sabato 9 dicembre 2017

Repubblica 9.12,17
Apparizioni
L’inviato del Papa firma la svolta su Medjugorje: culto autorizzato
Paolo Rodari,


CITTÀ DEL VATICANO C’erano una volta i pellegrinaggi a Medjugorje, il santuario della Bosnia- Herzegovina luogo, dall’ 81, di presunte apparizioni mariane, trasferte religiose organizzate anche da molti vescovi e cardinali con l’accortezza, tuttavia, di non dare troppo nell’occhio. Molti di loro erano e sono impauriti dall’ostilità di una parte delle gerarchie che non ha mai visto di buon occhio i milioni di fedeli che si recano lì ogni anno in cerca di guarigione, consolazione, un contatto con il soprannaturale. In incognito, ad esempio, è più volte andato nel paesino il cui nome significa semplicemente «tra le montagne» il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, discepolo di Joseph Ratzinger e nello stesso tempo punta di diamante di Francesco nella Mitteleuropa.
Ebbene, da oggi tutta questa prudenza non ha più motivo di esistere. Secondo, infatti, quando ha dichiarato alla rivista religiosa Aleteia monsignor Henryk Hoser, arcivescovo di Varsavia- Praga, inviato speciale del Papa per la pastorale nella stessa Medjugorje, «il culto è autorizzato » . E ancora: « Non è proibito e non deve svolgersi di soppiatto. Da oggi, le diocesi e altre istituzioni possono organizzare pellegrinaggi ufficiali. Non ci sono più problemi » . Hoser ha rilasciato la sua notevole dichiarazione nel giorno in cui lascia per limiti di età la sua diocesi per passare a tempo pieno come delegato papale nello stesso santuario.
Non sono trascorsi che pochi mesi dalle parole di fuoco che Francesco riservò ai presunti veggenti di Medjugorje di ritorno lo scorso maggio da Fatima: « Preferisco la Madonna Madre a quella che fa il capo di ufficio telegrafico che ogni giorno invia un messaggio », disse riferendosi ai messaggi che in varie parti del mondo dicono di ricevere da Maria. Eppure, l’annuncio di Hoser non è in contraddizione con il suo pensiero. Per il Papa, infatti, « il fatto spirituale e pastorale » di Medjugorje, e cioè l’evidenza che la gente « si converte » , « incontra Dio», «cambia vita», resta. E tutto ciò è da valorizzare a prescindere dall’ostilità di parte delle gerarchie. Disse in proposito il vaticanista Benny Lai: «La curia gioca il suo ruolo di istituzione monolitica. Cerca sempre di resistere fino all’ultimo ai visionari, veri o presunti tali. Ancora oggi le guarigioni di Lourdes sono guardate con sospetto».
Nelle mani del Papa c’è da tempo il resoconto finale della Commissione guidata dal cardinale Camillo Ruini sulle apparizioni. Il testo è positivo sulle prime manifestazioni: tredici voti favorevoli al riconoscimento della soprannaturalità delle prime sette, un voto contrario e uno sospensivo. Nel merito era il Sant’Uffizio, e in particolare l’ex prefetto Gerhard Müller, ad avere delle perplessità. Con lui, anche monsignor Ratko Peric, vescovo di Mostar, che ha dichiarato come la Madonna di Medjugorje sia una «figura ambigua » . « Non è la vera Madonna, la Madre di Dio » , ha detto. Oggi molti di questi dubbi restano, ma nello stesso tempo l’annuncio di Hoser segna un punto non da poco per il culto del luogo, per i pellegrinaggi, per tutti coloro che da anni partono per cercare il divino in questo paesino sperduto nella ex Jugoslavia. E non è escluso che presto la stessa Santa Sede si esprima pubblicamente anche sulle apparizioni, lasciando aperta la possibilità della loro veridicità.
Molta diffidenza di alcune gerarchie su Medjugorje è data dall’innegabile business che si è creato intorno al santuario. Il giro d’affari, infatti, si stima sia di oltre 11 miliardi di euro: 5 miliardi ascrivibile all’organizzazione dei pellegrinaggi, 3 miliardi agli introiti di bar, ristoranti e alberghi; altri tre miliardi a offerte e donazioni.

Corriere 9.12.17
Discussioni Lo studioso francese Emmanuel Faye chiarisce le sue critiche ad alcuni famosi intellettuali
Stregati dal pensiero di Heidegger Il suo fascino su Arendt e Lacan
di Emmanuel Faye


Secondo Élisabeth Roudinesco (intervenuta su «la Lettura» #312 del 19 novembre) io avrei sostenuto che Emmanuel Levinas, Jacques Derrida e Jacques Lacan sarebbero diventati «nazisti» sotto l’influenza dell’opera di Martin Heidegger. Nulla nelle mie pubblicazioni consente di sostenere un’accusa così insensata, anzi. Una tale affermazione priva di fondamento appare però emblematica di un problema culturale generale, e cioè che la ricezione del pensiero di Heidegger, malgrado la sua importanza internazionale, non è stata mai oggetto di analisi rigorose.
È esattamente per questa ragione che ho scritto Arendt et Heidegger. Extermination nazie et destruction de la pensée (Albin Michel), uno studio d’insieme sui due pensatori in cui, sulla base di lettere inedite, ricostruisco l’evoluzione del pensiero di Hannah Arendt dalla critica a Heidegger del 1946 sino al suo ribaltamento apologetico iniziato nel 1949, dopo essere rimasta affascinata dalla violenza con cui egli, nella Lettera sull’umanesimo del 1947, si apprestava a «far saltare con l’esplosivo» il pensiero e la cultura occidentale. A partire dagli anni Cinquanta, di concerto con la moglie di Heidegger Elfride, Arendt ha lavorato più di chiunque altro per divulgare e difendere l’opera del filosofo, sino ad incoronarlo «re segreto» del regno del pensiero (si veda il testo di Arendt, Martin Heidegger a quatre-vingts ans ). Il paradigma aristocratico e disegualitario della concezione arendtiana della politica deve molto all’influenza esercitata da quel re.
L’evoluzione di Lévinas appare molto differente. Egli non ha mai nascosto di provare una sorta di fascinazione per Essere e tempo , ma è necessario osservare cosa conservi di quel testo. Nello studio che gli dedica nel 1932 ( Martin Heidegger e l’ontologia ), Levinas si interessa alle prime descrizioni dell’esistenza, ma non proferisce parola a proposito della sezione cardinale sulla storicità. Là Heidegger riporta il destino «autentico» alla «comunità di popolo», critica «tutti i relativismi privi di suolo» e invita a lavorare «nello spirito del conte York», mentre, come ho già mostrato nel mio libro Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia (L’Asino d’oro), nella sua corrispondenza con Dilthey tale «spirito» si manifesta apertamente antisemita. Quando Lévinas ha compreso ciò che Heidegger realmente rappresentava gli ha dedicato alcune delle pagine più dure mai scritte contro di lui. Nel saggio del 1957 La filosofia e l’idea di infinito egli presenta la filosofia heideggeriana come «il culmine di una lunga tradizione di orgoglio, eroismo, dominazione e crudeltà», e inoltre la accusa di sostenere «un regime di potenza più disumano della meccanizzazione», il nazionalsocialismo, basato su «un’adorazione feudale di uomini asserviti ai padroni e ai signori che li comandano». L’etica levinasiana del rapporto con l’Altro è agli antipodi di Heidegger, fondata com’è su una metafisica dell’infinito inspirata da Cartesio, e vicina alla filosofia dell’infinito di Alexandre Koyré e alla metafisica dell’eternità sviluppata da Édith Stein, ugualmente avversa a Heidegger.
Derrida appare certamente meno lucido di Levinas quando, in Dello spirito del 1987, mette sullo stesso piano il «gesto ancora metafisico» di Heidegger e il suo impegno nazista. Tuttavia la mia riserva nei suoi confronti rimane limitata, in quanto è difficile rimproverargli di non aver visto ciò che oggi è manifesto con la lettura dei Quaderni neri , e cioè che l’«oltrepassamento della metafisica» vagheggiato da Heidegger non è un tema filosofico, ma una volontà di sostituire la metafisica con ciò che egli chiama «metapolitica del popolo storico», da compiersi in «un nuovo rapporto con l’essere» instaurato dal nazionalsocialismo «spirituale».
Il rapporto di Lacan con l’opera heideggeriana è ancora diverso. Egli la cita molto all’inizio del suo insegnamento, ma decisamente meno alla fine, e nel 1967 afferma di essersi rivolto a Heidegger solo «per trovarvi una forma verbale in grado di colpire».
Se quindi l’opposizione al razzismo e all’antisemitismo passa oggi anche attraverso una critica puntuale di Heidegger, lo studio dell’ampio spettro della sua influenza, da Arendt a Lévinas, esige analisi ben distinte.
(traduzione di Livia Profeti)

