nel freddo e nella fame. Non capivo neanche dove mi avessero portato: nessuno allora sapeva di Auschwitz».
Lei è l’unica sopravvissuta della sua famiglia. Questo cosa ha significato?
«Ho avuto una vita difficile, anche dopo la guerra. La mia fortuna è stata incontrare mio marito, un ufficiale del regio esercito che aveva conosciuto il dolore dei campi per aver detto no alla Repubblica di Salò. È stato l’amore grande della mia vita. È morto dieci anni fa. Oggi mi è mancato tanto».
Con chi festeggerà stasera?
«Come metto giù il telefono con lei, me ne vado a letto. Sono tanto stanca, emozionata.
Naturalmente sono felice anche per i miei figli e i miei nipoti».
Subito dopo la nomina, lei ha detto: «Non dimentico e non perdono».
«Sì, così. La mia missione è non dimenticare. La mia missione è raccontare cosa è avvenuto veramente. E non perdono: chi sono io per perdonare? Potrei perdonare gli atti commessi contro di me. Ma ho visto quello che è stato fatto agli altri che non possono raccontarlo. Ecco, da oggi ho la responsabilità di portare nel Senato della Repubblica quelle voci che rischiano di disperdersi. Finché avrò la forza, continuerò a raccontare ai ragazzi la follia del razzismo. Senza odio, senza spirito di vendetta. Sono una donna libera. E la prima libertà è quella dall’odio».

Repubblica 20.1.18
La prima nomina di Mattarella contro i nuovi razzismi
Il senso della scelta è tenere viva la memoria attraverso una persona che ha deciso di parlare soprattutto ai giovani
di Umberto Rosso


Roma Un omaggio ad una sopravvissuta allo sterminio della Shoah, ma non solo. Nella nomina a senatrice a vita conferita da Sergio Mattarella a Liliana Segre c’è anche un segnale contro il risorgere del razzismo e dell’intolleranza, e un riconoscimento che guarda anche in avanti: al ruolo che la presidente del centro Pietre d’inciampo potrà avere in Senato portandovi la sua esperienza quarantennale di incontro con i giovani, per tenere viva la memoria e l’impegno contro discriminazioni e persecuzioni.
A sorpresa, il capo dello Stato ha dunque nominato il suo primo senatore a vita, dopo quasi tre anni al Colle, secondo le prerogative previste dall’articolo 59 della Costituzione, e che potrebbe essere anche l’unico. A Palazzo Madama infatti con questo nuovo arrivo sono cinque i senatori a vita nominati da un presidente della Repubblica — vi siedono già Monti, Rubbia, Cattaneo e Piano, per volere di Giorgio Napolitano — e Mattarella intende attenersi alla interpretazione restrittiva della norma, che prevede appunto di non andare in totale oltre questo numero a Palazzo Madama ( a parte i senatori a vita di diritto come gli ex presidenti della Repubblica). Un seggio era rimasto vacante dopo la scomparsa del maestro Claudio Abbado.
Mattarella ha chiamato Liliana Segre al telefono, per darle personalmente la notizia, e la incontrerà giovedì prossimo al Quirinale, nel corso della celebrazione della Giornata della Memoria che quest’anno si svolgerà dunque in una cornice molto particolare ( e in diretta tv). La neosenatrice sarà intervistata da alcuni studenti che hanno vinto con i loro lavori il concorso dedicato all’anniversario della leggi razziali del 1938. Alla cerimonia, presentata dall’attore Remo Girone, ci sarà fra gli altri anche la cantante israeliana Noa (con la sua La Vita è bella, la colonna sonora del film di Roberto Benigni).
Dal premier Gentiloni, dai presidenti delle Camere Grasso e Boldrini grande soddisfazione per la scelta di indicare Segre senatrice a vita. Così come da parte di tutte le forze politiche, sindacali, dalle associazioni culturali. Con una sola eccezione: la Lega.

