domenica 21 gennaio 2018


Il Fatto 21.1.18
Pedofilia, il caso del vescovo Barros divide il Papa e il cardinale O’Malley: “Dichiarazioni di Francesco dolorose”
Non usa mezze misure il cardinale di Boston per attaccare Bergoglio in merito alle dichiarazioni rilasciate durante il viaggio in Cile sul vescovo di Osorno
di Francesco Antonio Grana


“È comprensibile che le dichiarazioni di Papa Francesco siano state fonte di grande dolore per i sopravvissuti agli abusi sessuali da parte del clero”. Non usa mezze misure il cardinale di Boston, Sean Patrick O’Malley, per attaccare Bergoglio in merito alle dichiarazioni rilasciate durante il viaggio in Cile sul vescovo di Osorno, Juan Barros. Dal 2015, ovvero da quando il Papa lo ha nominato alla guida della diocesi cilena, sacerdoti e fedeli chiedono la rimozione immediata del presule accusato di aver coperto il prete pedofilo Fernando Karadima. “Il giorno che avremo una prova contro il vescovo Barros parlerò. Non c’è una sola prova d’accusa. Le altre sono tutte calunnie, chiaro?”, ha ribattuto Bergoglio ai giornalisti cileni.
Parole che hanno suscitato la dura presa di posizione di O’Malley, scelto da Francesco per guidare la Pontificia Commissione per la tutela dei minori e uno dei cardinali membri del cosiddetto “C9”, il consiglio di porporati che aiuta il Papa nella riforma della Chiesa. In una nota pubblicata sul sito dell’arcidiocesi di Boston, dove nel 2002 scoppiò l’enorme scandalo degli abusi sessuali sui minori, O’Malley spiega che le frasi di Francesco “trasmettono il messaggio che se non puoi provare le tue affermazioni, allora non sarai creduto e che suonano come un abbandono di coloro che hanno subito violazioni riprovevoli della loro dignità umana, relegando i sopravvissuti a un esilio screditato”.
Il porporato, prendendo nettamente le distanze dalla posizione di Bergoglio, precisa, inoltre, che “non essendo stato coinvolto personalmente nei casi oggetto dell’intervista, non posso sapere perché il Santo Padre ha scelto le parole particolari che ha usato in quel momento. Quello che so, comunque, è che Papa Francesco riconosce pienamente gli eclatanti fallimenti della Chiesa e del clero che ha abusato dei bambini e l’impatto devastante che questi crimini hanno avuto sui sopravvissuti e sui loro cari. Accompagnando il Papa in numerosi incontri con i sopravvissuti come presidente dell’organismo per la tutela dei minori ho assistito alla sua pena nel conoscere la profondità e l’ampiezza delle ferite inflitte a coloro che sono stati abusati e che il processo di recupero può richiedere una vita intera. Le affermazioni del Papa sul fatto che non c’è posto nella vita della Chiesa per coloro che abusano dei bambini e che dobbiamo seguire una tolleranza zero per questi crimini sono autentiche e sono il suo impegno”.
Il cardinale ci tiene a sottolineare che la preoccupazione principale, però, è sempre rivolta alle vittime e ai loro familiari. “Non possiamo mai annullare la sofferenza che hanno vissuto o ritenere che il loro dolore sia completamente guarito. In alcuni casi dobbiamo accettare che anche i nostri sforzi per offrire assistenza possono essere una fonte di disagio per i sopravvissuti e che dobbiamo pregare quietamente per loro mentre provvediamo a fornire un supporto nell’adempimento dei nostri obblighi morali”. Il porporato, inoltre, ribadisce il suo impegno costante per la guarigione di tutti coloro che sono stati così danneggiati e per fare tutto ciò che è possibile per garantire la sicurezza dei bambini nella Chiesa in modo che questi crimini non accadano mai più”.
Fin dal suo arrivo in Cile il Papa ha chiesto perdono per gli abusi sessuali sui minori commessi da alcuni sacerdoti. “Non posso fare a meno – ha detto Francesco nel suo primo discorso nel Paese davanti alle massime autorità politiche – di esprimere il dolore e la vergogna, vergogna che sento davanti al danno irreparabile causato a bambini da parte di ministri della Chiesa. Desidero unirmi ai miei fratelli nell’episcopato, perché è giusto chiedere perdono e appoggiare con tutte le forze le vittime, mentre dobbiamo impegnarci perché ciò non si ripeta”. Parole accompagnate dal gesto, compiuto da Francesco, di incontrare nella Nunziatura Apostolica di Santiago del Cile un piccolo gruppo di vittime di abusi sessuali da parte di preti. Ma anche qui le polemiche non sono mancante perché, tra i presenti, non c’era nessuna vittima di padre Karadima.
Del resto sia prima, che durante, che subito dopo la visita del Papa in Cile, una numerosa delegazione di Osorno ha sfilato per le strade della capitale con cartelloni e striscioni che mostravano immagini di Karadima, oggi 87enne e ricoverato in ospedale, con le scritte: “Osorno soffre. Il vescovo Barros insabbiatore” oppure “Vescovo insabbiatore, non può essere pastore”. Nella vicenda è intervenuto anche il presidente della Camera dei Deputati cilena, Fidel Espinoza, che ha consegnato al Segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, una lettera per il Papa scritta dalla comunità cattolica di Osorno nella quale viene chiesta nuovamente la rimozione del vescovo.
Ad alimentare ulteriormente la rabbia dei manifestanti, guidati da tre vittime di Karadima, Juan Carlos Cruz, James Hamilton e José Andre’s Murillo, è stata la presenza di Barros a tutte le messe papali in Cile dove ha sempre concelebrato. Una vera e propria “provocazione”, secondo i suoi accusatori, come le dichiarazioni che ha fatto alla stampa affermando che il Papa era stato “molto affettuoso” nei suoi confronti e che gli aveva sempre detto “parole di sostegno”. Le stesse che Francesco ha poi pronunciato direttamente ai giornalisti cileni. Secondo le vittime degli abusi, senza la rimozione del vescovo di Osorno il mea culpa del Papa pronunciato davanti alle massime autorità politiche cilene resta solo “un gesto vuoto”. Evidentemente anche O’Malley la pensa come loro.

La Stampa 21.1.18
O’Malley: le parole del Papa su Barros fonte di “dolore” per le vittime di abusi
Il presidente della Pontificia Commissione per la Tutela dei minori commenta le dichiarazioni di Francesco sul vescovo di Osorno di cui i fedeli chiedono da anni la rimozione per aver insabbiato gli abusi di padre Karadima
di Salvatore Cernuzio


Città del Vaticano Non nascondono un certo rammarico le parole del cardinale Sean O’Malley, tra i porporati più vicini a Francesco, membro del C9 e presidente della Pontificia Commissione per la Tutela dei minori, riguardo alle recenti dichiarazioni del Papa sul “caso Barros”. Ovvero la polemica sul vescovo di Osorno i cui fedeli - sacerdoti e laici - chiedono la rimozione immediata da tre anni, esattamente dal giorno in cui Papa Francesco lo ha posto nel 2015 alla guida della diocesi cilena, accusandolo di aver insabbiato i crimini dell’abusatore seriale padre Fernando Karadima. Una polemica incendiaria che ha superato ormai i confini del Cile. 
«È comprensibile che le dichiarazioni di Papa Francesco siano state fonte di grande dolore per i sopravvissuti agli abusi sessuali da parte del clero», ha detto il porporato in una nota pubblicata sul sito dell’arcidiocesi di Boston. Due giorni fa, incalzato da alcuni giornalisti cileni che chiedevano conto del pastore di Osorno, “figlioccio” spirituale del carismatico Karadima, parroco della parrocchia de El Bosque e formatore di gran parte del clero cileno condannato dalla Santa Sede ad una vita di ritiro e preghiera, Bergoglio rispondeva: «Il giorno che avremo una prova contro il vescovo Barros, parlerò. Non c’è una sola prova d’accusa. Le altre sono tutte calunnie, chiaro?». 
Parole, secondo O’Malley, facilmente travisabili «che trasmettono il messaggio che “se non puoi provare le tue affermazioni, allora non sarai creduto”» e che suonano come «un abbandono» di «coloro che hanno subito violazioni riprovevoli della loro dignità umana, relegando i sopravvissuti ad un esilio screditato». 
Il cardinale, tuttavia, nella medesima nota precisa: «Non essendo stato coinvolto personalmente nei casi oggetto dell'intervista, non posso sapere perché il Santo Padre ha scelto le parole particolari che ha usato in quel momento. Quello che so, comunque, è che Papa Francesco riconosce pienamente gli eclatanti fallimenti della Chiesa e del clero che ha abusato dei bambini e l'impatto devastante che questi crimini hanno avuto sui sopravvissuti e sui loro cari». 
Accompagnando il Papa in numerosi incontri con i sopravvissuti come presidente dell’organismo per la tutela dei minori «ho assistito alla sua pena nel conoscere la profondità e l'ampiezza delle ferite inflitte a coloro che sono stati abusati e che il processo di recupero può richiedere una vita intera», spiega il cardinale O’Malley. «Le affermazioni del Papa sul fatto che non c'è posto nella vita della Chiesa per coloro che abusano dei bambini e che dobbiamo seguire una tolleranza zero per questi crimini sono autentiche e sono il suo impegno». 
La preoccupazione principale, però, è sempre rivolta alle vittime e ai loro familiari. «Non possiamo mai annullare la sofferenza che hanno vissuto o che il loro dolore sia completamente guarito», sottolinea l’arcivescovo di Boston. «In alcuni casi dobbiamo accettare che anche i nostri sforzi per offrire assistenza possono essere una fonte di disagio per i sopravvissuti e che dobbiamo pregare quietamente per loro mentre provvediamo a fornire un supporto nell’adempimento dei nostri obblighi morali». Il porporato ribadisce il suo impegno costante «per la guarigione di tutti coloro che sono stati così danneggiati» e per fare «tutto ciò che è possibile per garantire la sicurezza dei bambini nella Chiesa in modo che questi crimini non accadano mai più». 
La dichiarazione di O’Malley va a suggellare una settimana di critiche al vetriolo e manifestazioni di piazza contro il vescovo Juan Barros prima, durante e dopo la permanenza del Papa a Santiago. Un nutrito gruppo di Osorno, approfittando della visibilità internazionale data dalla visita papale, ha sfilato per le strade della capitale cilena con cartelloni e striscioni che mostravano immagini di Karadima (oggi 87enne e ricoverato in ospedale) nell'atto di benedire il vescovo con accanto frasi in spagnolo del tipo: «Osorno soffre. Il vescovo Barros insabbiatore» oppure «Vescovo insabbiatore, non può essere pastore».
Al Palazzo della Moneda, era intervenuto anche il presidente della Camera dei Deputati cilena, Fidel Espinoza, che ha fatto pervenire al Pontefice tramite il cardinale Parolin una lettera della comunità cattolica di Osorno in cui veniva richiesta - ancora una volta - la rimozione del presule. 
Ad alimentare poi la rabbia dei manifestanti, guidati da tre ex vittime di Karadima, Juan Carlos Cruz, James Hamilton e José Andre’s Murillo, divenuti negli anni un “simbolo” - come loro stessi si definiscono - della denuncia degli abusi del clero cileno, la presenza di Barros a tutte le messe papali. In prima fila o nelle tribune riservate ai vescovi. Una chiara «provocazione», a detta degli accusatori. Come provocatorie sono state le dichiarazioni rese da Barros - che ha sempre respinto ogni accusa - alla stampa locale sul fatto che il Papa era stato «molto affettuoso» nei suoi confronti e che gli aveva detto «parole di sostegno». Le stesse, probabilmente, che il Pontefice ha pronunciato poi ai giornalisti. 
La reazione delle vittime di Karadima - che già lamentavano di non essere state invitate dal Papa all'incontro privato nella nunziatura di Santiago - non si è fatta attendere: «Questi sono pazzi», ha commentato Cruz dal suo account Twitter, chiedendosi quali altre prove si debbano ancora fornire sulla complicità di Barros. «Come se avessi potuto farmi un selfie o scattare una foto mentre Karadima mi toccava nelle parti intime e abusava di me con Barros in piedi accanto a lui, vedendo tutto!». «Il vero scandalo nelle parole di Francesco sta nel fatto che sta dando del bugiardo alle vittime e non a chi ha abusato di loro», ha fatto eco il portavoce dell'associazione di laici di Osorno che chiedono l’allontanamento di Barros, Juan Carlos Claret. In questo modo, secondo le vittime, cioè senza alcun provvedimento nei confronti del vescovo ma anzi con una pubblica difesa, la richiesta di perdono espressa dal Papa nel suo primo discorso ufficiale in Cile rimane solo «un gesto vuoto».

Il Fatto 21.1.18
La difesa della razza è già cominciata
di Furio Colombo


Il problema esiste. È in corso una sistematica e bene organizzata sostituzione di popoli, in modo che, in alcuni Paesi a cominciare dall’Italia, i neri o arabi o comunque non cristiani, diventeranno maggioranza al posto dei bianchi. Prenderanno il sopravvento con le loro due armi letali, le masse di immigrati che continuano ad arrivare, e i figli che faranno, e con cui occuperanno tutti gli spazi, e si garantiranno tutti i privilegi. Per adesso vivono nei grandi alberghi, circondati da una folla di poveri del nostro Paese che invocano: “prima gli italiani”, ma a cui sono negati i privilegi di cui, come tutti sanno, godono i neri in Italia.
Non lasciatevi impressionare dal fatto che questa narrazione coincide con la più celebre e diffusa e creduta delle “fake news” da quando è stato identificato il grandioso meccanismo di imbroglio della comunicazione contemporanea. Questa storia della sostituzione dei popoli deve essere vera se ci sono giudici che sospettano di complicità Medici senza Frontiere e altre organizzazione volontarie attive senza sosta nel mondo per salvare chi sta per morire.
Noi, ingenuamente, credevamo che le Ong fossero dedite al salvataggio di naufraghi, specialmente donne e bambini. Quando i giudici hanno detto le cose come stanno (tutto si fa per un tornaconto), un risultato lo hanno raggiunto. Hanno stroncato le donazioni e le offerte con cui le organizzazioni volontarie si sostenevano per salvare i bambini di Aleppo, dello Yemen o del Mediterraneo. I sospetti sono che questa storia della sostituzione dei popoli, perseguita così ostinatamente nonostante le decine di migliaia di morti nel deserto o nel mare, deve essere molto remunerativa, un guadagno immenso in commercio di esseri umani, anche se è difficile crederlo, quando vedete come viene trattata la merce, abbandonata di notte, senza casa e senza cibo, e inseguita dai gendarmi nella neve ghiacciata se tenta di passare un confine francese o austriaco. O carbonizzati dal cavo elettrico sul tetto di un treno. Ma – insistono – frutta miliardi.
E infatti la sostituzione dei popoli è organizzata da miliardari ebrei come Soros. “Si richiede pertanto la massima allerta”, avverte il ministro dell’Interno italiano in una intervista al giornale tedesco Die Welt. E spiega: “I combattenti dello Stato islamico stanno ritornando in Nord Africa e in Europa. Quei combattenti cercano di mettersi in sicurezza anche attraverso la rotta dei migranti. Insomma è diventato possibile che i valorosi combattenti dell’Isis si imbarchino sui gommoni”. E non è un caso che intorno a questa “guida per sapere chi si imbarca e poi si fa salvare in mezzo al mare” si aggiunge la voce fatta girare con insistenza: “attenzione, più di un milione di profughi africani si stanno preparando per la traversata”. Questa è l’unica affermazione che, a occhio, sembra una minaccia troppo modesta. Se continua la siccità del Sahel, la fame assoluta del Centro Africa, la continua mattanza dei somali contro i somali, degli etiopici contro gli eritrei, di Boko Haram contro il Niger, tutta l’Africa tenterà di emigrare, e tutta l’Europa continuerà a credere di poter chiudere le frontiere. Ma un certo Fontana da Varese si è lasciato sfuggire la parola-guida del movimento di una nuova civiltà. Ha detto, dalla sua piccola città ridente, ciò che dobbiamo fare contro la fame, la guerra, il terrorismo, le stragi, le deportazioni, le detenzioni, e la grandi quantità di armi che (specialmente l’Italia) noi europei siamo sempre in grado di fornire. Dobbiamo dedicarci alla difesa della razza. È stato preciso: “la razza bianca”.
Per la difesa della razza noi piazzeremo 470 soldati italiani nell’immenso spazio fra Niger, Mali, Nigeria, Ciad con la missione impossibile di pattugliare un vastissimo pezzo di Africa nel caso qualcuno volesse attraversare il deserto. Per la difesa della razza noi abbiamo deciso che non esiste il diritto degli esseri umani di migrare. Noi (non è chiaro chi siano i “noi”) diciamo no per evitare il rischio (che è anche un oscuro complotto) della sostituzione di popoli. Per la difesa della razza noi stipuliamo trattati (affari) con i peggiori governi africani (dal Niger al Magreb), purché costruiscano prigioni. Per la difesa della razza noi renderemo il deserto chiuso e il mare vietato. Per la difesa della razza noi faremo in modo, con politica, servizi e trattati, che la Libia rimanga sanguinosa, divisa, pattugliata da molte tribù diverse, ciascuna col suo compenso a seconda dei servizi richiesti, purché catturino i migranti. Per la difesa della razza noi siamo pronti a far finta che la frase di Fontana da Varese sia una goffaggine ingenua e non una dichiarazione fascista, e per non fare troppo storie su una parola detta per pura sbadatamente, accettiamo di essere giudicati come un Paese che non conosce il suo passato. Non ha mai vissuto la Resistenza. Non sa nulla della Shoah.