Repubblica 9.12,17
Le previsioni sul voto
Per metà elettori vincerà la confusione il picco dei pessimisti nel partito di Renzi
Roberto Biorcio Fabio Bordignon


Il bipolarismo fra centrosinistra e centrodestra sembra ormai superato, nelle attese degli elettori per le Politiche 2018, che prevedono invece un confronto tra la coalizione guidata da Berlusconi e Salvini da una parte e il M5S dall’altra. Anche se una quota maggioritaria, fra le persone intervistate da Demos per l’Atlante politico, immagina un risultato incerto, o addirittura un Parlamento “ingovernabile”, all’indomani del voto.
Le aspettative contano, e possono modificare significativamente i comportamenti elettorali, specie in un’epoca di appartenenze deboli ed elevata mobilità. Berlusconi cerca di utilizzare le aspettative di vittoria per innescare un effetto bandwagon: la tendenza a saltare sul carro del vincitore, o comunque di chi sembra avere maggiori chance. E si impegna a promuovere e cavalcare i timori per uno sfondamento del M5S, che promette invece di potersi affermare come primo partito. Sembra così riprodursi un meccanismo simile a quello in atto alle recenti regionali siciliane, con il centrosinistra diviso e fuorigioco. Gli elettori del M5S si dicono, in circa sei casi su dieci (59%), convinti di poter vincere. Più o meno lo stesso risultato si osserva anche per la coalizione di centrodestra, e in particolare per Forza Italia (60%).
Una dinamica speculare sembra invece riguardare il Pd, i cui elettori percepiscono il momento di difficoltà, il venire meno della spinta del “capo”, i problemi nel dare vita a una coalizione: di conseguenza, solo uno su quattro “scommette” sulla possibilità di successo della propria parte. Il richiamo al voto “utile” potrebbe quindi penalizzare il partito di Renzi, favorendo al contempo la neonata lista Liberi e Uguali, nell’ottica di un voto identitario e di contrapposizione alla leadership democratica.
Naturalmente, partiti e coalizioni hanno ancora di fronte una lunga campagna elettorale, nella quale sarà messa alla prova la loro capacità di (ri)mobilitare i propri elettori, o di attrarne di nuovi. Ma, a livello “di sistema”, potrebbero pesare non poco le previsioni di un voto orientato, esclusivamente, ad affermare le differenti posizioni politiche, senza considerare la possibilità di una maggioranza parlamentare. Il 23% degli intervistati prevede infatti un risultato poco chiaro, che renderà necessarie le “larghe intese”.
Un ulteriore 16% prefigura addirittura uno scenario di elezioni ripetute. Se si somma un ulteriore 9% di elettori che non sono in grado di formulare alcuna previsione, l’incertezza sull’esito del voto investe quasi una persona su due: un quadro che potrebbe incidere negativamente sulla partecipazione elettorale.
Solo un dem su 4 scommette sulla vittoria

Repubblica 9.12.17
Fascismo, per il 46% è un pericolo Pd in calo e M5S primo a quota 29
Nell’opinione pubblica forte percezione e allarme per gli atti di squadrismo degli ultimi mesi Intenzioni di voto: dem al 25%, buon risultato di Liberi e Uguali (7,6%), centrodestra al 33%
di Ilvo Diamanti


L’onda nera inquieta soprattutto gli studenti e gli elettori di centrosinistra (7 su 10).
Percentuali più basse in Forza Italia, Lega e FdI (30-35%) e nei 5Stelle (40%) Il disincanto dei cittadini colpisce il gradimento di tutti i leader. Gentiloni scende al 45%,
Di Maio è secondo con il 34, Grasso al terzo posto con il 32

Quasi metà degli italiani, per la precisione il 46%, pensa che il fascismo oggi sia (molto o abbastanza) diffuso nel Paese. È quanto emerge dal sondaggio di Demos, condotto nei giorni scorsi. È un dato sorprendente. In parte, inatteso.
Effetto delle ripetute iniziative estreme ed estremiste di CasaPound e dei suoi “amici” — e competitor. Per prima, Forza Nuova. Soggetti che si richiamano a una storia che pensavamo dimenticata. Comunque, condannata. Dalla “Storia” stessa.
E invece ritornano. Gruppi e formazioni che ostentano riferimenti al fascismo. Senza vergogna. Al contrario. Li esibiscono in modo convinto. E, per questo, esercitano la minaccia come strumento pubblico. Ma una “misura” tanto larga sottolinea come l’azione dei soggetti politici che si richiamano al fascismo vada ben oltre i gruppi estremisti che esibiscono apertamente questa bandiera. Si tratta, infatti, di componenti circoscritte. Però fanno molto “rumore”. A causa delle (provoc)azioni eclatanti. Ma, soprattutto, perché scavano nella memoria del Paese. Anche se la memoria del ventennio si affievolisce. Mentre il ricordo tragico delle stragi di matrice neo-fascista, avvenute fra gli anni 60 e 70, tende (purtroppo) ad appannarsi.
Ma il richiamo aperto e diretto alla tradizione “fascista” oggi appare molto forte. E, secondo i dati del sondaggio d Demos, suscita molta inquietudine.
Soprattutto fra i più giovani. E fra gli elettori di centro-sinistra. Soprattutto di sinistra. Il fascismo, infatti, viene percepito come un fenomeno diffuso da quasi il 60% degli studenti. Da 7 elettori di Centro-Sinistra su 10. Mentre nelle altre aree politiche questa sensibilità appare più limitata. Anche se mantiene misure rilevanti. Il fascismo, infatti, è molto presente in Italia secondo circa il 30-35% degli elettori di FI e della Lega. Pensa lo stesso un terzo della base dei Fd’I. E poco più del 40% fra chi vota M5s. A Destra, si osserva, dunque, la tendenza a ridimensionare il fenomeno.
In parte, almeno, per timore di esserne considerati responsabili. Stigmatizzati.
Mentre a sinistra avviene il contrario. Non solo per la ragione opposta: la stigmatizzazione del “nemico”. Ma perché l’antifascismo fa parte dell’identità storica — e politica — dei partiti di sinistra. Il ritorno, o meglio: il riemergere del fascismo, in effetti mai scomparso, offre loro “senso”. Gli elettori del M5s, infine, stanno a metà.
Come avviene spesso.
L’ombra nera del fascismo rende più acceso il clima della campagna elettorale, in vista delle prossime elezioni. Anche se non è ancora chiaro quando si svolgeranno. Tanto meno, chi vincerà. Meglio, se davvero vincerà qualcuno. E, soprattutto, se qualcuno riuscirà a governare. Dopo.
Quale partito, con quale coalizione. I dati del sondaggio non forniscono risposte chiare, al proposito.
Tuttavia, fanno emergere indicazioni interessanti.
Im-prevedibili, qualche mese addietro.
La tendenza più evidente è “la solitudine del Capo” e del suo partito. Renzi e il PdR. Mai così isolati. Negli ultimi mesi hanno subito un calo sensibile. Evidente. La fiducia verso Matteo Renzi: è calata di 8 punti, nell’ultimo trimestre.
Ma di oltre 15, rispetto a un anno fa. Oggi si è attestato al 27%. In assoluto il dato più basso da quando, nel 2012, abbiamo iniziato a “misurarne” il consenso.
Tuttavia, il disincanto coinvolge un po’ tutti i leader.
Anche i più popolari, come Gentiloni. Che, con il 45% del gradimento, resta, comunque il più accreditato. Il suo governo, peraltro, continua ad essere apprezzato da circa il 40% dei cittadini. Come al momento dell’incarico. Dopo il premier, in classifica, incontriamo Luigi Di Maio e Pietro Grasso. Il quale legittima, così, l’investitura ottenuta dalla Sinistra. E ne viene, al tempo stesso, sospinto.
Le stime di voto accentuano tendenze già visibili da tempo. Il Pd: ridotto al 25%. Per la prima volta, sotto alla soglia raggiunta da Bersani, nel 2013.Il dato più basso da quando è stato conquistato — e rifondato — da Renzi. Il PdR: ha fallito la sua “missione”, di unire la Sinistra e il Centro.
Sotto lo stesso tetto. Alla sua sinistra, in particolare, Liberi e Uguali, al debutto, raggiunge il 7,6%. Più della somma dei “soci fondatori”.
Tuttavia, non si vedono federatori in grado di riunire il mondo inquieto e diviso del Centrosinistra. L’ultimo a provarci, Giuliano Pisapia, ha già rinunciato. D’altronde, il grado di fiducia nei suoi confronti appare limitato (24%). E in calo significativo negli ultimi mesi (5 punti). A destra, invece, FI cresce ancora (15,2%, oltre 2 punti più di un anno fa) e supera la Lega. Insieme ai Fratelli d’Italia raggiungono il 33%. Una base importante, in vista delle prossime elezioni. È, però, il M5S a mostrare l’incremento più rilevante. Oggi è vicino al 29%. Primo partito. Davanti a tutti. Un segnale rivelatore.
Perché il principale incentivo elettorale del M5S è offerto dagli “altri”. Dai partiti di governo. Ma anche di opposizione. Il M5S: è una risposta all’insoddisfazione politica. Per citare Beppe Grillo: un argine al non-voto (e all’estremismo). Non peraltro si auto-definisce un non-partito.
Difficile ricavare uno scenario credibile, ma, soprattutto, chiaro, da queste stime. Da questi orientamenti. Come spiegano Roberto Biorcio e Fabio Bordignon nella loro analisi. Non per caso, la maggioranza degli elettori immagina che le prossime elezioni non avranno un vincitore. E, quindi, si dovrà ricorrere a “nuove” elezioni.
Oppure tentare la via tortuosa delle “grandi coalizioni”. In mezzo a tanta incertezza, il clima politico — e sociale — già molto caldo, si è ulteriormente surriscaldato. E rischia di avvampare, alimentato dalle divisioni interne al sistema politico. E alla società. Condizioni ideali al diffondersi di tentazioni anti-democratiche.
Riprodotte e amplificate dall’espandersi della minaccia fascista, rilevata e misurata in questo sondaggio. L’unica speranza è che si affermi, ancor più forte, un movimento e un sentimento opposto. Oggi, come ieri: resistenza.