Repubblica 20.1.17
Mattarella la memoria e i nodi di oggi
di Stefano Folli


La nomina di Liliana Segre a senatrice a vita non è solo un’iniziativa di alto valore civile da parte del capo dello Stato. È anche la conferma dello stile presidenziale di Mattarella alla vigilia della giornata della Memoria, certo, ma pure di elezioni che si segnalano per il mediocre e spesso infimo livello del dibattito pubblico. Per qualche ora forse non si parlerà di programmi inconsistenti e di promesse mirabolanti, ma si rifletterà sulla storia del Novecento e sui principi che sono alla base della Repubblica. In tal modo Mattarella, onorando la vita eccezionale di una sopravvissuta all’Olocausto, prova a fare pedagogia civile in un paese che vive nella bolla di un eterno presente, dimentico del passato e indifferente al futuro. Quanto servirà, questo richiamo, a risollevare il livello delle polemiche e a rimettere sulle sue gambe una campagna elettorale confusa e greve, non è possibile saperlo. Ma il tentativo andava fatto adesso. Mentre cresce l’incertezza sul dopo voto e nessuno sa con precisione come muoversi a partire dal 5 marzo sera.
Il rischio è la lacerazione non più componibile. Se la Repubblica sarà ingovernabile, emergeranno le tendenze e i gruppi più intolleranti. Non abbastanza forti per coalizzarsi e sostenere una maggioranza, ma probabilmente in grado di impedire agli altri di provarci. Al momento è superfluo attendersi indicazioni utili dai politici, visto che ben pochi scoprono le carte.
Quando importanti esponenti del Pd giurano che «mai al governo con le destre», si capisce che non possono dire altro a sei settimane dalle urne. Un minuto dopo la chiusura dei seggi si cambierà spartito. E il Berlusconi che oggi annuncia: «Vado io a Palazzo Chigi se il tribunale europeo mi avrà reintegrato» o che promette il ministero dell’Interno a Salvini, l’uomo da cui teme qualche scherzo, andrà valutato in base ai suoi suffragi. Al pari di tutti gli altri, ovviamente. Il calcolo dei rapporti di forza sarà come sempre essenziale.
Innanzitutto per eleggere i presidenti di Camera e Senato, prima prova di una convergenza parlamentare che potrebbe anche trasformarsi in maggioranza di governo. S’intende che siamo nel campo del possibile, ma non oltre. Nel 2013, per dire, Grasso e Boldrini furono eletti dal centrosinistra rinsaldato dal voto penta-stellato. Ma non ci furono passi avanti sulla via del governo: nessun sodalizio fra Cinque Stelle e Pd. Enrico Letta, come è noto, guiderà un effimero esecutivo di “grande coalizione” fra Pd e Popolo delle Libertà. Il precedente dunque esiste, ma esiste anche il ricordo di un’esperienza poco fortunata.
Difficile immaginare che il centrosinistra si disponga senza resistenze a ripercorrere la stessa strada dopo il 4 marzo. Nel 2013, grazie al premio di maggioranza, il Pd aveva ottenuto una solida presenza parlamentare e poteva digerire un accordo con il mondo berlusconiano. Nel 2018 si prevede una netta sconfitta del Pd e un Parlamento bloccato: il sentiero dell’intesa politica con il centrodestra sembra precluso. Si vedrà. Certo, nel gioco delle astensioni il Pd potrebbe recuperare un po’ di consensi fra gli incerti, dove pare che siano davvero tanti i delusi. Ma alla fine potrebbe non bastare. Non è strano quindi che qualcuno parli di “governo del presidente” (D’Alema), versione edulcorata della grande coalizione non realizzabile. Ed è ovvio che al Quirinale non piaccia l’ipotesi. Il capo dello Stato è obbligato a cercare una maggioranza politica. Tutto il resto viene dopo. E potrebbe non venire affatto. Per ora meglio coltivare i valori della Repubblica tenendone viva la memoria.

La Stampa 20.1.18
Task force anti-migranti in Austria
Il ministro dell’ultradestra rafforza i controlli al Brennero, allertate le forze speciali “Non ci sarà più un lasciapassare, identificheremo capillarmente tutti i viaggiatori”
di Walter Rauhe