Il Fatto 21.1.12
Compito per gli studenti: scovare il fascismo di oggi
di Antonio Padellaro


“Eravamo partiti in 605 e tornati in 22, era l’agosto del ’45, compivo 15 anni. Mi aggiravo in una Milano di indifferenti. Incontravo le mie ex compagne di classe che si stupivano, mi chiedevano: “Ma come mai? A un certo punto sei sparita, non ti abbiamo visto più…”.
Liliana Segre (Neo senatrice a vita della Repubblica racconta il suo ritorno da Auschwitz)

Se potessi dare un consiglio agli insegnanti – nel caso in questi giorni volessero rievocare gli 80 anni dalla promulgazione delle leggi razziali – direi loro di procurarsi un libretto di veloce lettura dal titolo: “Il Fascismo Eterno”. E di commentarne alcuni passaggi (o tutte le 51 pagine, meglio ancora) in classe. Si tratta del testo che il 25 aprile 1995 Umberto Eco pronunciò alla Columbia Univeristy per celebrare la liberazione dell’Europa. È possibile che davanti al termine “Fascismo” gli studenti possano sbadigliare o distrarsi, come accade quando celebrazioni di questo genere appaiono come un rito imposto, ripetitivo, una fredda litania su cose di un passato lontano e polveroso. Oppure potrebbero incuriosirsi dato che di fascismo ne sentono parlare in giro, senza contare che alcuni di essi si considerano fascisti, magari perché fa figo ma spesso non sanno cos’è. In entrambi i casi il mio suggerimento è di tralasciare, per un momento, l’analisi sulle responsabilità storiche del fascismo, di “quel” fascismo creato da Benito Mussolini, per soffermarsi sulle nuove “forme” che “il fascismo eterno” va assumendo “ogni giorno, in ogni parte del mondo”. Che Eco ci aiuta a smascherare. Infatti, leggiamo, “dietro un regime e la sua ideologia c’è sempre un modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni”. Insomma, è chiaro che essere fascisti oggi non significa tanto fare il saluto romano o tenere il busto del Duce sul comodino, simboli di una sottocultura nostalgica e tutto sommato marginale. Il fascismo eterno, ci spiega Eco, è soprattutto “un collage di diverse idee politiche e filosofiche, un alveare di contraddizioni”. Dove troviamo, per esempio, il culto della tradizione, il rifiuto del modernismo, l’irrazionalismo, l’appello alle classi medie frustrate, l’ossessione del complotto, il sospetto verso la cultura, la guerra alle “élites”, la xenofobia e il razzismo (mai dichiarati ma praticati), ma soprattutto l’indifferenza diffusa per le vittime dell’“idea” quando si materializza nelle forme più malvagie (come ci racconta Liliana Segre). Dice Eco che “l’Ur-Fascismo è ancora intorno a noi, talvolta in abiti civili”. Se fosse possibile sarebbe istruttivo proporre agli studenti un’esercitazione del tipo: il fascismo eterno e l’attuale campagna elettorale, scoprite dove si nasconde.

La Stampa 21.1.18
Dalle vittime una scossa all’America
di Maurizio Molinari


Chiunque sbarchi in una qualsiasi città d’America in questo inizio di 2018 si trova immerso in una rivoluzione dei costumi che riguarda i diritti civili di tutti i cittadini: la battaglia delle donne per far cessare gli abusi, di ogni tipo, nei loro confronti. È un’atmosfera che si respira ovunque: nei tribunali dove fioccano le denunce contro i molestatori, sui media dove dilagano le testimonianze più dettagliate, nelle cene fra amici dove si discute di vittime e colpevoli, dentro le aziende che studiano regolamenti più rigidi ed anche nelle sale cinematografiche dove Meryl Streep in «The Post» strappa applausi e lacrime come modello di leadership femminile per guidare l’America nella giusta direzione. La sensazione, forte e condivisa, è che la battaglia delle donne - iniziata contro gli abusi ma di impatto assai maggiore - possa contribuire a rendere l’America un posto migliore.
È un clima che ricorda il 2012 quando le associazioni pro-diritti gay diedero inizio all’offensiva in favore della legalizzazione delle unioni civili, in pochi nel mondo gli prestarono attenzione ma tre anni dopo vinsero, davanti alla Corte Suprema di Washington, perché il pubblico americano aveva compreso che era l’occasione per rafforzare i diritti civili, che appartengono a tutti e non solo ai gay.
Adesso, in maniera analoga, gli americani di estrazione più diversa condividono il disprezzo per gli abusi sessuali nei confronti delle donne commessi non solo dal produttore Harvey Weinstein ma da una moltitudine di registi, attori, giornalisti, ceo, atleti, dirigenti, dipendenti e liberi professionisti delle discipline più disparate. È un processo di liberazione collettiva da chi nuoce alla società che evoca la cultura protestante, il comunitarismo, la spinta a migliorarsi in continuazione. Dove gli avversari da battere non sono gli uomini come categoria ma solo quei singoli che danneggiando il prossimo e indeboliscono i diritti di tutti. Quando una donna racconta ciò che ha subito, la sua denuncia diventa all’istante patrimonio collettivo e il colpevole corre a scusarsi, dimettersi. E’ successo a Ottumwa, Iowa, dove Armando Leyva ha ammesso abusi su cinque donne, ed a Lasing, Texas, dove le testimonianze di 88 donne hanno consentito di imprigionare il medico Larry Nassar. Certo, vi sono i casi di denunce errate, sgambetti, vendette e bugie che portano a smascherare le presunte vittime ma ciò non toglie che il consenso trasversale - liberal e conservatori, metropoli ed entroterra, giovani ed anziani - è massiccio nel mettere all’indice comportamenti che obbligano, con la forza o il ricatto, singole donne a compromessi sessuali per avere vantaggi lavorativi, sociali, personali.
Nella terra dove nel 1911 l’incendio dell’Asch Building di Manhattan svelò lo sfruttamento del lavoro femminile - le vittime furono 146 - dove nel 1955 a Montgomery in Alabama la giovane afroamericana Rosa Parks divenne il simbolo della lotta alla segregazione e dove ancora oggi per passare l’esame che consente di diventare cittadini bisogna sapere chi è Susan Anthony, paladina nell’Ottocento delle battaglie delle suffragette anti-schiavitù, oggi le donne sono tornate a guidare il fronte dei diritti civili parlando di loro stesse ma a nome di tutti. Perché quando Ashley Judd decide di «rompere il silenzio» e raccontare gli abusi subiti da Weinstein lo fa non per vendetta ma per «rendere l’America un posto migliore» così come Selma Blair descrive l’umiliazione subita dal regista James Toback come una «violenza che ha colpito me e riguarda tutti». E Ophra Winfrey annuncia che il «tempo è scaduto» per i sei bianchi responsabili dello stupro di Recy Taylor, avvenuto ad Abbeville in Alabama nel 1944, perché «giustizia deve essere fatta» nell’interesse collettivo, per permettere all’Unione di essere più forte come auspicavano i Padri Fondatori. A rendere questa esigenza condivisa sono i numeri: secondo un’indagine del «Washington Post» almeno un terzo delle donne americane ha subito episodi di violenza domestica e, aggiunge uno studio del «New York Times», almeno una su cinque è stata sessualmente aggredita. A Wichita, Kansas, come a Philadelphia, Pennsylvania, è diffusa la convinzione che punire tali abusi e violenze riguardi tutti, sia nell’interesse della nazione. È il nuovo fronte, inatteso e dirompente, dell’American Dream. E non ha un colore politico ma miriadi di ramificazioni: dalla denuncia degli abusi subiti da gay e uomini - anche da parte di donne - all’aumento dei regolamenti aziendali che limitano la coesistenza sul posto di lavoro di dipendenti legati da relazioni sentimentali. Insomma, è l’America che, una volta ancora, si ricostruisce e ridiscute, dall’interno, attraverso conflitti aspri, processi e condanne, vincitori e sconfitti.
Da qui l’interrogativo su quando e come questa nuova rivoluzione dei costumi sbarcherà in Europa. La stessa Europa che ha vissuto in maniera superficiale la svolta post-razziale dell’elezione di Barack Obama nel 2008 e si è poi sorpresa della svolta sulle unioni gay del 2015, rischia ora di accumulare ulteriore ritardo su questo nuovo fronte dell’estensione dei diritti individuali, considerando il caso Weinstein una vicenda ristretta al mondo delle star. Per evitare che ciò accada l’Europa, a cominciare dalla nostra Italia, ha bisogno del coraggio delle proprie donne nel farsi avanti e denunciare ciò che hanno subito. Nei posti di lavoro come nei focolai domestici. Ciò che l’America ci insegna oggi non è infatti diverso da quanto descrisse Alexis de Tocqueville: è la responsabilità dei singoli che consente di migliorare una nazione.

Il Fatto 21.1.18
La Bonino s’apparenta col Pd: “Contro chi vuole distruggere l’Europa”


Alla finecoalizione fu, anche tra i Pd e +Europa, la lista di Emma Bonino. Dopo settimane di polemiche, la stessa Bonino ha annunciato l’accordo coi dem: “Abbiamo scelto l’apparentamento della nostra lista con quella del Pd perché abbiamo messo al centro la valorizzazione dell’agenda europeista” e per “impedire la vittoria di chi non vuole l’Europa”. La lista +Europa si aggiunge dunque alla coalizione di centrosinistra, che comprende anche, oltre al Pd, Civica Popolare e Insieme. “Potevamo fare anche un corsa solitaria e ce lo hanno consigliato in molti – ha detto ieri Emma Bonino – la tentazione è stata forte, ma abbiamo ben chiaro che gli avversari da battere sono innanzitutto i nazionalisti antieuropei, quelli che parlano di difesa della razza bianca, che danno messaggi xenofobi”.
A inizio anno era stata proprio Emma Bonino ad annunciare la momentanea rottura con i dem, rèi di non aver fatto nulla per facilitare la raccolta firme della lista +Europa. Un caso che stava per estromettere gli ex Radicali dalle elezioni, prima del soccorso di Bruno Tabacci, che ha messo a disposizione il simbolo del suo Centro Democratico a Bonino e soci. Adesso l’intesa, proprio nel giorno in cui i sondaggi indicano Emma Bonino tra i leader con più alto indice di gradimento: “È un riconoscimento non tanto alla mia persona quanto alla mia storia – ha detto – magari amatemi di meno, ma votatemi di più”

Repubblica 21.1.18
“Forse è tardi, ma se prevale lo stile del governo si può recuperare”
di Monica Rubino


ROMA «Se il Pd scende sotto la soglia del 25% nel proporzionale, il centrosinistra in Italia è morto.
Peggio che i socialisti in Francia». Con questo fosco pronostico Massimo Cacciari, filosofo ed ex sindaco di Venezia, commenta le preoccupanti previsioni sul risultato nei collegi su cui sta lavorando in questi giorni il partito di Matteo Renzi.
Professore, dai sondaggi interni risulta che il Pd potrebbe fermarsi a 28 collegi su 232. Come si è arrivati a questo?
«È una vecchia storia, il problema viene da lontano. Io sono fra quelli che, più di dieci anni fa, consigliai a quel partito che stava per nascere di darsi un assetto veramente federalistico, con effettiva autonomia territoriale.
Ma questo consiglio non è stato seguito. Il Pd non è mai nato e la convivenza coatta ha portato alla rottura, avvenuta proprio nel momento peggiore».
La situazione sembra grave nel Nord che lei ben conosce.
Che cosa è mancato?
«Il Pd non ha sentito l’esigenza di creare una classe dirigente radicata nelle regioni settentrionali. Ha qualche speranza in Friuli Venezia Giulia e forse in Piemonte e Liguria. Ma in Lombardia e Veneto, dove vivono 15 milioni di cittadini, non toccherà palla, questo è certo».
Anche al Sud però le cose non vanno meglio. Persino in Campania, governata dal centrosinistra, il Pd rischia di non vincere nemmeno in un collegio. Come mai?
«Ma è ovvio, in Campania c’è De Luca, esempio vivente di una classe politica che non è all’altezza. Al punto tale da indurre Renzi a ricorrere ai ministri per fare campagna elettorale. Schierare Gentiloni, Padoan, Delrio e Calenda in fondo è una scelta saggia, sono gli unici nomi spendibili».
Al Nord i pochi collegi “contendibili” sono Milano, Torino e Venezia centro. Si riconferma la debolezza del Pd nelle periferie?
«Sì, non è una novità, una tendenza già vista ma che si è aggravata negli anni. E il Pd non ha fatto nulla per capirla, figuriamoci per contrastarla.
Rischiamo di consegnare il Paese o all’avventura pura, ovvero ai Cinquestelle, o a Salvini, perché non penso che Berlusconi possa garantire chissà quali prospettive».
Pensa che il Rosatellum si sia trasformato in un boomerang per il Partito democratico?
«Questa legge elettorale è una follia. Continuo a chiedermi come sia stato possibile che Renzi non abbia capito che era così negativa per il suo partito. Mi viene da pensare quasi che sotto ci sia stato un complotto».
Forse il piano era di fare le larghe intese fin dall’inizio?
«Impossibile, avrebbero dovuto optare per un proporzionale puro, come in Germania. Solo Mattarella, se all’indomani del voto non ci dovesse essere nessun vincitore, potrebbe obbligare le varie forze a fare un governo del presidente, come indica indirettamente anche D’Alema».
Il Mattarellum favoriva di più il voto a sinistra?
«Nel 1996 Prodi andò al governo con l’Ulivo perché all’epoca il centrosinistra aveva una rappresentatività locale più forte e quindi i collegi, che nel Mattarellum erano di più, favorivano questo meccanismo.
Per questo vent’anni fa si parlava di Ulivo federale. Ma ha prevalso il centralismo romano. E abbiamo perso le forze locali, che costituivano un importante valore aggiunto rispetto al centrodestra».
Di fronte alla prospettiva di una débacle, l’unica speranza per il Pd è puntare sul voto utile?
«Adesso non si può fare altro che provare a salvare il soldato Renzi.
Ultimamente il Pd sta dimostrando uno straccio di responsabilità e di comprensione. Ma ha fatto troppi errori negli ultimi tre anni - dal referendum alla legge elettorale - e temo sia troppo tardi».
In questa campagna elettorale i vari leader politici fanno a gara nel promettere l’impossibile. Secondo lei se qualcuno dicesse la verità, vincerebbe le elezioni?
«È il consiglio che ho dato al Pd. A questo punto un discorso realistico, misurato, sullo stile di Gentiloni, forse potrebbe fare la differenza rispetto ai messaggi sconclusionati degli altri competitori politici».

