domenica 10 dicembre 2017

il manifesto 10.12.17
L’officina viva della politica
Antonio Gramsci. Intorno alla nuova edizione critica dei «Quaderni del carcere», a cura di Giuseppe Cospito, Gianni Francioni e Fabio Frosini, per Enciclopedia Italiana
Dalla casa museo di Ghilarza
di Guido Liguori


È da poco uscito il secondo volume della nuova edizione critica dei Quaderni del carcere di Gramsci, a cura di Giuseppe Cospito, Gianni Francioni e Fabio Frosini (Enciclopedia italiana, vol. II, tomo I, pp. LXV+850, euro 60). I volumi in cui è prevista la pubblicazione di questa nuova edizione (nell’ambito dell’Edizione nazionale degli scritti di Antonio Gramsci) sono tre: Quaderni di traduzioni, due tomi già usciti dieci anni fa; Quaderni miscellanei, volume che alla fine risulterà composta di tre tomi; e Quaderni speciali, in due tomi.
Nel libro appena edito – che contiene i primi quattro quaderni teorici – si entra quindi nel cuore del laboratorio carcerario gramsciano. Nei Quaderni miscellanei, infatti, Gramsci scrisse note su molti argomenti diversi, alcune delle quali saranno poi raccolte in «quaderni speciali» (monotematici). Già in questi primi quattro, si trovano temi e passi tra i più noti dell’opera.
L’OPERA IN QUESTIONE è stata preceduta da un lunghissimo periodo di gestazione, di dibattiti e di lavoro. Francioni avanzò le sue prime riflessioni pubbliche sulla allora recente edizione Gerratana al convegno gramsciano di Firenze del 1977. Più tardi presentò distesamente le sue ipotesi nel libro del 1984, L’officina gramsciana. All’inizio degli anni Novanta, su iniziativa della Fondazione Gramsci, fu varata l’Edizione nazionale, che diede luogo a un ampio dibattito tra gli specialisti, con il coinvolgimento di insigni filologi.
Francioni proseguì rettificando qualche aspetto della sua proposta, approfondendo e raffinando molti punti della sua ricerca e oggi, dopo un quarto di secolo, ci consegna questa nuova edizione che, partendo dalle fondamentali conquiste della «edizione Gerratana», fa compiere alla ricerca un indubbio passo in avanti nella comprensione di come lavorava Gramsci in carcere, della sua modalità di scrittura e di come leggere i Quaderni per cercare di ricostruire quel «ritmo di pensiero in isviluppo» fondamentale per la comprensione di un’impresa intellettuale che è un vero e proprio laboratorio, un work in progress pieno di rimandi interni, di svolgimenti concettuali, di svolte teoriche.
Da qui la difficoltà di un’opera per cui la lettura o la citazione di un’affermazione presa isolatamente dal contesto (redazionale, ma anche storico-politico) in cui è stata pensata rischia di non rendere pienamente il senso e il significato che vi vedeva il suo autore. La numerazione dei quaderni in questa edizione resta quella di Gerratana (sulla base della presunta data di inizio di ogni singolo quaderno), numerazione che i curatori hanno deciso di lasciare inalterata per diminuire i rischi di confusione. Cambia in alcuni casi l’ordine in cui sono disposte le sezioni interne ai singoli quaderni, quando sono presenti. In Gerratana l’ordine riproduceva a volte la disposizione materiale dei testi, a volte la loro cronologia. In questa edizione esso è quello del loro effettivo avvio (o ritenuto tale).
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L’«EDIZIONE FRANCIONI», inoltre, separa nettamente in due distinte sezioni quaderni «miscellanei» e «speciali», tipologie di quaderni che, dopo i primi nove, tutti miscellanei, si alternano e si intrecciano. I curatori suggeriscono così l’immagine dei distinti ambiti su cui (interrotte le traduzioni) il marxista sardo portò avanti il suo lavoro, alternando riordino-ricopiatura-modifica da un lato e scrittura di note e quaderni del tutto nuovi dall’altro. I «quaderni miscellanei» costituiscono circa la metà dell’intero lavoro carcerario (1500 pagine su 3000).
Nel suo primo periodo di scrittura carceraria, a Turi, Gramsci portò avanti, ricordano Cospito e Frosini nella bella e utile Introduzione al volume, tre «sequenze», tre flussi o blocchi di note, che attraversano lungo diversi anni quaderni distinti. Secondo tale ipotesi, avanzata da Francioni già nel 1984, la prima sequenza va dal febbraio 1929 al dicembre 1930 e comprende i Quaderni 1, 2, 3 e 5; la seconda va dal maggio 1930 al maggio 1932 e comprende gli Appunti di filosofia 1, 2 e 3 (nei Quaderni 4, 7 e 8); e la terza sequenza va dal novembre 1930 al giugno 1935, nei Quaderni 4, 6, 8, 9, 14, 15 e 17.
GRAMSCI, PER OVVIARE al divieto di avere con sé in cella quanti quaderni voleva, usava suddividere gli stessi in sezioni che costituivano veri e propri taccuini autonomi, pur se materialmente compresi in un unico manoscritto con altri.
Nel volume ora pubblicato questo fatto è particolarmente evidente nel Quaderno 4, che i curatori suddividono denominandone le parti Quaderno 4a, 4b, 4c, 4d, per sottolineare il fatto che ciò che appare materialmente un unico quaderno, ne contiene in realtà quattro. Il primo è occupato dalle note sul Canto decimo dell’Inferno, scritte tra il maggio 1930 e l’agosto 1932; il secondo dagli Appunti di filosofia. Materialismo e idealismo. Prima serie, scritti tra il maggio e il novembre 1930; la terza da una Miscellanea del novembre 1930; e la quarta da una Miscellanea dell’agosto-settembre 1932. Ciò ci fa capire come Gramsci portasse avanti contemporaneamente tipi di riflessione diversi.
IL COMMENTO della nuova edizione prende le mosse dall’«edizione Gerratana» e dalla ingente mole di «fonti» e riferimenti da essa reperita, ma ora allargata, integrata o corretta alla luce delle scoperte susseguitesi dopo il 1975 e del vaglio critico eseguito dai curatori, del riesame delle riviste e dei libri posseduti da Gramsci e di un sistematico confronto con il suo epistolario e la sua biografia, elementi a cui oggi si attribuisce molta più importanza che negli anni settanta. I testi gramsciani sono stati accuratamente confrontati con gli originali e numerose correzioni sono state apportate.
A piè di pagina, i curatori danno conto delle parole o lettere cancellate da Gramsci, spesso sostituite con altre. I testi di prima stesura, quelli copiati nei «quaderni speciali» e tenuamente barrati nei manoscritti per indicare il loro utilizzo, pur lasciandoli leggibili, vengono segnalati con due righe verticali a margine, ma pubblicati nello stesso corpo tipografico degli altri, e non in un corpo minore come aveva fatto Gerratana, restituendo pienamente loro pari dignità nell’ambito del «laboratorio gramsciano».
UNA EDIZIONE CRITICA, più che avanzare una interpretazione, deve essere uno strumento fornito a quanti intendano elaborarne una. La importanza di questa edizione la si potrà misurare appieno solo nei prossimi lustri, anche se aggirerà il problema dell’ingente costo (si può pensare a una sua messa on line a costi ridotti, una volta completata?). Solo in futuro sapremo se e quanto sostituirà in toto quella di Gerratana, come quest’ultima prese lentamente ma inesorabilmente il posto della «edizione tematica» pubblicata da Platone e Togliatti tra il 1948 e il 1951 – cosa su cui non tutti avrebbero scommesso.
A Francioni e ai suoi collaboratori va intanto il plauso di coloro che studiano in Gramsci non un repertorio di categorie storiche, filosofiche, critico-letterarie für ewig, ma gli strumenti forgiati nel vivo di una lotta politica «condotta con altri mezzi».

il manifesto 10.12.17
Gerusalemme non è la capitale di Israele
I diritti dei palestinesi. Israele a tutt’oggi si è rifiutata di definire il limite dei propri confini per finalità di diritto internazionale, presumibilmente per permettere ulteriori espansioni fino a quando la totalità della biblica Terra Promessa sarà sotto il suo controllo totale. A rischio di estinzione, in particolare, c'è la fetta di territorio della West Bank che da Israele viene indicata con i nomi biblici di Samaria e Giudea, sostenendo in questo modo l’idea che tradizione etnica e religiosa abbiano la precedenza sul diritto internazionale contemporaneo
di Richard Falk


Tutti coloro che rilasciano dichiarazioni pubbliche per conto del governo di Israele, si deliziano nel difendere la provocatoria decisione di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele con il seguente assioma: «Israele è l’unico stato nel mondo che non ha il permesso di poter situare la propria capitale in un luogo di sua scelta».
Di per sé tutto questo costituisce un proclama che pare innocente e perfino preciso, fino a quando non si ragiona su come stiano veramente le cose. Se ci riflettiamo un attimo, sarebbe molto più ragionevole la seguente enunciazione: «Israele è l’unico stato al mondo il cui governo ha il coraggio di eleggere come sua capitale una città oltre i propri legittimi confini di sovranità, una città, per altro, soggetta a chi esercita diritti superiori».
Israele a tutt’oggi si è rifiutata di definire il limite dei propri confini per finalità di diritto internazionale, presumibilmente per permettere ulteriori espansioni fino a quando la totalità della biblica Terra Promessa sarà sotto il suo controllo totale. A rischio di estinzione, in particolare, c’è la fetta di territorio della West Bank che da Israele viene indicata con i nomi biblici di Samaria e Giudea, sostenendo in questo modo l’idea che tradizione etnica e religiosa abbiano la precedenza sul diritto internazionale contemporaneo.
C’è un’altra riflessione da aggiungere. Sarebbe infatti necessario tornare indietro di 70 anni, alla controversa partizione decisa dalla «Risoluzione 181» dell’Assemblea generale delle Nazioni unite. Israele, negli anni seguenti, si è spesso congratulata con la risoluzione, in contrasto con l’opposizione dei palestinesi. Quest’ultimi hanno dovuto subire massicce espulsioni e perdite di territori durante la guerra nel 1947, conosciuta come la Nakba per i palestinesi. Israele per anni ha argomentato che l’accettazione della «Risoluzione 181», annulla le rimostranze attribuibili alla Nakba, includendo il diniego ai palestinesi di qualsiasi diritto al ritorno alle loro case o ai luogo di residenza, malgrado il proprio collegamento con la propria terra e il diritto di identità palestinese.
Quello che il governo di Israele vuole dal resto del mondo, è che sia dimenticata quella che è la presente situazione stabilita dalle Nazioni unite per quanto riguarda lo status di Gerusalemme come parte integrante della «Risoluzione 18».Viceversa, Israele ha propagandato al mondo la falsa storia che la «Risoluzione 181» trattava esclusivamente le divisioni del territorio; di conseguenza le rivendicazioni riguardo Gerusalemme vanno ignorate e dimenticate.
Quanto venne proposto nella decisione delle Nazioni Unite e quanto Israele «accettò» nel 1947 fu che la città di Gerusalemme, riconoscendo il collegamento di identità nazionale per i palestinesi e per gli ebrei, non doveva essere sotto il controllo sovrano di nessuna delle due popolazioni ma doveva essere internazionalizzata e soggetta all’amministrazione delle Nazioni unite, riconoscendo il particolare significato simbolico e religioso di Gerusalemme per le tre religioni monoteiste.
Potrebbe essere arguito da parte degli assertori della decisione di Trump che anche i palestinesi e il mondo arabo (in virtù dell’Iniziativa di Pace araba del 2002) hanno silenziosamente sostituito l’internazionalizzazione di Gerusalemme con la «soluzione dei due stati», in base alla quale si realizza il presupposto condiviso da entrambe le parti, affinché Gerusalemme venga condivisa in modo da concedere a Israele e Palestina di stabilire la loro capitale entro i limiti della città.
La maggior parte dei progetti avanzati per i due stati, indicano Gerusalemme est – che Israele ha occupato da 50 anni, sin dalla guerra del 1967 – per i palestinesi. Anche in questo caso esiste una strana diversificazione fra quanto Israele si vuole arrogare come diritto e quanto il diritto internazionale prevede. Israele, al termine della guerra del 1967, ha immediatamente asserito che tutta Gerusalemme costituiva la «città eterna» per il popolo ebraico. Il governo di Tel Aviv è andato ben oltre. Con un decreto ha esteso l’intera area che comprende la città di Gerusalemme quasi raddoppiando il territorio e accorpandosi una serie di comunità palestinesi.
Per tornare alla bruciante domanda del perché debba essere negate a Israele il diritto di situare la propria capitale dovunque voglia o convenga, è opportuno riformulare quanto richiesto da Israele nei seguenti termini: «Esiste il diritto di ogni stato a decidere di stabilire arbitrariamente la propria capitale in una città che è occupata, ovvero in virtù dell’autorità esclusiva di sovranità designate dal proprio governo territoriale?»
Per quanto riguarda il danno provocato dall’iniziativa di Trump nel riconoscere Gerusalemme capitale di Israele e la dichiarata intenzione di spostare l’ambasciata americana, è impossibile da quantificare adesso, benché un eventuale ritorno alla violenza, all’estremismo politico, al terrorismo antiamericano e a una situazione di guerra estesa nella regione mediorientale, verrà attribuito a un errore diplomatico di Trump.
Allo stesso modo risulta ormai evidente, in base alla decisione di per sé, il danno molto grave fatto alla reputazione della leadership degli Stati uniti a livello regionale e globale. Altrettanto dicasi per l’autorità delle Nazioni unite che ha dimostrato di non avere la capacità di dirimere controversie a livello geopolitico, mettendo da parte il diritto internazionale e l’opinione pubblica mondiale.
Le prospettive per una diplomazia fondata su uguaglianza di diritti per i palestinesi e gli israeliani si è ridotta a zero e una speranza di giustizia per i palestinesi non è al momento prevedibile.
* Professore emerito a Princeton ed ex rapporteur Onu per la Palestina

