venerdì 8 dicembre 2017

Repubblica 8.12.17
Intervista a Gorbaciov
“Se Usa e Russia non fermano gli armamenti rischiamo la catastrofe”
di Rosalba Castelletti


MOSCA «Il mondo è sull’orlo di una catastrofe. Invito i presidenti di Russia e Stati Uniti a liberare il mondo dalle armi di sterminio di massa». Dallo studio moscovita della sua Fondazione, l’ottantaseienne Mikhail Gorbaciov lancia un appello ai leader delle due superpotenze mondiali perché seguano l’esempio suo e di Ronald Reagan. Trent’anni fa a Washington l’allora segretario del Partito comunista dell’Unione sovietica e l’allora presidente degli Stati Uniti sottoscrivevano il Trattato sulle armi nucleari a medio raggio (Inf), primo segnale concreto di disgelo. «Un passo decisivo che ha dato inizio al processo di disarmo nucleare», lo definisce in quest’intervista esclusiva a Repubblica. Fu l’inizio della fine dell’era degli euromissili e della guerra fredda.
Mikhail Sergeevic, come si arrivò a quella storica sigla?
«Le basi erano già state gettate a Reykjavik. Avevamo concordato i principali parametri dei futuri trattati sull’eliminazione dei missili a media e breve gittata e sulla riduzione del 50 per cento delle armi strategiche offensive.
Non riuscimmo a firmarli perché il presidente Reagan, “già che c’eravamo, oltre che sul resto”, voleva il mio consenso sul programma Sdi, lo Scudo spaziale, e sui test delle armi nello spazio. Non potevo acconsentire. Ciononostante, avemmo un lungo colloquio ed ebbi la sensazione che il presidente americano, sinceramente, non tollerasse le armi nucleari. Su questo avevamo una linea comune.
Dopo tre mesi gli proposi perciò di firmare “fuori pacchetto” un trattato sulla distruzione dei missili a media gittata.
Bisognava compiere un primo passo. E l’abbiamo fatto nel dicembre del 1987. È stato un passo decisivo che ha dato inizio al processo di disarmo nucleare.
Grazie a esso, a oggi è stato distrutto oltre l’80 per cento degli arsenali nucleari risalenti all’epoca della guerra fredda».
Come riusciste a superare le divergenze?
«Ci siamo riusciti perché avevamo una volontà politica.
C’erano tanti ostacoli. C’erano anche tanti nemici dell’avvicinamento tra Urss e Stati Uniti che tentavano continuamente di farci deviare dalla nostra via. Era una strada complicata, per niente piana e il cammino non era piacevole. Ma alla fine il senso di responsabilità e il buon senso hanno prevalso. È quello che desidero augurare ai nostri attuali successori».
Le relazioni tra Russia e Stati Uniti appaiono però più tese che mai. Si evoca spesso una “nuova guerra fredda”.
C’è modo d’invertire questo corso?
«Prima di tutto bisogna ricominciare a dialogare.
Bisogna preparare un summit con pieni poteri allargato a tutti i rappresentanti dei più alti vertici. E avviare un negoziato su un’agenda a tutto campo, non solo sui “focolai di tensione”.
Lancio un appello ai due presidenti a ridare un nuovo respiro al processo di liberazione del mondo dalle armi di sterminio di massa. La gente lo aspetta!».
È solo di pochi giorni fa l’ultimo test missilistico della Corea del Nord. Vede i rischi di un conflitto nucleare? Ed eventuali vie d’uscita?
«I rischi sono enormi. Non voglio esagerare, ma la nuova corsa agli armamenti è già realtà e può portare il mondo alla catastrofe. Come prevenirla?
Non esiste una panacea. Questa situazione non può essere risolta con un tocco di bacchetta magica. Per questo, voglio tornare a ribadire, mi appello ai leader mondiali, e ai presidenti di Stati Uniti e Russia innanzitutto, perché riprendano nelle loro mani il processo di disarmo nucleare.
Per iniziare, basta riconvalidare l’adesione al Trattato sui missili a medio e corto raggio e risolvere i problemi che si sono venuti a creare sul loro controllo. Sono convinto che si possono risolvere se c’è buona volontà.
E, poi, andare avanti. Oggi nel mondo si sono accumulate fin troppe armi».
Nel 1990 è stato insignito del Nobel per la pace.
Domenica verrà consegnato alla Campagna internazionale contro le armi nucleari. Come ha accolto quest’assegnazione?
«Con entusiasmo. Bisogna ricordare in continuazione che cos’è un’arma nucleare e cercare di ottenerne l’eliminazione. Un mondo senza arma nucleare!
Non ci può essere altro obiettivo! Mi preoccupa molto che, nelle dottrine militari, si torni a ipotizzare l’uso di armi atomiche. Voglio ricordare un’ennesima volta la dichiarazione congiunta che firmammo io e Ronald Reagan: la guerra nucleare è inammissibile, perché non può esserci un vincitore».
Nel libro autobiografico “Resto ottimista” ripercorre i momenti più significativi della sua vita, compresa la sua politica di rinnovamento, la perestrojka, che cambiò l’Urss e il mondo intero. Oggi che cosa pensa di quegli anni?
«Con l’andar del tempo alcuni giudizi possono cambiare. Ma la cosa essenziale è che allora sentivo che la gente aspirava ai cambiamenti, nel nostro Paese e nel mondo, e che ho cercato di far sì che i cambiamenti fossero profondi, radicali e che avvenissero senza spargimento di sangue. Per molti versi ci siamo riusciti. I cittadini hanno trovato la libertà. È cominciato il cammino verso la democrazia.
Abbiamo chiuso l’era della guerra fredda. E tutto questo è avvenuto in un breve lasso di tempo se commisurato con le leggi della storia».
Tra i “capitoli” della sua vita qual è il più felice? E quello più doloroso?
«Vorrei che le nuove generazioni leggessero il mio libro. Preferisco che siano loro a trovarci dentro le pagine felici, e dolorose, della mia vita».
Trent’anni fa il patto Reagan-Gorbaciov sui missili UNIVERSAL HISTORY ARCHIVE/ GETTY IMAGE

