lunedì 22 gennaio 2018

Il Fatto 22.1.18
Francesco lo straniero. “A Roma muoio”
Francesca Chaouqui e monsignor Balda
di Fabrizio d’Esposito e Carlo Tecce


Il pontificato di Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires con antiche radici diffuse in Piemonte, comincia all’insaputa della Chiesa – e forse a conoscenza del destino – il 19 aprile del 2005. Quando il Conclave, riunito dopo l’atroce morte di Giovanni Paolo II, al quarto scrutinio elegge il teologo Joseph Ratzinger che sceglie il nome di Benedetto. I cardinali europei e italiani preferiscono Ratzinger a Bergoglio e la continuità col passato piuttosto che la rivoluzione sudamericana. Il consenso per l’argentino è notevole, si potrebbe sfruttare subito per un incarico apicale in Curia oppure per una collaborazione da vicino con Ratzinger. Per due motivi, però, Bergoglio non viene coinvolto.
Il primo riguarda i “grandi elettori” che hanno affidato le loro ambizioni e i loro interessi a Benedetto XVI: il gruppo di Tarcisio Bertone – perlopiù salesiani che sbarcano in Vaticano dal Piemonte o dalla Liguria – è pronto a spartirsi il potere, come poi è accaduto in maniera spudorata finché lo stesso Ratzinger non è crollato e si è dimesso. Il secondo motivo, invece, spiega la formazione religiosa e caratteriale di Bergoglio: “Se vengo a Roma, muoio”, dice con una battuta di profondo realismo agli amici che l’hanno caldeggiato per un ruolo in Vaticano prima e dopo il Conclave.
Il 13 marzo 2013, sconfitto il cardinale Angelo Scola, il ciellino sostenuto dal solito blocco di europei e italiani, la “Chiesa mondo” – ormai asiatica e africana e pur sempre sudamericana – impone Bergoglio al soglio di Pietro per ammansire le “vipere” che circolano in Vaticano e debellare i “veleni” che dispergono: una croce di ferro, il trilocale a Santa Marta, un linguaggio popolare (per alcuni, populista), aperto ai divorziati e agli omosessuali, severo con i sacerdoti pedofili, predicatore di accoglienza, convinto ecologista (scrive sul tema l’enciclica Laudato Sii), fustigatore di politici e clericali, così si presenta papa Francesco.
In esilio a Castel Gandolfo, l’ormai pontefice emerito Ratzinger consegna al successore uno scatolone che custodisce i fragorosi risultati di un’inchiesta condotta dai cardinali. Il mandato conferito all’argentino è preciso e quasi onirico: bonificare ovunque la Curia; estirpare la corruzione e il malaffare; rimuovere i traditori della Chiesa; domare i “corvi” che con Vatileaks hanno frantumato il papato di Ratzinger; rendere trasparente la gestione del denaro dell’Istituto per le opere religiose, il leggendario Ior. A cinque anni da quel giorno, il mandato di Bergoglio non è compiuto, ma raggiunge un punto di svolta: o si vince o si perde. Sottotraccia (e a rate) s’affaccia Vatileaks III, gli ultimi reduci dell’epoca bertoniana lottano per resistire, gli sciacalli di un tempo ritornano a circondare lo Ior e l’argentino sconta pure diverse nomine sbagliate.
Neanche Bergoglio è riuscito a purificare la Chiesa dal peccato più grosso: i soldi. Il cardinale George Pell, l’ormai ex ministro per l’Economia sensibile al lusso e ai modi eccentrici, è rientrato in Australia perché imputato per reati sessuali. Un fallimento. Come l’implosione in Vatileaks II di Cosea, la Pontificia commissione referente di studio sulla struttura economica-amministrativa. Monsignor Lucio Angel Vallejo Balda e Francesca Immacolata Chaouqui, processati assieme ai libri di Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi, erano segretario e componente di Cosea. Il laico Libero Milone, accolto con l’entusiasmo che si riserva a un messìa, se n’è andato con un’accusa precisa a monsignor Angelo Becciu: “Mi disse di lasciare l’incarico. Volevano arrestarmi (c’era un’inchiesta vaticana su di lui, ndr)”. Il sardo di Pattada ha replicato alzando il livello dello scontro: “Spiava me e gli altri superiori”.