Il Fatto 9.12.17
Via alla faida per Gerusalemme
Primo giorno di Intifada, un morto e 750 feriti. Israele intercetta un razzo Hamas: “Trump non può cambiare la verità storica, non finisce tutto con le manifestazioni”
Via alla faida per Gerusalemme
di Valerio Cattano


Il ritmo cantilenante della preghiera del venerdì in Cisgiordania lascia il posto a grida di dolore e collera: volano pietre, lacrimogeni, proiettili di gomma.
Hamas, braccio armato palestinese nella West Bank, chiarisce i termini con cui ha recepito la decisione del presidente americano Donald Trump di spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Ci vorranno due anni affinché la sede divenga operativa, e in questo spazio di tempo possono cambiare molte cose, ma Hamas ci tiene a sottolineare: “Né Trump né nessun altro potrà cambiare la verità storica e geografica e l’identità della Città Santa. Sogna chi pensa che tutto si esaurirà con le manifestazioni”, parola del capo dell’ ufficio politico Ismail Haniyeh, che aggiunge: “La santa intifada ha inoltrato due messaggi: il primo, che respingiamo la decisione del presidente Trump, e il secondo che siamo pronti ad immolarci per difendere Gerusalemme”. Il bilancio degli scontri fra Gerusalemme e Gaza è di un morto – un palestinese di 30 anni, Mohammad al-Masri, ucciso in scontri a est di Khan Younis – e 750 feriti.
Le cifre sono dalla Mezzaluna Rossa palestinese che accusa l’esercito israeliano di aver usato in alcuni casi proiettili di piombo e non di gomma. Tel Aviv lamenta due allarmi nel sud per lancio di razzi dalla Striscia: il sistema anti missili Iron Dome ne ha intercettato uno che aveva preso di mira l’area fra le città di Ashkelon e Sderot. Pronta risposta: colpi di cannone e attacchi aerei. I giorni della rabbia, dunque, non promettono nulla di buono. La politica gioca la sua partita. Il presidente russo, Vladimir Putin, lunedì 11 dicembre sarà in visita ufficiale in Turchia, per discutere con il presidente Recep Tayyip Erdogan degli sviluppi in Siria, e di Gerusalemme. Nella stessa giornata Putin dovrebbe andare anche in Egitto dove incontrerà il presidente Abdel Fattah al-Sisi; Mosca ha avuto un ruolo da protagonista nelle crisi di Siria e Iraq, e ora non vuole restare estromessa dalla mossa di Washington. Il Medio Oriente resta la scacchiera dove le grandi potenze giocano il loro Risiko, nelle strade restano le teste spaccate, la tensione dei soldati e le bandiere bruciate.il manifesto 9.12.17
Il miracolo di Trump: l’apparizione dell’ultrasionista antisemita
The Donald & The Bibi. L’Occidente, ai palestinesi, elargisce solo elemosine mentre è totalmente succube dei governi israeliani fino al punto di piegarsi alla richiesta del Caudillo Bibi di criminalizzare movimenti come il Bds (boycott, disinvest, sanction ), che chiamano pacificamente al boicottaggio contro l’illegalità e le ingiustizie che il popolo palestinese subisce ininterrottamente a miriadi, da settant’anni e molti governi dell’Occidente sarebbero pronti a esaudire i desiderata di Bibi, anche al prezzo di pervertire ogni legge civile degna di questo nome

il manifesto 9.12.17
Il miracolo di Trump: l’apparizione dell’ultrasionista antisemita
The Donald & The Bibi. L’Occidente, ai palestinesi, elargisce solo elemosine mentre è totalmente succube dei governi israeliani fino al punto di piegarsi alla richiesta del Caudillo Bibi di criminalizzare movimenti come il Bds (boycott, disinvest, sanction ), che chiamano pacificamente al boicottaggio contro l’illegalità e le ingiustizie che il popolo palestinese subisce ininterrottamente a miriadi, da settant’anni e molti governi dell’Occidente sarebbero pronti a esaudire i desiderata di Bibi, anche al prezzo di pervertire ogni legge civile degna di questo nome
di Moni Ovadia


Donald Fuck non cessa di esibire la sua programmatica dabbenaggine in gara con il suo quasi omonimo, l’irresistibile Donald Duck; non solo si misura in competizioni muscolari con il dittatore coreano Kim Jong-un – a rischio di farci saltare tutti per aria – ma non pago, si impegna nel tentativo di comporre l’annoso conflitto Israelo-palestinese spostando l’ambasciata statunitense nello Stato d’Israele da Tel-Aviv a Gerusalemme.
Un’idea davvero brillante, peccato che non sia stata capita e che stia ottenendo l’effetto contrario alle intenzioni dichiarate (dichiarate per i babbei che ci credono) dallo stesso Donald.
Lo scopo vero, ammantato dal nobile adempimento degli impegni programmatici, è stato quello di compiacere il suo elettorato più reazionario e fanatico che comprende certi cristiani evangelisti ultra sionisti, i quali, in ossequio a certe loro credenze millenariste, auspicano il ritorno di tutti gli ebrei nella Terra Promessa perché l’avvento finale possa compiersi con la seconda parusia di Gesù. Costoro, che rappresentano la più potente lobby pro-israeliana insieme a quelle di matrice ebraica come l’AIPAC, sono i migliori alleati di Bibi Netanyahu.
Insieme alla fattiva azione di The Donald, Bibi ha dato vita a un autentico capolavoro antropologico: l’apparizione dell’ultrasionista antisemita.
Ma sì! Parte dell’elettorato più oltranzista di The Donald, è dichiaratamente antisemita e, senza percepire la minima contraddizione, sostiene The Bibi senza se e senza ma.
The Donald and The Bibi potrebbero mettere su una  compagnia di giro rappresentando un musical di sicuro successo: «The antisemitic Zionist», per le coreografie potrebbero attingere a quelle di «The Producers» di Mel Brooks, fra il folto pubblico si potrebbero contare gli entusiasti neonazisti di tutto il mondo e i suprematisti bianchi, l’Italia sarebbe rappresentata degnamente da Casa Pound e da Forza Nuova e Revisionisti da Tolk (da leggere come scritto), ne potrebbero decretare il trionfo critico. Abbiamo scherzato? Mica tanto. La lepida sconcezza e improntitudine dei nostri «bordello Facebook times», accetta e metabolizza tutto.
Molti si rassicurano pensando che Hillary Clinton avrebbe fatto meglio. Certo sarebbe stata più cauta e diplomatica, ma avrebbe fatto marcire l’irrisolto conflitto mediorientale sostenendo, toto corde, le posizioni di Bibi. Del resto, persino Obama, l’annunciatore di speranza, Premio Nobel per la pace, non solo non ha promosso trattative serie, ma non è neppure riuscito a fermare la costruzione di un cesso illegale nei Territori Occupati. Solo il vecchio socialista Bernie Sanders avrebbe potuto prendere il toro per le corna.
A The Donald, bisogna tuttavia riconoscere un indiscutibile merito: la mancanza di ipocrisia: lui dice apertamente che se i palestinesi vogliono uno straccio di pace, devono accettare i diktat del governo fascistoide di Bibi, si devono dimenticare della soluzione «due Popoli/due Stati», quello palestinese con Gerusalemme come Capitale e accettare di vivere in Bantustan concessi dall’effendi sionista.
Questo è quello che pensa, senza avere il coraggio di dirlo, anche la maggioranza dei democratici statunitensi e degli esponenti dell’infame e vile sedicente «comunità internazionale».
L’Occidente, ai palestinesi, elargisce solo elemosine mentre è totalmente succube dei governi israeliani fino al punto di piegarsi alla richiesta del Caudillo Bibi di criminalizzare movimenti come il Bds (boycott, disinvest, sanction ), che chiamano pacificamente al boicottaggio contro l’illegalità e le ingiustizie che il popolo palestinese subisce ininterrottamente a miriadi, da settant’anni e molti governi dell’Occidente sarebbero pronti a esaudire i desiderata di Bibi, anche al prezzo di pervertire ogni legge civile degna di questo nome.
Il nostro governo poi, pur di eccellere, cosa non farebbe! Ha accettato di fare partire il Giro d’Italia da Gerusalemme e in un primo momento aveva messo di fianco a Gerusalemme, l’extension «Ovest». Ma appena Bibi ha protestato in nome della millenaria storia del popolo ebraico, «Ovest» è stato tolto con tante scuse, in barba all’Onu, alle sue risoluzioni e all’idea di legalità internazionale. Grande timing del nostro esecutivo non c’è che dire. Chissà se non si sono messi d’accordo prima con The Donald.
Al prossimo governo suggerirei sommessamente (avverbio graditissimo alla signora Meloni) di pensare al trasferimento della nostra capitale da Roma a Gerusalemme, sarebbe un colpaccio mediatico senza pari.
Se invece non si vuole passare da zimbelli, assumiamoci la piena responsabilità davanti al diritto internazionale, cessiamo di scaricare i nostri complessi di colpa sui palestinesi che nulla hanno a che vedere con il crimine della Shoà.
E da ultimo, ci si ficchi nel cranio che si può essere molto ebrei e per nulla sionisti e altresì molto sionisti e per nulla ebrei.

