il manifesto 18.1.18
Nell’era della postverità
Codici
aperti. Il teorico del diritto statunitense Cass R. Sunstein e il
filosofo italiano Maurizio Ferraris, nei loro rispettivi libri, si
interrogano su fake news, produzione di informazione e opinione
pubblica. E soprattutto, sull'esercizio della democrazia al tempo dei
social media
di Benedetto Vecchi
Le fake news
non sono solo falsità, bensì il simbolo di trasformazioni ben più
rilevanti nella formazione dell’opinione pubblica e nel modo di
produzione dell’informazione.
A sostenere questo invito a studiare
con attenzione la diffusione seriale e virale delle «bufale» sono due
filosofi che operano in contesti economici, politici e culturali
diversi, ma con molti punti in comune. Sono il teorico del diritto
statunitense Cass R. Sunstein e il filosofo italiano Maurizio Ferraris.
Cass
R. Sunstein è un liberal che ha collaborato a lungo con Barack Obama;
negli ultimi dieci anni, ha concentrato la sua attenzione sugli effetti
non sempre positivi della comunicazione on line e dei social media
nell’esercizio della democrazia politica.
Per il giurista
statunitense, la Rete consente sì ai singoli di prendere la parola e di
esprimere il proprio punto di vista rivolgendosi a un pubblico
indifferenziato e potenzialmente di massa senza passare attraverso la
«mediazione» di tv, radio e carta stampata, ma questo non coincide quasi
mai con la formazione di una opinione pubblica informata capace di
discernere il vero dal falso.
Allo stesso tempo, la comunicazione
dei molti ai molti (tipica della Rete) non è sinonimo di un confronto
anche aspro tra punti di vista diversificati e differenti, bensì ha
determinato la costituzione di «comunità di simili» che sfuggono a ogni
occasione di confronto.
Chi fa parte di una comunità di simili
partecipa così al rumore di fondo di echo chambers dove tutto è
finalizzato a riprodurre e convalidare un punto di vista.
Oppure a dare il via a cybercascades segnate da odio e disprezzo per chi è individuato come un nemico.
LE
ECHO CHAMBERS sono fondamentali per diffondere la propria verità,
invadendo così i nodi della rete giusto il tempo per diffondere la
propria verità. L’informazione è dunque un flusso che può essere
modificato, interrotto, deviato, ma mai sovvertito, contestato,
criticato. In altri termini, per Sunstein l’uso dei social network e dei
social media alimentano la propaganda e riducono la democrazia al
conflitto tra opinioni espresse senza nessuna verifica dei contenuti che
esprimono.
Sono tesi che lo studioso americano ha proposto in
vari libri, l’ultimo dei quali è #republic (il Mulino, pp. 329, euro
22), terzo capitolo di una serie che ha accompagnato lo sviluppo e la
diffusione della Rete (i titoli degli altri due volumi sono Republic.com
e Republic.com 2.0) .
Un libro, questo, che prende però atto che
la Rete è ormai un «medium universale» e che Facebook, Twitter, la
blogsfera sono ormai a tutti gli effetti dei media che non solo si
affiancano a quelli tradizionali, ma rivelano la capacità egemonica
della Rete nella formazione dell’opinione pubblica.
In altri
termini, secondo Sunstein, tanto la televisione che la radio che i
giornali cartacei scimmiottano ormai la Rete nel produrre e diffondere
informazioni. Non c’è dunque un fuori dalla Rete e chi propone di
sconnettersi da Internet non fa che rafforzare l’ordine del discorso
dominante.
COMPLEMENTARE a questo saggio è il libro di Maurizio
Ferraris Postverità e altri enigmi (Laterza, pp. 181, euro 13). Il
filosofo italiano, con un incedere apodittico, non ha dubbi: la Rete più
che uno strumento democratico manifesta una attitudine autoritaria,
anche se questo non significa cancellare la libertà di espressione,
bensì di definire la cornice – dunque i confini del legittimo e
dell’illegittimo – dove può essere ammessa comunicazione.
Per
questo, non è più rilevante la distinzione tra verità e falso, bensì
decriptare la nuova era qualificata come «postverità». Figura
emblematica e triviale della postverità è il personaggio di Maurizio
Crozza che ha scelto come nickname Dinamite, perché pensa che i
movimenti compulsivi del mouse e il ticchettìo dei tasti della tastiere
facciano esplodere un mondo percepito come ostile e nemico.
LE
FAKE NEWS non sono perciò solo «bufale» che possono essere contestate
facendo leva su quell’agire comunicativo fondato sulla razionalità e
sulla verifica dei fatti, bensì sono l’emblema radicale di
quell’affermazione postmoderna in base alla quale non ci sono «fatti ma
solo interpretazioni».
I social network e i social media sono cioè
il braccio tecnologico di quel postmoderno dato per morto, ma ancora in
servizio permanente ed effettivo nell’«era della documedialità», cioè
nel regno del documento, della scrittura che diventa testo teso a
qualificare, meglio nominare la realtà.