il manifesto 21.1.18
L’allarme dell’Onu: donne discriminate sugli stipendi
Gap salariale. Pagate il 23 per cento in meno nel mondo e in tutti i settori e paesi. In 93 dei quali hanno livelli di istruzione uguali o superiori agli uomini. Il caso Italia, in fondo alla lista per numero di occupate
di Rachele Gonnelli


«Il più grande furto della storia», così lo ha definito la consigliera di Un Woman, l’ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere, Anuradha Seth. Un’opera di banditismo quotidiano, dunque, volendo mantenere la cornice da epopea del West. In realtà ciò che la studiosa voleva mettere in luce in una intervista all’agenzia di stampa spagnola Efe era la grande sottrazione di ricchezza dalle tasche delle donne in rapporto a quanto viene pagato uno stesso lavoro ai colleghi di sesso maschile. Le donne guadagnano in media il 23 per cento in meno, un dato che non conosce frontiere, settori, età o qualifiche. Per ogni dollaro guadagnato, a una donna vanno in tasca solo 77 centesimi.
«NON ESISTE un solo paese, un solo settore, in cui le donne guadagnino gli stessi stipendi degli uomini», ricorda Seth. Si tratta di un dato macro e non è neppure il peggiore. Sempre guardando il mondo con una visione grandangolare la paga media delle donne è 12 mila dollari, quella degli uomini 21 mila, quasi il doppio. E questo divario, nel 2017, per la prima volta negli ultimi dieci anni si è approfondito, anzichè accorciarsi anche solo di un pochino.
C’È UN SOLO PAESE dove la parità salariale è sancita per legge: l’Islanda. E la legge è molto recente, è entrata in vigore dal 1° gennaio. Stabilisce che tutte le aziende con più di 25 dipendenti dovranno ottenere un certificato dal governo di Reykjavik che attesti la loro aderenza ai nuovi criteri di gender equality. Il Paese dei geyser era già il più virtuoso della lista dei 144 paesi monitorati dalle organizzazioni internazionali per quanto riguarda il gender pay gap e più in generale le disparità di trattamento tra uomini e donne. Adesso è il primo che ha recepito in una normativa gli obiettivi Onu e intende anticipare la completa parità lavorativa entro il 2022. L’Onu spera che altri paesi facciano altrettanto, considerando che due terzi dei più sviluppati, membri dell’Ocse, hanno avviato politiche per ridurre la disparità salariale di genere a partire dal 2015. Ma i più grandi progressi in questo campo vengono da luoghi come il Costa Rica (dove il gap si è ridotto al 5%, come in Lussemburgo), il Mozambico, l’Argentina di qualche anno fa. In Germania il divario è calcolato al 15,7 %, nel Regno Unito al 17,1 %, in Giappone è il 25%, negli Usa il 18%. In fondo alla classifica c’è lo Yemen, in compagnia di Ciad, Mali, Arabia saudita e Marocco. Di questo passo servirebbero, si calcola, 70 anni per raggiungere la parità.
IL CASO ITALIA come al solito è sui generis (cfr intervista sotto) perché il dato sui salari vedrebbe il Belpaese attestarsi nel rapporto del World economic forum come primo della classe nell’Unione europea, ma si tratta solo di una allucinazione statistica. La verità è che l’Italia nel 2017 è scivolata all’82° posto per gender gap, una botta di 22 posizioni in un solo anno ma ancora più grossa se si considera che nel 2015 era iscritta nella 41° casella. E questo soprattutto a causa della rarefazione delle figure femminili nel panorama politico e parlamentare, tanto per ricordarselo in campagna elettorale.
QUANTO AI MOTIVI per cui si produce una così grossa diversità di trattamento economico tra uomini e donne, non esiste una spiegazione unica e semplice. Più fattori concorrono. Tra quelli che vengono chiamati in causa dalle ricerche dell’Undp, il dipartimento per lo sviluppo delle Nazioni unite, si menzionano anche la sottovalutazione del lavoro femminile o gli stereotipi veicolati con la pubblicità ma il motivo principe è la minore partecipazione delle donne al mondo del lavoro (l’Italia è fanalino di coda nella Ue insieme alla Grecia e considera «un record» nazionale aver raggiunto il 48,9% di popolazione femminile in età lavorativa occupata quando la media europea raggiunge il 62,5%).
Secondo Annamaria Furlan, segretaria generale Cisl – con Camusso e Redavid della Fiom una delle tre donne alla guida di grandi sindacati italiani – la ricetta per aumentare l’occupazione femminile sarebbe aumentare il welfare aziendale e i contratti di part time volontario per conciliare tempo di lavoro e di cura. Lo Stato, evidentemente, non è pervenuto.

il manifesto 21.1.18
Chiara Saraceno: «Non si fa spazio alle donne, crescono le diseguaglianze tra di noi»
Intervista. Parla la sociologa, autrice tra l'altro de "L'equivoco della famiglia": "Il rischio è di riprodurre le stesse dinamiche che si vedono tra uomini e donne"
intervista di Rachele Gonnelli


Il divario salariale di genere è una articolazione del più generale indice chiamato global gender gap, monitorato anche dall’Onu che nei goals, gli obiettivi mondiali per il 2030 vorrebbe portarlo a zero, realizzando la parità tra i sessi quanto a condizioni materiali e quindi di accesso ad attività e servizi. E proprio l’anno appena trascorso, il 2017, nell’ultimo rapporto del World economic Forum, ha segnato a livello globale un’inversione di marcia dopo un decennio di lievi miglioramenti.
Le donne, professoressa Saraceno, stanno arretrando dalle più recenti conquiste, incluso la parità di salario a parità di lavoro?
Non sono sicura che si possa parlare di arretramento tout court, vedo più una realtà a macchia di leopardo. L’occupazione femminile, secondo i dati Ocse, resta più concentrata nei lavori precari, a bassa qualifica e quindi poco pagati. Ho però l’impressione che stia soprattutto aumentando una disuguaglianza tra donne. L’arretramento è dovuto al fatto che l’aumento dell’occupazione avviene in un contesto di polarizzazione delle condizioni delle donne, perciò c’è chi si avvicina alla situazione degli uomini mentre il grosso si allontana. Una disuguaglianza che non è solo generazionale ma anche tra le lavoratrici skilled, dell’economia della conoscenza, e quelle a bassa specializzazione, addette a mansioni domestiche, ad esempio. Con il rischio di riprodurre le stesse dinamiche che si vedono tra uomini e donne.
Si indica come problema cardine quello del soffitto di vetro, la carenza di figure femminili guida, la cooptazione solo maschile nei ruolo importanti.
Non è solo il tetto di cristallo, è che si è schiacciate in basso, il percorso verso l’alto è interrotto o deviato, non si fa posto alle donne anche quando sono professionalizzate. Come dice la legge sulle quote nei Cda il problema non è solo il tappo ma come si costruisce il bacino da cui attingere. Perché tuttora spesso alle donne non viene riconosciuta la sufficiente autorevolezza per i ruoli decisionali apicali, anche se hanno curriculum adeguati raramente entrano nella stanza dei bottoni. Sono più facilmente presidenti che Ceo.
Il rapporto dell’Onu dice però che l’Italia è il paese Ue con una differenza salariale di genere più bassa.
È una verità solo apparente. Le statistiche prendono in esame tutti gli uomini e tutte le donne e in questo modo il nostro sembra un paese virtuoso. Ma non è così perché mentre in Danimarca, Svezia o Finlandia non esiste una selezione o autoselezione delle donne che accedono al mondo del lavoro, da noi visto il basso tasso di occupazione femminile le occupate sono prevalentemente quelle più istruite e le più istruite sono quelle che anche quando si fanno una famiglia e fanno figli meno frequentemente escono dal mercato del lavoro. Se si guardasse solo gli uomini e le donne con qualifiche medio alte saremmo in un punto molto meno in alto della classifica europea delle disparità salariali.
Perché le donne italiane non accedono al mercato del lavoro: perché non hanno la formazione giusta, perché si autoescludono dalla competizione o semplicemente perché mancano asili e welfare che consentano loro di allontanarsi da casa?
Nelle generazioni in età lavorativa non c’è più un gap di istruzione come nella mia generazione pre-anni Settanta. In Italia come negli altri Paesi sono più istruite in genere quanto almeno ad anni passati dietro ai banchi ma da noi resta un alto grado di segregazione formativa per cui prevale una scelta nei corsi di laurea meno spendibili nel mercato del lavoro, in discipline umanistiche piuttosto che scientifico-tecnologiche. Quanto al welfare le donne del Nord non vivono nello stesso paese di quelle del Mezzogiorno, dove non solo ci sono meno servizi ma anche il sostegno familiare delle nonne risulta più carente perché a più bassa istruzione e povertà corrisponde meno autosufficienza delle anziane.
E la scelta delle studentesse da cosa è condizionata?
Da modelli di genere che restano molto cristallizzati. Anche nella politica italiana sono pochissime e nel giornalismo appena il 27%. Nella carta stampata ad avere direttori donne credo ci siate rimasti solo voi del manifesto.

Repubblica 21.1.18
Lo studio interno sui sondaggi
Allarme Pd sul voto nei collegi sicuri solo 28, disfatta nel Sud
Rischio zero seggi nell’uninominale in molte regioni, male anche il Nord. Tiene la Toscana, speranze a Roma e Milano. Gentiloni: corro nella Capitale. A Bologna Leu pensa a Errani contro Casini
di Tommaso Ciriaco


Roma Roccaforti isolate. Quasi ammalate di solitudine, per il vuoto che hanno intorno. Su 232 collegi, il Nazareno può mettere la mano sul fuoco soltanto su 28. E spera in altri 14. Quasi tutti lungo la dorsale appenninica, con uno spruzzo di rosso nel cuore delle grandi città. Nel resto del Nord, poco o nulla. In province e periferie, lo stesso. Al Sud, il deserto. La fotografia di questo affanno è tutta negli appunti che passano di mano tra i big renziani. E di cui si discute in queste ore nel partito. Un elenco riservato dei seggi uninominali della Camera su cui Luca Lotti lavora notte e giorno, partendo dall’ipotesi di un centrosinistra tra il 26 e il 27%. L’obiettivo resta salvare il salvabile, che è parente stretto del “ si salvi chi può”. Come? Schierando i ministri. Sognando la “remuntada”.
Una premessa: i collegi di Montecitorio sono 232, per i restanti 386 c’è il proporzionale. Ecco il primo scoglio: i dem hanno una distribuzione del consenso abbastanza equilibrata sul territorio. Per questo raccolgono parecchi seggi nel proporzionale, ma soffrono nell’uninominale: lì serve un voto in più per vincere e sono decisivi i picchi del centrodestra al Nord e dei grillini nel Centrosud. Che fare, allora? Si punta sui ministri. Che magari non serviranno a strappare molti collegi, ma aumenteranno comunque il bottino di voti utili nel proporzionale. Ma quali sono le ridotte che al Nazareno pensano di poter davvero conquistare?
È bene partire dalla Toscana, culla del renzismo. Sulla carta si vince in 10 collegi su 14. Blindato sembra il Pd fiorentino, come quello di Empoli e Siena. Dove rischia davvero? A Massa Carrara, Lucca, Grosseto. E nella terra di Maria Elena Boschi: Arezzo. Con un’incognita: la performance di Liberi e Uguali. L’altro motore delle speranze del segretario è l’Emilia Romagna. Lì i collegi sono 17, il Pd sente in tasca almeno 11 scranni. Ma a differenza di un tempo non si può stare tranquilli neanche nel collegio di Bologna, quello scelto dai democratici per far eleggere l’alleato Pier Ferdinando Casini. La ragione? Vasco Errani sta valutando di correre proprio lì, per affossare il diccì. Persa, poi, è Piacenza, patria del neo avversario Pierluigi Bersani. Altissime probabilità di sconfitta si registrano a Fidenza, alte in alcune aree costiere romagnole come Cesena e Rimini. E non mancano i timori anche per Forlì e Cento. Quest’ultimo collegio raccoglie molti comuni del cratere sismico ed è catalogato come imprevedibile. In vantaggio, ma comunque da monitorare l’uninominale di Parma città, dove regna l’ex grillino Pizzarotti. La terza regione che blinda le aspirazioni dei dem è il Trentino Alto Adige. Sei collegi, quattro certi e due altamente probabili, grazie all’accordo con la Svp. L’ultima nota positiva arriva dall’Umbria: se l’uninominale di Perugia è dato per perso, si guarda con ottimismo a Terni e Foligno.
Poi la mappa si riempie di vuoti. E la speranza si riduce all’aria di città. Sono i collegi con un vantaggio ridotto, spesso legati al voto d’opinione delle aree urbane. In Lombardia occhi puntati su 3 dei 4 collegi di Milano città: sono l’1, il 2 e il 3. Al massimo, anche su Sesto San Giovanni, che però da tempo non è più la Stalingrado d’Italia. Quattro speranze su 35 collegi. Stessa musica in Piemonte: su 17 uninominali per la Camera, la sfida è aperta a Torino centro e nella storica roccaforte rossa di Collegno.
Sempre e solo città. Come nel Lazio, dove solo Roma può dirsi contendibile. Se va di lusso, dicono le proiezioni del Nazareno, i dem conquisterano un paio di scalpi: Roma centro, dove corre Paolo Gentiloni, che ha resistito anche al 70% di Virginia Raggi alle Comunali, e forse Trionfale. Un briciolo meglio di altre tre ipotesi di lavoro: Torre Angela, Tuscolana e Ardeatino. Poi arrivano davvero le dolenti note. La speranza di vincere almeno nel collegio di Genova città, in tutta la Liguria. Il deserto Veneto, se si esclude Venezia città. E ancora, zero (su 13) in Puglia, dove pesa la concorrenza di D’Alema. Zero su venti in Sicilia. Zero in Abruzzo e in Molise. Zero in Friuli Venezia Giulia. Zero, a meno di miracoli, nelle Marche, dove volano i grillini.
Il Sud, poi, colma il Pd di amarezza. In Sicilia la partita è persa in partenza. In Sardegna lo stesso, anche se qualcuno guarda a Sassari. E anche una Regione chiave come la Campania promette dolori: in vantaggio soltanto il seggio di Avellino, qualche chance a Napoli centro e a Salerno città, dove però il figlio di Vincenzo De Luca nel dubbio sceglie il proporzionale. In Calabria rischia di non tenere neanche il collegio di Corigliano: zero probabile anche lì. Solo in Basilicata le cose vanno meglio. Matera pare persa, ma resta Potenza. A meno che non ci pensi Liberi e Uguali a sgambettare anche lì i dem.