il manifesto 10.12.17
«Bisogna sciogliere le organizzazioni, come fu con Ordine nuovo»
Intervista alla presidente dell'Anpi Carla Nespolo. «Un centro di studi storici è sempre un’opera utile, ma mi preoccupa che sia fatto proprio a Predappio. Il rischio è farne un luogo di agiografia. Ma noi non siamo stati coinvolti nella faccenda»
di Mario Di Vito


«Predappio è solo il luogo natale di Mussolini, non ha significato nella Resistenza. Non siamo contro un centro studi sul fascismo, ma siamo preoccupati dal fatto che si faccia proprio lì».
La presidente dell’Associazione nazionale partigiani italiani Carla Nespolo è reduce dalla manifestazione antifascista di Como. Stanca ma abbastanza soddisfatta dalla buona (e non scontata) partecipazione registrata, non si risparmia nel commentare la prossima realizzazione del «Progetto Predappio» nell’ex Casa del Fascio del paesino in provincia di Forlì.
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Nespolo, il progetto va avanti malgrado la vostra contrarietà.
Noi pensiamo che un centro di studi storici sia sempre un’opera utile, anche se voglio specificare che in nessun modo siamo stati coinvolti nella faccenda di Predappio, né da un punto di vista scientifico né da un punto di vista politico. Comunque, questo risorgente fascismo che stiamo vedendo all’opera negli ultimi tempi nasce da una mancanza di conoscenza del Ventennio. Quindi, benvenga un centro studi. Però temo che la scelta di localizzarlo a Predappio significherebbe non farne un luogo di conoscenza, ma di agiografia: il paese è già da tempo meta di pellegrinaggi fascisti, per così dire. Un museo del genere si può fare anche altrove: a Milano, a Roma, a Torino, sulla Linea Gotica… A Predappio c’è solo la casa natale di Mussolini, tutto qui. È un’operazione che non ci piace né ci convince.
Intanto a Como la manifestazione antifascista sembra comunque essere riuscita a smuovere molte persone.
È stato un bel momento, colorato e plurale. Però non deve essere un fatto isolato. Spero che sia l’inizio di un percorso che porti alla piena attuazione della Costituzione. L’abbiamo difesa l’anno scorso ai tempi del referendum, e adesso vogliamo che venga applicata. Perché, fa sempre bene ricordarlo, l’Italia è un paese antifascista, così come lo è la sua carta costituzionale.
Che fare?
Serve una grande operazione culturale: bisogna far sapere ai giovani cosa è stato il fascismo, perché è dall’indifferenza che nascono i totalitarismi e le dittature. Bisognerebbe anche sciogliere le organizzazioni fasciste: ci sono delle leggi e dei precedenti storici, penso a quando negli anni ’70 fu messo fuori legge Ordine Nuovo. Servono scelte chiare da parte di un fronte comune molto ampio: no alla violenza fascista, no al razzismo. Chiediamo al governo di intervenire.
Ecco, la piazza di Como è stata convocata Pd, che è al governo e che, ad esempio, negli ultimi mesi ha promosso politiche molto dure sull’immigrazione.
Uno degli interventi che mi è piaciuto di più è stato quello di una ragazza di Como Senza Frontiere, che ha espresso parole dure sul decreto Minniti. Alla manifestazione c’erano tanti ministri del Pd, sono convinta che abbiano capito quali fossero le istanze della piazza: contro il razzismo e per l’accoglienza.
Negli ultimi tempi i rapporti tra Pd e Anpi sono, per così dire, talvolta tesi. Dopo essere stati a manifestare insieme, bando alle polemiche?
Non mi sento assolutamente di dire ‘bando alle polemiche’. L’unità di intenti vuol dire anche che tra di noi dobbiamo dirci la verità: quando c’è da fare critiche, noi non abbiamo problemi a farle, né ci risparmieremo in futuro. Bisogna arginare questo nuovo fascismo, che cresce anche grazie alle divisioni degli antifascisti. Ma, ci tengo a ribadirlo, non nasconderemo mai le nostre opinioni: non l’abbiamo fatto con il referendum costituzionale, non l’abbiamo fatto con il pacchetto Minniti. Continuiamo, ad ogni modo, a lavorare per un grande fronte comune antifascista, cercando punti di contatto con tutti. Come ai tempi della Resistenza.

La Stampa 10.12.17
Difendiamo i giornali dai neofascisti
di Vladimiro Zagrebelsky


L’attacco messo in scena contro la Repubblica da una squadra di contestatori sotto la bandiera di Forza Nuova viene pochi giorni dopo l’irruzione a Como di membri di un Fronte Skinhead nella sede di un’associazione che si occupa di assistere migranti in difficoltà. Linguaggio e condotta richiamano prassi fasciste. E a fascismo e nazismo, nei simboli e nelle azioni, esplicitamente si richiamano ormai numerose organizzazioni di estrema destra, oltre che gruppi di tifosi che si ritrovano negli stadi di calcio. Non è da dimenticare il recente ignobile uso del ritratto di Anna Frank per ingiuriare la squadra avversaria.
La situazione diviene grave, anche perché trova riscontro altrove, specialmente all’Est dell’Unione Europea, dove si pratica la «democrazia illiberale» e gruppi di nazionalismo violento hanno libero corso. È inaccettabile la minimizzazione, che talora viene proposta da esponenti della destra politica. Non si tratta di criticabili ragazzate.
Gli aggressori di Repubblica, con la loro «dichiarazione di guerra», dicono di rappresentare oggi ogni italiano, tradito da chi con la penna favorisce la legge sul cosiddetto Ius soli, l’invasione e la sostituzione etnica, con il genocidio del popolo italiano. Con questo linguaggio essi promettono di difendere Roma e l’Italia se necessario a calci e pugni. Anche con la violenza, dunque.
Colpisce e offende che costoro pretendano di rappresentare e difendere l’Italia, interpretandone l’identità e le radici storiche. Chi li ha delegati? E poi, quali radici? L’identità nazionale è pluralistica, impossibile da definire unitariamente, frutto di sedimenti storici contraddittori. Affrontando il tema dei migranti, vi è chi contesta loro di esser diversi dalla maggioranza per cultura e religione. Ma quale è in proposito l’identità nazionale italiana? Trova essa radici nel Piemonte che operava per unificare l’Italia e fino alle rivoluzioni europee del 1848 teneva ebrei e valdesi privi di diritti civili? O più recentemente, nell’Italia che, compiacendo l’alleato nazista, introduceva nel 1938 le leggi razziali che cacciarono dalle scuole studenti e professori ebrei? Oppure, al contrario e in contrapposizione a quel passato, la nostra identità si trova nella drastica rottura rappresentata dalla Costituzione e dalla adesione all’Unione europea? Nella Repubblica, cioè, che, secondo Costituzione, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, l’uguaglianza, la libertà religiosa, la libertà di stampa?
C’è da chiedersi quale risultato abbia avuto il lavoro culturale svolto dalla scuola, quali credibili indicazioni siano venute dalle istituzioni politiche della Repubblica. L’eco che accompagna le azioni dei gruppi come quello che ha contestato il giornale Repubblica sarebbe trascurabile se non trovasse terreno fertile. Vi è un contesto pericoloso: da tempo, larghi settori della vita politica hanno adottato un linguaggio violento e sprezzante anche e specificamente nei confronti dei media e di singoli giornalisti, arrivando a pubblicare liste di proscrizione. L’esempio di Grillo non è il solo.
La riforma della legge sulla cittadinanza, che il Parlamento dovrebbe impegnarsi ad approvare, la vuole riconoscere ai figli di immigrati regolari, che sono nati in Italia o in Italia hanno frequentato le scuole. Niente a che vedere con l’invasione o addirittura la sostituzione etnica. Si tratta di una proposta in linea con la Costituzione e nell’interesse dell’Italia. In ogni caso essa riflette una posizione politica legittima, soggetta alla discussione, non all’aggressione.
Il pluralismo culturale, di costumi, opinioni, stili di vita e religioni è da tempo dentro le società europee, indipendentemente dal fenomeno immigratorio. La libertà di stampa, la libertà dei giornali serve a esprimerlo, difenderlo, renderlo utile.
È certo benvenuta l’immediata solidarietà manifestata dal governo a Repubblica, ma non basta, così come non basterebbe l’azione di polizia promessa dal ministro dell’Interno. Si faccia sapere ai giovani, che l’ignorano, dove le idee di quei gruppi hanno portato l’Italia e l’Europa. L’impegno necessario è di ampio respiro e di lungo periodo.
Tra i tanti episodi che si succedono, spicca per gravità quello contro la Repubblica, che, come questo giornale, si colloca chiaramente nel quadro dei valori costituzionali. La funzione pubblica della discussione dei temi della società, che i media svolgono liberamente, li colloca tra le essenziali istituzioni repubblicane. Essi sono strumenti ineludibili della formazione ed evoluzione dell’opinione pubblica, la quale a sua volta fa sì che le forme della democrazia e in particolare le elezioni non siano vuote di contenuto. In Italia, anche sul tema dell’immigrazione, le posizioni difese dai giornali sono le più varie. Da un lato l’orientamento della Repubblica non è isolato e dall’altro le posizioni opposte non sono relegate in un angolo.
Per l’obiettivo scelto e il motivo dichiarato, l’aggressione a Repubblica non è dunque solo aggressione ad un giornale, è un attacco alla libertà di stampa, alla libertà di tutti, alla democrazia.

