il manifesto 17.1.18
«Nei bantustan in Sudafrica un’unica apartheid, in Palestina tante»
Intervista.
Salim Vally, professore sudafricano e leader del Palestine Solidarity
Committee: «Il sistema israeliano è più sofisticato: si applica in forme
diverse alle diverse 'sacche' di palestinesi. E a differenza degli
Afrikaners non è così dipendente dalla manodopera araba»
di Chiara Cruciati
Da
anni attivisti, esperti e ricercatori studiano i parallelismi tra il
Sudafrica del dominio Afrikaners e il regime che Israele ha imposto
sulla popolazione palestinese. Alla base sta il concetto di apartheid
che, seppur con ovvie differenze storiche, è applicato ai due sistemi e
che è definito dal diritto internazionale come «regime
istituzionalizzato di oppressione sistematica e di dominio di un gruppo
razziale su qualsiasi altro gruppo razziale».
Ma se a 20 anni
dalla sconfitta dell’apartheid sudafricana come sistema legale le
disuguaglianze socio-economiche tra bianchi e nere permangono, Israele
porta avanti la sistematica discriminazione della popolazione
palestinese sotto la propria effettiva autorità, che si tratti dei
palestinesi cittadini israeliani o dei residenti nei Territori Occupati.
Ne
abbiamo parlato con Salim Vally, professore all’Università di
Johannesburg e direttore del Center for Education Rights and
transformation, leader del Palestine Solidarity Committee sudafricano e
attivista anti-apartheid di lungo corso.
A due decenni dalla fine
dell’apartheid legale in Sudafrica, cosa resta del sistema di
segregazione? Permane un’apartheid ufficiosa o, come la definisce
un’analisi del think tank al-Shabaka, un «capitalismo razziale» nel
paese?
Sono completamente d’accordo con il concetto usato dagli
autori dell’analisi citata, Haidar Eid e Andy Clarno. Il capitalismo
razziale è la causa dell’assenza di un reale cambiamento: il sistema di
apartheid, la sua legislazione e la discriminazione legale sono stati
rimossi dalle leggi dello Stato, ma non la discriminazione di classe, in
termini di povertà, di proprietà. Nulla è cambiato. Ci troviamo di
fronte ad un sistema liberale democratico come risultato dei negoziati
dei primi anni ’90, ma non a reali cambiamenti strutturali.
È la
razza che continua a definire opportunità e accesso a casa, terre,
educazione, servizi. Una forma diversa e occulta di colonizzazione?
Il
processo per cui alcune persone si sono arricchite e altre impoverite
segue linee razziali. Usare la razza per giustificare la spoliazione
della gente e l’accumulazione rapida da parte di pochi significa
utilizzare linee di «colore». Le questioni di razza e classe non possono
essere divise, l’intera struttura dipende da capitalismo e razzismo.
Succede anche in altri paesi ma in Sudafrica in modo molto più
sistematico. Tutti noi abbiamo combattuto l’apartheid e pagato un prezzo
e siamo consapevoli che la situazione è migliorata, che c’è stato un
avanzamento chiaro sul piano della discriminazione legale, ma è vero
anche che la maggior parte dei poveri e della classe operaia non ha
visto migliorare le proprie condizioni socio economiche.
Salim Vally
Perché
nel Sudafrica della lotta all’apartheid e del governo ormai ventennale
dell’Anc, la discriminazione non è stata sconfitta?
Perché la
struttura economica della società non è stata cambiata nelle sue
fondamenta. Come accaduto anche in Asia e America latina, l’indipendenza
politica ha portato a nuove élite e nuove bandiere ma le principali
sorgenti dello sfruttamento sono spesso rimaste le stesse. Il vero
potere, quello economico, è in mano a chi lo aveva già, alla borghesia
tradizionale, nel caso sudafricano quella bianca. A questa si aggiunge
una piccola quota di borghesia nera, ma la maggior parte dei neri sono
intrappolati in una tremenda povertà.
Inevitabile è il parallelo
con il modello israeliano. Nelson Mandela disse: «La nostra libertà è
incompleta senza la libertà dei palestinesi». E Desmond Tutu ripete che
quella israeliana è una segregazione ancora peggiore di quella degli
Afrikaners. Quali i punti in comune e quali le differenze?
Ci sono
molti elementi comuni, il modello israeliano è parte della «famiglia»
dei regimi di apartheid. I pensieri espressi da Mandela e Tutu sono
molto accurati. Chi di noi ha visitato la Palestina ha immediatamente
visto le similitudini nella discriminazione quotidiana: mancata libertà
di movimento, regime dei permessi, demolizioni di case, detenzioni senza
processo, divisione in bantustan di Cisgiordania e Gerusalemme. Tutto
questo riflette il modello operativo dell’occupazione che non esitiamo a
definire stato di apartheid.