Repubblica 21.1.18
Cacciari
“Forse è tardi, ma se prevale lo stile del governo si può recuperare”
di Monica Rubino


ROMA «Se il Pd scende sotto la soglia del 25% nel proporzionale, il centrosinistra in Italia è morto.
Peggio che i socialisti in Francia». Con questo fosco pronostico Massimo Cacciari, filosofo ed ex sindaco di Venezia, commenta le preoccupanti previsioni sul risultato nei collegi su cui sta lavorando in questi giorni il partito di Matteo Renzi.
Professore, dai sondaggi interni risulta che il Pd potrebbe fermarsi a 28 collegi su 232. Come si è arrivati a questo?
«È una vecchia storia, il problema viene da lontano. Io sono fra quelli che, più di dieci anni fa, consigliai a quel partito che stava per nascere di darsi un assetto veramente federalistico, con effettiva autonomia territoriale.
Ma questo consiglio non è stato seguito. Il Pd non è mai nato e la convivenza coatta ha portato alla rottura, avvenuta proprio nel momento peggiore».
La situazione sembra grave nel Nord che lei ben conosce.
Che cosa è mancato?
«Il Pd non ha sentito l’esigenza di creare una classe dirigente radicata nelle regioni settentrionali. Ha qualche speranza in Friuli Venezia Giulia e forse in Piemonte e Liguria. Ma in Lombardia e Veneto, dove vivono 15 milioni di cittadini, non toccherà palla, questo è certo».
Anche al Sud però le cose non vanno meglio. Persino in Campania, governata dal centrosinistra, il Pd rischia di non vincere nemmeno in un collegio. Come mai?
«Ma è ovvio, in Campania c’è De Luca, esempio vivente di una classe politica che non è all’altezza. Al punto tale da indurre Renzi a ricorrere ai ministri per fare campagna elettorale. Schierare Gentiloni, Padoan, Delrio e Calenda in fondo è una scelta saggia, sono gli unici nomi spendibili».
Al Nord i pochi collegi “contendibili” sono Milano, Torino e Venezia centro. Si riconferma la debolezza del Pd nelle periferie?
«Sì, non è una novità, una tendenza già vista ma che si è aggravata negli anni. E il Pd non ha fatto nulla per capirla, figuriamoci per contrastarla.
Rischiamo di consegnare il Paese o all’avventura pura, ovvero ai Cinquestelle, o a Salvini, perché non penso che Berlusconi possa garantire chissà quali prospettive».
Pensa che il Rosatellum si sia trasformato in un boomerang per il Partito democratico?
«Questa legge elettorale è una follia. Continuo a chiedermi come sia stato possibile che Renzi non abbia capito che era così negativa per il suo partito. Mi viene da pensare quasi che sotto ci sia stato un complotto».
Forse il piano era di fare le larghe intese fin dall’inizio?
«Impossibile, avrebbero dovuto optare per un proporzionale puro, come in Germania. Solo Mattarella, se all’indomani del voto non ci dovesse essere nessun vincitore, potrebbe obbligare le varie forze a fare un governo del presidente, come indica indirettamente anche D’Alema».
Il Mattarellum favoriva di più il voto a sinistra?
«Nel 1996 Prodi andò al governo con l’Ulivo perché all’epoca il centrosinistra aveva una rappresentatività locale più forte e quindi i collegi, che nel Mattarellum erano di più, favorivano questo meccanismo.
Per questo vent’anni fa si parlava di Ulivo federale. Ma ha prevalso il centralismo romano. E abbiamo perso le forze locali, che costituivano un importante valore aggiunto rispetto al centrodestra».
Di fronte alla prospettiva di una débacle, l’unica speranza per il Pd è puntare sul voto utile?
«Adesso non si può fare altro che provare a salvare il soldato Renzi.
Ultimamente il Pd sta dimostrando uno straccio di responsabilità e di comprensione. Ma ha fatto troppi errori negli ultimi tre anni - dal referendum alla legge elettorale - e temo sia troppo tardi».
In questa campagna elettorale i vari leader politici fanno a gara nel promettere l’impossibile. Secondo lei se qualcuno dicesse la verità, vincerebbe le elezioni?
«È il consiglio che ho dato al Pd. A questo punto un discorso realistico, misurato, sullo stile di Gentiloni, forse potrebbe fare la differenza rispetto ai messaggi sconclusionati degli altri competitori politici».

il manifesto 21.1.18
Perché i Romani misero la malinconia sugli altari
Antropologia. Da Ippocrate a Ovidio, dalla melancholia all’atra bilis, il mal di vivere in Grecia e a Roma: un saggio di Donatella Puliga tra semantica, antropologia e psicologia


«Non c’è nulla di nuovo sotto il sole», dice il biblico Qohelet. Questo vale anche per quello che nell’epoca moderna – specialmente dopo il fortunato libro di Giuseppe Berto – siamo avvezzi a chiamare ‘il male oscuro’. Lo dimostra, in un intrigante saggio intitolato La depressione è una dea I Romani e il male oscuro (il Mulino «Antropologia del mondo antico», pp. 248, € 20,00), Donatella Puliga, classicista dell’Università di Siena. L’indagine si focalizza sulle manifestazioni del mal di vivere nell’antichità greca e, soprattutto, romana, ma la depressione è antica quanto l’uomo. Si sarebbe potuto citare a questo proposito il Papiro di Berlino 3024, in cui già sullo scorcio del terzo millennio prima della nostra èra un anonimo egiziano distillò in 156 impressionanti righe la sua cupa voglia di farla finita con una vita che gli appariva insopportabile. I greci, sulla scorta della dottrina di Ippocrate, collegarono la depressione a un eccesso di bile nera (melancholé) nell’organismo. Lo stato di avvilimento e scoramento che tale ‘umor nero’ causava era definito col termine melancholia, dal quale deriva la nostra ‘malinconia’, quella ‘ninfa gentile’ – così la chiamava Pindemonte – nelle cui braccia i romantici si gettarono con morbido compiacimento. Una scelta rilevante I romani, nel chiamare la bile nera atra bilis, fecero una scelta semantica rilevante: a differenza dell’anodino aggettivo niger, che attiene alla sola sfera cromatica, ater ha una connotazione negativa sul piano assiomatico, indica un’oscurità che è anche interiore. A questa virata lessicale si collega un ampliamento dello spettro sintomatico della depressione, che a Roma include l’ira, e il furor, ovvero tutto ciò che mette l’individuo in uno stato di patologica instabilità, che non lo fa più essere padrone di se stesso. Non sfuggiva peraltro agli antichi che a essere melancolici erano sovente i poeti e gli artisti. Un trattato della scuola aristotelica mette chiaramente in relazione melancolia e creatività, osservando che chi soffre di questo disturbo è soggetto a essere ‘posseduto’ da un agente esterno: la follia, ma anche l’ispirazione artistica, che spesso sono le due facce di una stessa medaglia. Un’idea, questa, che avrà lunga fortuna in età moderna, da Marsilio Ficino a Baudelaire, da Dürer a Van Gogh a Munch e oltre. Acuminate pagine Puliga dedica al mal di vivere in alcuni grandi della letteratura latina: Lucrezio, Cicerone, Orazio, Seneca, e specialmente Ovidio, il poeta che più e meglio di ogni altro seppe notomizzare, senza reticenze, anzi quasi con clinica precisione, la depressione in cui piombò negli anni del forzato esilio sulle lontane coste del Mar Nero. Egli si rendeva lucidamente conto del fatto che il suo malessere era psicofisico («la mia mente non sta meglio del mio corpo, l’una e l’altro sono malati e io sopporto una doppia infermità». L’angoscia (anxietas animi) che mai lo abbandonava (quae mihi sempre adest) e la ‘noia’ (taedium), ovvero il disgusto per la vita, lo portavano a coltivare il desiderio di morte (amor mortis), anzi a vedersi già come un morto che cammina. Nondimeno riuscì a dare una veste letteraria sofisticatissima (il capitolo che il saggio gli dedica si intitola, molto appropriatamente, l’arte di essere depresso) a questa sua fondamentalmente sincera autoanalisi, trovando proprio nella scrittura l’unico possibile sostegno terapeutico: «Se vivo, e resisto … devo ringraziare te, o musa. Tu mi dai sollievo … tu vieni a me come una medicina». Il contributo più originale del libro sta però nell’individuazione di una differenza semantica tra gli antichi e noi, che rivela una interessante differenza antropologica (Puliga è membro attivissimo del Centro Antropologia e Mondo Antico di Siena): noi associamo la depressione all’essere schiacciati verso il basso, come gravati da un peso (è questo il significato del verbo de-primere), mentre i romani la collegavano all’idea del ‘marcire’, dell’andare in putrefazione. Anche l’animus, la sede immateriale delle facoltà psichiche, poteva secondo i romani decomporsi al pari della materia organica. Ma la categoria del marcio era più ampia per loro che per noi: marcidus/murcidus comprendeva tutto ciò che è fiacco, languido, vacillante, torpido, obnubilato. La depressione era perciò vista come uno stato di spossatezza, di abbattimento, di progressivo venir meno delle forze vitali. Triangolo di Lévi-Strauss Molto opportunamente Puliga confronta la pregnante metafora del marcio a Roma con il noto ‘triangolo culinario’ di Lévi-Strauss – ai vertici del quale stanno il crudo, il cotto e il putrido –, osservando che se in quello schema il cotto è la trasformazione culturale del crudo e il putrido è la trasformazione naturale tanto del crudo che del cotto, a Roma la condizione di putrescenza non era estranea alla sfera culturale, dal momento che connotava «la deriva delle emozioni e dell’interiorità verso la dimensione della ‘morte nella vita’». La polisemia del marcere latino era ipostatizzata nella figura di Murcia, uno degli innumerevoli ‘piccoli dèi’ che nell’immaginario dei romani presiedevano ai molteplici aspetti dell’esistenza umana e sui quali Sant’Agostino – che ce li elenca – esercitò il suo sarcasmo. Murcia aveva il potere di infiacchire gli animi, rendendo l’individuo non reattivo, privo di iniziativa, di entusiasmo. Possiamo perciò dire – echeggiando il titolo del libro – che i romani misero la depressione sugli altari. Apparentato alla sfera del marcio era – spiega Puliga – un altro termine che i romani utilizzavano per definire il male oscuro: veternus. Collegato etimologicamente a vetus (vecchio), indica la degenerazione conseguente alla senescenza (il cui esito finale è appunto la putrescenza) e la fenomenologia psichica che l’accompagna (letargia, indolenza, apatia: qualcosa di simile all’akrasía dei greci), rendendo in qualche modo vecchi prima del tempo. È noto che in inglese e in altre lingue moderne, per alludere alla depressione si usa l’espressione idiomatica ‘cane nero’ (sorprenderà apprendere che l’applicava a se stesso anche Churchill, che conosciamo per uomo tutt’altro che abulico). Non tutti sanno però che l’attribuzione della metafora a Orazio, che si legge anche in autorevoli dizionari, è frutto di un curioso equivoco. Orazio – chiarisce Puliga – parla di una ‘compagna nera’ (comes atra) che perennemente affianca il malinconico, non di una cagna (canis) nera! Schiavi melanconici Benché a Roma gli schiavi fossero considerati alla stregua di cose (res), erano pur sempre esseri umani, e dunque accadeva anche a loro di cadere nella depressione (certo la loro condizione gliene dava più di un motivo). Scopriamo però con Puliga che un serio dibattito divise i giuristi romani sulla possibilità di chiedere indietro al venditore il prezzo pagato per un servus melancholicus. Le cose potevano avere un’anima sofferente? L’ultimo capitolo del libro (Murcia in convento) indaga quella particolare forma di depressione che rappresentava il lato oscuro della vita monastica: quell’inerzia eccessiva a cui portava la vita contemplativa diventerà il vizio capitale dell’accidia. Molti sono i fili con cui l’autrice ha tessuto la sua tela: se l’ordito è rappresentato dalla civiltà classica e dall’antropologia, la trama è data dalla psicologia, dalla psichiatria e anche dalla fisiologia. In tutti questi campi Donatella Puliga si muove con sicurezza e scioltezza: la sprezzatura della scrittura lascia comunque trasparire l’ingente lavoro di ricerca multidisciplinare di cui il saggio è apprezzabile frutto.

La Lettura del Corriere 21.1.18
Il primo giorno di scuola scoprii di avere un nemico che si chiamava America
Una scrittrice avverte l’avvento di Trump
Invece amiamo la libertà e sappiamo badare a noi stessi
di Zahra Abdi


In Iran non c’è un singolo individuo che non abbia un’opinione politica. Non meravigliatevene. Noi viviamo in quell’angolo del globo che non ci lascia scampo, da moltissimo tempo: siamo all’incrocio del Medio Oriente, una posizione che ci attribuisce la maggior parte dei venti di guerra, una posizione che tutto il mondo sembra averci imposto, come un dovere. Vi chiedete perché? Lasciate che porti ad esempio la mia vita — torniamo all’epoca in cui ero una bambina — e capirete come fa il mondo intero a interferire nella vita di una ragazzina dalla sua infanzia coprendo tutti i quarant’anni della sua esistenza. E ciò solo per una ragione: che questa ragazza è venuta al mondo in Medio Oriente. Se poi la ragazza in questione è pure una scrittrice, la faccenda diventa più profonda, più complessa. Vi dirò perché ciò è possibile.
Il mio incontro con la politica è avvenuto il primo giorno di scuola: il giorno in cui ogni scolaro, senza sapere perché, doveva gridare in cortile: «Morte all’America». Il solo pronunciare questo slogan dava l’ovvio avvio alla domanda: perché mai? E la risposta era: «Perché l’America è il nostro nemico». La seconda domanda riguardava il significato di «nemico»; e qui ciascuno dava la propria spiegazione, e le spiegazioni assumevano traiettorie diverse. È così che noi iraniani, ogni giorno, seguiamo le notizie politiche, col risultato di avere a volte più cognizione noi di quanto accade nel resto del mondo di quanto ne abbia il mondo intero!
Quand’è avvenuta la rivoluzione in Iran avevo tre, quattro anni. In parte, una parte importante, quella rivoluzione era stata condotta per liberare dall’ingerenza straniera il destino del nostro Paese. La nazione iraniana aveva combattuto contro uno scià ritenuto servile nei confronti dell’America. Ma le nostre vicende non s’erano concluse dopo la rivoluzione, anzi, erano peggiorate. Contemporaneamente alla rivoluzione, l’Iran si trovò nella morsa di una guerra non voluta, in cui il Paese dovette fronteggiare la maggioranza dei Paesi arabi capitanati dall’America. Dal 22 settembre 1980 al 20 agosto 1988, trascorsi otto anni della mia infanzia sotto i bombardamenti e nella morsa di tutte le privazioni che, come immaginate, una guerra comporta. Oltre alla guerra, il nostro Paese era pure stretto nella morsa delle sanzioni economiche. La guerra era apparentemente sul suolo iraniano, ma in realtà erano le grandi potenze, occidentali e orientali, che si combattevano; anche se eravamo noi a contare i morti e a subire le sanzioni. Durante la guerra le potenze deliberarono che la vittoria di uno dei due Stati, Iran o Iraq, avrebbe portato a uno squilibrio nell’area, per cui stabilirono che non dovesse vincere nessuno dei due. E lasciarono entrambi i Paesi con le loro ferite ancora più profonde.
Passarono gli anni; nel 1988 ero una ragazzina, la guerra era finita e si profilava un inizio di altre privazioni. La rivoluzione era stata un movimento antimperialista per la ricerca della liberà da parte di tutti i gruppi che avevano combattuto: gruppi di sinistra, gruppi nazionalisti, gruppi filo-islamisti e gruppi di donne. Ognuno di questi gruppi perseguiva i propri scopi, ma con la vittoria della rivoluzione, a poco a poco, i gruppi vennero stroncati e quello filo-islamista prevalse sugli altri requisendo la rivoluzione. Ebbene, questa storia si ripete in tutte le rivoluzioni, è una caratteristica delle rivoluzioni. Ed è naturale che tutti i gruppi che precedentemente avevano aiutato a far cadere lo scià criticassero il regime attuale. La società si ritrovò guidata da un’unica mano e da un’unica voce. Uno dei fattori che condussero a tale situazione, a un’altra forma di dittatura, furono le risorse del Paese e il nuovo imperialismo che unificarono le voci sotto la stretta della guerra e delle sanzioni. Qualsiasi persona che manifestasse una voce critica durante la guerra veniva tacciata di tradimento. Dopo la guerra e le sanzioni, la gente era stanca, economicamente debolissima. Siamo un Paese ricco, abbiamo il petrolio, ingenti giacimenti di risorse naturali, ma la gente se la passava male. Ora i nostri slogan riguardavano la pazienza e la ricostruzione postbellica, mentre discorsi e concetti come libertà e diritti delle donne dovettero essere rimandati.
Pensate che trent’anni dopo la fine di quella guerra non voluta la situazione degli iraniani sia migliorata? Devo rispondere no, intanto perché le sanzioni sono continuate. I Paesi potenti, in testa l’America, hanno bisogno di questo spauracchio, un mostro, per fronteggiare anche i loro cittadini; quale pretesto migliore dire che ogni dollaro va speso per combattere il mostro nemico? Questi mostri, nel passato, sono stati Cile, Messico, Vietnam, Corea. E così la nostra gente si trova a combattere su più fronti con niente in mano, contro la situazione interna e contro le sanzioni.
Sì, siamo un Paese ricco ma le nostre risorse sono nelle tasche del regime che le usa per mantenersi al potere. Più le sanzioni si inaspriscono più il regime vessa i cittadini che devono sopportarle. E le voci di dissenso vengono soffocate. Le iraniane sono un esempio vivente di lotta per i diritti d’uguaglianza nel mondo. Loro si battono tanto contro una situazione di ineguaglianza internazionale quanto contro l’oppressione interna del loro regime. Con l’avvento di Trump il regime iraniano ha un pretesto ancora più forte per opprimere i suoi cittadini; quanto più Trump minaccia nuove sanzioni, io annuncio a voce sempre più alta da parte dei miei connazionali, soprattutto da parte delle donne, che questo si ripercuote con una pressione maggiore sulle spalle degli iraniani e che la voce della libertà verrà sempre più soffocata.
Noi iraniani abbiamo dimostrato in passato, nel corso di cent’anni di libertà, che se siamo lasciati liberi sappiamo decidere il meglio per noi stessi. Lasciate che vi ricordi un grande movimento sociale che gli iraniani hanno messo in piedi sotto la guida del dottor Mosadeq per la nazionalizzazione del petrolio 80 anni fa: un movimento vanificato dall’ingerenza di americani e britannici che ci ha trascinati in una dittatura peggiore. Madeleine Albright e Barack Obama negli anni 2000 hanno ammesso che l’ingerenza Usa nel colpo di Stato nel 1953 ha inasprito la dittatura dello scià vanificando anni di lotte per cambiare la monarchia in senso costituzionale; dopo questo colpo di Stato americano ogni attività culturale e sociale è stata molto limitata, le voci di dissenso strangolate. Ora l’America, con grande sfacciataggine, ha pubblicato i documenti di quest’ingerenza col titolo Operazione Aiax . Il mio romanzo A Tehran le lumache fanno rumore è la trasposizione romanzata della lotta che gli iraniani conducono nel periodo delle sanzioni attraverso la vita di tre donne, nella memoria delle quali la guerra non è stata ancora cancellata.
(traduzione di Anna Vanzan)