Repubblica 9.12.17
Intervista a Yael Dayan
“Mio papà Moshe non starebbe con Netanyahu Ci bastano i confini pre ’67”
di F. Caf.


GERUSALEMME Da oltre 50 anni, Yael Dayan è una delle protagoniste della vita pubblica israeliana: come figlia di uno dei padri della Patria, il generale Moshe Dayan, e stella del jet set nazionale prima; poi come scrittrice, parlamentare del Likud e sostenitrice di organizzatrici pacifiste come Peace Now e Bat Shalom. Da persona che ha lottato a fianco dei palestinesi e si è battuta per il riconoscimento dei diritti delle donne e degli omosessuali, non c’è da stupirsi se non si riconosca nell’idea di Israele di Benjamin Netanyahu.
Eppure la durezza dei suoi giudizi stupisce: se non altro perché su di essi la signora getta il mantello del padre, il ministro della Difesa che portò alla vittoria Israele nella Guerra dei sei Giorni. «Mio padre – dice – non sarebbe d’accordo con nessuna delle posizioni che Netanyahu ha preso in questi giorni riguardo ai palestinesi».
Signora Dayan, a 78 anni e con gravi problemi di salute, lei è ancora in prima linea: perché?
«Perché la direzione in cui sta andando Israele non mi piace affatto. In tutta la sua Storia questo Paese non è mai stato governato da una élite così corrotta come quella che abbiamo ora. Il primo ministro è coinvolto in indagini per corruzione, sua moglie e i suoi più stretti collaboratori anche. A causa di questo, Netanyahu non è riuscito a raccogliere alle elezioni una maggioranza decente e ora per governare si affida ai partiti religiosi e alla destra estrema. Questo fa male a tutti e le giornate che stiamo vivendo lo dimostrano».
In che modo?
«Ai religiosi di preservare la soluzione dei due Stati, uno israeliano e l’altro palestinese, uno a fianco dell’altro non interessa. Così lasciano all’estrema destra la possibilità di decidere su questo: e l’estrema destra vuole isolarci, tagliare ogni dialogo con i palestinesi. Netanyahu dipende da loro: e le parole con ha accolto il discorso di Trump lo dimostrano».
Netanyahu, come buona parte degli israeliani, considera suo padre un eroe. Ma sua padre è l’uomo che lasciò agli arabi libertà di preghiera sulla Spianata delle Moschee: questo all’attuale premier non è mai piaciuto.
«Certo. E del resto mio padre non sarebbe d’accordo con nulla di quello che fa Netanyahu. Era un militare, ma anche un uomo di dialogo. Parlò con re Hussein di Giordania, con le sue controparti militari, ma anche con gli impiegati e i contadini arabi. Mio padre non avrebbe mai sopportato 50 anni di occupazione e troverebbe intollerabile il fatto che i palestinesi oggi non abbiano un vero Stato. Noi israeliani possiamo vivere dentro i confini precedenti alla guerra del 1967. Le tecnologie odierne fanno sì che possiamo farli fruttare al meglio e renderli perfettamente abitabili.
Mio padre direbbe che lasciare i palestinesi in questa situazione fomenta l’estremismo. Il caso di Gaza lo dimostra».
È per questo che lei appoggia le manifestazioni contro Netanyahu delle ultime settimane?
«No. È per la sua corruzione. Non abbiamo mai avuto un primo ministro così tanto coinvolto in casi di corruzione. Per questo domani (oggi , n. d. r.) sarò di nuovo a manifestare. Per quello che posso. Con la mia sedia a rotelle e la mia bombola di ossigeno, visto che questa è la mia condizione».
Chi vorrebbe al posto di Netanyahu?
«La sinistra in Israele è debole e divisa. La posizione ondivaga che ha avuto sulla crisi provocata dalle parole di Trump lo dimostra. Non ci resta che il centro. Quel che importa è allontanare l’estrema destra, che è una minaccia per la democrazia. In Israele come in Europa».

Corriere 9.12.17
«Non siamo d’accordo con Trump» L’Italia con gli europei, strappo all’Onu
Al Consiglio di Sicurezza, dichiarazione di 5 Paesi su Gerusalemme. Usa: ostili a Israele
di Giuseppe Sarcina


WASHINGTON Lo strappo, ora, è un atto politico ufficiale e vistoso. Gli ambasciatori all’Onu di Francia, Italia, Gran Bretagna, Svezia e Germania hanno letto una dichiarazione comune davanti ai giornalisti dopo la riunione del Consiglio di Sicurezza: «Non siamo d’accordo con la decisione Usa di riconoscere Gerusalemme come la capitale di Israele e di cominciare la preparazione per spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme». L’iniziativa è partita dalla rappresentanza francese che ha contattato Sebastiano Cardi e gli altri capi delle missioni europee presenti in questo momento nell’organo esecutivo delle Nazioni Unite. Al gruppo dei quattro (britannici e francesi sono membri permanenti) si è unita la Germania.
Pur se ammantata nel linguaggio diplomatico, il documento è pesante. La mossa di Donald Trump «non è in linea con le risoluzioni del Consiglio di sicurezza e non aiuta le prospettive di pace nella regione». In sostanza il blocco europeo accusa gli americani di violare le direttive concordate a livello mondiale. «Lo status di Gerusalemme — è scritto — deve essere determinato attraverso i negoziati tra israeliani e palestinesi. È una posizione costante dei Paesi dell’Unione Europea che, in questo quadro, Gerusalemme dovrebbe essere la capitale sia dello Stato di Israele che di quello palestinese. Fino a quel momento, noi non riconosceremo alcuna sovranità su Gerusalemme».
In apertura della riunione l’ambasciatrice americana, Nikki Haley, è stata durissima, accusando «l’Onu di essere ostile da molti anni a Israele». La decisione di riconoscere la Città Santa come capitale è «ovvia», mentre «le Nazioni Unite hanno fatto più danno alle possibilità di una pace in Medio Oriente, anziché farla progredire».
Il quadro internazionale della crisi, ora, si è complicato. Il Dipartimento di Stato, al di là delle ruvide parole di Haley sta cercando di spezzare l’isolamento. Ma il presidente palestinese Abu Mazen, non ritiene più «qualificati» gli Usa per «occuparsi del processo di pace». La Russia cerca spazio, offrendosi come mediatrice. L’Unione Europea si sta compattando. Con qualche difficoltà a Bruxelles. Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri, sta lavorando a un documento simile a quello firmato dai 5 europei al Palazzo di Vetro. Ma ci risulta che nell’incontro preparatorio del Cops, il Comitato politico e di sicurezza, la discussione sia stata bloccata dall’Ungheria. Il premier Vicktor Orban si conferma grande estimatore di Trump e, almeno per ora, impedisce all’Ue di prendere una posizione unitaria sul tema.
Negli Usa, invece, la strategia di Trump non ha diviso politici e opinione pubblica come ormai accade su tutti gli altri dossier. Osserva David Makovsky, analista del Washington Institute e, nel 2009 coautore con Dennis Ross (ex consigliere di John Kerry) di un best seller sul Medio Oriente («Miti, Illusioni e Pace…», Viking/Penguin): «Parte del problema è nato perché Trump non ha preavvertito per tempo gli attori più coinvolti. Inoltre la comunicazione poteva essere molto migliore. Se si analizza bene il messaggio si vede che gli Usa mantengono aperta la questione dei confini tra Israele e Palestina. Penso che la Casa Bianca abbia spazio per spiegarsi meglio. Dovrebbe farlo subito con un grande sforzo rivolto soprattutto alla popolazione del Medio Oriente che segue con la tv satellitare gli “speech” del presidente».