Repubblica 8.12.17
Szydlo silurata
Un premier “forte” per la Polonia che guarda a Orbán
di Andrea Tarquini


Brusco rimpasto di governo nella Polonia delle svolte autoritarie e del boom economico in conflitto con l’Ue cui appartiene. Il leader della maggioranza conservatrice Jaroslaw Kaczynski ha di fatto licenziato su due piedi la debole e spesso iperclericale premier Beata Szydlo, che poche ore prima aveva superato un voto di fiducia in Parlamento. Nuovo capo dell’esecutivo è adesso il finora vicepremier e superministro delle Finanze e della politica economica, Mateusz Morawiecki. A metà legislatura, e nel giorno in cui la Ue ha deferito Polonia, Cechia e Ungheria alla corte europea per il no ai migranti e alle quote di ripartizione e i colpi autocratici allo Stato di diritto, Varsavia vuole mostrarsi forte e decisa.
Morawiecki, ex grande banchiere avrà un duplice ruolo formando il suo governo. Da un lato, dovrà rassicurare gli investitori stranieri – che lo stimano e infatti la Brexit li ha incoraggiati a spendere ancor più in Polonia spingendo persino Goldman Sachs e altre grandi banche a programmare traslochi da Londra a Varsavia – sulla continuità del boom nonostante lo scontro con Bruxelles. D’altra parte, Morawiecki, autore di un ambizioso piano di sviluppo e investimenti, è uno stimato economista fautore di più dirigismo e più spese per il welfare e maggior ruolo del settore pubblico nella prima economia del centroest, ma garantendo competenza economica agli operatori internazionali. Compensando così lo scontro con Bruxelles sull’esautorazione della magistratura da parte del partito di governo (PiS), a causa della quale secondo la Ue la democrazia polacca è in pericolo. «La nuova situazione richiede un cambio nel management politico», ha detto la portavoce della maggioranza Beata Mazurek. Negli ultimi tempi Kaczynski si è mostrato in crescente sintonia col premier ungherese Viktor Orbán.

La Stampa 8.12.17
Nei Territori scoppia la rivolta: “L’unico che ci difende è Erdogan”
Più di cento feriti negli scontri tra palestinesi e l’esercito israeliano. Tra i giovani sale la sfiducia verso Abu Mazen: ci ha venduti
di Giordano Stabile

qui

Corriere 8.12.17
Amos Oz: «Ma in questa terra è meglio non fare profezie»
di L. Cr.


«Devo ammettere che ancora non ho ben compreso i motivi che hanno spinto Donald Trump a fare questa dichiarazione su Gerusalemme. Non capisco se è dettata più da considerazioni di ordine internazionale, oppure di politica interna americana», dice Amos Oz dalla sua residenza non distante dall’Università di Tel Aviv. Da alcuni anni ormai il celebre scrittore israeliano ha lasciato la sua vecchia casa nel deserto del Negev. Le attrattive della metropoli non lo distolgono tuttavia dalle molte ore di lavoro alla scrivania. E a 78 anni continua a seguire con attenzione gli sviluppi della politica mediorientale. Per commentare la dichiarazione di Trump si è preso una notte di tempo. Ultimamente lo fa sempre più spesso. «Voglio darmi lo spazio per riflettere. In genere non sono una persona che reagisce a caldo», ci aveva ripetuto mercoledì sera alla richiesta per un’intervista. Ieri mattina infine ci ha dato un breve commento, con voce lenta, quasi stesse dettando un testo: «Il governo della Repubblica Ceca ha dichiarato poche ore fa che riconosce Gerusalemme Ovest, quella delimitata dalla cosiddetta linea verde che è il vecchio confine precedente la guerra del 1967, come la legittima capitale di Israele. Aggiunge inoltre che, al momento giusto, sarà ben contento di muovere la sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme Ovest, come del resto sarà ben disposto ad aprire contemporaneamente una sua ambasciata per la Palestina a Gerusalemme Est. Ecco mi sembra di poter dire che il mio pensiero ben si riflette nella mossa del governo ceco».
Ma come vede le possibili conseguenze della mossa di Trump: aiuta la ripresa del negoziato tra israeliani e palestinese, oppure c’è il rischio che la paralizzi ulteriormente? «Mi sembra che la posizione della Repubblica Ceca contenga già una chiara risposta». Il mondo arabo tuttavia reagisce con critiche dure, i palestinesi annunciano mobilitazioni di protesta. Teme violenze? «Non voglio fare profezie in questa terra già colma di profeti e profezie».

Repubblica 8.12.17
La nuova Intifada
L’alleanza a tre e il nodo !ran
di Lucio Caracciolo