Repubblica 10.12.17
Dalle minacce nazi alla festa “Ma basta con l’indulgenza”
I quindici dell’associazione Como Senza Frontiere vittime del blitz degli skinhead “Oggi si respira aria buona, però è un grave errore sottovalutare fascisti e razzisti”
di Paolo Berizzi


COMO Che bello vederli arrivare in silenzio, sorridenti, senza cercare telecamere e taccuini. Senza cappelli da posare sulla giornata.
Cosa che a qualche politico proprio non riesce. «Oggi abbiamo sentito il supporto al tema dell’antifascismo e dell’aiuto ai migranti. Adesso speriamo che, dopo la solidarietà, arrivino azioni politiche conseguenti». Dice così Gianpaolo Rosso. Tra i meno giovani del gruppo, forse il più pragmatico. Quello che sosteneva che neutralizzare con l’arma dell’imperturbabilità gandiana i naziskin è stato un po’ come fare da cuscinetto tra esercito israeliano e gruppi palestinesi.
Sembrano dieci piccoli indiani.
Anzi, quindici. Due in più delle teste rasate di quella maledetta sera. Sono i resilienti di Como Senza Frontiere. I protagonisti del prima e del dopo. La miccia (involontaria) e il fulcro della giornata antifascista di ieri.
Perché se il fiore del partigiano è il lungolago delle bandiere spazzolate dal vento, di quel fiore, loro, gli angeli custodi dei migranti, sono il pistillo. E come per le piante anche qui parlano l’essenza, i colori. I colori che li circondano. Dal nero della squadraccia neonazi che mercoledì 28 novembre li ha assediati nella sala sartoria del Chiostrino di Sant’Eufemia, alla folla rossa e gialla che splende sotto il sole e li abbraccia. «Oggi ci sono solo delle belle facce», sorride Rosso. Sta lì, scaletta del palco. Filma con lo stesso cellulare con cui ha ripreso la squadraccia del Veneto Fronte Skinhead imporre a lui e agli altri quattordici della rete pro migranti la lettura del delirio formato A4.
Nella borsa a tracolla ha le fotocopie dell’intervento della portavoce Annamaria Francescato, la pasionaria universitaria che solleva le sopracciglia quando, al debutto, Alessandro Alfieri, segretario regionale dem, chiede ai tecnici del suono di sparare l’inno di Mameli. «O no!». Annamaria usa toni morbidi per sganciare bordate contro il governo. Il messaggio, che non ha fatto fare salti di gioia al partito di Matteo Renzi, è questo: avete riservato ai gruppi neofascisti un’indulgenza inversamente proporzionale alla severità adottata coi migranti.
Sentite il padre comboniano Luigi Consonni. «Speriamo che spengano questi estremisti, perché ormai il problema è diventato politico. E fuori dalle nostre strutture c’è gente abbandonata all’addiaccio». Nel video dell’irruzione paramilitare di nove giorni fa - diffuso da Repubblica. it - Consonni è quello che si arma di tutta la calma del mondo e si concentra sulla lettura del testo nel quale gli skinhead gli danno del “traditore” che aiuta gli immigrati perché vuole sostituire il popolo italiano con quello africano. «La risposta è arrivata da tutta questa gente sul lungolago».
Protagonisti per sottrazione.
Niente retorica, zero vittimismo.
Non cercano i politici. Sono i politici che cercano loro. «Dove sono i ragazzi di Como Senza Frontiere?», chiede appena arrivata Laura Boldrini, tra le poche applaudite. I ministri possono attendere, sono tutti sotto palco (assieme a Renzi) tranne uno: Andrea Orlando. Il Guardasigilli sceglie di stare in mezzo alla gente, gira anche senza scorta; si perde nella folla i cui sguardi sono sempre rivolti a loro: i quindici piccoli indiani di CSF.
Un tipo di Sinistra italiana salta su: «Bravo Orlando, per la prima volta una voce decisa dal governo contro i nostalgici del regime!» (il riferimento è alla netta presa di posizione del ministro sullo scioglimento dei gruppi neonazifascisti, ndr). Due ore prima: le 10. I volontari di CSF si sono dati appuntamento di fronte al monumento ai caduti.
Pensavano che il palco il Pd lo avesse montato lì. «Nessuna polemica. Vale il risultato finale», ragiona Fabrizio Baggi, Rifondazione e Osservatorio sulle nuove destre. Anche lui è del gruppo. «Settanta fascisti chiusi in un albergo (il convegno di Forza Nuova al Palace Hotel, 300 metri in linea d’aria, ndr) e migliaia di antifascisti a riaffermare i sacri valori della Costituzione. Oggi la democrazia ha vinto una battaglia». Va detto: sui temi del giorno i comaschi sono tiepidini.
«E invece - commenta Fausta Bicchierai, associazione “Como Accoglie” - oggi li abbiamo visti».
C’era anche lei le sera del blitz al Chiostrino. «Oggi si respira aria buona». Il senso per loro è tutto qui: parole essenziali, senza farsi strumentalizzare. Dice ancora Gianpaolo Rosso: «Lo abbiamo detto sul palco (unico intervento “politico” in scaletta, ndr). I gruppi neofascisti e razzisti sono stati sottovalutati e troppo spesso sono stati concessi loro spazi e agibilità politica. Il nesso tra questa sottovalutazione e le azioni intorno ai fenomeni migratori è fortissimo». Dopo De Gregori e “Bella ciao”, quelli di CSF danno appuntamento per il 25 dicembre in piazza Duomo: un’altra marcia silenziosa per i “desaparecidos” del Mediterraneo. La notte di Natale è per loro.

il manifesto 10.12.17
«Più nazisti che fascisti, ma attenti all’allarmismo strumentale»
Intervista a Filippo Focardi. «Ci dovrebbe essere un’attenzione costante per la minaccia neofascista, non solo in campagna elettorale», mette in guardia il professore
di Andrea Fabozzi


Professor Focardi, nel nostro paese gli episodi di apologia di fascismo si stanno effettivamente moltiplicando o c’è solo maggiore attenzione da parte della stampa e dei partiti in campagna elettorale?
Direi l’una e l’altra cosa. Registro una ripresa di attenzione dei media non solo italiani, recentemente sono stato intervistato da quotidiani spagnoli, olandesi e inglesi che sono interessati e preoccupati dalla ripresa del fascismo in Italia. Magari la stampa enfatizza e crea allarmismo, magari c’è un uso strumentale di questi allarmi, ma è innegabile che ci sia un salto di qualità nelle azioni delle formazioni neofasciste italiane.
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Lo storico Filippo Focardi, docente all’università di Padova, ha pubblicato per Laterza le sue ricerche sulla memoria della Resistenza (La guerra della memoria 2012) e sulla rimozione della colpa (Il cattivo tedesco e il bravo italiano 2016).
Quali sono le caratteristiche di questo salto di qualità?
Innanzitutto va ricordato che l’Italia ha avuto il maggiore partito neofascista dell’Europa occidentale, il Movimento sociale. Negli anni Novanta abbiamo assistito a un ritorno di protagonismo dell’estrema destra, con il primo Berlusconi e il suo anticomunismo vintage. Oggi invece è la paura dell’immigrazione a sostenere i neofascisti. Non a caso prevalgono i richiami al nazismo, più che al fascismo, che pure aveva una componente razzista, ma su questo terreno il neonazismo funziona meglio. Si parla di “sostituzione etnica” e vengono recuperati slogan e simboli hitleriani, compresa la bandiera nella stazione dei Carabinieri qui a Firenze.
Che giudizio dà della legge Fiano?
Mantengo delle perplessità, come tutti gli storici, sulle leggi che corrono il rischio di colpire la libertà di opinione. D’altra parte non ho dubbi che la democrazia vada difesa dalla minaccia concreta di queste formazioni neofasciste. Il loro obiettivo dichiarato è arrivare in parlamento, il loro recente protagonismo può essere letto come un’azione preventiva di fronte al rischio di scioglimento ed esclusione dalla competizione elettorale.
L’antifascismo da campagna elettorale non è controproducente? Non è rischioso che possa essere rivendicato e identificato come il valore di una sola parte?
C’è questo rischio e va evitato. Ci dovrebbe essere un’attenzione costante per la minaccia neofascista, non solo in campagna elettorale. Non è sufficiente organizzare un corteo a Come, che pure va benissimo ed è da elogiare. Bisogna lavorare sul piano culturale, ormai è prevalso un paradigma valutativo del fascismo che lo ridimensiona, privandolo delle sue caratteristiche repressive, oppressive e criminali che invece ha storicamente avuto. Gli italiani trascurano completamente la dimensione criminale del fascismo e ne hanno un’immagine banale e riduttiva, come di una dittatura all’acqua di rose.
Per questo può servire un museo storico sul fascismo? A Predappio?
Io penso sia necessario un museo importante sul fascismo, ma a Roma che è la città dov’è andato al potere o a Milano dove è nato. A Predappio il museo si presta più alla nostalgia che alla memoria. Fare di Predappio il luogo della visione critica del fascismo è una sfida che può essere persa e non possiamo permettercelo.

Il Fatto 10.12.17
Movimento Nordico di Resistenza, la marea nera dilaga in Scandinavia
Neonazisti - Aumentano violenze e consensi: il caso Svezia e Finlandia
di Michela Danieli


La marea nera dell’ultranazionalismo si allarga anche in Nord Europa con manifestazioni violente e sfrontate verso le autorità, da troppo tempo ridotte a spettatori esautorati, in nome della libertà d’espressione. Da mesi si registra la recrudescenza xenofoba, culminata nell’ultima settimana, e non per caso.
Il 30 novembre, infatti, la Finlandia ha legiferato il divieto in capo al Movimento Nordico di Resistenza (Nmr) di organizzarsi e di manifestare. Il provvedimento è il primo e per ora l’unico nel suo genere al Nord e non ha tardato a suscitare effetti. Sabato scorso, in concomitanza con le proteste ultranazionaliste in Germania, una quarantina di membri dell’Nmr ha manifestato senza autorizzazione nelle piazze principali di Stoccolma, puntando poi verso l’Ambasciata finlandese per protestare contro la legge. Negli scontri con la polizia un agente è stato ferito alla testa.
Le nuove disposizioni normative finlandesi hanno invece fornito lo strumento giuridico per bloccare la trentina di nazisti dello stesso Movimento che mercoledì scorso, con l’intento di partecipare alle celebrazioni per i 100 anni di indipendenza della Finlandia, hanno cercato di imbarcarsi su un traghetto diretto a Turku indossando la divisa nazista.
Ha dato il suo contributo anche la Norvegia, da dove gruppi neonazisti arrivano ciclicamente per partecipare a raduni violenti in Svezia, portando con sé oggetti “inusuali”, come ferri da stiro.
L’Nmr è nato nel ’97 e si è diffuso rapidamente in tutta la Scandinavia. L’ideologia è la solita, delirante: la razza bianca è in pericolo a causa degli immigrati; dovrebbero essere create istituzioni per tutelare l’etnia degli “europei settentrionali” e i loro Paesi, che attualmente sono occupati da una “cospirazione ebraica”.
Il divieto finlandese costituisce un precedente giuridico che potrebbe far scuola perché manifestazioni naziste e infiltrazioni delle destre xenofobe nelle istituzioni in Scandinavia sono rese possibili da leggi sulla libertà di espressione estremamente garantiste.
Il divieto alle attività del Nmr, stabilito dal tribunale distrettuale di Birkaland, è il risultato di una riflessione iniziata lo scorso anno, ad Helsinki, dopo che un uomo è stato assassinato a frustate. A flagellarlo a morte, un membro dell’Nmr, che costituisce oggi il gruppo estremista violento più numeroso e pericoloso della Scandinavia, secondo gli 007 della Svezia. Qui, grazie all’appoggio del partito populista già al governo, nel 2014 ha conquistato alcuni comuni. In questo paese le lacune normative hanno concesso ai nazisti manifestazioni eclatanti.
Lo scorso settembre, Göteborg è stata teatro prima di una marcia nazista dell’Nmr, e poi di un corteo che la Polizia ha dovuto autorizzare, in cui in oltre 300, in divisa, hanno sfilato nel centro della città, nel “giorno dell’espiazione”, la più solenne ricorrenza per gli Ebrei. Il tutto a pochi metri dalla Sinagoga, dalla Fiera del Libro in corso, e dallo stadio in cui si disputava una partita gratuita tra squadre di giovanissimi. Nelle settimane seguenti, sfidando le autorità e sbeffeggiando i poliziotti, i neonazisti si sono radunati in marce improvvisate. In circa quaranta sono stati arrestati e poco dopo rilasciati.