È molto importante sul piano
giuridico e del diritto internazionale ricordare che l’Onu ha votato
alla fine degli anni ’80, dopo lo scoppio della prima Intifada per
intenderci, una risoluzione di condanna ed eliminazione dell’apartheid,
ovviamente riferita all’epoca al Sudafrica ma volontariamente posta come
concetto generico. L’obiettivo era riferirsi a qualsiasi possibile
paese. Esperti giuridici di tutto il mondo, come John Dugand e Richard
Falk, hanno detto più volte che Israele si qualifica come Stato di
apartheid.
Esistono ovviamente anche significative differenze tra
Israele e Sudafrica dell’apartheid. Un esempio: la classe al potere in
Sudafrica dipendeva dalla forza lavoro nera a basso costo e per questo
lo sviluppo dei sindacati ha permesso di resistere con più efficacia al
regime semplicemente sottraendogli lavoratori e bloccando l’economia.
Nel caso palestinese non accade: se inizialmente Israele ha sfruttato la
manodopera palestinese, l’ha poi marginalizzata. L’economia israeliana
non è dipendente dalla forza lavoro palestinese.
Il caso
palestinese è inoltre caratterizzato dalla divisione in territori e
conseguenti status legali diversi della popolazione (rifugiati della
diaspora, residenti apolidi di Gerusalemme, comunità sotto occupazione a
Gaza e in Cisgiordania e palestinesi cittadini israeliani). Forme
diverse di apartheid o un unico sistema?
È come se il popolo
palestinese fosse tanti popoli diversi. È fondamentale ricordarsi dei 7
milioni di profughi all’estero e dei quasi 2 milioni di palestinesi
cittadini israeliani discriminati. La situazione è dunque diversa dalla
segregazione sudafricana dove con il sistema dei bantustan si puntava al
controllo fisico e limitato nello spazio della popolazione nera, dove
però non c’erano differenze di trattamento. Il sistema di apartheid di
Israele è infinitamente più sofisticato perché si applica in forme
diverse alle diverse «sacche» di palestinesi. Ciò rende la loro
situazione peggiore di quella che la maggior parte dei sudafricani ha
sopportato.
Nel caso sudafricano, oltre alla mobilitazione
interna, un ruolo centrale lo ebbe il boicottaggio internazionale. In
quello palestinese il boicottaggio esiste, ha effetti concreti ma resta
un’opzione elle società civili, non dei governi. Quale la chiave per
aprire le stanze dei bottoni?
Nel caso sudafricano ci sono voluti
decenni prima che si arrivasse al boicottaggio internazionale e che
questo divenisse significativo: la prima chiamata la boicottaggio risale
al 1959. Non abbiamo raggiunto questo livello con la questione
palestinese, ma non significa che un movimento non esista. Significa che
il supporto globale può avere effetti contro l’impunità di Israele,
soprattutto in Europa, se si moltiplicano le spinte dalla base ai
vertici. Ognuno di noi di fronte alle atrocità che vede deve giocare un
ruolo: studenti, professori, organizzazioni, associazioni di donne e
così via sono il solo mezzo di pressione sui governi al potere, che
beneficiano loro stessi dell’occupazione israeliana.
Abbiamo visto
in questi giorni Ibrahim Abu Thuraya, disabile, ucciso da un cecchino
israeliano mentre sventolava una bandiera, un omicidio extragiudiziale;
la 16enne Ahed Tamimi arrestata per uno schiaffo; due milioni di persone
sotto assedio a Gaza; 500 bambini arrestati ogni anno e torturati…posso
andare avanti per giorni a elencare le atrocità israeliane. E tutto
avviene nel silenzio internazionale. Dobbiamo agire ora perché la
repressione che subiscono i palestinesi è ora. Netanyahu, il movimento
dei coloni, la gran parte del governo israeliano la vedono come la
soluzione definitiva a quanto iniziato nel 1948, un genocidio in termini
di presenza fisica, culturale, sociale, così come lo definisce – usando
la definizione dell’Onu – Ilan Pappe. Tutto questo può spingere la
gente a guardare alla solidarietà internazionale e al rafforzamento
delle organizzazioni di base palestinesi come sola alternativa alla
posizione dei governi.
***
Salim Vally è impegnato in questi
giorni in un tour in Italia, una serie di incontri sul ruolo del
boicottaggio internazionale nella lotta all’apartheid. Lunedì ha parlato
a Cagliari, ieri a Torino. Oggi sarà a Trieste, domani a Bologna e
venerdì a Reggio Emilia. Informazioni su luoghi e orari nella pagina
Facebook di Bds Italia.