Nell’atto di riconoscere Gerusalemme quale capitale d’Israele, Donald Trump ha messo i suoi interessi politico-elettorali al di sopra di quelli del paese che rappresenta. Il presidente è concentrato più sulle elezioni parlamentari di mezzo termine, che fra meno di un anno potrebbero decidere del suo futuro politico, facendone “ un’anatra zoppa” a metà del suo primo e forse unico mandato, che sull’interesse nazionale. Nulla di straordinario, nella storia degli inquilini della Casa Bianca. Il cui primo obiettivo, una volta insediati nello Studio Ovale per quattro anni, è di assicurarsi il secondo mandato. Fatto è che pur di mantenere ( caso raro) una promessa fatta allo zoccolo duro del suo elettorato — schierato sempre e comunque con lo Stato ebraico in quanto paese più che alleato, gemello — “The Donald” ha rotto il tabù diplomatico che aveva permesso agli Usa di sceneggiare l’esistenza in vita di una mediazione fra palestinesi e israeliani morta e sepolta da quasi vent’anni.
Settori rilevanti dell’establishment americano, a cominciare dall’alta burocrazia militare e diplomatica, da alcuni laboratori strategici e d’intelligence, condannano la mossa come avventata. Inutilmente il pur influente ministro della Difesa, Jim “ Cane Matto” Mattis, e il del tutto ininfluente ex (?) petroliere Rex Tillerson, capo del fatiscente Dipartimento di Stato, hanno cercato di dissuadere Trump da questa “ opzione nucleare”. Convinti che avrebbe eccitato l’antiamericanismo non solo in Medio Oriente, minacciato la vita di civili e militari a stelle e strisce, alimentato la propaganda e il terrore jihadista.
Il rischio per gli Stati Uniti — che da tempo considerano il Medio Oriente scacchiere secondario ma non riescono ad emanciparsene, continuando a sprecarvi risorse militari, finanziarie e d’immagine — è di finire strumento dei loro due Stati di riferimento nella regione: Israele e Arabia Saudita. Il primo sentito consanguineo. Il secondo, alleato non sempre affidabile ma capace di dotarsi a pagamento di una tale rete di protezione nei meandri del potere a stelle e strisce da oscurare il fatto che ad abbattere le Torri Gemelle furono suoi sudditi.
Il triangolo Washington-Gerusalemme-Riad è concorde nel valutare Teheran unico nemico strategico tra Levante, Golfo e Asia centromeridionale. La questione palestinese è capitolo chiuso anche per gli altri leader arabi e musulmani, che pur fingono di interessarsene e protestano contro la sacrilega scelta di Trump. Sicché per Usa, Israele e Arabia Saudita è inutile investirvi tempo, soldi e soldati, da destinare invece al contrasto dell’imperialismo iraniano. Risultato: la Palestina non sarà mai vero Stato né Gerusalemme Est la sua capitale. Al massimo, ciò che resta dell’Autorità palestinese, tenuta artificialmente in vita dai suoi nemici israeliani, in collaborazione con americani, sauditi, petromonarchie minori del Golfo ed europei (solo nei panni di ufficiali pagatori), potrà fregiarsi di una statualità puramente decorativa, simbolica.
La retorica dei due Stati non punta ai due Stati. Serve a coprire l’espansione territoriale di Israele in Cisgiordania e nella Grande Gerusalemme. Dato di fatto irreversibile se non per improbabile inversione geopolitica o suicidio israeliano. Da ornare, al massimo, con qualche foglia di fico. Basta uno sguardo alla carta dei Territori occupati ( contestati, dal punto di vista israeliano), segmentati in mille frammenti, per rendersi conto che fondarvi un qualsivoglia Stato è vano. Figuriamoci centrarlo su Gerusalemme.
Lo strano triangolo che lega la massima potenza mondiale allo Stato ebraico e al feudo wahabita in cerca d’identità non solo petrolifera sembra aver deciso che è tempo di troncare anche formalmente l’equivoco palestinese. Stabilendo che Gerusalemme, tutta Gerusalemme, è capitale di Israele. Punto. Esattamente settant’anni dopo che David Ben-Gurion, accettato il piano di bipartizione della Palestina in uno Stato arabo e uno ebraico, aveva sacrificato la città santa in cambio dell’esistenza di Israele, accedendo all’idea di farne un “corpo separato” a gestione internazionale. Piano stracciato dagli arabi, a spese anzitutto dei palestinesi, convinti di rigettare a mare gli ebrei.
Un mese fa, il giovane e avventuroso leader saudita Mohammad bin Salman (noto come MbS) aveva fatto capire senza troppe cerimonie al figurativo presidente palestinese Mahmud Abbas (alias Abu Mazen), convocato a Riad, che il tempo era scaduto. Comunicazione secca: i palestinesi si adattino a uno staterello di facciata, collazione dei coriandoli di spazio cisgiordano su cui Israele non esercita un controllo diretto, privo di continuità territoriale. Con Abu Dis, sobborgo di Gerusalemme Est, eretta a “capitale” della Palestina fantasma. Prendere o lasciare. Nel secondo caso, la casa saudita, d’intesa con israeliani e americani, avrebbe provveduto a installare Mohammed Dahlan ( Abu Fadi), avversario del vecchio Abu Mazen, a capo della pseudo- Palestina. Il colloquio, a quanto pare, si era interrotto bruscamente.
Resta da vedere se la peculiare costellazione formata dalla coincidenza degli interessi personali di Trump con le attuali strategie israeliana e saudita raggiungerà l’obiettivo di decretare la fine della questione palestinese. O se invece, per paradosso, rianimerà almeno per qualche tempo quella partita sapientemente sopita dalle diplomazie di tutto il mondo per evitare la definitiva umiliazione dei palestinesi. Così svelando che le strategie di Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita non sono così convergenti come pretende chi oggi le orienta. E che quindi la demonizzazione dell’impero persiano, oggi reincarnato dall’Iran, non conviene a nessuno.

Corriere 8.12.17
Reportage nella città santa
Cent’anni (e tre mappe) Passeggiata con gli storici per capire Gerusalemme
dall’inviato a Gerusalemme
Dal borgo dove «non accadeva nulla» alla contesa tra fedi e politica
di Lorenzo Cremonesi


