Corriere 24.1.18
Davos, processo al Big Tech Accuse a Google e Facebook
di Federico Fubini
Davos
Per capire che tipo sia, basta sapere che Sundar Pichai nel tempo
libero si rilassa leggendo un libro di storia delle cure antitumorali.
Così l’amministratore delegato di Google ha scoperto che un secolo e
mezzo fa la mastectomia veniva praticata senza anestetici e ci ha visto
la conferma di una legge che per lui vale ancora: alla lunga il
progresso tecnologico porterà sempre vantaggi alle persone comuni e la
storia non si dimostra mai clemente con chi lo nega.
Resta solo da
capire quanto sia lontano questo futuro, oggi con le nuove tecnologie,
gli algoritmi di Google o Facebook e l’intelligenza artificiale che crea
valore dai dati estratti a miliardi di utilizzatori tutti i giorni, a
tutte le ore del giorno. Pichai, che non cerca neppure di dissimulare un
forte accento indiano, è cresciuto in due stanze nel Tamil Nadu ed è il
prodotto tipico degli istituti di tecnologia del subcontinente: calmo,
competente, concentrato, gentile. Ha 45 anni e se a 30 gli avessero
detto che presto si sarebbe trovato alla guida di un gruppo da 802
miliardi di dollari di valore di Borsa, pagato 200 milioni l’anno,
l’avrebbe preso per uno scherzo di dubbio gusto.
Forse proprio
questo fa sì che i grandi gruppi tecnologici — il Big Tech californiano e
cinese — sia riservato il banco degli imputati al World Economic Forum.
Quelle imprese sono cresciute in modo esplosivo nelle mani di giovani
ingegneri che non avevano mai avuto tempo né voglia di capire la
politica, forse neppure l’economia. Ora invece saranno costretti a
farlo. Non hanno scelta perché — ha ricordato Martin Sorrell, fondatore
di Wpp, maggiore gruppo pubblicitario al mondo — Google, Amazon,
Facebook, Apple, più le cinesi Alibaba e Tencent, valgono in borsa 4.000
miliardi di dollari circa. In sei pesano come tutte le società quotate
dell’area euro. Questa scala mette i leader del Big Tech in posizione di
forza sui mercati globali, ma sulla difensiva a Davos: sono troppi
grandi e influenti per non innervosire chiunque altro. Sorrell ha
ricordato che Google e Facebook da sole controllano il 75% del mercato
pubblicitario in rete del mondo. Numeri del genere fanno sì che
riecheggino ormai ovunque le accuse al Big Tech di abusare del proprio
potere di mercato, di creare dipendenza nei più giovani, di sfruttare
masse enormi di dati dei privati e i contenti dei media (per il quali il
tycoon Rupert Murdoch ora chiede un adeguato compenso). Si capisce
dunque che Pichai e i suoi colleghi ora siano più cauti: sanno che la
reazione dei governi sta iniziando. Di recente in Germania è entrata in
vigore una legge che sancisce la responsabilità legale delle piattaforme
del Big Tech, se non rimuovono in fretta i contenuti falsi, offensivi e
violenti. Theresa May, la premier di Londra, domani a Davos annuncerà
l’istituzione di “comitati etici” per valutare l’impatto
dell’intelligenza artificiale sulle persone comuni.
Così il Big
Tech si trova maldestramente in difesa, com’è trapelato ieri da una
battuta dell’amministratore delegato di Uber, Dara Khosrowshahi sulle
aggressioni ai clienti da parte dei conducenti: «Possiamo monitorare
come guidano — ha detto — non lo stato della loro mente». Non basterà.
Al capo di Uber ha risposto un altro figlio di San Francisco, Marc
Benioff, fondatore del colosso del cloud computing Salesforce: «Devi
scegliere — ha detto in pubblico al collega —. Dicci qual è il valore
più importante per te: la crescita più rapida possibile o creare
fiducia?».