Il Fatto 12.10.17
Legge elettorale, ecco come può cadere il Rosatellum
Martedì la Consulta decide sull’ammissibilità del ricorso contro l’approvazione con la fiducia
di Silvia Truzzi


Per la terza volta in pochi anni la Corte costituzionale – ormai supplente in servizio effettivo permanente del Parlamento – si occuperà di legge elettorale. Sul banco degli imputati c’è l’ultimo arrivato, il Rosatellum, anche se a questo giro i giudici sono chiamati a dirimere non questioni di sostanza, bensì di forma. Che, com’è noto, in queste faccende non sono affatto lontane parenti. Oggetto del ricorso – presentato da deputati e senatori del Movimento 5 Stelle, rappresentati dal gruppo di avvocati che fece dichiarare incostituzionali Porcellum e Italicum – è il conflitto di attribuzione contro le due Camere: la legge elettorale è stata approvata con la fiducia imposta dal governo, impedendo il dibattito su quella legge che, secondo l’articolo 72 della Costituzione, deve sempre seguire “la procedura normale di esame e di approvazione diretta”.
La questione sembra affare da Azzeccagabugli, eppure gli effetti rischiano di far fare la fine del cappone a qualcuno dei nostri leader. Casomai la Corte ritenesse ammissibile il ricorso e poi riscontrasse effettivamente un vizio nell’iter di approvazione del Rosatellum, questo sarebbe annullato. A pochi mesi dal voto potremmo ritrovarci con i due Consultellum (cioè quel che resta di Italicum per la Camera e Porcellum per il Senato dopo i due interventi della Consulta) da armonizzare per andare alle urne.
Fantapolitica? Certamente una situazione assurda, che rivelerebbe un’inettitudine ormai cronica dei partiti e relativi capi che hanno voluto il Rosatellum a tutti i costi. Ma i singoli parlamentari possono essere considerati poteri dello Stato? Secondo Massimo Villone, professore emerito a Napoli, il ricorso è inammissibile. Lo ha spiegato in un seminario organizzato dalla rivista Nomos: “Può ben essere che il procedimento di formazione della legge risulti viziato. Ma questo si traduce in una possibile incostituzionalità della legge, da far valere nei modi consentiti, e cioè attraverso un giudizio in cui sollevare la questione di costituzionalità”. Insomma: è possibile che voteremo di nuovo con una legge incostituzionale, sostiene il professore, ma è una responsabilità della politica che ha avuto un’intera legislatura per scriverne una quantomeno conforme alla Carta. Alla situazione però “non si rimedia configurando la Corte come giudice dell’urgenza”. Il rischio è che nel caso la Consulta dichiari ammissibile il ricorso, nel merito poi si esprima nel senso di legittimare la prassi del voto di fiducia sulle leggi elettorali, salvando il Rosatellum. Esito che certamente è auspicato dal Quirinale, che non vuol trovarsi alla vigilia delle urne con una bomba a orologeria da gestire. Ma gli equilibri, nei vari palazzi del potere, sono fragili e i rapporti di forza assai mutevoli. Non è tutto così scontato.
Riflettendo sul quesito (cioè se un singolo deputato sia potere dello Stato) il professor Roberto Bin – costituzionalista dell’Università di Ferrara, ai tempi sostenitore del Sì al referendum – spiega: “È questione molto discussa in dottrina, dove forse prevale una tesi favorevole, anche perché in certi casi solo tramite questa via sarebbe possibile far valere le regole costituzionali sulle (talvolta pessime) prassi parlamentari”. Il breve intervento, dall’allure sorprendentemente grillina, apparso sul sito Lacostituzione.info prosegue così: “La frequente e poco tollerabile spregiudicatezza delle Camere nell’aggirare, derogare e interpretare con molta creatività le norme costituzionali e regolamentari, per non dire delle proprie prassi, potrebbe stimolare un atteggiamento della Corte costituzionale favorevole, se non a censurare la terza legge elettorale consecutiva approvata dal Parlamento, almeno a precisare se e in che termini i parlamentari e i loro gruppi possano difendere le loro prerogative davanti al giudice costituzionale”.
Con lo strumento della fiducia, nota Paolo Maddalena, vicepresidente emerito della Consulta sempre su Nomos, “non previsto in Costituzione, ma dai Regolamenti parlamentari, in realtà è stata coartata la volontà del Parlamento, poiché è stato costretto a scegliere tra la eventuale approvazione della legge senza altre conseguenze, o la sua non approvazione produttiva di una crisi di governo”. Tuttavia, secondo giurisprudenza consolidata da almeno tre decenni, la Corte non ritiene di poter intervenire sui cosiddetti “interna corporis”, i regolamenti degli organi costituzionali. È verosimile che la Camera di consiglio decida per l’inammissibilità, in accordo coi desiderata del Colle. O forse no se i rumors sulle indecisioni del collegio sono veri.

La Stampa 10.12.17
Liberali in crisi
Mamma ho perso la classe media
Con il «Il tramonto del liberalismo occidentale» Edward Luce critica da un punto di vista interno gli errori che hanno portato all’ascesa populista
di Massimiliano Panarari


Lo potremmo considerare come un atto d’amore, dolente e accorato. Il libro di Edward Luce Il tramonto del liberalismo occidentale (Einaudi, pp. 220, €17; con l’introduzione di Gianni Riotta) è una disamina lucidissima del terremoto che sta colpendo la categoria stessa di democrazia liberal-rappresentativa in questi anni di affermazione del sovranismo e del populismo. Sintomi, e non cause, come si premura di ricordare l’autore. Ed è anche una chirurgica messa a fuoco degli errori recenti della sinistra riformista, effettuata da un intellettuale britannico – editorialista del Financial Times, e già speechwriter nell’Amministrazione di Bill Clinton – sicuramente non imputabile di simpatie radical.
Il Western Liberalism di questo libro corrisponde all’insieme di valori che hanno innervato la democrazia liberale (e che si sono specialmente inverati nel liberalismo di stampo progressista, quello, appunto, della cultura liberal). Mentre la malattia contemporanea è quella della diffusione trasversale, per motivi differenti, della sfiducia nella liberaldemocrazia in settori variegati delle nostre società, dai millennials ad ambiti significativi delle stesse élites (soprattutto economiche), divenute sempre più «demofobe».
Esiste un nesso strettissimo – genetico – tra la liberaldemocrazia e il ceto medio, il cui ampliamento ha costituito la garanzia del consolidarsi dello Stato di diritto e una polizza-vita di pacificazione sociale. Ma il neoliberismo, sottolinea Luce, ha fatto saltare questo (delicato) equilibrio e, tradendo le promesse di allargamento delle middle classes, ha determinato una concentrazione esponenziale della ricchezza e dei benefici derivanti dallo sviluppo tecnologico in mani sempre più ristrette.
Lo mostrano le non-politiche urbanistiche, dominate dalla «gentrificazione» incessante, delle nazioni anglosassoni («negli Stati Uniti il tuo cap rappresenta sempre più spesso il tuo destino», come ha detto il teorico delle classi creative Richard Florida). E lo rende palese soprattutto il mercato del lavoro dove, a dispetto della retorica delle sorti magnifiche e progressive «sgocciolate» su tutti dall’economia high tech, sono saltati per aria gli ingranaggi dell’ingegneria della mobilità sociale.
La colpa, rimarca Luce, è anche della Terza Via che ha totalmente archiviato la sinistra sociale, sapendo però interpretare solamente un periodo di economia affluente ed espansiva, e finendo per convertirsi in establishment.
Così, dopo la Grande crisi del 2008, le fasce popolari e i ceti medi impoveriti e impauriti si sono ritrovati senza voce e privi di una sinistra in grado di rappresentarli, e si sono quindi rivolti sempre più all’offerta aggressivamente semplificatrice e illiberale dei populisti. Che ammanniscono formule semplicistiche e brandiscono un’inaccettabile politica etnica, a cui ha risposto in maniera inadeguata un irrigidito «liberalismo identitario» in rotta dopo la sconfitta di Hillary Clinton. L’Occidente si trova così a sprofondare in quello che Luce chiama un «pluto-populismo ibrido» in stile sudamericano, e vede il dilagare della politica «del rischio calcolato» (come la Brexit), impugnata da classi dirigenti di novelli apprendisti stregoni che non sanno poi gestirne le conseguenze. E la soluzione non è il reddito minimo garantito, che rischia di consegnare i più poveri a un futuro ravvicinato alla Hunger Games, fatto di galleggiamento e reality show. Mala tempora currunt, e non appaiono all’orizzonte pozioni magiche per ravvivare la democrazia liberale.
Luce non intende formulare un progetto politico, bensì applicare rigorosamente quella metodologia del dubbio e dello scetticismo senza acredine che dovrebbe costituire l’habitus mentale di ogni democratico. Perché solo il confutare i vecchi e i nuovi luoghi comuni, rivelando i fenomeni incompresi o invisibili all’opera, può riannodare i fili dell’assai indebolita fiducia dell’opinione pubblica nelle istituzioni liberaldemocratiche.
Di fronte alla disruption digitale e alla marcia inarrestabile dell’intelligenza artificiale e dell’automazione spinta, la politica avrebbe dovuto attrezzarsi per tempo per indirizzare i processi e redistribuirne i vantaggi. Arrivati a questo punto, c’è assolutamente da sperare che sia vero il titolo della celebre trasmissione del maestro Manzi: «non è mai troppo tardi».

Corriere 10.12.17
La minoranza dem e i sondaggi: si va a sbattere
Le preoccupazioni di Orlando e Damiano. Ma Renzi: nonostante le divisioni noi la forza più rassicurante
di M. Gu.