La differenza tra l’epoca
contemporanea e le precedenti, che hanno visto anch’esse i documenti
come lettura, interpretazione, rappresentazione della realtà, sta
nell’adagio hegeliano della quantità che si trasforma in qualità.
Inoltre,
e questo è l’elemento ben più rilevante, la documedialità attesta il
fatto che ogni testo, foto, video che viene diffuso abbia una funzione
mediatica, cioè corrisponda a una rappresentazione della realtà che è
destinata a rimanere memorizzata nella cloud della comunicazione on
line. Da qui, la certezza della postverità come orizzonte della
comunicazione en general.
LA CRITICA ALLA POSTVERITÀ non può
dunque che partire dalla comprensione della documedialità, asserisce
Maurizio Ferraris. Ma più che una via d’uscita dalla postverità sembra
di trovarsi di fronte a un circolo vizioso.
Come attestare la
veridicità dei documenti memorizzati nella Rete; come distinguere il
vero dal falso? Sembra un gioco dell’oca dove la casella della
documedialità impone di tornare alle origini del pensiero filosofico e a
quella distinzione tra opinione e verità suggellata da Aristotele e
Platone come fondamento della filosofia.
Vale la pena allora soffermarsi su come nascono e si diffondono le opinioni.
Senza
tirare in ballo lo studio seminale sull’opinione pubblica di Jürgen
Habermas, occorre volgere lo sguardo sugli «imprenditori degli
hashstag», cioè chi definisce le parole chiave della frammentazione del
pubblico, e su personaggi come Mark Zuckerberg che non nascondono le
ambizioni di costruire una comunità globale che attraverso la rete
definisca i criteri per rendere compatibile un punto di vista con
l’interesse generale di quella stessa comunità globale.
Zuckerberg
dà per scontata la frammentazione degli utenti della rete in una
miriade di comunità elettive, ma ritiene che un atteggiamento
politicamente corretto codificato in policy, che dia ai proprietari del
social network il potere di bloccare l’accesso agli haters, possa
evitare la formazione di imprenditori dell’odio razziale, sessista e
ideologico.
È UNA POSIZIONE questa che continua a immaginare le
funzioni normative degli intermediari (i media, gli imprenditori della
comunicazione e gli intellettuali), come fossero guardiani del «vero».
Solo attraverso la loro azione può essere contrastato lo sminuzzamento
del pubblico, che si rifugia, frammento per frammento, nelle echo
chambers preferite, e temporanee, va da sé, per paura dell’incontro con
le diversità.
E se i media ritrovano così un ruolo «progressivo»,
capace di salvare la democrazia dai suoi limiti e della sua tendenza a
trasformarsi nel potere degli oligarchi, gli intellettuali possono
ambire a illuminare le caverne dove uomini e donne sono condannati a
vivere in assenza dei sapienti.
Nostalgia del passato, di un mondo
precedente a Internet, non c’è dubbio, ma ignorare la denuncia della
sistematica manipolazione dell’opinione pubblica significherebbe agire
come gli struzzi: nascondere la testa nella sabbia perché il pericolo si
avvicina.
LA MANIPOLAZIONE dell’opinione pubblica è un dato di
fatto. E se in passato accadeva per consolidare rapporti sociali e di
potere, nell’era della #republic questo avviene anche per consolidare
modelli di business, perché la produzione dell’opinione pubblica è
diventata un settore economico di tutto rispetto.
Facebook produce
e riproduce opinione pubblica: attraverso di essa ha definito il
proprio modello di business. Lo stesso si può dire per Twitter, Google,
Amazon, le cloud computing delle imprese operanti dentro e fuori la
Rete.
Certo, ciò significa che il pubblico è immaginato e
manipolato come un aggregato di consumatori, parcellizzati a seconda di
particolari affinità elettive. È questo lo sfondo, il contesto delle
proposte di Zuckerberg, che vede gli utenti della Rete come consumatori
di contenuti.
Rompere la gabbia del consumo di informazione è
certo un primo passo, ma quel che più conta è sviluppare una critica
all’economia politica dell’opinione pubblica, dove produzione, consumo e
distribuzione funzionano come un vortice che «cattura», risucchiandoli,
i desideri, i pensieri, le aspirazioni, l’intelligenza presenti nella
comunicazione.
E poi c’è la cooperazione sociale.
È solo
attraverso una accorta e efficace critica dell’economia politica
dell’opinione pubblica che si può immaginare una democrazia radicale che
non tracimi nell’oligarchia, come ripetevano i classici della filosofia
politica.
Altrimenti ci si può salvare l’anima evocando un mondo
che non c’è più, magari rinchiudendosi in una consolatoria echo chamber
dove si assiste con terrore al flusso di informazioni e al loro rumore
di fondo scandito da fake news, denunciando la degenerazione della
democrazia in un spazio dominato dal consumo e dalla postverità.