Una task force composta da forze speciali della polizia per rafforzare i controlli alle frontiere e bloccare l’ingresso di migranti nel Paese. A poco più di un mese dal suo insediamento, il nuovo e discusso governo austriaco di centro destra fa sul serio e inizia a mettere in pratica quanto ripetutamente ventilato nel corso della campagna elettorale.
In un’intervista rilasciata al quotidiano Tiroler Tageszeitung, il nuovo ministro degli Interni Herbert Kickl del partito di ultra-destra della Fpö ha annunciato l’istituzione di un corpo speciale composto inizialmente da 600 agenti «in grado di avviare entro pochissime ore» al Brennero e agli altri valichi di frontiera, quello che lui stesso definisce come il «management di confine» e di procedere all’identificazione capillare dei viaggiatori, di costruire degli sbarramenti e di bloccare l’eventuale ingresso nel Paese di immigrati sprovvisti di permesso. «Non ci sarà più un lasciapassare», ha tuonato il ministro, precisando che i preparativi per l’istituzione della task force (Grenzschutzeinheit, ovvero Unità di difesa delle frontiere) sono già partiti di comune accordo con gli alleati di governo del Partito Popolare Austriaco (Övp) del cancelliere Sebastian Kurz. L’intento di Herbert Kickl - l’ex autore dei discorsi del defunto leader dell’ultra destra Jörg Haider e considerato fra i più polemici e spietati apostoli dell’ideologia ultranazionalista e a tratti anche apertamente xenofoba del Fpö, è quello di scongiurare a tutti i costi il ripetersi di situazioni caotiche ed incontrollate come quelle verificatesi nell’estate del 2015, quando migliaia di profughi provenienti dalla Siria attraverso la rotta balcanica, hanno attraversato la Repubblica alpina per raggiungere la Germania. Anche se in realtà solo pochi di questi profughi si sono allora fermati in Austria per chiedere diritto di asilo politico, per Kickl si è trattato ugualmente di «un’invasione». E non è nemmeno un mistero che il fronte principale della nuova «Grenzschutzpolizei» alpina sarà quello del valico del Brennero e di tutti gli altri confini con l’Italia.
Già in passato i leader dell’ultradestra della Fpö e quelli del centro destra della Övp di Sebastian Kurz avevano fatto a gara nel tentativo di lanciare le proposte più polemiche e le minacce più aggressive all’indirizzo di Roma, rea secondo loro di non trattenere nel proprio Paese i profughi e di caricarli in modo incontrollato sui treni diretti al Brennero. Lo scorso mese di luglio, nel pieno della velenosissima campagna elettorale austriaca, l’allora ministro degli interno Wolfgang Slobotka (Övp) era arrivato a minacciare la chiusura della frontiera del Brennero e l’invio addirittura di carri armati per bloccare l’ingresso dei migranti. Una minaccia alla quale per settimane seguirono effettivamente controlli più massicci (anche se ancora sporadici e mirati) al più importante valico di frontiera fra il Nord e il Sud dell’Europa con conseguenti code lungo la A22 del Brennero.
Il nuovo governo austriaco fra i Popolari di centro della Övp e l’ultradestra dei «Liberali» della Fpö ha allarmato la comunità internazionale e viene «osservato a distanza» e con «particolare attenzione» dalla stessa Germania, come ha ribadito senza mezzi termini mercoledì scorso Angela Merkel ricevendo a Berlino il suo collega da Vienna Sebastian Kurz. «Giudicheremo il nuovo governo austriaco dai fatti», aveva ribadito la cancelliera tedesca, che nel corso della campagna elettorale in Austria era uno dei bersagli preferiti degli attacchi sferzati da Kurz e da Strache (il leader della Fpö ed attuale vicecancelliere) per via della sua politica di apertura ai profughi. A Berlino si teme che ora che la destra populista è passata dai palchi dei comizi alle poltrone di governo, l’Austria compia una forte virata a destra unendosi a livello europeo più ai Paesi del Gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca) che ai vecchi alleati delle democrazie occidentali e meridionali.

La Stampa 20.1.18
Bruxelles, un muro per dividere i bimbi francofoni e fiamminghi
Polemiche sulla scuola elementare in costruzione
di Marco Bresolin


