il manifesto 16.1.17
Italia in armi, dal Baltico all’Africa
L’arte della guerra. La rubrica settimanale a cura di Manlio Dinucci
di Manlio Dinucci
Che
cosa avverrebbe se caccia russi Sukhoi Su 35, schierati nell’aeroporto
di Zurigo a una decina di minuti di volo da Milano, pattugliassero il
confine con l’Italia con la motivazione di proteggere la Svizzera
dall’aggressione italiana?
A Roma l’intero parlamento insorgerebbe, chiedendo immediate contromisure diplomatiche e militari.
Lo
stesso parlamento, invece, sostanzialmente accetta e passa sotto
silenzio la decisione Nato di schierare 8 caccia italiani Eurofighter
Typhoon nella base di Amari in Estonia, a una decina di minuti di volo
da San Pietroburgo, per pattugliare il confine con la Russia con la
motivazione di proteggere i paesi baltici dalla «aggressione russa».
La
fake news con la quale la Nato sotto comando degli Stati uniti
giustifica la sempre più pericolosa escalation miitare contro la Russia
in Europa. Per dislocare in Estonia gli 8 cacciabombardieri, con un
personale di 250 uomini, si spendono (con denaro proveniente dalle casse
pubbliche italiane) 12,5 milioni di euro da gennaio a settembre, cui si
aggiungono le spese operative: un’ora di volo di un Eurofighter costa
40 mila euro, l’equivalente del salario lordo annuo di un lavoratore.
Questa è solo una delle 33 missioni militari internazionali in cui l’Italia è impegnata in 22 paesi.
A
quelle condotte da tempo nei Balcani, in Libano e Afghanistan, si
aggiungono le nuove missioni che – sottolinea la Deliberazione del
governo – «si concentrano in un’area geografica, l’Africa, ritenuta di
prioritario interesse strategico in relazione alle esigenze di sicurezza
e difesa nazionali».
In Libia, gettata nel caos dalla guerra
della Nato del 2011 con la partecipazione dell’Italia, l’Italia oggi
«sostiene le autorità nell’azione di pacificazione e stabilizzazione del
Paese e nel rafforzamento del controllo e contrasto dell’immigrazione
illegale».
L’operazione, con l’impiego di 400 uomini e 130
veicoli, comporta una spesa annua di 50 milioni di euro, compresa una
indennità media di missione di 5 mila euro mensili corrisposta (oltre la
paga) a ciascun partecipante alla missione. In Tunisia l’Italia
partecipa alla Missione Nato di supporto alle «forze di sicurezza»
governative, impegnate a reprimere le manifestazioni popolari contro il
peggioramento delle condizioni di vita.
In Niger l’Italia inizia
nel 2018 la missione di supporto alle «forze di sicurezza» governative,
«nell’ambito di uno sforzo congiunto europeo e statunitense per la
stabilizzazione dell’area», comprendente anche Mali, Burkina Faso,
Benin, Mauritania, Ciad, Nigeria e Repubblica Centrafricana (dove
l’Italia partecipa a una missione dell’Unione europea di «supporto»).
È
una delle aree più ricche di materie prime strategiche – petrolio, gas
naturale, uranio, coltan, oro, diamanti, manganese, fosfati e altre –
sfruttate da multinazionali statunitensi ed europee, il cui oligopolio è
però ora messo a rischio dalla crescente presenza economica cinese.
Da
qui la «stabilizzazione» militare dell’area, cui partecipa l’Italia
inviando in Niger 470 uomini e 130 mezzi terrestri, con una spesa annua
di 50 milioni di euro. A tali impegni si aggiunge quello che l’Italia ha
assunto il 10 gennaio: il comando della componente terrestre della Nato
Response Force, rapidamente proiettabile in qualsiasi parte del mondo.
Nel 2018 è agli ordini del Comando multinazionale di Solbiate Olona
(Varese), di cui l’Italia è «la nazione guida». Ma – chiarisce il
Ministero della difesa – tale comando è «alle dipendenze del Comandante
Supremo delle Forze Alleate in Europa», sempre nominato dal presidente
degli Stati uniti.
L’Italia è quindi sì «nazione guida», ma sempre subordinata alla catena di comando del Pentagono.