ROMA Per la prima volta il Pd di Renzi scende sotto la soglia di guardia, il fatidico 25% che nel 2013 non bastò a Bersani per salire lo scalone di Palazzo Chigi. Eppure il verdetto dei sondaggi non fa ancora scattare l’allarme al Nazareno. Il leader si affida al Rosatellum, convinto che la sfida nei collegi (Sicilia esclusa) sarà tra Pd e M5S, oppure tra Pd e centrodestra.
Renzi si dice «molto sereno» e non concorda con chi pronostica un esito già scritto, con i dem destinati alla terza posizione. «Nonostante le divisioni noi restiamo la forza più rassicurante», ripete l’ex premier per tranquillizzare i suoi. E prevede che gli elettori di centrosinistra, quando troveranno sulla scheda il nuovo simbolo della lista Liberi e Uguali guidata da Pietro Grasso, sceglieranno il Pd. «Il voto utile tirerà più del voto identitario — confida a porte chiuse il segretario —. Perdendo Pisapia e Alfano la coalizione si è indubbiamente ristretta, ma è certo più coesa di quella di centrodestra. Vedrete, vinceremo in molti collegi».
Ma la minoranza di Andrea Orlando vede «il rischio di andare a sbattere» e prepara battaglia sulla leadership di Renzi. «Prima di Natale bisogna convocare una direzione sulle alleanze», avverte Cesare Damiano. A tirar su il morale dei renziani, che lamentano di avere contro anche i grandi gruppi editoriali, è l’idea che presto Grasso «non sarà più percepito come uomo delle istituzioni, ma come leader di parte e perderà appeal».
I sondaggi intanto premiano la nuova formazione, stimata tra il 6 e l’8%. Per Bersani è «un ottimo punto di partenza». E se Cuperlo spera che Renzi dopo le elezioni si dedichi a «un’opera di ricucitura», Bersani frena: «La gente andrà dove la porta il cuore e dopo il voto si vedrà». Piero Fassino non si arrende e ritiene «ancora possibile» il dialogo con Pisapia. Il prodiano Franco Monaco, vicino all’ex sindaco, invia una missiva a Renzi e Grasso implorandoli di inseguire «il miracolo dell’unità». Ma ci vorrebbe un «garante federatore», Prodi o Gentiloni.

Il Fatto 10.12.17
I sondaggi rimettono in pericolo Renzi
Brutti segnali - Il Pd va sotto “la quota Bersani” e le minoranze vogliono una Direzione
di Wanda Marra


Matteo Renzi è finito sotto la “soglia Bersani”: il Pd è al 24,5%, rispetto al 24,53% preso dall’ex segretario nel 2013. Così diceva un sondaggio, uscito ieri sul Corriere della Sera. Ma la tendenza è analoga, anche in una rilevazione di Repubblica, dove i dem sono al 25%. Altro che 40%, partito della Nazione pigliatutto, il Pd di Renzi è sempre più piccolo e sempre più solo. Dopo la discesa in campo di Pietro Grasso nella neo formazione Liberi e Uguali e l’addio di Angelino Alfano e Giuliano Pisapia, i sondaggi registrano un calo che sembra inarrestabile. Tanto è vero che provocano svariate reazioni. “Sono tre anni che il Pd è sotto la soglia ‘Bersani’, quella del 2013. Sono tre anni che il Pd perde tutti gli appuntamenti elettorali amministrativi”, commenta lo stesso Bersani. Nel Pd, la minoranza di Andrea Orlando chiede una direzione sulle alleanze il prima possibile. Renzi ufficialmente non dice nulla, ma manda avanti Andrea Marcucci: “I sondaggi ad elezioni presumibilmente a distanza di tre mesi, sono un puro esercizio di stile. Mancano le coalizioni ed i candidati”.
I numeri, però, sono tutti abbastanza univoci. Secondo Repubblica (rilevazione curata da Demos, tra il 4 e il 7 dicembre), il Pd, da ottobre a oggi, cala dal 26,3% al 25%. Al netto del M5S, che passa dal 27,6% al 28,7%, e di Forza Italia, che è al 15,2% (e guadagna un punto, mentre la Lega ne perde uno e va al 13%), il dato più interessante è quello che riguarda proprio Liberi e Uguali, che avrebbe il 7,6%. Dati analoghi sul Corriere della Sera (rilevazione Ipsos tra il 5 e il 6 dicembre): M5S sempre primo partito sale al 29,1%, il Pd cala al 24,5%. Anche qui FI si allontana dalla Lega, raggiungendo quota 16,7%, con il Carroccio in calo, ora al 14,4%. E Liberi e Uguali si attesta al 6,6%.
Quanto Pietro Grasso, Pierluigi Bersani & C, possono togliere voti al Pd si vede da un altro sondaggio, quello di Roberto Weber per Huffingtonpost: fra gli elettori di “sinistra” in particolare, la competizione vede il Pd al 31,7% prevalere d’un soffio sugli ex-Articolo 1 + Sel (30,4%) con M5S che segue a 6 punti di distanza (24,9%); netta invece l’egemonia dei democratici fra chi si colloca nel “centrosinistra” con oltre il 57% del totale, Liberi e Uguali che mostra finora una limitata capacità di penetrazione (9,9%) e l’M5S attestato intorno al 20%.
Nel Pd l’agitazione cresce, anche nella maggioranza renziana. L’idea che il segretario sia un ostacolo più che una risorsa ormai è condivisa un po’ da tutti. Perché se il partito va malissimo (in molti temono che la vera soglia sia il 20%), tornare in Parlamento sarà difficilissimo per tanti: i seggi persi saranno decine.
Una delle valutazioni fatte in questi mesi dai big dem (da Dario Franceschini allo stesso Orlando) era che – davanti alla sconfitta praticamente certa del Pd – era meglio non cambiare nulla in corsa e lasciare Renzi a metterci la faccia, per riprendersi il Pd dopo. Ma a questo punto, il rischio è che di quel partito rimanga veramente molto poco: la Direzione (prevista informalmente per il 18 dicembre) potrebbe servire a spingere Renzi al passo indietro prima delle elezioni. Una “congiura” evocata finora più e più volte, senza che mai, finora, i congiurati uscissero allo scoperto.

il manifesto 10.12.17
Strage di Milano, tutte le domande
Terrorismo. Che cosa accadde veramente a Milano il 12 dicembre del 1969? A distanza di tanti anni ancora senza risposta alcuni interrogativi: quante furono le bombe pronte ad esplodere? Perché fin dalla mattina si era sparsa la notizia della strage?
di Saverio Ferrari


Martedì 12 sono 48 anni dalla strage di Piazza Fontana. Quell’attentato del 12 dicembre del 1969, che provocò 17 morti e 87 feriti, continua a trascinare con sé, a tanti anni di distanza, domande e interrogativi. Che cosa accadde veramente quel giorno a Milano?
QUATTRO E NON DUE LE BOMBE?
La mattina del 13 dicembre sulla prima pagina del quotidiano della Democrazia cristiana, Il Popolo, comparve la clamorosa notizia del ritrovamento verso la mezzanotte del giorno prima, «in via Monti», di un «altro ordigno», poi «disinnescato e reso inoffensivo» dagli artificieri. Notizia rimasta senza alcun seguito. «l’Unità», a sua volta, il 18 dicembre, a pochissimi giorni dalla morte di Giuseppe Pinelli, precipitato dal quarto piano della questura, pubblicò in edizione nazionale il resoconto di una conferenza stampa tenuta dagli anarchici del Circolo Ponte della Ghisolfa, con la denuncia del ritrovamento di altre due bombe inesplose, taciute dalla polizia, nella sera stessa del 12 dicembre, una in una caserma militare e l’altra in un grande magazzino. La questura smentì immediatamente.
Su questa vicenda il quotidiano comunista ritornò mesi dopo, il 26 febbraio, scrivendo di «due ordigni» rinvenuti «presso il negozio di abbigliamento della Fimar in corso Vittorio Emanuele» e la «caserma di via La Marmora» (nei pressi di via Monti), denunciando il giorno successivo con un altro pezzo in prima pagina come ai vigili urbani, autori del rinvenimento, e «ai loro dirigenti», fosse stato «imposto il silenzio».
QUALI PROPORZIONI avrebbe dovuto assumere la strage di Milano? Di chi furono le eventuali responsabilità nell’occultamento degli ordigni ritrovati? Domande che meriterebbero una risposta, pur a distanza di tanti anni. Domande non inutili per sapere chi decise di manipolare la verità. Si spiegherebbe finalmente in questo modo anche il motivo dell’acquisto da parte di Franco Freda, riconosciuto come uno dei corresponsabili della strage, di quattro borse a Padova, solo una delle quali fu rinvenuta intatta con dentro la bomba inesplosa alla Banca commerciale di piazza della Scala.
UNA STRAGE ATTESA DA ORE
Anche un’altra concatenazione di fatti, antecedente la strage, non è mai stata sufficientemente indagata. Nel memoriale di Aldo Moro redatto nei cinquantacinque giorni della sua prigionia ad opera delle Brigate rosse, tra il 16 marzo ed il 9 maggio 1978, rinvenuto nell’ottobre del 1990 in via Monte Nevoso a Milano, leggiamo testualmente: «Ma i fatti di Piazza Fontana furono certo di gran lunga più importanti. Io ne fui informato, attonito, a Parigi dove ero insieme con i miei collaboratori in occasione di una seduta importante dell’assemblea del Consiglio d’Europa che per ragioni di turno dovevo presiedere Proprio sul finire della seduta mattutina ci venne tra le mani il terribile comunicato d’agenzia, il quale ci dette la sensazione che qualcosa di inaudita gravità stesse maturando nel nostro paese.
Le telefonate, intrecciatesi fra Parigi e Roma, nelle ore successive non potettero darci nessun chiarimento Io cercai di sapere qualche cosa, rivolgendomi subito al Presidente Picella, allora segretario Generale della Presidenza della Repubblica, uomo molto posato, centro di molte informazioni (ovviamente ad altissimo livello) ma non con canali propri. I suoi erano i canali dello Stato. Alla mia domanda sulla qualifica politica dei fatti, la risposta fu che si trattava di gente appartenente al mondo anarchico».
UN RICORDO SINGOLARE. Come è noto, la strage di Piazza Fontana avvenne solo alcune ore più tardi, alle 16.37. L’Ansa diramò la notizia alle 17.05 e solo nel dispaccio delle 18.30 parlò di una bomba. Si potrà certamente pensare ad un cattivo ricordo anche per le difficili condizioni di prigionia in cui versava Moro.
Ma Moro non fu il solo a ricordare male. Anche Alberto Cecchi, già parlamentare del Pci, nella sua Storia della P2 incorse in un identico infortunio: «In Italia l’inizio del secondo tripudio (quello delle armi e del terrorismo) è contrassegnato da una data e da un’ora: il 12 dicembre 1969, intorno alle 11 del mattino. È la strage di Piazza Fontana».
Forse a monte di tutto c’è una spiegazione molto semplice: già 5 o 6 ore prima in ambienti politici e militari si era diffusa la notizia dell’imminenza di un fatto di eccezionale gravità. L’allarme era già diffuso. Da qui l’anticipazione in alcuni protagonisti politici dell’epoca del ricordo della strage. Andrebbe, sotto questo profilo, ancora una volta ricordato l’interrogatorio reso il 7 settembre 2000 dal senatore a vita Paolo Emilio Taviani, più volte ministro e figura tra le più prestigiose della Dc. Interrogatorio rilasciato nell’ambito delle nuove indagini sulla strage di Piazza Fontana. Uno dei documenti in assoluto più illuminanti proprio sulle ore antecedenti i fatti. «La sera del 12 dicembre1969», disse, «il dottor Fusco defunto negli anni ’80, stava per partire da Fiumicino per Milano, era un agente di tutto rispetto del SID Doveva partire per Milano recando l’ordine di impedire attentati terroristici. A Fiumicino seppe dalla radio che una bomba era tragicamente scoppiata e rientrò a Roma. Da Padova a Milano si mosse, per depistare le colpe verso la sinistra, un ufficiale del SID, il Ten. Col. Del Gaudio». Una ricostruzione ribadita dalla stessa figlia del Dottor Fusco, Anna, solo pochi mesi dopo, il 13 marzo 2001. «Posso dirvi», ribadì riferendosi al padre, «che il non aver impedito la strage di Piazza Fontana fu il cruccio della sua vita».
IN QUESTA ULTIMA DEPOSIZIONE la signora Fusco aggiunse anche un particolare su cui mai si è forse riflettuto sufficientemente. «Mio padre», sostenne, «era un ‘rautiano di ferro’ e ho sempre avuto l’impressione che abbia appreso l’episodio del 12 dicembre non dai servizi ma dalle sue conoscenze di destra». La verità, anche in questa versione, continua a dirci dell’intreccio fra neofascisti ed apparati statali.