La Lettura del Corriere 21.1.18
Credo nel panteismo, ci salverà
Noi, la trascendenza, il mondo: la spiritualità secondo Reza Aslan «La religione è una lingua che ci serve per esprimere la fede E la fede è cablata nel cervello, così vediamo Dio a nostra immagine»
di Marco Ventura


Figlio di sciiti iraniani in fuga dalla rivoluzione khomeinista, cresciuto negli Stati Uniti e convertitosi adolescente al cristianesimo evangelico, poi approdato all’islam sufi, Reza Aslan è uno dei più controversi scrittori di religione. I suoi bestseller sull’islam ( Non c’è Dio all’infuori di Dio del 2006, uscito da Rizzoli nel 2015) e sul cristianesimo ( Gesù il ribelle del 2013, sempre per Rizzoli) hanno diviso il pubblico. L’ultimo libro Dio. Una storia umana , pubblicato negli Stati Uniti a novembre, esce ancora da Rizzoli. Aslan dialoga con «la Lettura» via skype da Los Angeles.
Nel suo libro l’uomo produce Dio a sua immagine e somiglianza. Dunque Dio non esiste?
«La discussione sull’esistenza di Dio non mi pare interessante. La fede è emozione».
Che cosa le interessa, allora?
«La questione primaria non è se Dio esista, ma cosa intendiamo per Dio. Nelle varie lingue non c’è parola con un significato più variabile e problematico, eppure diamo per scontato di intenderla tutti allo stesso modo, credenti e non credenti».
Non credenti?
«Mi è capitato spesso di chiedere a non credenti di definire il Dio in cui non credono. La risposta è del tipo… un essere trascendente che vive tra le nuvole e giudica il bene e il male… Ma nemmeno io credo in un Dio così». (Ride).
Qual è allora il suo Dio?
«Nel libro ho voluto spiegare da dove viene l’idea di Dio. Quando pensiamo a Dio, lo pensiamo come noi stessi, concepiamo una versione divina di noi stessi. Tutti facciamo così. Anche gli atei. Se si chiede loro di descrivere Dio, descrivono sé stessi. E così i credenti».
È il sottotitolo: «Una storia umana».
«Mi sono posto l’obiettivo di mostrare come questa idea umanizzata di Dio si sia espressa nella storia».
Si fatica a credere che l’autore del libro sia un credente.
«Ho inteso dare a credenti e non credenti un terreno neutrale su cui possano interagire senza entrare in conflitto. Molti atei superficiali dicono che se la fede è un’esperienza cognitiva, che ha luogo nel mio cervello, allora non è reale, è fantasia. Rispondo che ogni cosa è nel cervello. Come persona di fede posso accettare che la fede stessa sia una struttura neurologica senza che questo la sminuisca».
Questo riguarda anche i suoi libri sull’islam e su Gesù?
«Ho scritto tutti i miei libri in modo che credenti e non credenti potessero riconoscersi in essi. La mia cosa preferita del libro su Gesù è che dopo averlo letto gli atei hanno sostenuto: ah, lo dicevo, è tutto senza senso; e i credenti: ah, lo dicevo, è tutto vero».
Ma questo libro va molto più in là. Lei propugna il panteismo, la presenza del divino ovunque.
«Questo è il mio libro più personale. Quello in cui esprimo la mia fede e le mie idee. Il panteismo non è solo la conclusione di un viaggio spirituale, ma anche un antidoto per le persone di fede nel mondo moderno. Tanti si sentono disgustati o traditi dalla religione; si sono allontanati per colpa delle dottrine, dei dogmi, dell’ipocrisia delle istituzioni religiose. Provano rabbia per il modo in cui, in particolare qui negli Usa, i politici usano le religioni per promuovere idee grottesche come chiudere le porte ai rifugiati. E tuttavia le persone non smettono di cercare una qualche forma di connessione spirituale».
Si sente forse un riformatore religioso? Un Lutero post-moderno?
«Il settimanale britannico “The Spectator” mi ha accusato di voler fondare la mia religione. In realtà il panteismo non è nuovo. Semmai è l’idea più antica. È una forma primaria di spiritualità che oggi merita di rinascere. Attraverso questa antica, mistica forma di spiritualità gente come me può avere una vita spirituale che abbia senso nel mondo in cui viviamo e possa essere riconciliata col pensiero scientifico e filosofico».
Cominciamo a pensare che abbia ragione «The Spectator».
(Ride ancora, ironico). «Allora va bene. Perché no? Ho letto che c’è un sacco di soldi da guadagnare a farsi la propria religione!».
Scherzi a parte, non ha paura di essere etichettato come un apostata nella comunità islamica?
«Già fatto! Fin dal primo libro. Quando ti guadagni da vivere scrivendo di religione, nessuno è contento. Ho avuto minacce di morte da tutte le religioni. In più tra i musulmani c’è enorme ostilità contro i sufi per il loro rifiuto dell’autorità».
Ci spieghi però come sia possibile un panteismo che de-umanizzi Dio, come lei propone, se costruire Dio a nostra immagine ci viene tanto naturale.
«Il problema con l’impulso inconscio a umanizzare Dio è che poi siamo costretti a imporgli le nostre idee, i nostri pregiudizi, le nostre preferenze. Creiamo un Dio che appare, agisce, pensa e sente proprio come noi. E poi ci chiediamo perché esistono tanti ridicoli conflitti politici ed economici a base religiosa, perché è possibile che in Alabama un pastore evangelico difenda i pedofili... Non parlano davvero di Dio. Parlano di sé stessi. Questo può essere estremamente pericoloso. Dobbiamo smettere di pensare a Dio in termini umani».
Ancora non abbiamo capito come il panteismo possa essere la soluzione.
«Il panteismo risolve entrambi i problemi. Da una parte rimuove la personalità di Dio e lo de-umanizza; dall’altra consente all’individuo di assecondare l’impulso, di riconoscere che se fabbrichiamo Dio a nostra immagine è perché siamo essenzialmente Dio noi stessi, come ogni altro, come ogni altra cosa. Se Dio è l’universo, tutto è divino».
In questo senso, secondo lei, è necessaria una scelta.
«Ho avuto molti attacchi per aver scritto che la fede è una scelta. Da credenti e non credenti per i quali non c’è scelta. Tutto è solo verità. O è solo falso. Spiego loro che quello che chiamano “vero e falso” è proprio ciò tra cui dobbiamo scegliere, ciò che io chiamo scelta. Non c’è prova dell’esistenza o della non esistenza di Dio. Tutto dipende da come vedi il mondo intorno a te. Se decidi di credere che le cose siano così o no».
Così la fede può dilatarsi oltre la religione.
«Non c’è alcuna definizione universalmente accettata di religione. Dico sempre che lavoro in un campo indefinibile. Nei 250 anni di esistenza dello studio accademico della religione nessuno è stato capace di definirla. È il sovrannaturale? No, non c’è Dio nel jainismo o nel buddhismo. Sono i riti collettivi? Lo sono anche un evento sportivo o un concerto, infatti esistono corsi universitari sullo sport come religione o sulla musica come religione. È la trascendenza? No, puoi sperimentare la trascendenza scalando una montagna».
Però lei ha scritto libri sulla religione.
«Questo è invece il mio primo libro sulla fede. La mia definizione è che la religione è una lingua. Di cui ci serviamo per esprimere la fede. La fede è cablata nel nostro cervello. Siamo nati con una chiara percezione della nostra sostanza dualista. Siamo corpo e anima, siamo materiali e immateriali. Non sappiamo perché, ne parlo nel libro. Nessuna teoria è tanto forte da evitarci di dover fare la nostra scelta sulla fede».
La scelta sulla fede nel Dio umanizzato o nel panteismo relativizza la differenza tra religioni.
«Se la religione è una lingua, le diverse religioni sono lingue diverse. Che esprimono la stessa cosa. Molti credenti non vanno oltre la lingua. Confondono la metafora con la cosa. Per la mia formazione, mi sono sempre visto come un linguista. Posso spiegare a un musulmano e a un cristiano che stanno dicendo in modi diversi cose molto simili».
Cose molto simili o la stessa cosa?
«Con questo libro cerco di andare alla radice delle lingue. Tutte le lingue che parlano di Dio hanno la stessa radice, cioè la metafora dell’umanizzazione. Tutte partono dal sé e dal misterioso credo nell’anima e da lì viene tutto ciò che sappiamo sulle religioni del mondo».
Ma lei vuole di più.
«Abbiamo bisogno di una lingua universale che tutti possano parlare. Questa lingua è il panteismo. Esso consente alle varie espressioni di Dio di coesistere come tante parti diverse di una verità fondamentale più grande che i nostri antenati preistorici conoscevano ben prima che nascessero le religioni».

La Lettura del Corriere 21.1.18
Rivoluzionari
I pericoli che Fanon non volle vedere
di Antonio Carioti


Cittadino francese della Martinica discendente di schiavi africani, psichiatra e filosofo, Frantz Fanon si può considerare la voce più vigorosa e autorevole del terzomondismo. E ne riflette anche i limiti, evidenti nel libro La rivoluzione algerina e la liberazione dell’Africa (traduzione di Gabriele Proglio e Antonella Mauri, Ombre Corte, pagine 123, € 12) che raccoglie alcuni suoi scritti politici usciti tra il 1957 e il 1960 (Fanon morì nel 1961). A parte l’idea millenaristica del rivoluzionario come «uomo nuovo» e il giudizio frettoloso su Charles de Gaulle, definito «strumento più esecrabile della reazione colonialista più ostinata e più bestiale» (mentre poi fu lui ad accettare l’indipendenza algerina), Fanon sposa la visione nazionalista che presenta il popolo oppresso dai francesi come un tutto organico, che in quanto tale «diventa un’autentica forza politica» e nella lotta «sperimenta l’esercizio del potere». Trascura quindi il conflitto fratricida tra Fln e Mna, gruppi indipendentisti rivali. E avalla in pieno la pretesa del primo, con cui collaborava, di rappresentare una nazione compatta e unanime. Da questa ideologia per molti versi «populista» derivò poi il regime a partito unico del Fln instaurato in Algeria dopo l’indipendenza, con i militari elevati a spina dorsale del sistema e tutte le conseguenze che ne sono derivate, tra cui la feroce guerra civile combattuta tra il 1991 e il 2002. Sarebbe iniquo imputare anche a Fanon questi sviluppi tragici, ma certo non volle vedere il pericolo.

La Lettura del Corriere 21.1.18
Ežov, il carnefice usa e getta strumento e vittima di Stalin
Una biografia del funzionario che guidò l’apparato terroristico negli anni delle purghe e venne poi eliminato dal dittatore sovietico: Fu condannato a morte con prove false, ma la Russia oggi ha rifiutato di riabilitarlo
di Sergio Romano