Il cortile della scuola diviso in due, da un muro. Da una parte i bambini di lingua fiamminga, dall’altra i francofoni. Vietato entrare in contatto durante la ricreazione, men che meno durante le ore di lezione. Succede a Bruxelles, comune di Schaerbeek, uno dei 19 municipi della capitale belga. In una scuola materna e primaria comunale. Incredibile? Neanche troppo per un Paese che è diviso in tre regioni e in altrettante comunità linguistiche (c’è anche la minoranza di lingua tedesca). Ognuna con il suo parlamento. Ai quali si aggiunge il parlamento federale. Sette aule legislative (per uno Stato di 11 milioni di abitanti) che hanno competenza su molti temi, tre lingue ufficiali e un’architettura istituzionale da far venire il mal di testa. Surreale? Beh, ma questo è il Paese di René Magritte. E infatti la nuova scuola sarà intitolata proprio al massimo esponente del surrealismo.
Ecco perché il progetto non sconvolge troppo cittadini e istituzioni locali. L’unico a sollevare l’assurdità è un consigliere comunale del Partito del Lavoro Belga, formazione di estrema sinistra, uno dei pochi partiti unitari che non presenta una divisione sul fronte linguistico (per avere un’idea di come funzionano le cose: alle prossime elezioni comunali di Molenbeek, i Verdi correranno divisi tra i “Groen”, fiamminghi, e i “Ecolo”, francofoni). Ma quella di Axel Bernard sembra la battaglia di Don Chisciotte contro i mulini a vento: «Questa scuola è un’occasione persa - spiega -, a Schaerbeek ci sono molte famiglie con problemi economici: una formazione bilingue potrebbe aiutare questi ragazzi ad avere maggiori opportunità lavorative in futuro. E invece, per ragioni politiche, si evita l’istruzione bilingue».
La scuola che aprirà i battenti a Schaerbeek a settembre dipenderà dal municipio. Sarà un unico istituto, ma diviso in due diverse sezioni: una finanziata dalla comunità francofona (600 bambini in tutto) e una da quella fiamminga (250 bambini). «E le due comunità - ha spiegato ai media locali l’assessore comunale all’istruzione, Michel De Herde - vogliono che gli edifici e le superfici che hanno sovvenzionato siano identificate chiaramente». Questa parte del cortile l’ho pagata io e chi ci gioca deve parlare la mia lingua. Chiaro? C’è poi un aspetto giuridico, perché le regole dell’istruzione francofona sono diverse da quella fiamminga. «Dicono che un sorvegliante fiammingo non può sorvegliare i bambini francesi durante la ricreazione» scuote il capo Bernard.
Il municipio respinge le accuse di apartheid sottolineando che ci saranno anche spazi comuni all’interno dell’edificio. Per esempio la palestra o l’orto botanico: la prima è stata realizzata con i fondi della Regione di Bruxelles, il secondo grazie al contributo del Comune. Entrambe le istituzioni sono bilingue «e dunque lì non c’è questa esigenza di separazione» aggiunge orgoglioso l’assessore.
Proprio in questi giorni sui giornali belgi viene ricordata la grande crisi politica scoppiata 50 anni fa attorno all’Università Cattolica di Lovanio, nelle Fiandre, quando gli studenti di lingua fiamminga chiesero la soppressione della sezione francofona dell’ateneo, il primo del Paese. Le manifestazioni - al grido di «Fuori i valloni» - nel 1968 provocarono persino la caduta del governo. Alla fine vinsero i fiamminghi, che cacciarono dall’università i francofoni. In risposta, fu costruita la città di Louvain-la-neuve, sede della nuova università francofona, situata a pochi chilometri da Lovanio, ma in Vallonia. Divise dal confine regionale, lungo una linea che presto taglierà in due anche il cortile di una scuola.

La Stampa 20.1.18
La mossa anti-aborto di Trump
“Proteggiamo la santità della vita”
Per la prima volta un presidente Usa parla alla marcia dei “pro life” Lo scopo è quello di consolidare la base conservatrice in vista del voto
di Paolo Mastrolilli


Gli Stati Uniti sono uno dei paesi con le regole più permissive sull’aborto, e «questo deve cambiare». È la promessa che ha fatto ieri Donald Trump, diventando il primo presidente a parlare in diretta dalla Casa Bianca durante la «March for Life», la Marcia per la vita.
La manifestazione si tiene ogni anno a Washington in occasione dell’anniversario della sentenza della Corte Suprema Roe vs. Wade, che nel 1973 legalizzò le interruzioni di gravidanza. La materia negli Usa non è mai stata regolata dal Congresso con una legge, e continua a dividere il paese, dove secondo l’ultimo sondaggio della Gallup il 49% dei cittadini è favorevole all’aborto e il 46% è contrario.
Trump ha elencato le iniziative «pro life» prese dalla sua amministrazione, dalla nomina dei giudici alla cancellazione dei finanziamenti per le organizzazioni che promuovono le interruzioni di gravidanza. Quindi ha detto che la sua amministrazione «difenderà sempre la santità della vita». In concreto, si è impegnato a spingere affinché il Congresso approvi una legge per vietare i «late-term abortions», cioè quelli che avvengono dopo la ventesima settimana di gravidanza. L’obiettivo di lungo termine, invece, è cancellare la sentenza Roe vs. Wade, attraverso la trasformazione della Corte Suprema. Il capo della Casa Bianca ha nominato Neil Gorsuch al posto di Antonin Scalia, ma così ha solo conservato la maggioranza già esistente a favore dei conservatori. La sua speranza è che nei prossimi anni si ritiri qualche magistrato liberal, come Ruth Bader Ginsburg o Stephen Breyer, in modo da poter alterare definitivamente gli equilibri in favore di chi vuole vietare l’aborto.
Trump si è rivolto ai manifestanti proprio mentre conduceva gli ultimi negoziati per evitare lo «shutdown» dello stato, e tutto questo si tiene nella logica della sua base. Entrambe le questioni, infatti, servono a mantenerla fermamente dalla sua parte. Fino a pochi anni fa Donald dichiarava di essere «pro choice», ma nel corso della campagna presidenziale ha spiegato che la sua coscienza si è evoluta, e ora è contrario all’aborto, tranne i casi di incesto e stupro. Questo cambio di posizione era essenziale per ottenere i voti della destra evangelica e dei cattolici conservatori, che infatti lo hanno sostenuto. Ora per Trump è fondamentale mantenere la promessa di opporsi all’interruzione di gravidanza, in modo da non perdere questi voti. Stesso discorso per lo «shutdown», che invece ruota intorno all’immigrazione, perché per evitarlo i democratici chiedono di salvare dalla deportazione i «dreamers», cioè gli 800.000 illegali portati negli Usa dai genitori quando erano bambini. Anche qui il presidente non vuole cedere, per non tradire le aspettative della sua base. La determinazione nel difendere le politiche pro life, e affermare la linea intransigente sull’immigrazione, è infatti una delle chiavi per puntare alla rielezione nel 2020.