il manifesto 10.12.17
Oltre le sbarre manicomiali, contro la furia del controllo
Psichiatria. Morbida, buona, tollerante, la Comunità terapeutica conservava tuttavia la logica della soggezione del malato al curante e andava dunque superata: la rivoluzione di Franco Basaglia testimoniata nei suoi «Scritti», ora dal Saggiatore
di Franco Lolli


Spesso l’opera di un autore ruota intorno a non più di due, tre temi di fondo che, per qualche motivo (a volte personale) più insistentemente lo interrogano: è dalla necessità di rispondere a questi quesiti che nascono e si sviluppano sistemi di pensiero complessi, attraversati da quei sottili fili conduttori che ne costituiranno la trama essenziale. Ebbene, dalle intense pagine degli Scritti 1953-1980 di Franco Basaglia (Il Saggiatore, pp. 915,  euro 42,00), la questione che emerge come un vero assillo intellettuale, riproponendosi come una urgenza al tempo stesso etica professionale e politica, è riassumibile nella necessità di evitare che una idea innovativa si trasformi in ideologia.
Scongiurare il rischio che i fattori di cambiamento venissero riassorbiti all’interno della logica contestata, questo era il problema, insieme all’esorcizzare la traduzione del pensiero in dottrina e il livellamento delle sporgenze dialettiche.
Rieducare i terapeuti
Sin dai primi testi di antropofenomenologia della fine degli anni Cinquanta è evidente tanto lo sforzo di comprendere la condizione psicopatologica del malato – postura clinica che Basaglia ereditò dall’insegnamento fenomenologico ma che ebbe il merito originale di introdurre all’interno delle istituzioni manicomiali – quanto l’attitudine critica nei confronti di posizioni teoriche dogmatiche e, soprattutto, slegate dalla prassi terapeutica. Ma è proprio nei testi dedicati alla progressiva elaborazione di un nuovo modo di pensare la psichiatria istituzionale (dai primi resoconti della rivoluzionaria esperienza di Gorizia fino alle ultime considerazioni della fine degli anni Settanta), che è possibile apprezzare il raffinato e implacabile procedimento dialettico che Basaglia applicherà alla propria riflessione teorico-clinica: all’iniziale critica della logica manicomiale, sarebbe seguita la presentazione della prima proposta operativa, concreta, realizzabile: la Comunità Terapeutica, ambito operativo di trattamento della malattia mentale affermatosi in area anglosassone, che Basaglia si sforzò di introdurre in Italia come possibile superamento dell’istituzione manicomiale.
Era la prima metà degli anni Sessanta e stava facendosi strada un nuovo modo di pensare la cura del malato mentale nella quale alla comprensione della sua sofferenza, si rendeva necessario associare – ed è questo il rivoluzionario innesto concettuale – una radicale trasformazione dell’ambiente terapeutico, una ridefinizione – o meglio una vera fondazione – di un setting inedito, capace di fare spazio all’aggressività del paziente, di eliminare le derive autoritarie presenti nella relazione curante-curato, di rieducare i terapeuti, non solo in termini professionali.
La svolta fu straordinaria e certamente resa possibile anche dalla sintonia con il clima culturale dell’epoca: l’esperienza di Gorizia germogliò in questa fase. Ancora una volta, tuttavia, fu lo stesso Basaglia a mettere in discussione questa svolta, sin dalla seconda metà degli anni Sessanta, avviando così, una nuova fase di revisione dell’esperienza realizzata (questa volta, la propria): di attualità era ora l’osservazione di come il regime di tolleranza che caratterizzava la Comunità Terapeutica non avesse fondamentalmente intaccato la logica della violenza del precedente ricovero manicomiale.
La Comunità Terapeutica – afferma Basaglia – libera il malato psichiatrico all’interno dell’istituzione ma continua a escluderlo dal «fuori». Le barriere interne all’ospedale sono cadute, ma non quelle che lo separano dalla vita sociale. Così, la critica al modello della Comunità Terapeutica (che si estenderà alla psicoterapia istituzionale) sarà tanto dura da sfociare in una affermazione inesorabile: la Comunità è l’istituzione terapeutica del neocapitalismo; è un intervento tecnico supino alla politica che lo controlla, una nuova istituzione al suo servizio: molle, buona, tollerante ma che conserva, del vecchio modello di cui si propone come superamento, la stessa logica di soggezione del malato al curante.
Si tratterà, allora, di oltrepassare l’esistente, di conquistare un nuovo campo di possibilità: ed ecco che all’ulteriore fase di destrutturazione farà seguito una nuova epoca di progettazione, quella che condurrà Basaglia a formulare le considerazioni teoriche e i principi etici sui quali la legge 180 fonderà l’inedita presa in carico della malattia mentale. Qualunque forma di istituzionalizzazione, anche quella più morbida, che più si ispira ai principi democratici, conserva la sua funzione essenziale, quella di controllo sociale (sebbene mascherata da intervento tecnico innovatore). Occorrerà dunque uno strappo ulteriore per far definitivamente cadere le barriere che separano il manicomio dal mondo esterno, impedire nuove ammissioni di malati e la costruzione di nuovi ricoveri psichiatrici, aprire quelli che ci sono alla quotidianità sociale, includere gli uni nell’altra istituendo servizi territoriali, ambulatori e reparti psichiatrici in ospedali comuni.
Non un approdo
La grande stagione di Psichiatria Democratica inaugura così l’epoca dell’entusiasmo e del contagio che il nuovo pensiero porta con sé. Sarebbero stati necessari molti anni per realizzare in pieno l’auspicata chiusura dei manicomi, ma il processo riformatore era ormai, irreversibilmente, avviato. Una volta di più, tuttavia, Basaglia rifiutò di fare di questo traguardo un approdo: la consapevolezza di quanto la realtà sociale restasse immutata a dispetto delle idee che cambiavano, gli impedì di compiacersi dei risultati raggiunti e lo spinse a metterne alla prova la tenuta. La qualità intellettuale di Basaglia si misura proprio con l’assoluta inflessibilità della sua postura etica e teorica che, da Crimini di pace in poi, lo avrebbe condotto a formulare considerazioni penetranti e incisive sul delicato rapporto tra tecnica e politica e sul ruolo sociale degli intellettuali, il cui compito – afferma nei testi degli anni Settanta – è mettere in crisi l’equilibrio sociale generale, «svelando il lato ideologico dei suoi principi».
Liberarsi – per quanto si può – dell’involucro borghese che lo avvolge è il dovere etico di ogni intellettuale, che deve emanciparsi dalla propria posizione di funzionario del consenso nella quale si punta a ridurlo, rinunciando a svolgere mandati educativi, ed essendo, soprattutto, disposto a «pagare di persona»: l’inestricabile intreccio tra tecnica, sapere e politica, tra teoria e prassi sociale – di cui la vita di Basaglia rappresentò un paradigma esemplare – sarebbe stato al centro delle sue riflessioni fino al termine della vita.
La sua idea di cultura
In quello che appare come una sorta di testamento, scrive: «non credo si faccia cultura scrivendo libri, si fa cultura soltanto nel momento in cui si cambia la realtà». In un’epoca dominata da una produzione editoriale sempre più conforme al pensiero dominante e dalla proliferazione capillare di festival che trasformano i cittadini in consumatori dello spettacolo della cultura, le parole di Basaglia ci danno la misura della distanza che separa la figura di un intellettuale, come lui lo intedeva, dalle sue caricature.

il manifesto 10.12.17
La psicoanalisi tra corpo e immaginazione
Mente. Utilizzato da Didier Anzieu come una ampia metafora, «L’Io-pelle» è anzitutto una rappresentazione di cui si serve il bambino molto piccolo, che sfrutta la sue percezione della superficie del corpo per pensarsi come contenitore di processi psichici
di Silvia Vizardelli


Il sentimento nasce a contatto con i corpi: su questa affermazione Herder fondava, nella sua Plastik del 1778, l’originaria flagranza tattile della scultura, intraprendendo una battaglia contro il privilegio che gli umanisti accordavano, invece, alla pittura considerandola forma d’arte superiore per la sua prossimità all’orizzonte contemplativo e astratto del pensiero. È sufficiente riconoscere la virtù terapeutica della parola per comprendere come le funzioni psichiche più complesse ed elaborate nutrano e si nutrano di un appoggio sul corpo. Tutto sta a capire che cosa nasconde il termine «appoggio» e quale rapporto mente-corpo possa implicare.
Una risposta ci viene dal saggio di Didier Anzieu, L’Io-pelle, apparso in lingua originale nel 1985, preceduto da un articolo pubblicato nel 1974 sulla Nouvelle Revue de Psychanalyse, che ora abbiamo la fortuna di poter rileggere grazie a una nuova edizione italiana (Cortina, pp. 270, euro  26,00). È un libro felice, che cerca di dar voce a una doppia motivazione. Se, da una parte, Anzieu ribadisce che la psicoanalisi può trarre grande aiuto dallo studio delle strutture e delle funzioni della pelle, in nome della omologia tra apparato psichico e involucro epidermico, dall’altra denuncia un’esigenza che sembra di senso opposto: la psicoanalisi ha bisogno di immaginazione.
A una certa distanza
«In questi ultimi decenni del XX secolo, la psicoanalisi mi sembra aver bisogno più di pensatori per immagini che di eruditi, di scoliasti, di spiriti astratti e formalizzatori. Prima di essere un concetto, la mia idea di Io-pelle è, volutamente, un’ampia metafora». Dunque, da un lato l’appello alla realtà del corpo, e dall’altro il richiamo all’immaginazione come una facoltà da rivitalizzare. È noto come il carattere reattivo di queste affermazioni sia dovuto alla forte polemica contro il ruolo riduttivo che, secondo Anzieu, Lacan attribuiva all’universo immaginario; ma quel che importa notare è che la motivazione di Anzieu è, in realtà, una sola. Vicino al corpo si può stare passandogli a una certa distanza, ovvero, com’è ovvio: possiamo curare il corpo allontanandoci da esso. Ecco allora che l’immaginazione non sembrerà più il luogo della finzione, della maschera, del simulacro, bensì quello del radicamento, dell’appoggio sul corpo. Così intesa, l’immagine acquista la forza pulsionale del fantasma.
L’Io-pelle è la figurazione che Anzieu riesce a declinare in tutte le sue forme, perché mentre la sviluppa, egli è il suo corpo e, contemporaneamente, ha un corpo. È in gioco, qui, quel presupposto logico e insieme fenomenologico che fonda, tra le altre cose, la possibilità stessa della psicoanalisi e che ci aiuta a relegare ai margini l’idea che si possa contattare il corpo puro, la nuda vita. L’Io-pelle è infatti innanzitutto una rappresentazione di cui si serve il bambino nelle fasi precoci delle sviluppo, sfruttando la propria percezione della superficie del corpo, per immaginare se stesso come contenitore di processi psichici.
In questo preciso momento, nota con grande sottigliezza Anzieu, sul piano operativo l’Io psichico si differenzia da quello corporeo e si confonde invece con esso sul piano figurativo. La distinzione psiche-corpo è ciò che consente all’immagine di offrirsi come luogo di una intercettazione tra i due piani.
Alla base c’è il principio freudiano secondo cui «qualsiasi funzione psichica si sviluppa per appoggio su una funzione corporea il cui funzionamento traspone sul piano mentale». Questo significa che lo sviluppo dell’apparato psichico procede per stadi di rottura con la base corporea, e questi stadi rendono necessaria la ricerca reiterata di un appoggio delle funzioni psichiche su quelle del corpo. Insomma, la rottura, la distanza psiche-corpo è ciò che autorizza la ricerca del loro reciproco contatto. Il fatto che il vedere possa essere pensato come un velato toccare non implica una loro omologazione, bensì allude al fatto che la vista possa intercettare e digerire materiale aptico.
Otto diverse funzioni
Se questa è la cornice metodologica del discorso di Anzieu, altrettanto interessante è il suo affondo nell’analisi delle otto diverse funzioni dell’Io-pelle: la funzione di sostegno e di conservazione, quella di contenitore, la funzione di para-eccitazione, di individuazione del sé, la funzione di intersensorialità ovvero di collegamento di sensazioni di diversa natura alla base tattile, la funzione di involucro captante dell’eccitazione sessuale globale, di ricarica libidica, la funzione di iscrizione delle tracce sensoriali che fa dell’Io-pelle una sorta di pittogramma o di scudo di Perseo. Ciascuna di queste analisi, sapientemente intrecciate con le riflessioni sul mito (in particolare sul mito di Marsia a cui Anzieu ha dedicato uno studio a parte) e con i continui richiami all’esperienza estetica, costituisce un capitolo importante della storia della psicoanalisi.