Uno storico americano racconta che Stalin, nel 1942, ricevette un grande regista, Sergej Ejzenštejn, e un grande attore, Nikolaj Cerkasov, che avevano appena terminato la prima parte di un film sullo zar Ivan il Terribile. Secondo le memorie di Cerkasov, il meraviglioso georgiano (come fu chiamato da Lenin) cominciò a riflettere sulla storia russa. Disse che Ivan il Terribile era stato un grande sovrano progressista, deciso a battersi per il bene e l’unità del Paese. Ma aggiunse che anche Ivan, purtroppo, non era stato «perfetto». Non aveva liquidato un numero sufficiente di oppositori (nei dieci anni della repressione le vittime furono «soltanto» quattromila). Aveva lasciato sopravvivere parecchi boiari che si sarebbero conteso il potere dopo la sua morte e avrebbero aperto le porte della Russia alle invasioni straniere.
Vi era in quelle parole un evidente autocompiacimento. Stalin infatti non aveva commesso lo stesso errore. In una trentina di mesi, pochi anni prima, il regime aveva fucilato più di 700 mila persone e ne aveva inviate altrettante in campi di detenzione dove il freddo, la fame e i lavori forzati avevano fatto a gara con i plotoni d’esecuzione per realizzare una delle più grandi «purghe» della storia umana.
Non vi sarebbe riuscito, tuttavia, se non avesse potuto contare sul migliore dei collaboratori possibili. Era un bolscevico della prima ora che aveva fatto soltanto studi elementari, era stato apprendista di sartoria ed elettrotecnico, aveva vestito l’uniforme dell’esercito zarista sino al 1917 e combattuto nell’Armata rossa durante la guerra civile. Ma aveva anche grandi capacità organizzative e aveva fatto una brillante carriera politica, sino a diventare, nel 1934, membro del Comitato centrale del Partito comunista dell’Urss. Si chiamava Nikolaj Ežov ed è passato alla storia con il discutibile merito di avere dato il suo nome a un intero periodo di storia sovietica, detto appunto Ežovscina.
Grazie all’apertura degli archivi di Mosca uno studioso russo, Aleksej Pavljukov, ne ha scrupolosamente ricostruito la vita e le gesta in una lunga biografia intitolata Le fonctionnaire de la Grande Terreur: Nikolaï Iejov (il nome del protagonista secondo la grafia francese), che è stata pubblicata in Francia nel 2017 dalle Éditions Gallimard.
Stalin era convinto di essere circondato da concorrenti ambiziosi — Grigorij Zinovev, Lev Trotsky, Nikolaj Bukharin — pronti a cospirare nell’ombra, anche con l’aiuto di potenze straniere, e che ciascuno di essi potesse contare su un grande seguito di complici, nascosti nella enorme macchina del partito. I venti di guerra che soffiavano nella seconda metà degli anni Trenta lo convinsero che i suoi nemici avrebbero approfittato di un conflitto per colpirlo alle spalle. Giustificò le sue ossessioni con la teoria del «nemico permanente»: in un rapporto al plenum del Comitato centrale sostenne che i successi del regime, anziché avvicinare la fine della lotta di classe, l’avrebbero resa ancora più aspra e violenta. Quanto più il regime avesse realizzato i suoi obiettivi, tanto più i suoi nemici avrebbero moltiplicato gli sforzi per abbatterlo.
Il disegno di Stalin prese corpo nel 1934, quando il primo segretario del Partito comunista di Leningrado, Sergej Kirov, fu ucciso da un giovane comunista nello Smolnyi (il «collegio zarista delle fanciulle», dove Lenin, nel novembre 1917, aveva preso la parola di fronte al Congresso panrusso dei soviet per annunciare la «prima rivoluzione socialista mondiale»). Non sapremo mai, probabilmente, quali fossero le reali motivazioni dell’assassino (qualcuno sospettò che il mandante fosse Stalin, ansioso di eliminare un potenziale concorrente). Sappiamo tuttavia che da quel momento il leader sovietico non si limitò a promuovere indagini. Il suo obiettivo era la sistematica eliminazione di tutti i suoi nemici, reali o presunti. Anche Lenin nel 1918 era stato protagonista di una prima ondata di Terrore. Ma fra quello di Lenin e quello di Stalin, corre una importante differenza. Mentre il primo voleva eliminare chi avrebbe, a suo giudizio, ostacolato e sabotato il cammino dello Stato rivoluzionario, Stalin voleva sbarazzarsi di tutti coloro che, dall’interno del partito, avrebbero cercato di strappargli il potere. Mentre le vittime della Ceka di Lenin appartenevano alla nobiltà, alla borghesia, al clero e all’immenso mondo rurale della Russia zarista, le vittime di Stalin furono i suoi compagni di partito.
Al ministero degli Interni e alla polizia segreta ordinò di cercare i colpevoli fra gli amici di Zinoviev e Trotsky. E quando constatò che molti cekisti non condividevano i suoi sospetti, si servì sempre più frequentemente di Ežov, che nel settembre del 1936 sottopose al Politburo una risoluzione in cui era scritto, tra l’altro: «Occorre farla finita con le canaglie trotskiste-zinovieviste». Scrisse anche che sarebbe stato necessario «fucilare non meno di mille persone e condannare gli altri a otto o dieci anni di detenzione». Stalin approvò il testo, ma cancellò le cifre. Non voleva legarsi le mani fissando un numero che sarebbe stato, come sappiamo, immensamente superiore.
Per assecondare la sua strategia, Ežov, nella sua veste di ministro degli Interni, costruì una macchina perfetta in cui le vittime producevano vittime. Gli interrogatori, a cui spesso partecipava personalmente, erano sedute di tortura. Picchiati a sangue dai loro aguzzini, gli accusati cedevano, confessavano reati che non avevano commesso e cercavano di salvare la propria vita, o di regolare vecchi conti, trascinando con sé tutti coloro che Ežov voleva coinvolgere. Ogni confessione generava altri imputati e altre confessioni.
Sospettoso, diffidente e implacabilmente logico, Stalin non si limitò a eliminare i «nemici». Per cancellare le tracce più compromettenti di questo assassinio di massa e stroncare sul nascere le ambizioni di chi avrebbe potuto aspirare al potere, eliminò anche coloro che avevano obbedito ai suoi ordini, fra cui lo stesso ministro degli Interni. Come tutti quelli che lo avevano preceduto sul banco degli imputati, anche Ežov finì per confessare ciò che non aveva fatto. Le sue ultime parole nell’aula del tribunale furono: «Una sola cosa vi chiedo: fucilatemi tranquillamente senza farmi soffrire. Dite a Stalin che muoio con il suo nome sulle labbra». Evidentemente il comunismo non fu soltanto un progetto politico. Fu anche una fede religiosa e, come in tutte le religioni, cominciò a morire solo quando i fedeli smisero di credere.
Come scrive Pavljukov, nel «caso Ežov» vi è anche un interessante poscritto. Nel 1995, la figlia adottiva del ministro, Natalia Kajutina, indirizzò una lettera alla procura generale della Federazione russa per chiedere la riabilitazione del padre. Le confessioni gli erano state strappate con la tortura e nessuna delle accuse per cui era stato condannato aveva il benché minimo fondamento. Dopo avere lungamente esaminato tutti gli aspetti della questione, i magistrati della procura mandarono gli atti al Collegio militare della Corte Suprema dove i giudici ricordarono anzitutto che la legge sulla riabilitazione serviva a indennizzare moralmente le vittime della repressione. Ežov, pur essendo vittima, era stato anche e soprattutto persecutore e non poteva quindi essere riabilitato. Sotto un profilo strettamente giuridico la decisione del collegio poteva essere contestata. Sotto un profilo storico e morale era impeccabile.

La Lettura del Corriere 21.1.18
La Guerra freddissima tra i ghiacci che si ritirano
La nuova corsa coloniale coinvolge cinque nazioni: Norvegia, Usa, Canada, Russia e Danimarca (Groenlandia) impegnate in un tenace braccio di ferro
Putin avrebbe schierato già quasi 1.400 testate nucleari nella regione
Cina e Australia sono ossessionate dalle clamorosi opportunità naturali
di Fabio Deotto


La scena è ambientata in un lago ghiacciato ricoperto da una coltre di neve e circondato da una corona di conifere. Davanti alla telecamera ci sono due persone: una è in piedi e regge un lungo bastone appuntito, l’altra è in ginocchio e tiene tra le dita un fiammifero acceso. Appena il bastone perfora lo strato di ghiaccio, la fiammella si trasforma in una colonna di fuoco alta almeno due metri. Seguono urla e risate.
Il video si trova facilmente su YouTube ma non è stato girato per rastrellare visualizzazioni. La persona con il fiammifero si chiama Katey Walter Anthony, è professoressa alla University of Alaska di Fairbanks e se ha passato ore a far sputare fiamme a un lago ghiacciato è per dimostrare in tempo reale gli effetti del cambiamento climatico.
Il fatto che sotto quello strato di ghiaccio ci sia metano in forma gassosa è infatti legato al progressivo scioglimento del permafrost, con la conseguente liberazione di riserve di idrati di metano e clatrati, e l’esposizione di antico materiale organico alla decomposizione dei batteri. È solo una delle componenti della cosiddetta «amplificazione artica», il fenomeno per cui a fronte di un cambiamento climatico effettivo (ad esempio un aumento dei gas serra) i poli sono le regioni terrestri che tendono a riscaldarsi di più (nel caso dell’Artide, a velocità addirittura doppia rispetto al resto del pianeta). Ciò avviene soprattutto a causa della diminuzione dell’effetto albedo: il ghiaccio respinge fino al 70% dell’energia solare, l’acqua di mare solo il 6%. La drastica riduzione di ghiaccio polare avvenuta dagli anni Settanta a oggi (da 8 milioni di chilometri quadrati a 3,4), ha fatto calare la capacità di rifrazione della Terra di diverse misure.
Se questa rotta non viene invertita (e le possibilità che ciò avvenga, considerando la situazione degli accordi internazionali, non sono molte) presto la calotta polare artica si ridurrà sensibilmente, liberando nuovi terreni, risorse e rotte navali. Parliamo di un nuovo continente — distribuito sui territori di Siberia, Norvegia, Alaska, Canada e, soprattutto, Groenlandia — che sta letteralmente emergendo dai ghiacci; un continente estremamente ricco, peraltro, tanto che secondo alcune stime in questa zona sarebbe custodito il 25% delle riserve mondiali di combustibili fossili. Naturalmente, c’è già chi si sta attrezzando per lucrarci sopra.
È su questo orizzonte che si focalizza Artico. La battaglia per il Grande Nord , nuovo saggio di Marzio G. Mian — giornalista e cofondatore della società internazionale The Arctic Times Project — in uscita per Neri Pozza il 25 gennaio.
Ancora oggi, l’Artide è una sorta di fantasma: se ne parla poco e male, molti aspetti sono ancora del tutto sconosciuti, ogni tanto fa capolino sulle pagine dei giornali la classica foto dell’orso polare in equilibrio su una zattera di ghiaccio, un’immagine sensazionalistica che cattura l’attenzione per qualche minuto senza però lasciar trasparire la vera sostanza della questione. Perché è qui che il riscaldamento globale sta raccogliendo i primi dazi; ed è verso Nord che, nei prossimi decenni, il baricentro geopolitico tenderà a spostarsi.
Se questa prospettiva ci appare così balzana, se facciamo fatica a immaginarci un Polo Nord diverso dallo scenario asettico e monocromatico che abbiamo imparato a codificare, è per via di quella incapacità tipicamente umana di riconoscere l’insolito, la stessa di cui Amitav Ghosh parla nel suo saggio La grande cecità : il cambiamento climatico non ha ancora prodotto effetti macroscopici a favore di telecamera — è il ritornello più diffuso — perciò non esiste, o comunque non è così pericoloso.
Per cominciare a raccontare l’invisibile, Mian sceglie di utilizzare una sponda storica, nello specifico la spedizione di Umberto Nobile, l’ingegnere italiano che nel 1926 effettuò la prima trasvolata del Polo Nord a bordo del dirigibile Norge da lui progettato. L’inospitale distesa di ghiaccio che aveva atterrito l’equipaggio fornisce un contraltare perfetto per la condizione attuale della calotta polare: «Novant’anni dopo una nave che oltrepassa lo Stretto di Bering in estate trova un mare completamente nuovo, come emerso dal nulla (...) La rotta proibita aperta da Amundsen nel 1906, al costo di tre anni di navigazione, è più simile a un tracciato da regata».
Uno dei primi effetti della riduzione della calotta polare è di tipo commerciale: si calcola che entro il 2030 i ghiacci polari saranno così deboli da aprire la cosiddetta Transpolar Sea Route, un corridoio tra Europa e Asia che oggi è percorribile solo con potenti e costosissimi rompighiaccio. La rotta transpolare dimezzerebbe le distanze di navigazione rispetto a quella che oggi sfrutta il canale di Suez, e presenterebbe notevoli vantaggi rispetto ai passaggi a Nord-Est e Nord-Ovest poiché, estendendosi su acque internazionali, consente di evitare le giurisdizioni costiere dei vari Stati.
Esiste poi una questione energetica: lo United States Geological Survey ha stimato che in quest’area ci siano giacimenti di petrolio e gas naturale per 18 trilioni di dollari, una cifra che si avvicina al valore dell’intera economia americana. Non stupisce, dunque, apprendere che attorno a questa regione si stiano concentrando gli appetiti di diverse potenze nazionali e corporative.
Questa nuova corsa coloniale, la cosiddetta polar rush , coinvolge innanzitutto le cinque nazioni che hanno territori al di sopra del circolo polare artico — Norvegia, Stati Uniti, Canada, Russia e Groenlandia (Danimarca) — già oggi impegnate in un tenace braccio di ferro per rivendicare le sempre più docili acque artiche; ma anche altri contendenti come la Cina e l’Australia, ossessionate dalle terre rare che abbondano in questa zona. Uno dei nodi più difficili da sciogliere riguarda la Groenlandia, già oggi strattonata da una parte dalla sovrana Danimarca (che versa agli abitanti inuit dell’isola un sussidio di 500 milioni di euro annui) e dall’altra da compagnie cinesi, australiane, europee e statunitensi: la coltre di ghiaccio che ricopre gran parte dell’isola si sta ritirando a velocità record (il ghiacciaio Jakobshavn al ritmo di 45 metri al giorno), e tutti vogliono assicurarsi una fetta di ciò che ne emergerà. Nel frattempo, in attesa che i ghiacci artici si sciolgano, i governi stanno preparando una vera corsa agli armamenti. Vladimir Putin, ad esempio, negli ultimi anni s’è impegnato in un’impressionante opera di militarizzazione dell’Artide, tanto che, stando a una stima del ministero della Difesa norvegese, avrebbe a disposizione quasi 1.400 testate nucleari nella regione. La ragione è semplice: la Russia attinge l’85% del suo gas naturale da queste zone e si affida per il 40% del suo Pil ai pozzi di petrolio artici. «È tornato il pericolo di una guerra nucleare su vasta scala nell’Artico», ha osservato William Perry, Segretario alla Difesa sotto la presidenza Clinton: «La possibilità d’una catastrofe nucleare è oggi più grande che durante la Guerra fredda».
Ma mentre Stati e corporazioni si preparano all’assalto della nuova frontiera artica, per molti di coloro che vivono al di sopra del circolo polare artico la vita sta già cambiando. Nel suo libro, Mian sceglie di raccontare il riscaldamento globale intrecciando la storia dell’Artide con le piccole storie delle persone che, volenti o nolenti, ne stanno già vivendo e studiando gli effetti: come Richard Beneville, che da ballerino di Broadway alcolizzato è diventato sindaco di Nome, città dell’Alaska occidentale oggi al centro di una nuova corsa all’oro per via di un reality intitolato Bering Sea Gold ; o June, che è scappata da Chicago col marito e oggi vive a Whittier, in una città-caseggiato che ricorda il condominio di J. G. Ballard; o ancora come il pecoraio Reimar Segurjonsson, la cui famiglia è l’unica tra quelle del villaggio islandese di Þórshöfn che, nonostante le offerte stratosferiche, si rifiuta di firmare per la costruzione di un gigantesco porto che trasformerebbe la baia del Finnafjord in una «nuova Rotterdam».
Insomma, al di sopra del circolo polare artico il futuro sembra molto più vicino e prevedibile: il riscaldamento globale per molti non è più una minaccia da combattere, bensì una bestia da addomesticare. Ed è questo il tragico errore che la «grande cecità» sta producendo: concentrarsi sulle opportunità a breve termine portate a galla dal cambiamento climatico, perdendo di vista le prevedibili conseguenze a lungo termine; rielaborare il paradigma coloniale per applicarlo al nuovo annunciato Eldorado, senza calcolare il danno per la fauna, la flora e le popolazioni che abitano quelle terre; prepararsi alla conquista del cosiddetto «Mediterraneo del futuro», senza rendersi conto che se siamo ancora nella condizione di poter schierare eserciti, tracciare confini, speculare, ipotizzare vie d’uscita e (si spera) cambiare rotta, è in gran parte grazie all’effetto contenitivo ed equilibrante di questa precaria coltre di ghiaccio su cui tutti si affannano a piantare bandiere.