Sempre sul fronte “soldi” vanno registrati – e siamo ancora a un prologo e non all’epilogo di Vatileaks III – il licenziamento di Giulio Mattietti, vicedirettore aggiunto dello Ior, per vent’anni responsabile della struttura informatica della “banca” e le veline contro il direttore Gianfranco Mammì. Sarà lo Ior e non soltanto lo Ior la pietra del prossimo scandalo: i prodromi ci sono, e ci sono anche, in verità, le pressioni esterne di coloro che non accettano che, dal marzo 2017, il Vaticano non sia più considerato un “paradiso fiscale” e che sia attiva una convenzione tra la Santa Sede e l’Italia.
Oltre lo Ior, i bergogliani guardano con attenzione all’Aif, l’Autorità di informazione finanziaria istituita da Ratzinger otto anni fa per contrastare il riciclaggio. E ancora. Una classica “rivalità politica” fra il cardinale Pietro Parolin e il già citato Becciu può spingere Bergoglio a una decisione clamorosa.
Questa coppia fa il governo vaticano. Parolin è il segretario di Stato che, estirpato il provincialismo di Bertone, ha riportato il dicastero in una dimensione diplomatica, non fine a se stessa, ma efficace nel propiziare percorsi di pace in territori di guerra o fra paesi nemici (leggi Cuba e Usa). Becciu è il Sostituto per gli Affari Generali della segretaria di Stato, alimenta e coltiva i rapporti con le istituzioni italiane, le nunziature sparse per il mondo, interviene sui delicati meccanismi curiali.
Becciu è definito il “papa italiano” per l’attitudine a controllare – come se fosse il capo – le questioni interne. Bergoglio l’ha confermato appena insediato, anche se la matrice di Becciu è bertoniana: è un uomo esperto e pragmatico, e dunque era funzionale all’ingresso in Curia di Francesco. Il tempo ha ristretto lo spazio in segreteria di Stato, Parolin e Becciu si scontrano e in coppia si sgomita troppo.
Per arginare Becciu, qualche mese fa, Francesco ha creato in segreteria di Stato la “terza sezione” che si occupa dei nunzi. Non è sufficiente. “Se Becciu non lascia, Parolin se ne va”, spiega al Fatto una fonte vaticana. Bergoglio non ha intenzione di “punire” Becciu, ma lo può promuovere e rimuovere: elevarlo a cardinale e spostarlo in un dicastero. A proposito di porpore, Bergoglio sta disegnando il suo Conclave. Al concistoro vengono nominati i cardinali, non solo elettori, ma anche “pensionati” che hanno superato gli 80 anni. E infatti, la prima volta, Bergoglio elevò a cardinale l’anziano Capovilla (e di recente il vescovo emerito di Novara, Renato Corti) e dopo 35 anni neanche uno statunitense.
Francesco ha ridotto la quota di europei e di italiani e ha aumentato quella degli asiatici. Vuole una Chiesa contemporanea, non antiquata. Ha nominato vescovi italiani di periferia Menichelli (Ancona), Montenegro (Agrigento), Bassetti (Perugia) e non quelli di Venezia e Torino. Nel 2013 i cardinali elettori erano 115 di cui 60 europei (28 italiani), 13 sudamericani e 11 asiatici. Al primo gennaio i cardinali elettori sono 120, di cui 52 europei (23 italiani), 15 asiatici.