La Stampa 10.12.17
È scomparsa la filosofa Judith Miller
Curò l’eredità del padre Jacques Lacan


La filosofa francese Judith Miller, ultima figlia di Jacques Lacan (1901-1981) e custode della sua eredità letteraria e curatrice del testamento paterno, è morta a Parigi all’età di 76 anni. Judith Miller era presidente in carica dell’ «Association de la Fondation du Champ Freudien», creata a Parigi da Lacan nel 1979, formata dall’«Ecole de la Cause Freudienne» e dalla «Section Clinique de Paris». Era la moglie del filosofo Jacques-Alain Miller, discepolo di Luis Althusser. Jacques-Alain Miller è stato il direttore del Dipartimento di Fiosofia e Psicoanalisi dell’Università di Parigi VIII, dove insegnò anche la moglie Judith, curatrice dei «Cahiers pour l’Analyse». All’insegnamento universitario, Judith fu chiamata da Michel Foucault. È autrice di vari libri, tra cui Album Jacques Lacan. All’epoca della sua nascita come figlia illegittima, ad Antibes il 3 luglio 1941, sua madre Sylvia Makles, compagna di Lacan dal 1938, era ancora sposata con lo scrittore francese Georges Bataille, e lo stesso Lacan risultava civilmente sposato con la sua prima moglie, Marie-Louise Blondin, da cui aveva avuto tre figlie.

Repubblica 10.12.17
IIntervista a me stesso tra politica e poesia
Eugenio Scalfari


Stavo rileggendo un paio di giorni fa Il libro dell’inquietudine
di Fernando Pessoa. È uno dei capolavori di questo agitato periodo della modernità, con il passo che mi ha più colpito ed è la creazione di se stesso attraverso il personaggio a cui dà il nome di Bernardo Soares.
Che Bernardo sia Fernando non è nell’intuizione d’un lettore avveduto ma una dichiarazione dello stesso autore: Bernardo Soares sono io.
Questa tecnica letteraria ha ispirato questo mio articolo che è alquanto diverso dal solito: è un’intervista a me stesso.
Quando diressi l’Espresso e quando diressi Repubblica ho fatto moltissime interviste. Non le ho contate ma saranno un po’ più di un centinaio, a personaggi illustri in vari campi: politici, economisti, capi di governo, ed anche letterati di alta fama.
Ma nessun giornalista ha intervistato a fondo me. Me l’hanno chiesto più volte, ma io ho risposto negativamente.
Dunque un’intervista a me stesso che rivelerà il mio pensiero con le relative spiegazioni e motivazioni.
Debbo anch’io dare un finto nome che rappresenti me e faccia le domande che io desidero man mano che le sento nascere dentro di me senza alcuna coerenza formale.
Del resto pensare il proprio pensiero è un esercizio indefinibile, mi ricorda il motto di Diderot che una volta, affrontando questo tema disse: « Mes pensées, ce sont mes catins » che significa «i miei pensieri vanno e vengono come le puttane».
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Se leggerete Diderot, grazie. Il mio me stesso che mi farà le domande lo chiamo Zurlino. Mi pare appropriato.
*** Zurlino: Qual è stata la scuola che rievochi con maggiore interesse? Eugenio: Il liceo di Sanremo. Z: Perché?
E: Lì incontrai Italo Calvino e cominciò un’amicizia che durò cinque anni e poi riprese negli ultimi tre anni, fino alla sua prematura morte.
Z: Di che cosa parlavate?
E: Di letteratura, di poetica e di fisica teorica. Della vita e anche della morte. Non avevamo alcuna credenza religiosa, ma spesso parlavamo anche di Dio.
Z: Non credenti che parlano di Dio? È strano.
E: Infatti è strano. Parlavamo di Dio per tentar di capire la natura di chi ha fede in Lui e in che modo quella fede influisce sulla loro vita. In realtà, salvo rari casi, non ha molta influenza. I peccati sono perdonati e dopo il perdono di solito si pecca nuovamente. Da questo punto di vista la fede in Dio rappresenta molto poco, almeno in pratica, salvo il pentimento che arriva quando si sta morendo. Allora il perdono è estremamente importante per l’ammalato. Spesso lo fa perché sente veramente la necessità di pentirsi ma altrettanto spesso lo fa per evitare di finire all’Inferno e conquistare con quel pentimento la presenza della sua anima in Purgatorio.
Z: E sarà così?
E: Il tema non mi riguarda. Riguarda chi ha fede nell’aldilà ma io sono non credente. Mi pento anch’io di alcune cose che ho fatto o per errore o perché mi piaceva farle. A volte mi pento anch’io per aver sbagliato con azioni non corrette.
Z: Ti piacciono le donne? Sessualmente e anche sentimentalmente parlando.
E: Mi piacciono. Non necessariamente per amore. Del resto il desiderio ce l’hanno tutti e due, e a volte culmina con un amore ma di solito passeggero quando non è definitivo e allora dura per tutta la vita nella maggioranza dei casi. Del resto l’amore è un sentimento molto più profondo del desiderio o almeno così sembra salvo che non c’è amore se non c’è desiderio e questo non dobbiamo scordarlo.
Z: Gli dèi dell’Olimpo fanno parte della tua cultura. Quali sono quelli che più ti piacciono?
E: Mi piace soprattutto Eros, che non è uno degli dèi olimpici, è venuto molto prima di loro ed è il dio dei desideri, li suscita negli uomini ma anche negli dèi olimpici. Tra questi ultimi le mie preferenze vanno ad Apollo e a Dioniso. E Athena.
Z: Afrodite ti piace?
E: Non molto.
Z: E Persefone?
E: Per niente.
Z: Ora vorrei sapere quali sono le preferenze nella scelta delle città che hai frequentato più volte e vorrei che me le enumerassi tenendo presente la loro importanza e il peso che hanno suscitato su di te.
E: Al primo posto c’è Parigi. Poi Roma, Milano, Firenze, Venezia, Torino, Civitavecchia dove sono nato, Londra, Basilea, Boston, Bruges, Fez.
Z: Ami la tua famiglia?
E: Moltissimo. Ho avuto due mogli, due figlie e un giovane nipote. Ma ho considerato come familiari alcuni amici intimi.
Z: Puoi fare qualche nome?
E: Preferisco di no, anche perché considero come familiari, sia pure con diversa intensità, tutti quelli che hanno lavorato e lavorano per me, a cominciare dalle segretarie del giornale, il mio autista e collaboratore, gli autisti e commessi. Parlo di quelli che hanno almeno 10 anni di anzianità. Non parliamo della redazione e soprattutto di quelli che hanno lavorato con me e molti lavorano ancora.
Z: Da che cosa dipende questo familismo così esteso?
E: Credo dipenda da me, è una mia componente paternale. La mia vita affettiva dipende soprattutto dal mio sentimento di sentirmi padre e adesso forse nonno, di tutte le persone alle quali voglio bene e che mi ricambiano. Mi sentivo padre anche con i miei genitori quando loro erano ancora giovani e io bambino. Facevo quello che loro volevano per me e in questo modo riuscivo ad essere io a guidarli lasciandoli perfettamente soddisfatti.
Z: Quindi hai molto amore anche per te stesso. Ma questo è male. Ci sono persone che hanno un amore per se stesse di dimensioni assai elevate. Che cosa pensi tu di te stesso da questo punto di vista? Complesso edipico? O narcisista?
E: Edipo per me non è mai esistito. Ho amato entrambi i miei genitori nella stessa misura, sia pure in modi diversi. Mia madre era romantica. Suonava al pianoforte vecchie canzoni dell’epoca, anni Venti del Novecento. Le ho amate anch’io che le ascoltavo per suo desiderio seduto su uno sgabello accanto al pianoforte. Le cantavo fra me e me ma molto più tardi le cominciai a suonare anch’io al pianoforte e lo faccio ancora quando ho voglia di ricordare il passato attraverso quelle canzoni. Ma poi ho amato il jazz quello classico che cominciò a New Orleans e poi si spostò a New York. Armstrong, Duke Ellington, Fitzgerald, Billie Holiday e le orchestre degli anni Venti fino ai Beatles. Quella fu l’ultima fase di un jazz che durò una settantina d’anni e per quanto mi riguarda dura tuttora.
Z: E il rock?
E: Per me non esiste. È solo ritmo senza alcuna melodia. Nella vera musica jazz c’è il ritmo, volume del suono, melodia. È musica, una parte della grande musica. Ma poi c’è una musica completamente diversa e di grande e più elevata importanza, operistica e sinfonica. I grandi di questa Musica sono a volte compositori, a volte direttori d’orchestra, cantanti e specialisti di vari strumenti detti appunto “ solisti” e voci di diverso volume femminile e maschile. Ognuna di queste figure compone la grande Musica e naturalmente con essi e anzi prima di essi ci sono compositori dei testi musicali, Rossini, Donizetti, Verdi, Puccini, Bellini.
Z: Quali sono le opere che ti piacciono?
E: La Traviata è quella che mi piace più di tutte e subito dopo La Bohème, il Don Giovanni di Mozart, Il barbiere di Siviglia.
Della musica sinfonica adoro Bach, il Requiem di Mozart, e le sue composizioni che si inventava quando si sedeva dinanzi al pianoforte. Ma poi c’è Beethoven che è il tutto di tutto, sonate, sinfonie, in particolare la Terza, la Quinta e soprattutto la Settima e il suo secondo tempo che vorrei fosse suonato al mio funerale. Per un lungo periodo iniziale la Musica ebbe marca italiana ma ben presto passò in Austria, in Germania, in Francia e infine in America ma di questo tipo di musica l’America fu più o meno una succursale, autori di calibro che si ebbero in Europa l’America non ebbe quasi nessuno.
Z: Mi pare che ti sia scordato di Wagner.
E: Non amo Wagner. Semmai mi piace Brahms e tanti altri nomi di direttori, compositori, solisti eccetera.
Z: E Renzi?
E: Che c’entra adesso Renzi? Sebbene tu, caro Zurlino, non hai tutti i torti: Renzi è un autore e un attore della sua musica politica.
Z: Vedo che hai chiamato musica la politica. Che intendi tu parlando di musica politica?
E: Secondo me il suono delle parole resta dentro di noi. Secondo me la parola musica va trasformata in altre due: la danza e la poetica. Spesso anche la politica è danzante. Poetica mai, salvo rarissime occasioni.
Z: Me ne dici qualcuna di quelle occasioni?
E: Mi viene in mente il nome di Garibaldi. Quello di Mazzini. Forse Machiavelli, almeno quando scrisse la famosa lettera a Vettori. Lorenzo il Magnifico soprattutto.
Z: E quindi torniamo a Renzi. Mi vuoi dire che cosa pensi di lui?
E: Renzi vuole molto bene a se stesso. Ma questo è normale, lo predica addirittura la Chiesa quando dice “ Ama il prossimo tuo come te stesso”. L’amore per se stesso è una inevitabile premessa che realizza la presenza dell’individuo senza la quale il mondo intero scomparirebbe. L’individuo è protagonista e tutto quello che viene dopo di lui e cioè l’amore per il prossimo non si potrebbe verificare senza la presenza individuale. Qui però si pone un problema: qual è il prossimo? Per un privato cittadino il prossimo è la propria famiglia e questa è la maggioranza delle persone ovunque vivano e lavorino. Non è così per un partito politico che ha bisogno di un leader la cui attività preveda una classe dirigente, una sorta di Stato Maggiore che discuta con lui la strategia di quel partito e la metta in opera. A favore di chi? Del suo popolo. E qual è il suo popolo? Quello che simpatizza o addirittura si identifica con valori e ideali per realizzare i quali è nato quel partito. Nel caso di Renzi il popolo è socialdemocratico o liberal- democratico, il popolo che si riconosceva in quei valori esisteva già prima che Renzi arrivasse, ma ora anche lui è identificato con quei valori. Purtroppo lui ha un problema psicologico. Non lo dice anzi lo nega ma noi osservatori ne siamo certamente consapevoli: a lui piace comandare da solo. In politica questo malanno è molto diffuso. Personalmente penso che in un partito c’è, ci deve essere, la classe dirigente senza la quale quel popolo si sente tradito e abbandona in massa quel partito se non riesce a cacciar via quel Capo dei capi. Negli ultimi tempi però Renzi sembrerebbe aver preso coscienza che debba esistere la classe dirigente altrimenti il partito lo caccerà o lo abbandonerà. Sembrerebbe che in queste ultime settimane Renzi si sia messo sul giusto terreno e abbia cominciato ad ascoltare persone come Prodi, Veltroni, Minniti, Fassino, Delrio, Martina, Franceschini, Orlando e molti altri, anche sindaci di città importanti o governatori delle Regioni che provengano dal Partito democratico. Ma soprattutto Gentiloni che è l’attuale Capo del governo. Spero che questa fase duri sempre con l’apporto di quello Stato Maggiore di cui ho fatto qualche nome. Questa dovrebbe essere la strategia stabile d’un partito. In Italia non è affatto questa. Ci sono capi assoluti quasi dovunque, da Salvini a Berlusconi ai Cinque Stelle, ma i loro partiti non hanno bisogno di democrazia: sono populisti e questo è un guaio per loro e per tutto il mondo occidentale perché il fenomeno del populismo è diffuso a piene mani.
Z: A questo punto vorrei farti un’ultima domanda: chi sono i grandi poeti che tu conosci e che più degli altri ti piacciono.
E: In ordine di tempo direi Eraclito, Omero, Saffo, Dante, Petrarca, Shakespeare, Cervantes, Keats, Valéry, Rilke. Ho omesso il nome di Pessoa ma è quello che ha aperto, non a caso, la nostra conversazione della quale, caro Zurlino, ti ringrazio e cioè ringrazio me stesso e i lettori che hanno avuto la buona grazia di seguirmi.