Il Sole Domenica 21.1.18
Parentele genetiche
Ma che razza d’idea confusa
Abbiamo in comune con qualsiasi sconosciuto il 99,9% del DNA e le differenze tra esseri umani sono sfumature su una tavolozza in cui si passa dall’uno all’altro senza discontinuità
di Guido Barbujani


Nei giorni scorsi Attilio Fontana, candidato del Centrodestra alle elezioni regionali in Lombardia, ha dichiarato a Radio Padania che la razza bianca è a rischio: «Dobbiamo decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società devono continuare a esistere o se devono essere cancellate». In un secondo momento Fontana si è corretto: è stato un lapsus, ha detto. Poi, in un terzo momento, ha cambiato ancora idea: «Dovrebbero cambiare anche la Costituzione perché è la prima a dire che esistono razze».
Sono seguite una serie di reazioni e di esternazioni, in un dibattito che ha assunto caratteri lievemente surreali. Linguisti e genetisti, antropologi e giuristi, sono stati interpellati sull’etimologia della parola razza, e sull’applicabilità all’uomo del concetto di razza. Ma è di questo che occorre parlare, è questo il problema che le parole di Fontana hanno sollevato?
A sgombrare il campo da molti equivoci ci ha pensato l’Associazione Genetica Italiana, pubblicando (http://www.associazionegeneticaitaliana.it/) una dichiarazione sul concetto di razza umana. Cose che si sanno da tempo, ma meglio ripeterle. La prima è che la parola stessa, razza, è un grande generatore di confusione. Nel linguaggio corrente, può definire l’umanità intera (Einstein, quando si qualifica come di «razza umana»), oppure una sua fetta, grande («la razza bianca») o piccola («la razza Piave»), o anche una famiglia (quando si dice «brutta razza»). Non c’è da stupirsi se, con tanti significati diversi, alla fine non ci si capisce.
Per questo, in genetica, si preferisce parlare di razze biologiche. Così le cose vanno un po’ meglio, ma non tanto. Secondo un grande evoluzionista, Ernst Mayr, popolazioni locali abbastanza diverse l’una dalle altre da poter essere distinte rappresentano diverse razze o sottospecie. Vuol dire che, se una certa specie è divisa in gruppi che vivono in regioni geografiche diverse, e se c’è modo di distinguerli in base al loro aspetto o al loro DNA, ciascun gruppo può essere chiamato razza. Il problema è che non è banale dire quando due popolazioni diverse lo sono «abbastanza».
Nonostante queste ambiguità, in certe specie possiamo tranquillamente dire che le razze esistono. Una è lo scimpanzé. Analizzando certi tratti di DNA si può dire con precisione da dove provenga uno scimpanzé di origine sconosciuta: gli scimpanzé hanno quattro razze. Ci sono però molte altre specie, in genere di creature mobili come uccelli o pesci di mare, in cui le popolazioni di diverse regioni non si distinguono fra loro, e quindi non formano razze biologiche. E noi, che siamo notoriamente così mobili, sotto questo aspetto siamo come gli scimpanzé o come i tonni?
(Meglio precisare, invece, che il confronto con cani e cavalli non ha senso. È vero: in tutte le specie domestiche di animali e piante ci sono razze o varietà ben distinte. Non si tratta però del risultato spontaneo dell’evoluzione, ma di incroci realizzati dall’uomo per ottenere cani grossi o cani piccoli, mele dolci o mele aspre, eccetera. In ogni caso, a livello di DNA, le differenze fra razze canine sono centinaia di volte più grandi di quelle fra persone di continenti diversi).
L’uomo è la specie più studiata, ma ancora non ci si è messi d’accordo su quante razze abbia; c’è chi dice due, chi dice tre, chi dice quattro, chi dice sessantatré. Vale anche oggi, ma questa frase tagliente l’ha scritta Charles Darwin nel 1871. Certo, le differenze ci sono, e si vedono: tutti sappiamo distinguere un senegalese da un giapponese. Ma fra Senegal e Giappone c’è tanta gente diversa, tante caratteristiche intermedie; dove cominciano i senegalesi, e dove i giapponesi?
In un certo senso, la storia della classificazione razziale umana è la storia dei tentativi di tracciare sulla mappa linee di confine. Tentativi vani: il grande numero di cataloghi razziali, ognuno in contraddizione con gli altri, è, se non la prova, un forte indizio che questi confini possono solo essere arbitrari. Ci penserà poi, nel 1962, Frank Livingstone, in un articolo intitolato «Sull’inesistenza delle razze umane» a mettere in chiaro che le nostre differenze sono sfumature di colori su una tavolozza in cui si passa dall’uno all’altro senza discontinuità.
Da allora si sono capite tante cose. La nostra specie è straordinariamente omogenea: le differenze fra due gorilla della stessa foresta è, in media, più grande di quella fra due persone di continenti diversi. Abbiamo in comune con qualsiasi sconosciuto il 99,9% del nostro DNA. E quell’1 per mille di differenze è rappresentato da varianti in gran parte cosmopolite, cioè presenti, a frequenze diverse, in tutto il pianeta: piccole sfumature, appunto: come nei tonni. Il nostro vicino di casa è, in media, più simile a noi degli abitanti di paesi lontani, ma ogni popolazione contiene un campionario molto vasto della variabilità di tutta la specie umana.
Fin qui la scienza. Ma è davvero di scienza che stiamo parlando? Mi sembra invece che la dichiarazione di Fontana abbia a che vedere con tutt’altro, cioè con i diritti delle persone: diritti che si vorrebbero diversi a seconda del gruppo, reale o immaginario, a cui le persone vengono attribuite. Se è così, ed è così, il problema non sta nelle parole usate a vanvera, ma nel riemergere del razzismo nel discorso pubblico. È un razzismo che non ha bisogno di teorie sulla razza per esistere e manifestarsi, e che ormai non è più il triste monopolio della destra xenofoba, se nel luglio 2017 Patrizia Prestipino, della Direzione del Partito Democratico, ha invocato misure a difesa della razza italiana. Altri hanno discusso in che misura atteggiamenti del genere possano portare qualche vantaggio elettorale, chissà poi quanto cospicuo. Qui è solo il caso di ricordare che secondo l’articolo 3 della Costituzione tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, senza distinzione di razza (né di sesso, lingua, religione, opinioni politiche, eccetera). Al contrario di quanto pensa Attilio Fontana, nella Costituzione sta scritta quella roba lì proprio per escludere che si possano dire le cose che dice lui. Proporre iniziative in favore di questo o quel gruppo di persone individuate con un’etichetta razziale non va bene, e non tanto perché si evoca un nonsenso biologico, ma perché così ci si pone in contrasto frontale con la Costituzione.

Il Sole Domenica 21.1.18
Atena tra passato e presente
di Giorgio Agamben


Nel museo dell’Acropoli in Atene si conservano tre statue provenienti dal frontone del vecchio tempio di Atene polias, che sorgeva sull’Acropoli accanto al luogo dove si trovano ora i resti dell’Erechteion. Impressionante è, al centro, l’immagine, in apparenza perfettamente conservata, della dea Atena, raffigurata in piedi nell’atto di atterrare il gigante Engelados. La dea indossa il mantello detto aegis, il cui lembo estremo è formato da serpenti attorcigliati, con i quali la mano sinistra protesa in avanti minaccia il gigante ormai prostrato al suolo. Se lo spettatore si avvicina di qualche passo, si accorge, però, che della scultura originale restano in verità solo frammenti: il viso, insieme infantile e feroce, la spalla sinistra coperta dal mantello, il piede destro e un pezzo del chitone. Tutto il resto è stato pazientemente ricostruito dagli archeologi con un materiale neutro, di color ocra chiaro, che solo da lontano può confondersi col marmo, ma allo sguardo ravvicinato denuncia senza infingimenti la sua modernità. Ancora più frammentario è il corpo del gigante: dell’originale restano qui solo un frammento del collo, un pezzo del ginocchio e del calcagno destro e, curiosamente ben conservato , il sesso che pende verso il basso.
Dov’è Atena? Dove situare nel tempo questo torso che sembra invece così integro e vivo? Nella dea passato e presente sono inestricabilmente e funzionalmente congiunti in modo che l’occhio, smentendo la sua percezione, esita a separarli. Essa è letteralmente fatta di passato e presente, quasi che i duemila e cinquecento anni che dividono i frammenti scolpiti da Endaios e le parti integrate dagli archeologi non fossero altro che la pulsazione che ne anima la svelta figura. Il volto sorridente crudelmente reclinato sulla sua vittima, le dita che stringono il collo esiguo del rettile, le poche pieghe della veste, il piede saldamente poggiato al suolo bastano a dar vita all’insieme –e, tuttavia, senza l’ora presente, non meno provvida nel disporre i frammenti del passato che docile nell’obbedire al loro comando, la figura non risulterebbe così viva.
È possibile, allora, che questa statua ci offra il paradigma del rapporto fra passato e presente, l’ esempio di una giusta situazione del passato. Poiché è evidente che il passato non ha luogo che nel presente, che esso non vive che nella sua epifania nell’istante che si presta ad accoglierlo.
Une vecchia fotografia in bianco e nero mostra il ritrovamento nel 1894 di una statua di efebo quasi intatta, appena liberata dalla terra che la ricopriva. Accanto ad essa, gli operai e gli archeologi la guardano soddisfatti e visibilmente eccitati. Così il passato affiora nel presente, convive con esso, in esso ha luogo. E nel punto in cui appare, la falsa continuità della cronologia si spezza e depone la sua pretesa irrevocabilità. Il remoto bruscamente si fa vicinissimo, due momenti lontani nel tempo sono di colpo a contatto, si danno agio e vita a vicenda.
Che cosa è avvenuto , che cosa ha avuto luogo in questo punto? È nota la tesi di Benjamin secondo cui il presente –l’ “ora”- non si dà mai soltanto in un punto isolato della continuità cronologica, ma sempre nella costellazione fra un momento del passato e il presente. Ciò significa che il problema della relazione col passato non è psicologico e individuale, ma politico e collettivo. Ogni decisione sul presente implica la relazione a un momento preciso del passato, con cui esso deve fare i conti. Senza questa costellazione critica, il presente è inaccessibile e opaco, perché si riduce, come il discorso del potere non si stanca di suggerire, a un insieme di fatti e di cifre che devono essere accettati senza possibilità di revocarli in questione. Per questo l’archeologia, che risale a contropelo il passato, inseguendo l’ombra che il presente getta su di esso, è l’unica via di accesso al presente.
Se questo è vero, se ciò di cui ne va nella relazione col passato è il presente, si comprende allora perché le forze che governano l’occidente lavorino con tanta solerzia a rendere impossibile questa relazione. E lo fanno demolendo le università -cioè i luoghi in cui il passato dovrebbe essere trasmesso come cosa viva- e, insieme, moltiplicando i musei, intesi come dispositivi in cui il passato viene mantenuto separato dal presente. Il passato che è qui in questione non è né un’origine intemporale né ciò che è stato una volta per tutte, la serie di fatti irrevocabili che si tratta di accumulare e custodire negli archivi: esso è, piuttosto, qualcosa che può ancora avvenire e che, per questo, deve essere ogni volta strappato dalla rappresentazione in cui lo ha imprigionato l’ideologia dominante. Al passato – cioè al presente - non si accede né al di là della storia, in un’origine intemporale, né lungo la linea continua della cronologia, ma solo attraverso la sua interruzione. La memoria è, cioè, una pratica storica distruttiva e il suo compito –l’archeologia come accesso al presente- è di natura essenzialmente politica.
Ciò è vero anche per l’individuo. Quando questi, vincendo le proprie paure, regredisce al passato –cioè al presente che non ha potuto o saputo vivere- ciò che egli porta in questo modo alla luce non è qualcosa di privato e di incomunicabile. Si tratta, piuttosto, di un’immagine o di un fantasma che, come la statua ignuda dell’ efebo esumato dagli archeologi, non gli appartiene in proprio, ma lo convoca e apostrofa insieme ad altri corpi fuori del tempo cronologico, in un non-luogo che è, però, indiscutibilmente presente. A questo punto, come la Atena polias del museo dell’acropoli, egli scopre di essere fatto di pezzi del passato e del presente tenuti inestricabilmente insieme dalla forza distruttrice-costruttrice della memoria. Ogni presente è, in questo senso, sempre il frammento di un passato e il torso è la figura più autentica della storia.

Il Sole Domenica 21.1.18
Stranieri e diritti
Quei migranti senza pensiero
Donatella Di Cesare, Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione ,Bollati Boringhieri, Torino, pp. 280.€ 19
di Francesca Rigotti


C’è da chiedersi come mai la filosofia politica, nel suo costante richiamarsi alla cultura classica greca e latina, non abbia mai ripreso il «discorso di Nausicaa». Si tratta delle parole che nel libro VI dell’Odissea la giovanissima principessa dei Feaci rivolge alle sue ancelle, fuggite per lo spavento alla vista del profugo proveniente dal mare e che si rivelerà essere Ulisse: «Olà, disse, fermatevi. In qual parte/ Fuggite voi, perché v’apparve un uomo?/ Mirar credeste d’un nemico il volto? […] Un misero è costui, che a queste piagge/ capitò errando, e a cui pensar or vuolsi. / Gli stranieri, vedete, ed i mendichi/ Vengon da Giove tutti, e non v’ha dono/ Picciolo sì, che a lor non torni caro» (tr. di I. Pindemonte).
Conosciamo a memoria il discorso di Pericle con l’elogio della democrazia ma queste parole che invitano all’accoglienza dello straniero ci sono ignote. Perché provengono da voce di donna? Perché una filosofia della migrazione in grado di riprenderle ed elaborarle non è mai stata scritta, che è l’argomento sostenuto in questo saggio poderoso e coraggioso da Donatella Di Cesare nel momento in cui ne propone a sua volta una? Certo, ci sono i pensieri nomadici di Deleuze e quelli nomadico-femministi di Braidotti; c’è la filosofia dell’esilio di Maria Zambrano e c’è un accenno di filosofia dei migranti in Vilèm Flusser (tutti, eccetto Deleuze, migranti, esuli, emigrati tornati e no, come Di Cesare, come me).
Eppure la filosofia politica tradizionale ha dimenticato i profughi e aggirato l’accoglienza. Mancano, scrive Di Cesare, «sia una riflessione sul migrare sia un pensiero intorno al migrante», e persino le idee acute e feconde di una rifugiata e apolide d’eccezione, Hannah Arendt, non vennero né da lei nè da altri elaborate in una complessiva filosofia della migrazione.
Perché di questo qui ci si occupa, non di trovare soluzioni politiche per regolare i flussi o integrare i migranti, temi che ricadono nella logica immunitaria che si comporta come la ferita che si chiude sui suoi bordi per difendersi dal corpo estraneo, e che tratta il migrante come un criminale recludendolo in campi di internamento. Qui si va alla ricerca di motivazioni e argomentazioni a favore sia di un pensiero dell’accoglienza che dia luogo - faccia posto come in uno scompartimento ferroviario, spiega la bella analogia dell’autrice - a chi arriva spinto dalle persecuzioni belliche come da quelle economiche; sia dell’elaborazione di uno ius migrandi che protegga la libertà di movimento e soprattutto promuova una redistribuzione egualitaria dei beni oltre che la condivisione della terra.
Le domande filosofiche ci interrogano dunque intorno all’autoproclamato diritto dei primi arrivati in un territorio e degli stati costituitisi intorno ad essi, di impedire o limitare a discrezione l’ingresso nel «proprio» territorio, ammettere ed escludere secondo il criterio dell’avvantaggiare i nostri, il nostro prossimo: «prima noi, prima i nostri, America ( o altro stato a piacere) first».
Ma anche, e a monte di questo, sul diritto di garantire giustizia sociale soltanto al vicino, al prossimo, al concittadino. È un grande tema su cui si sono interrogati Cicerone come pure Martha Nussbaum, e che val la pena di riprendere: dove Cicerone con cautela afferma che dovremmo preferire, nell’assegnare assistenza e aiuto, il vicino e l’amico, ed estendere l’aiuto e l’assistenza a chi è lontano o viene da lontano solamente se ciò può essere fatto senza sacrifici e dispendi per noi, Martha Nussbaum pensa e dice esattamente il contrario. Per motivare l’affermazione che abbiamo doveri verso persone in stato di bisogno che vengono da altre nazioni, Nussbaum sostiene che è incombente per noi abitanti dei paesi opulenti il dovere di salvare dalla fame, dalla povertà e dalla guerra abitanti di nazioni povere, affamate e in guerra. I doveri legati al senso di giustizia non si devono limitare a concedere beni non materiali (e non costosi) come rispetto e dignità, ma anche a distribuire aiuto materiale (che incide innegabilmente sulla tassazione).
Per parte sua Di Cesare analizza con acribia gli argomenti di coloro che sostengono il respingimento dei profughi in base alla priorità dei cittadini sugli immigrati, all’integrità nazionale e alla proprietà del territorio, tutte asserzioni che non hanno fondamento filosofico. E questo, anche se poi il migrante ben sa che la cesura dell’emigrazione non potrà mai essere saldata e riparata perché è un’esperienza che marchia a fuoco e che rende impossibile il ritorno all’innocenza.
Alla pars destruens del testo, che va a criticare la giustizia locale di Rawls e varie posizioni nazionaliste, liberali e cosmopolitiche, ma soprattutto il comunitarismo di Michael Walzer, nel cui stato-club l’appartenenza alla comunità è condizione di distribuzione di beni, segue la pars construens, che discute tre modelli dell’abitare la terra. Il modello dell’autoctonia ateniese, con la sua omogeneità garantita dalla purezza del ghénos e legata all’identità dell’origine; il modello aperto della civitas romana dove la cittadinanza è inclusiva e dinamica e infine il modello del paesaggio ebraico dove abitano gli «stranieri residenti» del titolo. La fonte della sovranità ebraica è l’estraneità, la condizione dello straniero da rispettare, «perché anche voi foste stranieri in Egitto».
Nella proposta di Di Cesare ospitalità e cittadinanza coincidono, nell’orizzonte di una comunità dissociata dalla nazione, dalla nascita e dalla filiazione, aperta all’accoglienza - come quella esercitata da Nausicaa con le parole e con le sue azioni - nonché capace di dar luogo a forme politiche dove l’immune lascia la precedenza al comune.

