Corriere 22.1.18
L’inganno in rete Falsi marchi e mercato nero
di Milena Gabanelli
Comprare
online è molto comodo, ma soprattutto possiamo cercare, di qualunque
prodotto, quello che costa meno, certi di trovarlo. Spesso è un prodotto
contraffatto made in China, venduto sulle piattaforme Alibaba, il
gigante dell’e-commerce che ogni giorno processa 832 milioni di ordini.
Sulla sua piattaforma si compra tutto: dall’abbigliamento
all’agroalimentare, ai pezzi di ricambio, agli articoli per la casa, ai
farmaci, all’elettronica. Oggi funziona così: sulle piattaforme, dove
ogni giorno approdano migliaia di nuovi venditori, nessuno è obbligato a
mostrare la licenza per vendere un certo prodotto. E allora come si
difendono le imprese quando si accorgono che qualcuno sta vendendo per
esempio le loro scarpe a un prezzo stracciato?
Possono lamentarsi
con Alibaba, e, se sono in grado di indicare lo specifico venditore,
magari quell’offerta viene tolta dalla piattaforma, per ricomparire
probabilmente dopo due settimane. Oppure possono rivolgersi all’autorità
cinese, che di solito risponde: «Cercatevi un investigatore e trovate
la fabbrica dove producono le scarpe contraffatte; dopo noi
interveniamo». In pratica, se quel marchio non lo hai registrato in
Cina, è impossibile far rimuovere la pubblicità dalle piattaforme,
mentre è probabile che lo stesso marchio lo abbia registrato qualcun
altro, visto che i cinesi conoscono in tempo reale ogni brand esistente
sul mercato internazionale. Il valore del falso ammontava nel 2016 a 1,7
trilioni di dollari, e nei prossimi 5 anni è stimata una crescita del
70 per cento.
Il vuoto normativo
I pirati la fanno franca
perché la legge cinese non è chiara, nemmeno per gli avvocati, e alla
fine ai proprietari dei marchi non conviene fare causa per almeno tre
motivi: 1) i risarcimenti sono bassi; 2) Alibaba ha enormi risorse e
grandi avvocati, che hanno una grossa influenza sui Tribunali locali; 3)
di solito le aziende stesse vogliono fare affari attraverso il gruppo
Alibaba, e se lo denunci, diventa più difficile.
Lo scorso giugno,
a Detroit, alla presenza di centinaia di imprenditori, il capo di
Alibaba, Jack Ma, ha ammesso: «La contraffazione è il nostro cancro».
Ogni tanto annuncia la chiusura di qualche migliaio di negozi virtuali,
estromette qualche centinaio di operatori, e chiede ai grandi marchi:
«Sbarcate qui, perché io voglio un mercato pulito»! Apprezzabile buona
volontà, che non sposta il problema di un millimetro, perché chi deve
intervenire è il governo cinese, che da una parte dichiara a gran voce
di voler proteggere le imprese straniere, ma in anticamera dice: «Non
diamo troppa protezione ai brand, altrimenti salta tutta l’industria del
falso e Alibaba porta 12 milioni di posti di lavoro».
Ne è la
prova il fatto che, da 5 anni, in Cina stanno elaborando una legge
sull’e-commerce, e nell’ultima bozza c’è scritto: «Di fronte a una
segnalazione di contraffazione, se il venditore garantisce che non è
vero e ne produce documentazione (a sua volta falsa, ndr ), nessuno va
in tribunale». Una norma che, per le piattaforme, non prevede alcuna
responsabilità, né l’obbligo di approfondire le prove. Il problema non è
solo Alibaba: mentre navighi su Internet ti compare la pubblicità di un
prodotto, cliccando finisci in un sito, una email, un social media o
WhatsApp, dove puoi acquistare quello stesso prodotto (falso). Il 99%
dei ricambi e adattatori per iPhone non sono sicuri. Diventa sempre più
normale il pagamento in bitcoin, anche se Alibaba oggi non li accetta...
non ancora. Si dice: «Segui i soldi, e arriverai al ladro». Ma, con i
bitcoin cosa segui?