Il presente angoscia più del futuro. E del presente il cardinale Gerhard Ludwig Müller non è più un impiccio. Su ordine di Francesco, il tedesco ha traslocato dal Sant’Uffizio – la Congregazione per la dottrina della fede – non per le critiche al riformismo del pontefice, ma per i pessimi risultati contro la pedofilia e il naufragio della commissione internazionale sugli abusi (a breve sarà rifondata e andrà chiarito il ruolo del nuovo dissidente O’Malley). I prelati più fedeli a Bergoglio si preoccupano con la giusta tensione emotiva dei fisiologici ostruzionismi di Curia o delle reazioni scomposte dei tradizionalisti. Per esempio, il motu proprio sulla nullità dei matrimoni è di fatto non applicato in Italia, perché i tribunali ecclesiastici regionali temono di perdere i fondi della Conferenza episcopale con i vescovi diocesani nel ruolo di “giudici”.
E fa sorridere l’insistente approccio di Domenico Calcagno, padrone dell’Apsa (patrimoni e immobili), collezionista di pistole e uomo forte di Bertone, che spesso a Santa Marta piomba al tavolo della cena di Francesco con una bottiglia di vino rosso. Questi bergogliani parlano con maggiore turbamento, invece, di una congiura organizzata dall’episcopato nordamericano e ramificata in Vaticano per spodestare il pontefice argentino: i “corvi” che volteggiano in Vaticano, secondo le nostri fonti, seguono il richiamo di alcuni cardinali degli Stati Uniti, spaventati dall’impostazione sociologica, anticapistalista, terzomondista della Chiesa di Francesco.
La rete anti-Bergoglio ha un’ispirazione ultra-tradizionalista e a Roma ha una solidissima sponda in vari ambienti influenti, a partire dalla cattomassoneria di faccendieri e nobiltà nera che sin dal 2015 ha iniziato a complottare contro Francesco. Il primo atto di questa guerra fu la bufala sbattuta in prima pagina da un quotidiano su un presunto tumore di Francesco. Poi, il conflitto si è allargato su due piani. Quello delle lotte di potere vero su interessi economici, si pensi al ribaltone all’Ordine di Malta – un autentico Stato dotato di mezzi smisurati – o all’esplosiva nebulosa di Vatileaks III. E il piano della dottrina, dove a scatenare gli oppositori del pontificato sono state le concessioni ai divorziati dell’Amoris Laetitia. Il fronte dottrinario aperto da coloro che lo stesso Bergoglio ha definito farisei, cioè aridi dottori della Legge, non è affatto secondario nelle trame di una rete che parla soprattutto inglese.
L’ultimo scandalo montato ad arte riguarda il presepe allestito per Natale in Vaticano. Uno dei siti più letti di questa galassia, il canadese LifeSiteNews, ha pubblicato un lungo reportage, ripreso da tanti blog italiani, sulle allusioni “omoerotiche” (un cadavere nudo definito “palestrato”) della composizione dedicata quest’anno alle sette opere di misericordia. Prima ancora, poi, è uscito il libro firmato con lo pseudonimo di Marcantonio Colonna, probabilmente un giornalista inglese, in cui Bergoglio è descritto come un pericoloso “manipolatore” e un “dittatore” che governa con “la paura”, alleato con “gli elementi più corrotti del Vaticano” per “capovolgere” le riforme che “ci si attendeva da lui”. Questo fronte, però, ha perso negli ultimi mesi l’alfiere più prestigioso: il cardinale Müller, “ritiratosi” dalla guerriglia in cui comunque denuncia il “cerchio magico” di Francesco e persino il pericolo di uno scisma.
Sul porporato teutonico erano riposte le speranze dei tifosi dei cinque Dubia (Dubbi) contro l’Amoris Laetitia, presentati da quattro cardinali. Müller li ha spiazzati dicendo che Francesco non ha bisogno di rispondere perché è tutto contenuto nel documento. Adesso l’attacco è ripreso con la “Professione di fede” di tre sconosciuti vescovi del Kazakhstan, dove i cattolici sono l’uno per cento. Ma tra le firme di adesione ce n’è una sorprendente: quella dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò, già nunzio apostolico negli Stati Uniti, che in epoca di Ratzinger e Bertone rivelò l’esistenza di una lobby gay in Vaticano.