Corriere 9.12.17
Putin e Erdogan veri vincitori della partita
di Franco Venturini


Era fatale che Trump, riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele e annunciando il trasferimento dell’ambasciata Usa, modificasse interessi e gerarchie delle potenze che si muovono nel grande disordine mediorientale. In attesa di capire se a sostegno della sua mossa filo-israeliana il Presidente riuscirà a proporre un piano di pace più equilibrato che accontenti anche i palestinesi e le capitali arabe (impresa che si annuncia ardua), due vincitori di questo ennesimo braccio di ferro su Gerusalemme possono sin d’ora essere identificati: si chiamano Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan, che si incontreranno lunedì per discutere della situazione. La Russia di Putin aveva puntato tutte le sue carte sulla Siria, e ora che l’Isis è stato quasi completamente sconfitto, e che la guerra civile è in fase di superamento, il Cremlino può vantare un buon raccolto. Assad è ancora al suo posto e almeno per un certo tempo ci resterà, l’alleanza di guerra tra Russia, Turchia e Iran (con l’aggiunta dei libanesi sciiti di Hezbollah) controlla le vicende siriane assai più dei negoziati di Ginevra o degli Usa. L’iniziativa di Trump su Gerusalemme giunge come un regalo supplementare: all’influenza russa si aprono spazi insperati nei Paesi arabi che gli Usa hanno imbarazzato con il loro annuncio. L’Egitto è un buon esempio, ma non è il solo. La posta di una partita che comincia appena sarà il ritorno della Russia nel mondo arabo sunnita, come ai tempi dell’Unione Sovietica. Il secondo vincitore, oggi stretto alleato del primo, è il Presidente turco. L’esponente cioè di un Paese non arabo ma islamico, che si sente offeso dalla mossa Usa. Per Erdogan l’occasione è duplice: accrescere il consenso interno e tornare a porsi come potenza mediorientale approfittando della consueta doppiezza delle capitali arabe che si scandalizzano per la sorte dei palestinesi ma ben poco fanno a loro sostegno. Ankara, come molti altri, dichiara di temere che Trump abbia involontariamente incoraggiato quel terrorismo che era stato appena sradicato con la sconfitta dell’Isis. Tema che fa drizzare molte orecchie, anche in Arabia Saudita. Lunedì Erdogan e Putin dichiareranno la loro preoccupazione, prima di brindare alla salute di Donald Trump.

Il Fatto 9.12.17
Luciana Castellina
“Ai miei tempi dire è una donna’ era come dire ‘è una minorata’”
intervista di Silvia Truzzi