Ci sono pochi luoghi al mondo tanto carichi di storia e memoria. Un retaggio ricco, affascinante mosaico delle declinazioni del monoteismo nei secoli. Ma anche pesante, talvolta oppressivo, potenzialmente esplosivo. Il Muro del Pianto a poche decine di metri dalle moschee di Al Aqsa e della Roccia. Crocifissi armeni, cattolici, etiopi, protestanti, ortodossi appesi negli stessi mausolei. Il Santo Sepolcro a segnare il confine con la zona musulmana che conduce alla porta di Damasco, dove le mura sono più basse e si racconta vi abbiano fatto irruzione i cavalieri della Prima Crociata nove secoli fa. Cimiteri di fedi diverse, tombe, sinagoghe, chiese e moschee, parete a parete, divisi solo da un vicolo, ma anche in competizione gli uni con gli altri, in certi casi gli uni a spese degli altri. Basterebbe ricordare questa semplice realtà per sottolineare quanto Gerusalemme sia un nodo cruciale per la pace o la guerra nella regione.
Oggi i nuovi quartieri ebraici costruiti a colpi di palazzoni sempre più velocemente sui territori occupati da Israele al tempo della guerra del giugno 1967 hanno ingigantito la città a dismisura. Maalè Adumim, che solo venti anni fa pareva un isolato sobborgo sulle colline che divallano verso il Mar Morto, è adesso una gigantesca appendice meridionale della città che accerchia nel cemento i quartieri arabi più popolosi assiepati sulla provinciale per Gerico. E Har Homa, un’altra collina posta presso la strada che da kibbutz Ramat Rachel porta a Betlemme, è come se avesse dimenticato le infinite polemiche e battaglie che ne caratterizzarono la colonizzazione al tempo del primo governo Netanyahu, nella seconda metà degli anni Novanta, per diventare una ricca area residenziale con supermercati e fabbriche high tech. Un possibile polo di attrito che, con il ritorno degli scontri in seguito al discorso di Trump, ieri era fittamente presidiato dalla polizia.
Eppure, non è sempre stato così. Amos Elon, noto scrittore israeliano deceduto nel 2009, per cercare di sdrammatizzare la situazione usava citare alcune pagine celebri di Mark Twain, che nel suo Gli innocenti all’estero , la cronaca ironica del suo viaggio da turista in Terra Santa nel 1867, parlava di una «provincia abbandonata, povera e tediosa dell’Impero Ottomano, dove da decenni non accade assolutamente nulla». In toni simili si esprime anche Tom Segev, giornalista ma soprattutto storico sottile innamorato del paradosso sino alla provocazione. «Il conflitto in questa terra si disegna anche a colpi di mappe, date e confini apparentemente invalicabili, che però in realtà vengono continuamente cancellati e ridisegnati con il cambiare dei valori ideologici e dei riferimenti politici. Dalla fine della sovranità ottomana cento anni fa, al piano Onu per la partizione del 1947 e i risultati della guerra del 1948, sino alla guerra del 1967, seguita dalla restituzione israeliana del Sinai grazie alla pace con l’Egitto e il progetto di pace con i palestinesi nel 1993, non ci sono mai state frontiere intoccabili», sottolinea. A far da filo rosso è la sua ampia biografia di David Ben Gurion, la cui pubblicazione in ebraico è programmata per il prossimo febbraio. «Il padre della patria israeliana come tutti i primi sionisti non era affatto interessato a Gerusalemme. Arrivò giovane migrante dall’Europa dell’Est nel 1906 e subito andò a fare il contadino in Galilea. Visitò Gerusalemme per un impegno di lavoro solo tre o quattro anni dopo. Ma la città non lo attirava. C’erano troppi arabi per i suoi gusti. E soprattutto detestava gli ebrei ortodossi, gli ricordavano la realtà della diaspora che si era lasciato alle spalle per sempre». Un dato sottolineato all’infinito dai nuovi storici israeliani: per i primi sionisti laburisti che guidavano il movimento, e in effetti per la maggioranza dei loro partiti politici sino alla Guerra dei Sei giorni, le città dell’utopia realizzata nel nuovo ebreo produttore emancipato dai valori diasporici erano Tel Aviv, Petach Tikvah, Herzlya, le colonie agricole, certo non Gerusalemme, che sapeva di stantio, di vecchio e obsoleto. Aggiunge Segev: «Durante la guerra del 1948 Moshe Dayan, che allora comandava l’esercito, annunciò che la città vecchia di Gerusalemme poteva essere presa ai giordani manu militari. Ma Ben Gurion fu contrario, non voleva assumersi l’onere del controllo dei luoghi santi musulmani e cristiani. Fu persino pronto a rinunciare al Muro del Pianto, nonostante le violente proteste di Menachem Begin, l’allora leader dei sionisti conservatori. Salvo poi, appena dopo la formidabile vittoria del 1967, proporre di abbattere addirittura le mura ottomane antiche cinque secoli per annetterla integralmente, in barba alle opposizioni della comunità internazionale».
Della continuità dell’attaccamento palestinese alla propria terra parla invece Ghassam Khatib, intellettuale di Ramallah ed ex ministro nel governo di Abu Mazen: «Per noi Gerusalemme e la sua regione sono sempre state parte integrante della nostra identità nazionale naturale. Oggi ci dicono che abbiamo fatto l’errore nel 1948 di rifiutare il compromesso Onu per la divisione in due Stati con Gerusalemme autonoma sotto la garanzia internazionale. Ma noi allora avevamo tutto, qui stavano le nostre case, le memorie dei nostri avi, i nostri campi, la nostra acqua, perché mai avremmo dovuto cedere la metà senza difenderci e combattere?». Il tema torna d’attualità con l’approssimarsi del centenario dell’entrata a Gerusalemme del generale inglese Edmund Allenby. Accadde l’11 dicembre 1917: musulmani, cristiani ed ebrei furono per una volta tutti egualmente felici di liberarsi dell’oppressione ottomana, diventata terribile negli ultimi giorni della Grande Guerra. Però, solo pochi anni dopo, le simpatie di Londra per i sionisti portarono alla crescita delle prime organizzazioni nazionaliste palestinesi.
Quei movimenti vennero celebrati dai «giovani delle pietre» con lo scoppio della prima Intifada trent’anni fa, il 9 dicembre 1987. Settant’anni dividono quelle due date: ma la città ne rimane profondamente segnata, a dispetto dell’ironia disincantata di Mark Twain.

il manifesto 8.12.17
Leila Khaled: «Trump non può cancellare la Gerusalemme palestinese»
Israele/Palestina. Intervista all’attivista e membro del Pflp Leila Khaled: «È morta l’illusione sulla natura di Israele, progetto coloniale e razzista: la sola via d’uscita è una società laica e democratica. La sicurezza dei popoli si basa sulla lotta al capitalismo che trasforma i conflitti politici in conflitti settari e religiosi per annientare le cause giuste»
intervista di Chiara Cruciati