Il peso delle scelte
Il consumatore deve
sapere che cercando per ogni prodotto il prezzo più basso, alimenta di
fatto la produzione parallela del falso. Il risultato è che le piccole e
medie imprese italiane trovano i loro marchi dappertutto, da 1688.com
(la piattaforma che vende all’ingrosso, ma dove possono comprare anche i
consumatori retail ) a Taobao o altre piattaforme Alibaba. Come fanno a
sopravvivere se devono competere con la contraffazione, il mercato nero
e i software delle piattaforme che danno la priorità agli articoli che
costano meno? Hanno una sola strada: quella di abbassare a loro volta i
prezzi. Il che significa abbassare gli stipendi, e ridurre al minimo i
contributi e i diritti, quelli a fatica conquistati: le ferie, la
malattia, la maternità. Si esce dal territorio sano della libera
concorrenza, per entrare in quello malato del dumping sociale.
Chi
ha la forza di imporre un cambio di rotta sono i titolari dei grandi
marchi mondiali e le associazioni di categoria, che dovrebbero investire
in una ricerca seria sull’impatto economico e sociale; e poi fare
attività di lobbying sui propri governi, spingendoli a fare pressioni
sul governo cinese. Su Internet la Cina è il mondo, perché con Dhl
spedisce i prodotti, uno per uno, ovunque nel pianeta, e le dogane
raramente controllano il singolo pacchetto. Questo vuol dire che se i
controlli non partono dalla Cina, non c’è speranza di arrestare la
contraffazione globale.
Il piano di crescita
Oggi le
previsioni di crescita di Alibaba sono enormi: conta di capitalizzare
1.000 miliardi di dollari entro il 2020, battendo Apple, Alphabet,
Amazon, Facebook, Tencent. Il suo fondatore Jack Ma ha dichiarato a
Newsweek : «La Cina è cambiata grazie a noi negli ultimi 15 anni. Ora
speriamo che il mondo cambi grazie a noi nei prossimi quindici». Il
colosso sta facendo acquisizioni e investimenti in tutti i settori e in
tutto il mondo: dalle società che si occupano di distribuzione a catene
di negozi e supermercati, dalla stampa ai media, dalle lotterie, allo
sport, ai servizi sanitari. Se riuscirà a comprare anche una compagnia
di servizi di pagamento (come la Western Union per esempio), sarà più
facile costruire una piattaforma fuori dalla Cina, aprendo così le porte
a una ben maggior vendita internazionale di prodotti contraffatti. Da
un giorno all’altro le cose potrebbero andare dieci volte peggio. Il
governo americano ha appena rifiutato la richiesta di Alibaba di
comprare MoneyGram. Grazie Trump, onestamente.
Nota finale:
secondo Jack Ma, l’evasione fiscale non solo è i llegale, ma soprattutto
immorale e ha dichiarato che ogni impresa deve pagare la sua parte
attraverso le tasse, visto che le aziende possono lavorare solo grazie
all’infrastruttura pagata dai cittadini. Quindi, quanto paga questo
colosso in tasse? Secondo il South China Morning Post , giornale
posseduto da Alibaba, il gigante di e-commerce e la sua affiliata
finanziaria Ant Financial hanno pagato, nel 2016, un totale di 3,5 mi
liardi di dollari di tasse, continuando a essere il maggior contribuente
della Cina. C’è però un «MA» (inteso come congiunzione avversativa):
tutti i rami dell’ecosistema Alibaba sono attaccati al tronco della
società madre, l’Alibaba Group Holding Limited, che ha sede nelle Cayman
Islands. E quanto paga di tasse? Zero, perché alle Cayman non è
previsto nessun tipo di tassazione per le società.