lunedì 22 gennaio 2018

Corriere 22.1.18
Strage di donne nell’altra Hollywood In tre mesi morte cinque attrici hard
di Matteo Persivale


Vittime di alcol, stupefacenti e depressione. Avevano tutte tra i 20 e i 35 anni
Cinque giovani donne morte in nove settimane e mezza, una dopo l’altra. Cinque attrici. Cinque nomi che diranno poco alla maggioranza del pubblico perché recitavano nei film che si girano al di là delle colline con la scritta «Hollywood», nella San Fernando Valley, il regno del porno. Chi ha ucciso le cinque ragazze? Lo stesso serial killer, con nomi diversi — solitudine, dipendenza da droga e da cocktail di alcol e psicofarmaci, disturbo bipolare, depressione.
Se stessimo parlando di giovani donne che recitavano in commedie e thriller e horror, queste cinque morti in meno di tre mesi sarebbero un caso globale.
Invece sembra quasi normale che giovedì scorso Olivia Lua, 23 anni, sia stata trovata morta nella sua camera in una clinica di disintossicazione a West Hollywood. Quasi normale che qualche giorno prima di lei Yurizan Beltran, 31 anni e famosa come sosia di Kourtney Kardashian, la diva dei reality, sia stata trovata morta, nella sua casa di Bellflower, California, per overdose di farmaci. Almeno la morte di August Ames, 23 anni, trovata impiccata a un albero in un parco non lontano da casa sua a Camarillo, California, aveva avuto un po’ di eco oltre le solite condoglianze delle colleghe e dei fan via Twitter: si è suicidata a causa del bullismo dei social media, dove un esercito di odiatori di professione l’avevano presa di mira per essersi rifiutata pubblicamente di lavorare con attori maschi che avevano girato scene gay.
Olivia Nova, 20 anni, il 7 gennaio era stata trovata morta a Las Vegas. Una banale infezione alle vie urinarie, curata male, aveva attaccato un rene, e infine era diventata un’infezione generalizzata: sepsi, malattia dieci volte più mortale dell’infarto. Il rapporto preliminare della polizia, pubblicato on line, è di una tristezza desolante: il corpo sul letto a faccia in giù, vestita solo di una t-shirt, gonfia, l’edema, gli occhi gialli, le bottigliette di antibiotici su un comodino. I poliziotti che trovano un piccolo livido su una coscia e delimitano la scena del crimine ipotizzando un omicidio (che non c’è stato), perché a vent’anni come si fa a morire così, sola nel suo letto, per un’infezione, si erano chiesti?
La prima vittima di queste cinque — in attesa della prossima? — è Shyla Stylez, 35 anni: a novembre era stata trovata morta dalla madre nel suo letto. Semplicemente, era andata a dormire e non si era più svegliata (la famiglia non ha diffuso i risultati degli esami tossicologici).
La soluzione? Un business come quello del porno che fattura più di Hollywood dovrebbe trovare delle soluzioni collettive che vadano al di là delle condoglianze generiche, per ogni caso individuale, twittate dalle agenzie (nel silenzio dei produttori: forse impegnati a trovare una sostituta da mandare sul set).
Ava Addams, diva dei film per adulti che a 40 anni è ancora al vertice della carriera, ha twittato un atto d’accusa che lascia poco spazio a repliche: «Quest’industria, nella sua totalità, è una barzelletta: fanno finta di essere uniti ma in realtà si accoltellano sempre alle spalle. E rifiutano di prendersi la minima responsabilità».
Al netto della preoccupazione dei produttori — non agitare le acque politiche per poi magari trovarsi l’Fbi in ufficio su base regolare e, addirittura, misure censorie legiferate ad hoc — in giorni di #metoo e di marcia delle donne sarebbe bello se qualcuno facesse notare loro una coincidenza ovvia: le attrici dei film normali e di quelli per adulti fanno mestieri diversissimi ma hanno una comune esigenza, quella della sicurezza sul lavoro. Così un’attrice che va a un’audizione per una commedia non dovrebbe più trovare il produttore in accappatoio, almeno nel mondo del cinema dell’era dopo #metoo. E un’altra ragazza, che invece per sua scelta va su un set a girare una scena di sesso incarnando le fantasie di milioni di uomini, quando è depressa o malata dovrebbe essere trattata, semplicemente — dalla sua agenzia e da chi la fa lavorare: registi e produttori — come un essere umano.