«Gerusalemme è e resterà la capitale della Palestina; né Trump né tutta la potenza dell’esercito israeliano e dei coloni violenti e illegali potrà rompere questa connessione o cancellare l’identità araba della Gerusalemme occupata». Leila Khaled, storica attivista palestinese, membro del partito marxista Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Pflp), non è spaventata dall’ultima mossa del presidente Trump.
Cosa significa per i palestinesi nell’immediato futuro la dichiarazione di Trump su Gerusalemme capitale di Israele?
La dichiarazione non sorprende, riflette il solito ruolo statunitense in relazione alla Palestina. Sono questo, partner chiave dell’occupazione israeliana in violazione dei diritti del nostro popolo. Gli Usa inviano tre miliardi di dollari l’anno all’esercito israeliano e la proclamazione del guerrafondaio e imperialista Trump sottolinea il ruolo nefasto giocato in Palestina e nella regione. Gerusalemme è e resterà la capitale della Palestina. E l’ondata di rabbia popolare tra i palestinesi e gli arabi in reazione a questa trovata colonialista mostra l’orrenda realtà del cosiddetto “processo di pace” guidato dagli Usa che ha portato solo devastazione al nostro popolo.
In questi giorni avrebbe dovuto essere in Italia ma l’ingresso le è stato impedito a seguito di pressioni politiche, ultima di una serie di censure contro eventi sulla questione palestinese. La Palestina fa paura?
Il rifiuto delle organizzazioni sioniste e dei gruppi di destra riflettono il loro permanente obiettivo di diffondere paura e odio. Non rappresentano la comunità ebraica nella sua interezza. Si tratta di gruppi politici sionisti che lavoravano attivamente per sopprimere l’organizzazione palestinese e diffondere razzismo. Combatterli è parte della più vasta battaglia anti-coloniale perché i colonizzatori cercano sempre di proiettare un’immagine del popolo oppresso come “spaventoso”, “barbaro”, “terrorista”. Noi dipendiamo dalla saggezza e la conoscenza delle masse, compreso il popolo italiano, per vedere oltre le bugie e lottare per la giustizia in Palestina e nel mondo. Le autorità possono impedirci fisicamente di raggiungere la nostra gente e i nostri amici in tutto il mondo, ma per fortuna la mia voce è stata ascoltata negli eventi previsti: ho partecipato con video conferenze alle iniziative di Cagliari, Roma e Napoli. Per noi, questa è vita quotidiana.
La cosa più importante è non accettarla e resistere in ogni possibile spazio che possiamo raggiungere per dire la nostra versione della storia, perché l’obiettivo del separarci dai movimenti di base è esattamente quello di sopprimere la narrativa palestinese e impedire che la nostra voce sia ascoltata. Ringrazio Udap (Unione democratica arabo-palestinese) e tutti per il supporto ricevuto da così tante organizzazioni e partiti politici, al di là delle nostre aspettative, da organizzazioni italiane, scrittori, sindacati e giornalisti.
Quest’anno i palestinesi commemorano due eventi che sono colonna portante dell’occupazione israeliana della Palestina storica: i 100 anni dalla dichiarazione Balfour e i 50 anni di occupazione militare dei Territori. Quel processo coloniale continua senza interferenze e quello che abbiamo di fronte è la creazione de facto di uno Stato unico, in cui un popolo gode di privilegi e diritti e un altro sotto un regime di apartheid. È la fine delle aspirazioni nazionali palestinesi?
È la fine delle illusioni sulla natura dello Stato di Israele e del progetto sionista. L’aspirazione del popolo palestinese a continuare la propria lotta per la libertà non cesserà mai. Negli ultimi decenni, hanno tentato di convincerci che Israele poteva essere un progetto democratico o un “partner” quando in realtà è un regime coloniale di insediamento, razzista e segregazionista. Chi nella “comunità internazionale” chiede ai palestinesi di sostenere la soluzione a due Stati allo stesso tempo non fa nulla per fermare la costruzione di colonie da parte di Israele, la confisca di terre, la demolizione di case, le diverse pratiche di pulizia etnica contro i palestinesi che si trovino a Haifa, Akka o Gerusalemme, senza contare Gaza.
Quello che è morto sono queste illusioni e la sola via d’uscita storica – che il Pflp sostiene – è la liberazione di tutta la Palestina storica e la creazione di una società democratica e laica, dove tutti vivano in eguaglianza, senza distinzione di colore, razza, sesso, religione o lingua. E siccome siamo convinti che uno “Stato” rappresenta una classe, noi siamo per il socialismo e uno Stato delle masse popolari, non uno Stato dei capitalisti, che siano essi palestinesi o israeliani.
Com’è possibile superare la divisione geografica e fisica del popolo palestinese realizzata da Israele? Oggi metà della popolazione palestinese nella Palestina storica ha meno di 20 anni: sono nati e cresciuti dopo gli Accordi di Oslo, con il muro e i checkpoint, impossibilitati a conoscersi. Una divisione che genera diverse forme di resistenza contro la stessa occupazione. Come i giovani possono superare tale divisione e ricostruire il movimento di liberazione nazionale, ucciso da Oslo e dall’indebolimento dell’Olp?