Frugando tra le interviste e i ricordi di Luciana Castellina, c’è una frase da cui partire: “Per anni ho avuto enormi complessi d’inferiorità. M’iscrissi a Legge, io che adoravo Filosofia, perché ero convinta di non essere abbastanza intelligente”. Ed è perfetta in questa conversazione più femminile che politica (anzi: molto politica perché femminile), anche se la diretta interessata non è d’accordo: “Il complesso d’inferiorità non dipendeva dal fatto d’esser donna, ma dall’ambiente dove vivevo: i Parioli. Una caverna!”. Ma siamo ancora qui, in questa dimora pariolina piena di luce e di libri, “ereditata, non scelta”. C’è una premessa che la padrona di casa vuol fare: “L’obiettivo non deve essere diventare come gli uomini, il vero punto è dare valore alla differenza. Fare in modo che la società – nei suoi valori, nelle sue strutture, nei suoi diritti – si organizzi tenendo conto che non c’è un cittadino ‘neutro’, di fatto ricalcato sul modello maschile, ma uomini e donne. Dare un riconoscimento a esseri umani che sono diversi. È una truffa dire che uomini e donne sono uguali”.
Il welfare dovrebbe essere più centrato sulle esigenze delle donne?
Non basta, bisogna ripensare interamente la società. E ripensare il diritto, che è fondato sull’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge: ma i cittadini sono disuguali! Tanto è vero che la nostra Costituzione, che è una bella Costituzione, è stata la prima a riconoscere che non bastava affermare un principio. Il secondo comma dell’articolo 3 dice: ‘È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana’.
La professoressa Carlassare ci ha raccontato la storia di quel secondo comma e anche che si deve alle donne, in particolare a Teresa Noce, quella locuzione “di fatto”. Non un dettaglio.
A Teresa Noce bisognerebbe fare un monumento in tutte le piazze d’Italia: è l’autrice della legge sulla maternità del 1950. Siamo stati il primo Paese a emanare una legge così moderna. Quando stavo nel Parlamento europeo presi parte a una commissione interpartitica di donne, scoprendo che siamo un Paese legislativamente molto avanzato nella tutela delle donne. Credo dipenda dal fatto che il sindacato in Italia non ha mai agito settorialmente, per aziende o categorie: ha avuto grande importanza la dimensione orizzontale, penso alle Camere del lavoro. È stato un grande aiuto per le donne, le cui rivendicazioni e necessità non dipendevano dall’azienda o dalla categoria.
Lei è stata testimone di un evento epocale, il suffragio universale.
Una gran parte degli uomini del Pci non voleva che le donne avessero accesso al voto. Fu Togliatti a imporsi, con un discorso bellissimo: “Chi se ne importa di un po’ di voti, che siano in più o in meno. Quel che serve è valorizzare il protagonismo delle donne in politica, che sarà il motore di un cambiamento sociale”. Un analogo problema si pose quando nacque l’Udi, l’Unione delle donne italiane, che era un’associazione non partitica, anche se era composta prevalentemente da donne socialiste e comuniste. Anche lì una parte dei dirigenti comunisti pensava che l’Udi dovesse far parte del partito. E Togliatti s’impose, sostenendo l’autonomia dell’Udi.
Lei ha partecipato al movimento femminista?
Sono troppo vecchia. Appartengo alla generazione dell’emancipazione, parola su cui vale la pena riflettere: chi si emancipava? Gli schiavi, i servi della gleba e poi le donne… Il femminismo l’ho scoperto che avevo già quarant’anni. Sono stata una recluta tardiva.
L’ ha cambiata?
Profondamente. Ricordo che mia figlia una volta mi disse: ma perché tu vai sempre a cena con uomini e mai con donne? Era vero, per me le donne non erano interlocutori analoghi agli uomini. Ma non ci avevo mai pensato… La storia è pesante, i retaggi sono duri a smaltire. Poi ho cominciato a uscire a cena anche con le donne.
Che madre è stata?
Domanda da ribaltare: sono i figli che educano le madri, come dimostra quello che ho appena raccontato.
Molte sue coetanee trovavano i cortei delle femministe sguaiati.
Erano anche molto allegri. Tutti i processi rivoluzionari hanno momenti di Carnevale.
La sua esperienza politica è stata condizionata dal fatto di essere donna?
Io ho cominciato a fare attività politica negli organismi rappresentativi dell’Università. Nel 1948 per la prima volta partecipavo al congresso nazionale degli studenti universitari. Sono salita sul palco, stavo per cominciare il mio intervento. Tra il pubblico c’erano quelli dell’Ugi, l’unione goliardica capeggiata da Pannella, e cominciarono a battere le mani, urlando: “Passerella, passerella”. Capito? Una donna che saliva su un palco poteva essere solo una soubrette o un’indossatrice che sfilava. Per fortuna io avevo la pelle dura, altrimenti non avrei mai più parlato in pubblico in vita mia.
E in Parlamento?
Ci sono andata tardi, alla fine degli anni Settanta. C’erano meno diffidenze, anche se eravamo ancora in poche.
Com’è stata la battaglia per divorzio e aborto?
Quando la legge sull’aborto passò era una delle più avanzate, perché l’aborto era garantito dalla sanità pubblica e quindi accessibile a tutte le donne. Oggi il tema dell’obiezione di coscienza dei medici, che in alcune regioni rende praticamente impossibile ricorrere all’aborto, è difficile da risolvere. All’epoca non ci siamo rese conto di quanto sarebbe stata diffusa l’obiezione di coscienza, che naturalmente nella maggioranza dei casi non è una scelta dettata da questioni religiose o etiche. Onestamente non so come si potrebbe risolvere da un punto di vista legislativo.
E il divorzio?
Allora lavoravo alla sezione femminile del Pci: siamo state accusate, come donne comuniste, di non aver sostenuto a sufficienza il divorzio o di averlo in qualche modo ritardato. Ma noi avevamo un’obiezione: e cioè che il divorzio, senza una riforma del diritto di famiglia, sarebbe stato un privilegio delle donne ricche o degli uomini. Bisognava assicurare anche alle donne, a tutte, alcune garanzie, come il diritto alla casa e al riconoscimento dell’apporto al patrimonio familiare con il lavoro casalingo e l’accudimento della prole. Poi si è fatta, con ritardo, la riforma del diritto di famiglia. Quella sull’aborto è stata una battaglia più facile, perché l’aborto è un’esperienza diffusissima e trasversale tra le donne.
Quote rosa sì o no?
Facciamole pure, ma sapendo che sono un simbolo. Il punto non è avere una maggiore percentuale di donne che fanno le stesse cose degli uomini, se poi tutta la società è organizzata in base alle esigenze dei maschi: i tempi di vita, i tempi del lavoro, gli orari dei negozi…
Silvia Vegetti Finzi dice che il lavoro ha dinamiche e tempi contrari agli interessi delle donne.
È verissimo: gli anni in cui una donna diventa madre – tra i 30 e 35 – sono anche anni cruciali per la carriera. Ricordo che ho dato lo scritto dell’esame da procuratore mentre ero incinta e l’orale mentre allattavo: un incubo.
Suo marito l’ha aiutata?
Quando avevamo i bimbi piccoli, Alfredo (Reichlin, ndr) dirigeva l’Unità, io il settimanale della Federazione giovanile comunista. Era più difficile che mancasse lui al giornale.
Questo Parlamento ha una buona presenza femminile. Il governo Renzi iniziò con lo slogan “Otto ministri e otto ministre”. Alcuni obiettano che conta solo il valore della persona, non il sesso.
Io credo nel valore dell’esempio: certe cose bisogna vederle, non basta saperle. E quindi vedere molte donne in ruoli di potere, istituzionali o no, ha un’importanza in sé. Penso aiuti le donne anche in termini di autostima.
Manca l’autostima alle donne?
In larga parte sì: ci sono ancora ragazze che, soprattutto dopo la maternità, restano a casa a fare la mamma e la moglie, a meno che non ci sia bisogno assoluto dello stipendio. Una cosa che un uomo non farebbe mai. Quindi vedere tante donne che hanno potere nella società aiuta a superare i pregiudizi. La rivoluzione delle donne è più profonda della parità dei diritti.
Ministra o ministro?
Ripeto: tutte le cose simboliche sono utili, basta non attribuire ai simboli troppo significato.
In un’intervista al Fatto però disse che da ragazzina voleva fare “il pittore”, al maschile.
A me viene da dire tutto al maschile, sono troppo vecchia: ho quasi novant’anni, ormai non cambio! È un riflesso condizionato. Però capisco la presidente della Camera. La pretesa del maschile che funziona da neutro sott’intende una mistificazione che cancella la differenza. Se anche il linguaggio aiuta a rivelare quest’imbroglio, ben venga.
Cosa pensa della questione molestie sessuali?
Mi ha colpito moltissimo la vastità, impressionante, del fenomeno. Facendo la tara a qualche caso magari dubbio, la mole di denunce è tale da suggerire un costume tristemente comune. Io credo ci sia sempre stata, questa bella abitudine maschile, ma che le donne prima si vergognassero di denunciare. Le vittime, come accade per le violenze sessuali, si vergognano. Le prime donne che hanno deciso di denunciare pubblicamente uno stupro sono state considerate delle eroine. Non dimentichiamoci che in un tempo non molto lontano le donne stuprate o venivano allontanate dalla famiglia o costrette a sposare l’uomo che le aveva violentate. È importante che se ne parli.
Alcuni uomini dicono che non si può più nemmeno fare un complimento galante…
Mi pare una difesa ridicola: un complimento non è una molestia. Per non parlare dei ricatti sessuali sul lavoro, che non è solo il dorato mondo di Hollywood. Nei decenni passati la fabbrica è stato il luogo principe delle molestie e dei ricatti sessuali ai danni delle operaie.
A lei è mai capitato?
Non ho mai dovuto subire un ricatto, vivevo in un ambiente da questo punto di vista privilegiato. Avance molte, ma del resto una volta erano gli uomini che corteggiavano. Se una donna si mostrava interessata a un uomo era una puttana.
È vero che le donne non sanno essere solidali tra loro?
Per niente. Il manifesto ha pubblicato un numero speciale in vendita a 3 euro il cui ricavato andava alla Casa internazionale delle donne di Roma, a rischio di sfratto. È andato esaurito in poche ore, perché tante donne hanno voluto testimoniare solidarietà alla Casa. In questi anni è cresciuta una consapevolezza collettiva, si è rafforzata. Io faccio un’altra critica alle donne, che è il tono lamentoso.
Cioè?
Prendiamo il femminicidio: il fenomeno che abbiamo sotto gli occhi è spaventoso. Nei primi dieci mesi di quest’anno c’è stato più di un episodio ogni tre giorni, e il numero di casi è in crescita (più 5,6% tra il 2015 e il 2016). Ma nella maggioranza dei casi si tratta di donne che hanno messo fine a una relazione, che hanno deciso di intraprendere una professione, insomma: una scelta di indipendenza. E questo è quello che per l’uomo è inaccettabile. Gli uomini sono entrati in crisi perché sentono di non avere più l’autorità. Ma nessun potere viene smantellato senza scorrimento di sangue. Questo tema deve essere raccontato come il tributo di sangue alla rivoluzione delle donne, non con commiserazione.
Le giovani donne hanno un rapporto troppo disinibito con l’immagine?
Mica è un problema delle donne, c’è un’ossessione trasversale dell’apparire. L’aspetto fisico conta tantissimo: la prima cosa che si dice di una donna è se è bella o brutta. Le donne subiscono questo condizionamento. Tanto più il femminismo è forte, tanto più ci si libera di questi retaggi.
Per lei la bellezza è stata un fardello o un privilegio?
La bellezza facilita i rapporti sociali, questo è sempre stato vero. Il pregiudizio però nella nostra generazione era potentissimo: se non avevi le gambe storte o un bel viso, eri cretina. Una donna brutta poteva essere intelligente, una donna bella no. C’era un modello di donna, bella, che finiva tutto nell’apprezzamento estetico. E comunque ai tempi in cui ero giovane, dire ‘è una donna’ equivaleva a dire ‘è una minorata’.
E come si è liberata del problema di essere bella?
Travestendomi da uomo. Noi abbiamo cercato di far passare in clandestinità la femminilità. Si nascondevano, metaforicamente, le tette.
Ha avuto dei modelli femminili?
Aleksandra Kollontaj, marxista, femminista, protagonista della rivoluzione d’ottobre. La prima donna al mondo a diventare ministro. E poi le combattenti della Resistenza: erano quelle a cui da giovane guardavo.
Il bilancio, nel 2017?
Le donne hanno acquistato più forza, ma sono ben lungi dall’aver cambiato la società. Abbiamo il diritto di assomigliare agli uomini. Alle giovani oggi forse basta poter fare tutto quello che fanno i loro coetanei maschi: uscire la sera, divertirsi, scopare, avere l’opportunità di studiare e realizzarsi sul lavoro. Non basta, si fidi di una che ha visto sfilare quasi un secolo…
I 5 Stelle salgono al 29,1%, centrodestra al 36 Pd ancora in calo, il partito di Grasso al 6,6%
Il Pd continua a calare: ora è al 24,4 per cento. Il nuovo movimento di Pietro Grasso, Liberi e uguali, arriva al 6,6%, un punto in più della somma di Mdp e Sinistra italiana. L’ultima rilevazione dell’istituto Ipsos si riferisce alle giornate 5 e 6 dicembre, prima quindi della decisione di Pisapia di fare un passo indietro. Il centrodestra sale al 36%, con Forza Italia che supera la Lega di due punti. Continua la crescita dei 5 Stelle che arrivano al 29,1%.
MILANO Alla sua prima quotazione ufficiale la lista Liberi e uguali registra un consenso del 6,6 per cento. Nelle intenzioni di voto (rilevate da Ipsos tra il 5 e 6 dicembre) la nuova creatura politica tenuta a battesimo domenica scorsa dal presidente del Senato Piero Grasso conquista oltre un punto in più della somma di Mdp, Sinistra italiana e Possibile. Un dato che premia il progetto di unificare le forze che stanno a sinistra del Partito democratico e che nel contempo sembra anche sfatare la tradizione che vuole sempre bocciata nelle urne la scelta di sommare soggetti diversi.
Il peso attribuito a Liberi e uguali è la primizia assoluta del sondaggio di Ipsos che peraltro è stato fatto il giorno precedente il doppio forfait — di Angelino Alfano sul fronte centrista e di Giuliano Pisapia su quello di sinistra — tra i possibili alleati di Matteo Renzi. Due rinunce che potrebbero avere riflessi sul consenso del Partito democratico che, comunque, con questa rilevazione fa registrare il minimo storico della gestione renziana, il 24,4 per cento, inferiore di un punto esatto rispetto a quanto ottenuto da Pier Luigi Bersani nel 2013 e di ben 16 nel confronto con le Europee del 2014.
Ben altra aria tira dalle parti del centrodestra, e soprattutto di Silvio Berlusconi. La crescita dello schieramento, pur con le sue diversità di toni e di contenuti, è lenta ma costante. Il centrodestra unito si attesta al 36 per cento, così suddiviso: Forza Italia 16,7 (più 0,6 rispetto al luglio scorso), Lega 14,4 (meno 0,8), Fratelli d’Italia 4,9 (più 0,4). I numeri parlano chiaro: il rinnovato impegno del leader azzurro, in ospitate televisive e partecipazioni ad iniziative pubbliche, sta producendo i suoi evidenti effetti, consentendo a Berlusconi di allargare le distanze dal competitor interno, Matteo Salvini. Per Forza Italia, in particolare, il dato registrato nei giorni scorsi è il più alto dalle elezioni Europee del 2014 quando le urne decretarono il 16,8 per cento.
Ma a scorrere le tabelle elaborate dall’istituto guidato da Nando Pagnoncelli emerge un’altra performance di tutto rilievo. Tra luglio ed oggi, il Movimento Cinque Stelle fa un balzo di quasi due punti, passando dal 27,5 al 29,1 per cento. Un risultato, tornato sui livelli di inizio anno quando lo «score» superava il 30 per cento, che assegna di gran lunga ai pentastellati il titolo di primo partito.
La mancata vittoria in Sicilia, le polemiche sulla sindaca di Torino Chiara Appendino e l’annuncio del «ritiro» dal Parlamento di Alessandro Di Battista non paiono aver danneggiato il Movimento, ora affidato alla guida del capo politico Luigi Di Maio. Resta da dire di ciò che si muove al centro dello schieramento politico. Alternativa popolare, alla vigilia dell’annuncio dell’addio di Alfano, si ferma al 2,7 per cento, poco sotto la fatidica soglia del 3 per cento che consente l’accesso alle Camere. Scelta civica, invece, è sparita dal radar dei rilevatori (ma nell’ultima occasione valeva solo lo 0,2 per cento).
Infine, il grande partito degli indecisi e dei non interessati al voto. Nel complesso siamo al 35,3 per cento, più di un elettore su tre.

