Il Fatto 23.1.18
Regeni, la stampa e l’Italia: due anni di teatro della verità
Distrazione
di massa - Si vuol accreditare la tesi che il segreto della morte del
28enne vada cercato a Cambridge più che al Cairo: così il ruolo del
regime di al Sisi si sfuma
Regeni, la stampa e l’Italia: due anni di teatro della verità
di Guido Rampoldi
A
due anni dall’assassinio di Giulio Regeni la verità pare finalmente
vicina. O almeno sappiamo dove cercarla: negli oscuri ambienti
accademici dell’università di Cambridge che cinicamente usarono il
ricercatore per costruire una cospirazione filo-islamica, forse
anti-italiana. Il fatto che Regeni sia stato ucciso al Cairo e non a
Cambridge pare avere una qualche rilevanza ma anche su quel fronte,
buone notizie: la Procura egiziana, incalzata dal nostro governo, ha
mandato importanti carte a Roma, così dimostrando, lo certifica il
ministro Minniti, la volontà di al Sisi di collaborare alla scoperta
della verità, da cui evidentemente il feldmaresciallo non ha da temere.
Questa è grossomodo la sintesi di quanto si è letto e ascoltato in
questi giorni, ed è abbastanza per porre con urgenza la domanda che
aleggia da due anni sopra questa per nulla oscura vicenda: l’Italia ha
ancora un’informazione o ha deciso di farne stoicamente a meno? La
seconda, potremmo rispondere ripercorrendo le contorsioni di cui è stato
capace il giornalismo italiano in questo tempo.
L’arresto e
l’uccisione di Giulio Regeni sono eventi nel complesso lineari, nitidi.
Segnalato da un informatore ai servizi segreti egiziani per una vendetta
personale o per un malinteso, Regeni fu arrestato nel giorno più temuto
dal regime, il 25 gennaio, anniversario della rivoluzione egiziana
spenta dal golpe del 2013, e nei paraggi di un luogo altamente
simbolico, piazza Tahir, lì dove la sollevazione cominciò. L’apparato
che deteneva il ricercatore lo torturò per sette giorni e infine lo
soppresse intenzionalmente (con un colpo di karate, accertò l’autopsia),
probabilmente per evitare che potesse raccontare quel che aveva subito.
È verosimile che l’eliminazione di un occidentale richiedesse
l’autorizzazione dello stesso al-Sisi. In ogni caso in seguito il regime
è stato tetragono nel rifiutare la colpa di quella morte. Ma dopo tante
sguaiate menzogne, quando infine ha deciso di costruire una versione
convincente ha finito per scoprirsi. Alla fine di marzo 2016, quasi due
mesi dopo la morte di Regeni, la polizia attribuì l’omicidio a 5
egiziani morti in uno strano ‘scontro a fuoco’ con gli agenti.
Quando
però l’ambasciata italiana e il legale dei Regeni, la combattiva
Alessandra Ballerini, tentarono di vederci chiaro, emerse che i
documenti del ricercatore, secondo il regime trovati in casa di uno
degli egiziani uccisi e perciò ‘prova’ della loro responsabilità, in
realtà erano stati portati lì da un ufficiale della polizia. Un
ufficiale di cui, da allora, la Procura di Roma conosce il nome.
Questo
clamoroso autogol obbligò l’informazione italiana e i suoi molteplici
ispiratori ad abbandonare la tesi propalata fino a quel giorno da grandi
giornali e tg: Regeni ucciso da nemici dell’Italia e di al-Sisi per
rovinare i proficui rapporti di amicizia intessuti da Roma e dal Cairo.
Lo stesso al-Sisi l’aveva fatta propria in una intervista a Repubblica
nella quale aveva ricordato tanto i motivi che lo rendevano prezioso
all’Italia, dai giacimenti dell’Eni all’influenza egiziana sulla Libia
orientale, quanto l’amicizia e la stima, ricambiati, che lo legavano a
Renzi. All’epoca quasi tutta l’informazione era renziana, l’Eni
rappresenta un grande inserzionista e al-Sisi appare tuttora a molto
giornalismo il ‘male minore’, un tiranno ‘filo-occidentale’ che tiene a
bada ‘gli islamici’ con inevitabile brutalità. La somma di questi
fattori dà come risultato un’informazione altamente omissiva, costruita
sul rifiuto di mettere in relazione l’uccisione di Regeni con i metodi
di un regime golpista che si è presentato al mondo massacrando 1200
dimostranti e sbranandone centinaia nelle sue sale di tortura.
A
noi interessa solo la morte di Giulio Regeni, almeno ufficialmente.
Sicché se al-Sisi ci consegnasse tre sgherri qualunque, torneremmo a
salutarlo renzianamente, come ‘grande amico’, ‘statista’ e ‘salvezza del
Mediterraneo’. Ma poiché neppure questo ripiegamento tattico pare nelle
intenzioni del regime, per il governo italiano sta diventando
complicato conciliare due obiettivi divergenti, non irritare il Cairo e
allo stesso tempo fingere di tener fede a un’indefettibile desiderio di
verità.
Ecco allora prendere quota la variante denominata ‘la
pista Cambridge’. Avvalorata da Renzi e dal ministro degli Esteri Alfano
con dichiarazioni severe, vuole che la tutor di Regeni nasconda il
segreto della sua morte, presumibilmente un piano cospirativo finanziato
con diecimila sterline. Vi alludono cronache giudiziarie fumose nelle
quali ciò che pare certo nel primo capoverso diventa dubbio già nel
terzo. Peraltro una conoscenza anche minima dell’Egitto dovrebbe
suggerire che l’unico ambiente in cui può davvero maturare una
cospirazione contro al Sisi, il vertice militare, non è raggiungibile
dagli accademici di Cambridge. Ma fare di Regeni la vittima di un
regolamento di conti tra servizi segreti pare ridimensionarne lo
scandalo della morte. E spostare l’attenzione sulla ‘pista
universitaria’ aiuta a far accettare che al-Sisi torni a essere nostro
interlocutore. In dicembre, riferivano i giornali italiani senza tradire
perplessità, il dittatore ha espresso al ministro dell’Interno Minniti
“la sincera volontà” di ottenere “risultati definitivi” nell’inchiesta. A
sua volta Minniti è stato al copione: ha ribadito che l’Italia
“pretende la verità” e ha salutato la consegna agli italiani di nuova
documentazione come prova di rinnovata collaborazione. In quelle carte
c’era poco, ma questo è stato taciuto ai fiduciosi lettori. L’importante
è che la commedia vada avanti, dato che nessuno sa come chiuderla. Ma
dove l’informazione diventa teatro su commissione, recitazione di testi
suggeriti da poderosi committenti, o perlomeno strumento docile del
sistema-Paese, cosa resta di una democrazia?