Una domanda molto importante. La nostra società, il nostro popolo è fatto di giovani e questo è un elemento di speranza in sé. I palestinesi hanno vissuto nella loro terra per migliaia di anni come un popolo unico, unito. La catastrofe vissuta nel 1948 – orchestrata e preparata – è stato proprio questo, lo sfollamento dalle terre dei palestinesi e l’impedimento al ritorno. Dopo il 1948 il nostro popolo si è ritrovato nei campi profughi in Libano, Siria, Giordania e in patria. Molti di loro sono migrati nei paesi del Golfo, in America Latina, Europa e Nord America, nel tentativo di vivere e fuggire dalla miseria e l’oppressione dell’esilio. Ci sono oltre 500mila palestinesi in Cile o che 250mila palestinesi sfollati vivono oggi come “internally displaced people” dentro Israele. Questa realtà è stata creata dai poteri coloniali e da Israele e il modo in cui i palestinesi possono unirsi è attraverso la loro rivoluzione e un progetto politico collettivo, un progetto di liberazione che assicuri diritti a tutti. E questi diritti vanno individuati, secondo noi, nel diritto al ritorno e nel diritto all’autodeterminazione sulla nostra terra, da praticare con volontà libera, scelte politiche e il futuro che scegliamo di costruire. Vale ancora oggi.
Creare isole e isolare enclavi di palestinesi è parte della creazione di uno stato di assedio che ogni segmento palestinese affronta. Tale assedio è orchestrato per restringere la loro abilità di combattere mentre cercano di sopravvivere – andare a scuola, mangiare, vivere. Si tratta di questioni esistenziali, individuali e collettive che impediscono ai palestinesi di mobilitarsi e combattere per la propria causa e la loro liberazione. I giovani palestinesi oggi sono alla ricerca di una nuova onda della permanente rivoluzione palestinese contro l’occupazione e per un progetto di liberazione. L’Olp ha bisogno di essere ricostruito interamente con le sue istituzioni – non dipendenti dall’Anp – e di essere guidato dai giovani e dalle donne che reclamano il proprio ruolo. Ricordo la mia energia e il mio entusiasmo da giovane, è lo spirito necessario a ricostruire il movimento di liberazione nazionale e direzionare la bussola palestinese, perché abbiamo bisogno di idee fresche, aria fresca e sangue fresco nelle vene della rivoluzione.
La sinistra palestinese, spina dorsale della resistenza nazionale, vive oggi una crisi? È ancora capace di formulare un’alternativa e di promuoversi tra i palestinesi, dentro la Palestina storica e nella diaspora?
Posso parlare del Pflp. Siamo consapevoli di vivere una crisi, già dal Quinto Congresso del Fronte nel 1993. Ci siamo detti che stavamo entrando in una crisi strutturale che includeva i livelli politico, militare, finanziare, teoretico. Quell’incontro è stato documentato, l’autocritica è disponibile. Non ci sono soluzioni magiche per uscire dalla crisi eccetto attraverso la lotta, su tutti i fronti. Siamo anche consapevoli di non poterci nascondere dietro le masse; al contrario, dobbiamo essere coinvolti con le masse perché il nostro popolo è il principale fattore di rinascita della sinistra palestinese, dobbiamo ascoltare il suo dolore e le sue domande. Ovviamente tale crisi non è separata dalla crisi del movimento di liberazione nazionale in Palestina e nella regione e da quello della sinistra nel mondo. Penso che sia tempo di superare la perdita dell’Unione Sovietica e del blocco socialista; è stato un momento critico ma dobbiamo andare oltre perché un mondo alternativo, per il quale combattiamo ancora, per cui tutta l’umanità combatte ancora, può essere realizzato attraverso il sostegno mutuale e la solidarietà internazionale che combatte ogni forma di oppressione, imperialismo, capitalismo, razzismo e sessismo.
Questo sottolinea il bisogno di un Fronte Popolare internazionale che ci coinvolga tutti. Sappiamo che l’autocritica è uno strumento rivoluzionario vitale, ma dovrebbe sempre essere praticato accanto alla lotta in sé contro le forze di oppressione e sfruttamento. Dobbiamo fare una differenza tra la perdita di un gruppo di Stati che una volta rappresentavano il socialismo e il movimento di persone nel mondo che guardano ad una società alternativa, un mondo più felice. E questo è l’obiettivo finale di tutti i rivoluzionari, dedicare la propria vita alla protezione dei bambini, la difesa dell’ambiente, la lotta al razzismo e al sessismo. Tutto ciò non va separato dalla lotta per la liberazione della Palestina. Sappiamo che costruire un movimento unito della sinistra è un compito complesso che può essere raggiunto solo da movimenti e individui rivoluzionari. Non so, forse abbiamo bisogno di un altro Lenin.
Come vede il processo di riconciliazione tra Hamas e Anp? Sembra manchi ancora una visione nazionale o una strategia comprensiva.
Qualsiasi strategia nazionale deve essere realizzata attraverso la resistenza e in un contesto di dialogo interno alla resistenza. Significa atti e pensieri, pratica e teoria, e non divisioni, scontri e violenza. La nostra posizione classica si basa sul termine “unità nazionale”. Pensiamo che quanto accaduto al Cairo, il dialogo tra diverse fazioni palestinesi, non sia abbastanza. I partiti rappresentano una porzione della società palestinese, ma qui c’è bisogno di un dialogo con tutti i settori e le organizzazioni, comprese quelle delle donne, i gruppi studenteschi e i giovani palestinesi. Come possiamo portare tutto il nostro popolo, di qualsiasi appartenenza, ad essere parte della discussione, parte vitale e importante molto di più delle fazioni?
Registriamo un gap tra il ruolo dei partiti e i bisogni della nostra gente e dobbiamo muoverci oltre per costruire un fronte unito nazionale. Ricordiamoci che Hamas e Fatah sono entrambi la destra del movimento di liberazione nazionale. Noi li vediamo come forze identiche, seppur si differenzino l’uno dall’altro. Dobbiamo rafforzare la sinistra del movimento di liberazione, ovvero il Pflp. Ricordate, un uccello non può volare solo con un’ala.