Corriere 9.12.17
I 5 Stelle salgono al 29,1%, centrodestra al 36 Pd ancora in calo, il partito di Grasso al 6,6%
Il Pd continua a calare: ora è al 24,4 per cento. Il nuovo movimento di Pietro Grasso, Liberi e uguali, arriva al 6,6%, un punto in più della somma di Mdp e Sinistra italiana. L’ultima rilevazione dell’istituto Ipsos si riferisce alle giornate 5 e 6 dicembre, prima quindi della decisione di Pisapia di fare un passo indietro. Il centrodestra sale al 36%, con Forza Italia che supera la Lega di due punti. Continua la crescita dei 5 Stelle che arrivano al 29,1%.
di Cesare Zapperi


MILANO Alla sua prima quotazione ufficiale la lista Liberi e uguali registra un consenso del 6,6 per cento. Nelle intenzioni di voto (rilevate da Ipsos tra il 5 e 6 dicembre) la nuova creatura politica tenuta a battesimo domenica scorsa dal presidente del Senato Piero Grasso conquista oltre un punto in più della somma di Mdp, Sinistra italiana e Possibile. Un dato che premia il progetto di unificare le forze che stanno a sinistra del Partito democratico e che nel contempo sembra anche sfatare la tradizione che vuole sempre bocciata nelle urne la scelta di sommare soggetti diversi.
Il peso attribuito a Liberi e uguali è la primizia assoluta del sondaggio di Ipsos che peraltro è stato fatto il giorno precedente il doppio forfait — di Angelino Alfano sul fronte centrista e di Giuliano Pisapia su quello di sinistra — tra i possibili alleati di Matteo Renzi. Due rinunce che potrebbero avere riflessi sul consenso del Partito democratico che, comunque, con questa rilevazione fa registrare il minimo storico della gestione renziana, il 24,4 per cento, inferiore di un punto esatto rispetto a quanto ottenuto da Pier Luigi Bersani nel 2013 e di ben 16 nel confronto con le Europee del 2014.
Ben altra aria tira dalle parti del centrodestra, e soprattutto di Silvio Berlusconi. La crescita dello schieramento, pur con le sue diversità di toni e di contenuti, è lenta ma costante. Il centrodestra unito si attesta al 36 per cento, così suddiviso: Forza Italia 16,7 (più 0,6 rispetto al luglio scorso), Lega 14,4 (meno 0,8), Fratelli d’Italia 4,9 (più 0,4). I numeri parlano chiaro: il rinnovato impegno del leader azzurro, in ospitate televisive e partecipazioni ad iniziative pubbliche, sta producendo i suoi evidenti effetti, consentendo a Berlusconi di allargare le distanze dal competitor interno, Matteo Salvini. Per Forza Italia, in particolare, il dato registrato nei giorni scorsi è il più alto dalle elezioni Europee del 2014 quando le urne decretarono il 16,8 per cento.
Ma a scorrere le tabelle elaborate dall’istituto guidato da Nando Pagnoncelli emerge un’altra performance di tutto rilievo. Tra luglio ed oggi, il Movimento Cinque Stelle fa un balzo di quasi due punti, passando dal 27,5 al 29,1 per cento. Un risultato, tornato sui livelli di inizio anno quando lo «score» superava il 30 per cento, che assegna di gran lunga ai pentastellati il titolo di primo partito.
La mancata vittoria in Sicilia, le polemiche sulla sindaca di Torino Chiara Appendino e l’annuncio del «ritiro» dal Parlamento di Alessandro Di Battista non paiono aver danneggiato il Movimento, ora affidato alla guida del capo politico Luigi Di Maio. Resta da dire di ciò che si muove al centro dello schieramento politico. Alternativa popolare, alla vigilia dell’annuncio dell’addio di Alfano, si ferma al 2,7 per cento, poco sotto la fatidica soglia del 3 per cento che consente l’accesso alle Camere. Scelta civica, invece, è sparita dal radar dei rilevatori (ma nell’ultima occasione valeva solo lo 0,2 per cento).
Infine, il grande partito degli indecisi e dei non interessati al voto. Nel complesso siamo al 35,3 per cento, più di un elettore su tre.

La Stampa 9.12.17
Più oroscopi e meno psicologi
Il Giappone fa la fila dagli indovini
Nel Sol Levante ci sono amuleti per ogni occasione. Boom di chiromanti improvvisati E c’è chi fa sedute dalle fattucchiere per un consiglio sugli investimenti finanziari
di Cristian Martini Grimaldi