Il Sole Domenica 21.1.18
Dolores O'Riordan (1971-2018)
Uno zombie dolcissimo
di Riccardo Piaggio


Ballerina di flamenco, voce dei Cranberries, la cantante irlandese si è spenta sotto il peso di un dolore che esprimeva con una voce molto particolare. Tutt’altro che mainstream
«Da adolescente, andavo a messa cinque volte a settimana». Poi venne il rock; non fu una nemesi, piuttosto una continua scalata a mani nude dentro angosce carsiche e verso inaccessibili rivincite esistenziali. Dolores O’Riordan è morta lo scorso lunedì in un Hotel a Park Lane, a Londra, dove si trovava per una sessione di registrazione con la band di rock sperimentale newyorkese D.A.R.K.
Affetta da un disturbo bipolare che culminò in un ricovero psichiatrico, aveva 46 anni e per quasi trenta è stata la voce consistente, dolce eppure mai nauseante, che ci ha traghettato oltre il Secolo breve, dall’anno zero del secolo successivo. Ed è stata una voce autentica. Profonda come la sofferenza conficcata dentro ogni viaggio umano e per questo capace di cullare e colpire milioni di post-adolescenti della generazione X. Quasi un benchmark, per le cantantesse a venire. Una voce solo accidentalmente seguita dalle parole, che nel rock hanno sovente avuto, a partire paradossalmente proprio da Dylan, un’importanza piuttosto relativa. Ciò che conta, nel rock, sono il suono e l’intenzione. I Cranberries (cranberry saw us, ossia la densa cranberry soup, toccasana per l’apparato urinario), irlandesi e dunque geneticamente portati a comunicare al mondo temi in qualche modo folk, hanno avuto la sensibilità di impastare in una digeribilissima melassa l’esperienza del grunge west-coast, del brit-pop e pure del dream-rock (etichette che oggi ci fanno sorridere, ma riescono ancora a riempire qualche coordinata) con il dna dell’Isola di smeraldo, forse l’epicentro misconosciuto dei principali codici della musica folk-rock del Novecento. Ma suono e intenzione arrivavano, tutti insieme, dal petto di Dolores. Lei, piccola ballerina di flamenco, comincia il suo viaggio con i Cranberries nel 1990; poi la sosta nel 2003, infine l’ultimo lungo miglio con i fratelli Noel e Mike Hogan, dal 2009. Tutti partiti dalla contea di Limerick, i Cranberries diventano in pochi anni uno dei gruppi epici dei ’90; anzi, la vera spalla dei ’90; il successo arriva a supporto del tour dei britannici Suede nel ’93, la parabola si chiude sostenendo quello degli Stones, nel 2002. La ballerina e i due fratelli navigano attraverso il decennio dei floppy disk e del walkman senza strappi, creando una musica che racconta un’epoca segnata da grandi trasformazioni, senza rivoluzioni.
Il suono e la voce dei Cranberries diventano un fenomeno mainstream a metà decennio, nel 1994 con l’album No Need To Argue, trainato dalla protest song social-nazionalista Zombie, canzone dell’anno agli MTV Europe Music Awards. Dieci anni dopo, durante la sosta dal gruppo, la voce di Dolores è il cupo e angelico velo sonoro della colonna sonora del film La passione di Cristo, che fece dire all’enigmatico compositore John Debney: «Forse Satana è una persona reale; posso testimoniare che è stato a lungo nella mia stanza e so che ha colpito chiunque abbia partecipato a questa produzione», Dolores compresa. Se riascoltiamo, al netto delle intenzioni, il testo di brani apparentemente più frivoli come Just my imagination (1999), sapremo perché Dolores aveva quel nome e quella voce: «I’ve always put my cards upon the table/Let it never be said that I’d be unstable». Per noi quella voce, pur coltivata con cura fino allo scorso lunedì, si è spenta allora. Ciò che ne ha fatto il perno del decennio stellare è la precisa pasta esistenziale della musica dei Cranberries, un gruppo degli anni ’90. Il decennio in cui si sovrappongono due concetti distanti tra loro e poco flessibili. Il Classico e il mainstream. Nel senso che i ’90 in musica sono ancora perfettamente riconoscibili nel rock, nel pop, nella dance, nel rap e ruotano nel medesimo panariello, in attesa di estrazione; l’uso delle tastiere, i pattern e i suoni delle chitarre elettriche, il lavoro in studio muscolare, l’atmosfera sonora ovattata sono il marchio e il sigillo di un sistema a suo modo poetico e autentico. Anche se nella classifica dei 50 migliori album di sempre («Rolling Stone»), solo uno (Nevermind dei Nirvana) arriva dal decennio e ben pochi (cinque) sono stati generati dopo il ’79 dei The Clash.
Nemmeno «Billboard 200», la classifica dei record di vendite nel rock, rende giustizia al decennio: nessuna icona dei ’90 tra i top, a esclusione di Eminem e dei Metallica, che però hanno navigato anche in altre decadi. Eppure la musica dei ’90 era fatta, soprattutto, per piacere e compiacere. E per vendere. E qui si insinua subdola l’idea ruffiana di mainstream, cui corrisponde la vera anima del decennio, segnato anno dopo anno da successi indiscussi che, se messi in fila, faranno piovere madeleines sui non più giovanissimi. Parliamo di canzoni e non di album, perché ai ’90 non interessa l’opera rock totale. Non siamo nei ’60 con i Beatles o nei ’70 con Dylan. Il decennio parte con la cover di maggior successo della storia del rock, la ballad folk Knockin’ on Heaven’s Door, assemblata con gran consumo di kWh dai Guns N’ Roses.
Poi arrivano Under the Bridge dei RHCP, Losing My Religion dei R.E.M. (ci si ispira a un classico degli ’80, Every Breath You Take dei Police) e curiosamente un altro brano non originale, My Heart Will Go On (di James Horner) cantata da Céline Dion. Sul calar del decennio, dal ’97 al ’99, arrivano i visionari (e qui torniamo a parlare di album), con Ok Computer dei Radiohead (il brit-pop diventa sperimentale), Hours di David Bowie (il primo della Storia a essere disponibile per il download), The Slim Shady LP di Eminem e il revival world dei Buena Vista. Nella sua memorabile Storia del Rock in dieci canzoni (nessuna dai ’90), Greil Marcus ricorda la miglior definizione che sia mai stata offerta al rock; la diede nel 1968 Pete Townshend: « Prendiamo tutta la musica pop, infiliamola in una cartuccia, chiudiamola e diamo fuoco alle polveri. Non consideriamo il fatto che quei dieci o quindici pezzi siano tutti simili. Non importa in che periodo sono stati scritti, di che parlano. E? l’esplosione che creano quando premi il grilletto a fare la differenza. E? l’atto in se. Ecco cos’e? il rock ’n’ roll». Polvere, esplosioni, Dolores.

La Stampa 21.1.18
Sartre, De Beauvoir e Lanzmann, le lettere del triangolo amoroso
Il regista rivela l’esistenza di 112 missive della scrittrice negli anni Cinquanta. “Sei il mio primo amore assoluto, quello che si conosce una volta o mai”
di Leonardo Martinelli


Correva il 1953. E Simone de Beauvoir, dal piccolo albergo dove alloggiava, il Doelen, ad Amsterdam, scrisse la sua prima lettera a Claude Lanzmann. «Amore mio, non sapevo che poteva essere così l’amore. Jean-Paul Sartre l’ho amato, certo, ma senza una vera reciprocità. E senza che i nostri corpi ci siano stati per niente. Nelson Algren? Mi ha sconvolto che mi amasse e anch’io l’ho amato tanto, ma soprattutto attraverso l’amore che aveva per me e senza una vera intimità.
Sì, caro piccolo mio, sei il mio primo amore assoluto, quello che si conosce una volta o mai». È la prima epistola della scrittrice e filosofa al regista di Shoah, il mitico film-documentario di oltre nove ore, uscito molto più tardi, nel 1985. La lettera è un testo d’amore struggente, perché sia chiaro, anche una femminista dai toni duri come era la de Beauvoir amava passionalmente.
Oggi Lanzmann ha 92 anni. Della sua storia con la de Beauvoir si sapeva, ne aveva scritto nella sua splendida autobiografia, La lepre della Patagonia, uscita nel 2010 per Gallimard (e in Italia per Rizzoli). Ma mai aveva parlato di questa corrispondenza, 112 lettere disseminate lungo i sette anni della loro storia d’amore, iniziata nel luglio 1952, quando Claude aveva 27 anni e Simone già 44. Lei era la donna di Sartre (ufficialmente lo rimase fino alla morte di lui, nel 1980) ed era già famosa. E lo diventerà ancora di più con la pubblicazione nel 1954 di I mandarini, romanzo ambientato nel dopoguerra dove, mediante personaggi immaginari, racconta la sua relazione con Algren, scrittore americano, ben inserito nei circoli dell’esistenzialismo parigino. Lui, a differenza di altri (e altre) amanti della donna, non riusciva a sopportare la relazione (soprattutto cerebrale) tra la de Beauvoir e Sartre: il loro «amore necessario», come lo chiamavano i due, che si veniva di volta in volta ad aggiungere agli «amori contingenti».
Lanzmann, invece, ci riuscì perfettamente. E si formò un vero «trio amicale». Le conversazioni del giovane Claude erano frequenti ed intellettualmente intense sia con Jean-Paul che con Simone. E poi c’era quell’amore travolgente, tanto che Lanzmann fu il solo partner con cui la de Beauvoir riuscì mai a convivere fisicamente e durante tutta la loro relazione, nell’appartamento all’11 bis della rue Victor-Schoelcher, a Parigi. Il legame, anche dopo, resterà forte. E Simone morirà il 14 aprile 1986, con accanto Claude e la sua figlia adottiva, Sylvie Le Bon de Beauvoir, conosciuta quando era studentessa di filosofia, ammaliata dalla pensatrice. Il corpo di Simone verrà messo nella bara con al dito l’anello d’argento, dalle decorazioni inca, che Algren le aveva regalato la mattina dopo la loro prima notte d’amore. Tanto per chiudere un ciclo.
Ma ritorniamo alle 112 lettere di Simone a Claude. Lanzmann ha perso pochi giorni fa un figlio, Dominique, di appena 23 anni, morto di cancro. Sta facendo i conti con il tempo che passa. «Troppo tardi è diventato il leitmotiv della mia vita - ha confessato in un’intervista appena pubblicata da Le Monde -. Ed è ormai troppo tardi praticamente per tutti quei problemi che pensavo si sarebbero risolti da soli, come queste 112 epistole». Voleva pubblicarle e l’editore Gallimard era ben interessato. Ma, secondo la legge francese, il contenuto di una lettera appartiene a chi l’ha inviata (e, quindi, attualmente, all’erede di Simone, la figlia adottiva Sylvie). Claude possiede quelle epistole solo materialmente.
Ebbene, Sylvie, che pure ha dato nel passato il via libera alla pubblicazione della corrispondenza della de Beauvoir sia con Sartre che con Algren, non ha voluto stavolta acconsentire. E così Lanzmann ha deciso di venderle all’estero, alla biblioteca Beinecke dell’università di Yale, dove vari specialisti dell’opera della scrittrice sono già interessati a studiarle. E dove verranno probabilmente pubblicate. Intanto Le Monde ha già reso nota la prima lettera. Ma perché il niet di Sylvie? Lanzmann aveva criticato l’uscita delle altre lettere della de Beauvoir, giudicate troppo intime e troppo severe riguardo a troppe persone. Mentre stavolta si tratterebbe soltanto di filosofia e di amore. Uno struggente amore.

La Stampa 21.1.18
Un nuovo secolo per le “vecchie” teorie di Keynes
di Massimiliano Panarari


L’industria editoriale italiana non ha mai perso interesse per quel gigante del Novecento che è stato l’economista (e pensatore sociale) John Maynard Keynes (1883-1946). E, quindi, il barone di Tilton, e mondanissimo animatore del Circolo-salotto di Bloomsbury, ritorna ancor più alla grande oggi, all’indomani della tremenda crisi finanziaria iniziata nel 2008 e convertitasi in una gigantesca recessione non ancora finita. Una nuova ondata di popolarità, dopo che la sua dottrina era stata oscurata dall’egemonia culturale di neoliberalismo, neoliberismo e monetarismo.
Nel ultimi tempi sono così usciti vari suoi volumi (o ripubblicazioni), dall’antologia Sono un liberale? (Castelvecchi) alla raccolta di testi Moneta internazionale (Il Saggiatore). E sono arrivati in libreria i saggi delle Esortazioni e profezie (riediti da Il Saggiatore, pp. 276, euro 24) che, letti con gli occhi dell’attualità, si rivelano carichi di ammonimenti e spunti di riflessione per questi nostri tempi inquieti. Giusto per fare un esempio: Keynes, che aveva partecipato come negoziatore per conto dell’Impero britannico alla Conferenza di Versailles del 1919, giudicava le riparazioni di guerra e la «pace cartaginese» imposte alla Germania dal trattato umilianti e foriere di cattivi presagi. Negli scritti di Esortazioni e profezie sono contenute anche le posizioni espresse da Keynes in merito alle altre grandi querelle degli anni Venti (dalle polemiche sull’inflazione e le politiche di deflazione ai guasti del gold standard), e quelle sui rapporti tra il liberalismo e il laburismo, sul comunismo sovietico e sulle prospettive future della società occidentale.
Liberale progressista curioso e di enorme acume, l’autore della famosa Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta avversò l’ideologia del laissez-faire e criticò la teoria neoclassica nel nome della pace sociale e del progresso civile. Anche, e soprattutto, per questo è stato il teorico dell’intervento dello Stato in economia, senza essere assolutamente uno statalista: non era affatto un feticista delle politiche pubbliche, ma le riteneva uno strumento indispensabile per regolare gli squilibri dell’economia in un’epoca turbolenta. Perché credeva nella potenza delle idee e nel ruolo degli intellettuali: due ulteriori, importanti, lezioni keynesiane.