Israele è riuscito a dipingere la resistenza palestinese come forma di terrorismo islamista o jihadismo, una narrativa che la comunità internazionale ha accettato, accettando con essa il modello securitario israeliano contro specifici gruppi etnici e religiosi (come nel caso dei rifugiati in Europa). Quali sono gli strumenti in mano al movimento di liberazione per distruggere tale narrativa?
Israele ha sempre cercato di sfruttare l’alto livello di ignoranza che esiste oggi intorno all’Islam. Uguaglia l’Isis a organizzazioni come Hezbollah o Hamas, quando in realtà non hanno nulla a che fare e Hezbollah lo combatte sul campo mentre Israele ci condivide certi obiettivi. Tenta di proiettare un’immagine della resistenza come “islamista” e “jihadista”, sapendo dell’esistenza di un terreno fertile in Europa e nel mondo creato dalle forze fasciste e di destra (di cui alcune anche anti-ebraiche). Abbiamo visto crescere alleanze tra Israele e forze fasciste. Chiedo alla gente di leggere di più sui vari gruppi influenzati dall’Islam, perché sono tra loro molto diversi. È una generalizzazione fallace ingrandita da razzismo e colonialismo.
Voglio parlare su tre livelli differenti. Il primo è personale, non per egocentrismo ma perché la mia identità di laica, marxista, femminista in un’organizzazione di sinistra impegnata in azioni di resistenza diretta è un chiaro rifiuto di questo contesto. Gruppi come l’Isis o simili ci odiano quanto ci odia Israele. Oltre a ciò, Israele promuove la creazione e lo sviluppo di gruppi come l’Isis nella regione e condivide con loro obiettivi comuni di caos e distruzione. Israele tenta di fabbricare un’immagine falsa dei palestinesi e di venderla al mondo occidentale per poter dire che non siamo un popolo con una causa, dei diritti e una lotta giusta. Ma mi chiedo se davvero questa strategia funziona. La capacità della gente di verificare i fatti, nonostante tutte le fabbricazioni, la propaganda dei media e il lavaggio del cervello, è qualcosa che esiste ancora e può svelare queste bugie per quel che sono. Diversi mesi fa, c’è stata un’operazione palestinese a Gerusalemme contro i soldati israeliani. Le autorità israeliane sono subito corse a dire che era stato l’Isis, quando in realtà era stata realizzata da giovani che simpatizzavano per un gruppo laico di sinistra. L’Isis non esiste in Palestina e non ha mai attaccato Israele e i suoi interessi. L’Isis ha bruciato la bandiera palestinese.
In secondo luogo, i poteri coloniali cercando sempre un capro espiatorio per la crisi del sistema capitalista. Così ad esempio Trump con la sua campagna razzista contro gli afroamericani, i latini e i musulmani, prova a dire che sono “il problema” negli Stati uniti, mentre allo stesso tempo è partner dell’Arabia saudita, degli Emirati e di altri Stati reazionari che sostengono gruppi reazionari violenti in Siria. La crisi del sistema capitalista in Europa e negli Usa ha sempre cercato questi capri espiatori, come accadde durante l’era nazista e fascista in Europa attraverso l’uso di campagne razziste cominciate con discorsi di odio, articoli e libri che portarono a uccisioni di massa e all’Olocausto. Oggi, Israele tenta di usare i crimini del nazismo come giustificazione ai suoi stessi progetti razzisti di uccisione e esclusione e si appropria falsamente dell’eredità “della difesa del popolo ebraico” quando altro non è che un progetto coloniale razzista per l’espulsione dei palestinesi.
Terzo, i rifugiati sono costretti a venire in Europa per una ragione: le loro storie non cominciano quando arrivano sulle vostre coste. Eventi politici li spingono lì – massacri, interventi militari occidentali, dittature, bombardamenti. Un esempio classico è la storia delle relazioni tra Italia e Libia. I paesi occidentali sono guidati da una classe dirigente feroce che porta avanti una guerra contro il mondo arabo per il petrolio e il profitto. Quando si studia la storia di paesi come l’Iraq e la Siria, si viene a sapere che centinaia di migliaia di iracheni, siriani, afghani sono stati costretti a lasciare il proprio paese da guerre imposte su di loro. La gente non migra perché vive sotto una dittatura: migra per sopravvivere alle guerre. L’Europa ha una grande responsabilità, accanto a quella Usa e dei paesi arabi reazionari, nel creare queste guerre. Quando l’Europa sostiene le politiche di intervento promesse dagli Usa non deve poi aspettarsi altro.
La sicurezza delle persone di tutte le nazionali si fonda sulla lotta al capitalismo. Trasformare i conflitti politici in conflitti religiosi e settari beneficia solo l’imperialismo, perché cancella i diritti delle persone e le loro cause giuste e sposta la discussione su un piano vago, vuoto e superficiale. Questo è quello che vogliono i nostri nemici. I conflitti ci sono a causa di reali interessi – politici, economici e sociali – e non perché si è nati ebrei, musulmani o cristiani. Dovremmo considerare questa la base di un pensiero scientifico e di analisi.
Voglio approfittare di questa occasione per ringraziare il manifesto per avermi intervistato e per aver dato spazio alla nostra voce. Incoraggiamo i lettori a mobilitarsi per costruire un movimento forte e progressista che confronti il capitalismo, l’imperialismo e l’austerità e combatta per un’Italia democratica e socialista. Sappiamo che avete la vostra battaglia e vi sosteniamo.