Mai camminare sul bordo di un tatami e mai guardare il corvo dritto negli occhi, ma soprattutto mai sposare una donna nata nell’anno del cavallo di fuoco (hinoeuma). Per quanto improbabile possa sembrare la superstizione, non esiste giapponese che non si crucci di prenderla seriamente in considerazione.
Un esempio? Nel 1966 ci furono mezzo milione di nati in meno, sia rispetto all’anno precedente sia a quello successivo. Un cataclisma di gigantesche proporzioni si era abbattuto sull’arcipelago. Ma non si trattava di uno tsunami, né di un terremoto di rara magnitudo. Semplicemente era un anno considerato particolarmente sfortunato, appunto l’anno del cavallo di fuoco e moltissime coppie volevano evitare che i propri figli nascessero in una fase astrale che risultava sfavorevole (il prossimo sarà nel 2026), quantomeno stando a un racconto di ben quattro secoli fa, dove ha avuto origine la superstizione.
Basta fare visita a un qualunque santuario shinto per rendersi conto di quanto in Giappone sia vasto e vario il mercato delle superstizioni. È possibile acquistare un amuleto per quasi tutto: il successo degli esami, un parto sicuro, la protezione dagli incidenti stradali. Per non parlare della pianificazione delle date favorevoli per i matrimoni e i funerali.
Secondo alcune statistiche addirittura un giapponese su quattro crede che la personalità sia determinata dal proprio gruppo sanguigno. Ad esempio il gruppo A rispecchierebbe una persona seria e scrupolosa, mentre un B è tendenzialmente egoista e poco socievole. Il gruppo AB rappresenta solo il 9% della popolazione, vuol dire che il soggetto avrà una personalità molto speciale, o estremamente geniale o molto stupido.
Insomma, il popolo che ha impostato l’organizzazione sociale e lavorativa sulla giustezza matematica - il ritardo anche di un solo minuto in un colloquio di lavoro è assolutamente ingiustificabile - quando si tratta di prendere decisioni importanti non è raro che faccia ricorso all’indovino. Nei ruggenti Anni 80, ovvero il periodo di massima prosperità economica, quando investire in azioni era diventato una tale consuetudine che le casalinghe ne facevano il loro passatempo preferito, se c’era da fare un grosso e rischioso investimento che avrebbe potuto consolidare il proprio patrimonio, o al contrario mandare sul lastrico un’intera famiglia, si cercava il parere di un fortune-teller, non di un consulente finanziario.
La storia più incredibile è quella di una donna di nome Nui Onoue, proprietaria di un ristorante di Osaka, che divenne il più grande broker di azioni del Paese (ricevette prestiti da istituzioni finanziarie per un valore di 1,7 miliardi di euro). Si pensava fosse dotata di speciali doti di chiaroveggenza e la gente gli affidava la cura dei propri risparmi, una sorta di Bernard Madoff dove al posto del curriculum del finanziere aveva quello della chiromante (per la cronaca, prese 12 anni di carcere e le due banche che gestivano i suoi fondi oggi non esistono più).
Gli oroscopi appaiono spesso sugli schermi dei treni e sempre di più si stanno diffondendo quelli personalizzati online, ma soprattutto la vecchia pratica dell’oroscopo via telefono sta avendo un successo straordinario. L’abitudine dei giapponesi di consultare gli astri sono radicate nel concetto che hanno di divinità. La credenza in un’unica entità divina tipica delle religioni monoteiste è piuttosto rara, più diffusa è una visione panteistica di dio, dove la natura è al centro, e tale mentalità promuove ineluttabilmente un atteggiamento di tipo fatalista, di qui il grande interesse per la «lettura» del proprio destino.
Anche nei momenti di depressione o stress sentimentale e lavorativo, i giapponesi preferiscono un fortune-teller a uno psichiatra, e non solo perché è molto più economico: una sessione dal chiromante costa mediamente 5.000 yen (più o meno 45 euro) per una durata di 30 minuti, contro i 200 euro che costerebbe una sessione di consulenza dallo psicoterapeuta. Non ci sono dati affidabili sul numero dei praticanti la professione divinatoria in Giappone perché in teoria chiunque può mettersi in proprio e diventare un fortune-teller, e nessuna licenza è necessaria per entrare in attività. Inoltre con l’avvento della digitalizzazione una quantità sempre crescente di contenuti legati agli oroscopi si è riversata online.
Il target dichiarato di questi siti sono per lo più persone di sesso femminile tra i 20 e 30 anni che cercano consigli sulla vita sentimentale. Guarda caso quella fascia di età in cui una donna giapponese è in cerca di marito: passati i 30, statistiche alla mano, solo il 5% di queste salirà sull’altare.

il manifesto 9.12.17
Manicomio addio, finalmente
Verità nascoste. La rubrica settimanale a cura di Sarantis Thanopulos
di Sarantis Thanopulos


La settimana scorsa al Centro Napoletano di Psicoanalisi è stato presentato Manicomio addio, un libro di Guelfo Margherita, psicoanalista con una storia importante nel campo della cura psichica, ex primario dell’ospedale psichiatrico Bianchi.
L’autore, protagonista del movimento che ha ridato dignità e diritto di cittadinanza ai reclusi nelle strutture manicomiali, descrive la propria esperienza esponendo i suoi presupposti teorici e clinici. Gli ampi resoconti del lavoro in gruppo, suo strumento privilegiato, ravvivano la memoria di un passato non remoto di passioni – che già appare preistorico nell’ambito della psichiatria attuale- rimettono in scena un patrimonio di curiosità, immaginazione, solidarietà colpevolmente disperso.
Erving Goffman (1961) ha definito le grandi strutture manicomiali come «istituzioni totali»: luoghi di residenza e di lavoro di gruppi di persone che, allontanate dalla società per un periodo lungo di tempo, vivono insieme in un regime chiuso e inglobante che si amministra da sé secondo regole proprie.
Storicamente la funzione dei manicomi è stata quella di eliminare dalla società il fastidio e l’inquietudine provocati dal disordine della sofferenza psichica più grave e destrutturante e dal suo effetto contaminante, destabilizzante.
Un servizio di nettezza urbana del dolore che isolato nelle strutture di reclusione, veniva cloroformizzato, silenziato con tutti i mezzi a disposizione.
La cura manicomiale era una pratica violenta, riconosciuta come repressiva, ma supposta necessaria, di uniformazione, spersonalizzazione dell’esperienza, inclusa quella dei suoi operatori, scissi, nell’esercizio della loro funzione, dalla loro identità di cittadini «normali» proprietari di uno spazio privato e di una vita propria.
Coperta dalle sue motivazioni di contenimento repressivo, la cura manicomiale svolgeva, contemporaneamente, la funzione di dare forma concreta e legittimazione indiretta all’agire desoggettivante che sottende vaste aree della vita sociale.
Le mura dei manicomi rendevano ammissibile la conformazione a un ordine impersonale tra le pratiche di educazione sociale e, al tempo stesso, le negavano un riconoscimento aperto, la nascondevano.
Ci si può chiedere se a essere psicotici fossero i pazienti reclusi o piuttosto l’istituzione, come Margherita sostiene.
L’affermazione non è eccessiva. I soggetti che impropriamente chiamiamo psicotici, confondendoli con la loro reazione difensiva a forze desoggettivanti che minano precocemente l’integrità della propria esperienza, cercano spontaneamente di riappropriarsi di un senso personale di esistenza, accettando di rompersi. I loro deliri, allucinazioni e comportamenti irregolari, bizzarri mirano a riparare la rottura senza negare le sue ragioni, sono una spinta soggettivante.
La loro cura manicomiale, che annullava la loro soggettività, era, invece, psicotica, psicotizzante.
Come è accaduto con altre domande di cambiamento sociale dell’ultima parte del secolo scorso, anche la riforma della cura psichiatrica è stata accolta formalmente e tradita nella sostanza.
I grandi manicomi sono stati chiusi (anche se sopravvivono in dimensioni minori in varie forme), ma la reclusione, spersonalizzazione della sofferenza è stata introiettata dal corpo sociale. Vive in modo diffuso, più insidioso, in una nuova pratica di soffocamento del sintomo manifesto: l’uso massiccio, rigorosamente sedativo dei farmaci.
La compressione pura dell’angoscia che in questo modo si realizza, è del tutto omogenea alla psicosi asintomatica, devitalizzante diventata la più temibile, invisibile, forma di alienazione sociale.

Corriere 9.12.17
La mamma che ha ucciso i suoi bambini rifiuta le cure
La donna ha una ferita al torace, ma non è stato possibile operarla: «Ho fatto qualcosa di male»
S. P., G. B.


«Ho fatto qualcosa di male, voglio morire». Sono le parole che, dal suo letto all’ospedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia, ripete Antonella Barbieri, 39 anni, l’ex modella che ha soffocato con un cuscino la figlia Kim, 2 anni, e ucciso con un coltello da cucina il secondogenito Lorenzo, 5 anni, per poi tentare senza riuscirci di togliersi la vita.
La donna, arrestata con l’accusa di duplice infanticidio e sorvegliata a vista, ha una ferita al torace, ma non è stato possibile operarla perché rifiuta le cure. «È vigile e cosciente, le sue condizioni sono stabili. Sono state attivate tutte le consulenze del caso, compresi gli accertamenti psichiatrici», spiegano i sanitari. L’unico colloquio che ha avuto sinora è quello col magistrato, ma è stato interrotto perché la paziente è scoppiata più volte in lacrime. Antonella avrebbe sofferto in passato di crisi depressive e pare fosse in cura.
«Non era una delle persone più allegre», spiega Giuseppe Benatti, zio di Andrea, il marito della donna, campione di rugby che ha giocato nel Viadana (Mantova) e in Nazionale. Si è ritirato nel 2011 dopo il distacco della retina. «Antonella pareva avere un atteggiamento un po’ strano», dice il parroco di Suzzara, dove la donna si è trasferita un paio d’anni fa col marito dopo aver gestito a Viadana un negozio di telefonia e un centro estetico. Il ds del Viadana, Alberto Bronzini, non riesce a darsi pace: «Pensavo che conducessero una vita felice».

La Stampa TuttoScienze
L’evoluzione della prospettiva da Euclide a Brunelleschi
Piergiorgio Oddifreddi ci narra come Filippo Brunelleschi affronta il problema della rappresentazione scientifica della terza dimensione su un piano. Il Brunelleschi partendo dalle conoscenze dei greci e dai teoremi dell’ottica di Euclide riesce a risolvere il problema della rappresentazione dello spazio.
di Piergiorgio Odifreddi

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