Repubblica 10.12.17
Comunicare con gli altri
Quelle onde che misurano l’amore
di Elena Dusi


ROMA Quando madre e figlio si guardano negli occhi, o quando una coppia si stringe per mano, i battiti cardiaci si sincronizzano e i movimenti si armonizzano. Ma non solo. Se qualche curioso si mettesse a spiare dentro al cervello (come i primi esperimenti hanno iniziato a fare), osserverebbe anche che gli impulsi elettrici dei neuroni iniziano ad assumere la stessa lunghezza d’onda.
Un primo esperimento, condotto a Bilbao dalla Fondazione per le scienze basca e uscito un anno fa su Scientific Reports, ha notato che due perfetti sconosciuti, quando iniziano a parlare, producono onde cerebrali tanto più simili quanto più la loro conversazione è intensa e partecipata.
Suzanne Dikker dell’università di New York ha voluto ripetere il test in una classe di liceo della città (i risultati sono usciti su Current Biology a maggio).
Dodici ragazzi, piuttosto divertiti, hanno indossato i caschetti con gli elettrodi per misurare l’attività cerebrale durante 1e lezioni, rivelando quali insegnanti erano più coinvolgenti e con quali compagni amavano di più svolgere attività di gruppo.
Come una sorta di macchina della verità sociale, l’esperimento potrebbe risultare addirittura imbarazzante. A Cambridge, il 28 novembre scorso, le onde “rivelatrici” hanno invece mostrato tutto il potere dello sguardo di una madre verso il figlio. Un bimbo di pochi mesi, oltre ad aumentare i vocalizzi, agganciava le sue onde cerebrali a quelle della mamma quando lei lo fissava negli occhi cantandogli una filastrocca.
L’esperimento (nella foto in alto) è stato pubblicato da Pnas.
La settimana scorsa, infine, su
Scientific Reports è apparso il più recente fra questi studi. Coppie di conviventi e coppie di sconosciuti, impegnati in una piacevole conversazione, hanno mostrato attività cerebrali assai diverse, con le prime molto più sincronizzate, soprattutto durante lo scambio di sguardi o di carezze. Non è necessariamente amore - precisa lo studio - quanto consuetudine, capacità di prevedere le reazioni dell’altro, il sentirsi a proprio agio all’interno di una relazione.
Essere in sintonia ed essere sulla stessa onda non sono dunque solo modi di dire. «Possiamo pensare ai neuroni del cervello come alle formiche di un formicaio», spiega Pier Paolo Battaglini, neuroscienziato del Centro interdipartimentale “Brain” dell’università di Trieste. «Quando sono incolonnate per riempire i loro magazzini di cibo sono in sincronia. Ma se qualcuno distrugge il loro formicaio, iniziano a muoversi freneticamente per fronteggiare il pericolo». Nel nostro cervello ogni neurone può produrre un segnale elettrico che viene registrato dall’elettroencefalogramma e disegnato con un tracciato a forma di onda. Negli esperimenti raccontati sopra era stato usato un casco con degli elettrodi, un metodo che non disturba troppo una conversazione o una lezione. «Le onde cerebrali, in un singolo individuo, si dicono sincronizzate quando sono regolari», prosegue Battaglini. «È il caso delle fasi di veglia vigile, quando siamo in uno stato di sicurezza e tranquillità. Nel caso del formicaio, è il momento in cui le formiche si incolonnano per riempire il loro magazzino, marciando tutte insieme».

Denaro & Psiche
Le relazioni pericolose. sensazioni e sentimenti del nostro tempo, di Carlo Mazzarella
di Marco Belpoliti


Pensate che il capitalismo si sia imposto schiacciando la nostra volontà? Contrordine compagni. Era già tutto scritto: nel cervello.
Così rivela uno studio che da Philip Roth a Sophie Calle fa più di un esempio. Ad arte
Viviamo nella società del disagio. Risentimento, rancore, frustrazione, paura sonoi sentimenti più diffusi. Un senso di fallimento pervade le persone insieme al timore di perdere posizioni nella scala sociale, di cadere nella povertà endemica che connota milioni d’individui in Occidente. Invece di produrre conflitti a tutti livelli le persone interiorizzano questo stato di minorità facendone una condizione permanente. Boris Groys, uno dei più acuti studiosi d’estetica, in un seminario sul “capitalismo divino”, la nuova religione della vita quotidiana, per dirla con Marx, ha asserito che il capitalismo “è una società strutturata dall’assenza di capitale e nella quale ognuno aspetta l’investimento, ossia attende la grazia divina sotto forma di sponsorizzazione”. Tutti attenderebbero “il denaro necessario per diventare qualcos’altro” ( Il capitalismo divino, Mimesis). Questo sarebbe il risultato del nuovo capitalismo che ha asservito le persone al proprio potere in modo totale interiorizzando la condizione di dipendenza ben più dei sistemi economici e sociali del passato. Il fulcro sarebbe la relazione tra gli individui fondata sul credito e sul debito reciproco. Ma è davvero così, davvero tutto questo è l’effetto di un potere esterno, che riesce a ottenere una forma di coercizione volontaria e l’accettazione interiore delle sue regole generali? Arturo Mazzarella, studioso di letterature comparate, ne dubita. Anzi, rovescia questa lettura. In Le relazioni pericolose sostiene proprio il contrario: a generare il turbocapitalismo che ci domina sarebbe il nostro stesso apparato psichico. Da questo “derivano la genesi e, poi, il radicamento delle modalità di produzione e consumo su cui si fonda il finanzcapitalismo”; detto altrimenti, l’economia psichica non sarebbe che l’effetto del nostro stesso apparato psichico che “si configura in base a principi squisitamente economici”. A decretare il predominio assoluto di questa forma sono gli stessi stati affettivi tipici dell’uomo: invidia, gratitudine, depressione, colpa, angoscia e la pulsione sessuale. Sulla scorta della psicoanalisi di Freud, Bion e Lacan, Mazzarella costruisce una cartografia dell’ordine pulsionale che produce l’inarrestabile carica fantasmatica della potenza finanziaria; lo fa analizzando alcuni testi letterari — Cecità di José Saramago, Umiliazione di Philip Roth, La comparsa di Abraham Yehoshua, Cosmopolis
di Don DeLillo — e visivi — opere di Nan Goldin, Vanessa Beecroft, Christian Boltanski e Sophie Calle. Rovesciando le tesi del “debito del vivente” (Stimilli), che vede nella seduzione capitalistica l’offerta di godimento e consumo senza fine attraverso la possibilità di un credito concesso agli altri, e dunque a sé stessi, Mazzarella propone un’antropologia che si realizza nell’estinzione simbolica del debito reciproco. L’immagine pregnante è offerta da Sophie Calle. Mentre la madre era in vita un sentimento di reciproca sopraffazione legava lei e Sophie, una forma di debito, sensi di colpa e tentativi di dominio. Dopo la scomparsa della donna l’artista decide di recarsi al Polo Nord, per compiere il viaggio che la madre avrebbe sempre desiderato. Lì sotterra nel ghiaccio alcuni gioielli della donna e una sua fotografia. In questo gesto Mazzarella vede compendiato il capovolgimento dell’economia finanziaria che abita la nostra psiche: abolire ogni debito e trasformarlo in “un credito verso sé stessi”. Sarà davvero possibile?