venerdì 19 gennaio 2018

Il Fatto 19.1.18
Il brutto tramonto di un editore impuro
di Giovanni Valentini


Quando scrissi il libro La Repubblica tradita (Paper First), nell’autunno del 2016, non pensavo che la crisi di quel giornale – in cui ho lavorato fin dalla fondazione nell’arco di quarant’anni – potesse esplodere così presto e così fragorosamente. Né tantomeno che lo scontro fra Carlo De Benedetti ed Eugenio Scalfari arrivasse fino a un tale punto di astio e di rancore personale. Ma la maxi-fusione denominata “Stampubblica” era stata appena annunciata ed evidentemente portava in sé i germi di un declino che è editoriale prima ancora che giornalistico e diffusionale.
Fu un’infausta fusione, un connubio contro natura, una “unione incivile”, che consacrò la mutazione genetica del quotidiano fondato da Scalfari, generando così un ircocervo: un ibrido editoriale paragonabile a un mostro mitologico, metà cervo e metà caprone. Il giornale nato nel 1976 sotto l’egida dell’“editore puro”, partorito cioè dal matrimonio fra il Gruppo L’Espresso di Carlo Caracciolo e la Mondadori di Mario Formenton, tradiva la sua storia per congiungersi con La Stampa di Torino, il giornale della Fiat. Un giornale di contropotere, nel senso anglosassone del termine di controllo del potere e dei poteri costituiti, si accoppiava con il giornale dell’establishment, dell’azienda e della famiglia più potenti d’Italia, tendenzialmente filo-governativo.
Su un punto, bisogna dare ragione a De Benedetti: quando dice che oggi Repubblica ha perso la propria identità. Ma il fatto è che l’ha persa innanzitutto per colpa dell’Ingegnere, un editore “impuro” che è rimasto un finanziere tanto abile quanto spregiudicato; incapace di cambiare la sua inclinazione e la sua mentalità, di trasformare il suo interesse per la carta stampata in un’autentica “passione” civile. E la maxi-fusione con il quotidiano della Fiat, suggellata dalla direzione di Mario Calabresi, non ha certamente contribuito a salvaguardare e rafforzare l’identità originaria del giornale.
Ora, da “presidente onorario” in carica, De Benedetti addebita pubblicamente al povero Calabresi di non avere abbastanza coraggio e lo accusa di essere un don Abbondio. Ma quella nomina fu decisa sotto la sua presidenza, all’insaputa del fondatore, senza neppure interpellarlo.
Anche Ezio Mauro, come il suo successore, proveniva dalla direzione de La Stampa: solo che, a parte la differenza di statura professionale e di temperamento, a quell’epoca al vertice del Gruppo c’era ancora Caracciolo e Scalfari aveva vent’anni di meno.
Nel frattempo, l’Ingegnere ha continuato a oscillare fra le suggestioni editoriali e le pulsioni finanziarie, fra l’impegno sociale o politico e gli animal spirits del capitalismo. Avrà anche dato “un pacco di miliardi” a Scalfari, comprando la sua quota del Gruppo L’Espresso, ma sicuramente ne ha incassati molti di più sfruttando il proprio ruolo e il proprio potere mediatico. Dalla licenza Omnitel ottenuta dal governo Ciampi, con cui salvò l’Olivetti e ricavò qualche anno dopo l’astronomica cifra di 14.500 miliardi di lire vendendo l’azienda al gruppo tedesco Mannesmann, al risarcimento di 540 milioni per il “lodo Mondadori”; dal finanziamento di 600 milioni erogato dal Monte dei Paschi di Siena, su un “buco” complessivo di due miliardi, per sostenere e rilanciare Sorgenia, l’azienda di famiglia che produce energia alternativa guidata Rodolfo De Benedetti, fino al caso delle banche popolari, quando una “soffiata” dell’allora presidente del Consiglio, Matteo Renzi, consentì all’Ingegnere di investire cinque milioni in Borsa e di guadagnare 600 mila euro nel giro di un paio di giorni.
Fra tutte queste peripezie economico-finanziarie dell’editore, è già un miracolo che Repubblica sia rimasta in piedi dopo l’uscita di Scalfari, nel passaggio dalla direzione di Mauro a quella di Calabresi, sebbene abbia perso negli ultimi dieci anni il 63% delle copie in un contesto generale di crisi del mercato. La verità è che questo è sempre stato un giornale di riferimento, realizzando l’ossimoro di diventare “un giornale d’opinione di massa”, a cui i lettori si rivolgevano per confrontarsi e magari riconoscersi. Un quotidiano progressista in politica, liberale in economia, radicale sul piano dei costumi.
Ecco perché si può considerare impropria la definizione di “giornale di sinistra”. Ed è riduttivo parlare di un “partito di Repubblica”: in realtà il giornale di Scalfari è stato una “struttura d’opinione”, come lui stesso amava dire, formata dai suoi giornalisti e dai suoi lettori.
Oggi che la sinistra è in crisi, qui e altrove, Repubblica non riesce a cogliere lo spirito del tempo né a rappresentare l’opinione pubblica più avanzata del Paese. Manca l’editore e manca di conseguenza una linea politico-editoriale in grado di interpretare il mondo che cambia.