La Stampa 20.1.18
Un codice etico per i professori
“Niente sms né chat con gli alunni”
La proposta dei presidi dopo gli abusi al liceo Massimo di Roma Vietati anche i social, gli insegnanti rischiano fino al licenziamento
di Flavia Amabile


Le molestie a scuola vanno condannate senza alcun dubbio. Ma che cosa si fa quando i rapporti tra professori e alunni escono fuori dalla sfera scolastica? Come ci si regola? In questi giorni è in corso all’Aran (l’agenzia che rappresenta gli enti pubblici nella contrattazione collettiva) la trattativa per il rinnovo del contratto dei docenti. Una delle ipotesi circolate negli incontri della settimana scorsa riguarda proprio la necessità di dare regole sull’uso delle chat e dei social nei rapporti tra studenti e insegnanti. Secondo l’Aran, devono essere introdotti divieti veri e propri, con pesanti sanzioni disciplinari per chi non li rispetta. Una possibilità che ha scatenato le proteste delle organizzazioni sindacali ma che invece incontra il favore del mondo dei presidi.
Mario Rusconi, presidente dell’Associazione nazionale presidi del Lazio, ad esempio, chiede l’introduzione di «un codice deontologico» spiegando di non riferirsi a un documento che «deve surrogare le regole nei numerosi codici» ma di pensare a un documento che delinei «i parametri organizzativi della governance» e «le direttrici etico-professionali» che si intende seguire nella scuola unite all’adozione di un «trasparente sistema di valutazione del contesto scolastico». Il dibattito a questo punto è aperto. La ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli ha avvertito che «chi viene giudicato colpevole, dopo il procedimento disciplinare, sarà comunque licenziato». Una norma in questo senso dovrebbe essere inserita nel nuovo contratto per la scuola.
Ma il primo a esprimere dubbi di fronte a una condanna immediata è il ministro della Giustizia Andrea Orlando. La sua è una «perplessità sotto il profilo costituzionale» sulla possibilità di licenziare i professori accusati di molestie, «almeno in assenza di una condanna di primo grado». Quello delle molestie, ha spiegato, «è un reato particolarmente infamante che se non fosse fondato segnerebbe una persona per tutta la vita. Cautela chiede anche Maddalena Gissi, segretaria generale della Cisl scuola: «Centinaia di migliaia di insegnanti ogni giorno svolgono con competenza, serietà, generosità e passione il proprio lavoro: sono loro per primi a non tollerare comportamenti incompatibili con il compito di istruire ed educare le giovani generazioni. Per atti che comunque rappresentano rare eccezioni non ci può essere tolleranza né indulgenza». Tuttavia, severità e prudenza dovrebbero procedere di pari passo visto che «non sono mancati purtroppo casi di linciaggio mediatico rivelatisi poi privi di alcun fondamento».
In ogni caso, per la sindacalista, affrontare il tema delle sanzioni disciplinari nel contratto «significa definire un quadro di garanzie per tutti». Contrario, invece, a un codice etico si dice Francesco Sinopoli della Flc-Cgil perché «si interviene dall’alto nel punto più delicato della didattica che lega ogni docente ai suoi studenti: il rapporto umano e professionale che richiede la fiducia, la credibilità e la responsabilità. Nessuno può dire come dev’essere, quali limiti debba avere, con quale vocabolario e con quale sintassi si debba parlare. Esiste già un’etica, una deontologia, che derivano dalla prassi quotidiana dell’insegnamento. Poi, se emergono casi estremi, ci pensa il Codice penale. E da questo punto di vista, sostengo da tempo che gli studenti debbano anche imparare il coraggio di denunciare atti contrari al rispetto della loro persona, prima ancora del Codice».