il manifesto 8.12.17
All’orizzonte la terza Intifada palestinese
Gerusalemme. A invocarla è il leader del movimento islamico Hamas, Ismail Haniyeh, ma in ogni caso potrebbe essere la conseguenza inevitabile del riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele fatto da Trump. Oggi si annuncia una giornata di tensioni e scontri. Netanyahu intanto si dice certo che altri Paesi seguiranno gli Usa.
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Imad è un torrente in piena, travolge gli argini. «Gerusalemme è la capitale della Palestina, lo sarà sempre. Donald Trump può annunciare ciò che vuole e Israele può attuare tutte le sue politiche ma noi non rinunceremo mai e poi mai a Gerusalemme». È perentorio Imad, proprietario di una libreria. «E i Paesi arabi e islamici? – domanda – Nessuna reazione vera, solo qualche frase scontata» si lamenta «Giordania ed Egitto hanno relazioni con Israele, almeno loro avrebbero dovuto ritirare gli ambasciatori e chiudere le ambasciate, invece restano a guardare». Intorno a noi c’è il silenzio di via Salah Edin, l’arteria commerciale di Gerusalemme Est, la zona araba della città, dove i negozianti hanno aderito in massa allo sciopero generale proclamato dopo il discorso con cui il presidente americano martedì ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele. «Adesso i leader occidentali prendono le distanze da Trump, ma vedrete che faranno marcia indietro e rimarranno alleati di Israele anche se nega i nostri diritti. Che possibilità ci lascia il mondo?». Imad termina la sua sfuriata lasciandoci tra le mani questo pesante interrogativo.
Già, cosa resta da fare ai palestinesi che hanno perduto tutto e ai quali un uomo che per quasi tutta la vita si è occupato di hotel, casinò, campi da golf e gustato cocktail a party di stile berlusconiano, ora nega anche solo una parte di Gerusalemme. Il fatto che Trump nel riconoscere Gerusalemme capitale di Israele non abbia pronunciato le parole magiche “capitale unita e indivisivile” che piacciono al premier Benyamin Netanyahu, non lascia un vero margine ad una trattativa futura sullo status della città. Israele per decenni ha ripetuto che non restituirà la parte araba di Gerusalemme che ha occupato nel 1967 e ora che ha in tasca il riconoscimento di Trump perché dovrebbe dirsi pronto al compromesso politico. Non sorprende che ieri il premier israeliano si sia mostrato sicuro del fatto suo quando ha detto, durante un incontro al ministero degli esteri, che lo Stato ebraico è in contatto con altri Paesi pronti, a suo dire, a seguire Washington. Fra questi, secondo il quotidiano Haaretz, ci sarebbero le Filippine. Ma Israele punta più in alto, alla Russia che nei mesi scorsi ha fatto un mezzo riconoscimento della parte ebraica, ovest, di Gerusalemme come capitale di Israele.
Cosa fare? Molti palestinesi l’hanno deciso ieri quando si sono riversati nelle strade di Gerusalemme, di Cisgiordania e Gaza per manifestare contro Israele e gli Usa. «Trump Trump you will see, Palestine will be free», (Trump vedrai, la Palestina sarà libera), scandivano decine di donne che si sono unite a centinaia di palestinesi radunati alla Porta di Damasco, l’ingresso principale della città vecchia, per gridare la loro rabbia. Alla periferia di Gerusalemme Est, Shuffat, Ramallah, Betlemme, Tulkarem e nella isolata Qalqilya, completamente circondata dal Muro israeliano, le manifestazioni sono sfociate in scontri con i soldati. Colonne di fumo nero si sono alzate dalle strade e l’odore acre dei pneumatici dati alle fiamme da giovani dimostranti ha inondato le città palestinesi come non accedeva da tempo. Alto il bilancio dei feriti, 114 secondo la Mezzaluna Rossa. E non è meno rilevante lo sciopero generale rispettato ovunque ieri nei Territori occupati. Oggi saranno trent’anni dall’inizio della prima Intifada (8 dicembre 1987), la rivolta popolare contro l’occupazione israeliana che riportò sui tavoli delle diplomazie internazionali la questione palestinese e che terminò nel 1993 con gli Accordi di Oslo tra Israele e Olp. Un appello per una terza Intifada è stato lanciato ieri dal leader di Hamas, Ismail Haniyeh, che ne ha già coniato il nome, “Intifada per la liberazione di Gerusalemme”. L’appello di Hamas sarà raccolto? Le previsioni non sono unanimi. Tuttavia gli scontri di ieri tra palestinesi e soldati israeliani sono un segnale preciso e potrebbero innescare un effetto domino. Israele ha aumentato le sue forze militari e di polizia in Cisgiordania e a Gerusalemme Est e nella notte di mercoledì ha detenuto 36 palestinesi in Cisgiordania, a Nablus, Hebron, Betlemme, Ramallah, Salfit e Jenin.
Non si può non notare il fiuto politico del leader di Hamas. Mentre il presidente dell’Anp Abu Mazen è andava da re Abdallah di Giordania per consultazioni sui passi da fare dopo la dichiarazione di Trump, Haniyeh si è rivolto a tutti i palestinesi. Per mobilitarli e per sottolineare che mentre Hamas incita a lottare, Abu Mazen continua a ricercare sostegni improbabili e il coordinamento con leader arabi legati a doppio filo agli Stati Uniti. La Giordania da parte sua è unito a Israele da un accordo sulla sicurezza. Collaborazione di sicurezza con Israele che l’Anp non cessa nonostante le politiche portare avanti del governo Netanyahu. Non un analista politico ma un semplice dentista di Gerusalemme est, George Harb, ieri ci spiegava con estrema chiarezza vorrebbero i palestinesi dall’Anp di Abu Mazen dopo l’annuncio di Donald Trump. «Vogliamo che Abu Mazen smetta di incontrare gli inviati americani e interrompa definitivamente i contatti con Israele e Stati Uniti perché sono inutili e dannosi. E – ha concluso – che si unisca alle altre organizzazioni palestinesi per decidere insieme la strada che porterà la libertà al nostro popolo».
Ieri sera l’aviazione israeliana ha bombardato Gaza – pare senza fare vittime – dopo il lancio di due razzi, o forse colpi di mortaio, dalla Striscia verso il territorio meridionale dello Stato ebraico.

Il Fatto 8.12.17
La grande rabbia araba resuscita anche l’Onu
Intifada nei Territori occupati. Anche il Papa critica la scelta di Trump su Gerusalemme. Oggi riunione del Consiglio di sicurezza
di S. Ci.

È il risveglio della rabbia e delle coscienze. Dell’odio di strada dei palestinesi che lanciano pietre e incendiano bandiere americane e israeliane e del disappunto dei leader del mondo che la decisione di Trump su Gerusalemme ha compattato in un coro unico dalle sfumature mai troppo dissimili. Così mentre oltre cento feriti degli incidenti che si accendono con l’intervento dell’esercito israeliano finiscono negli ospedali della Cisgiordania, Putin, Erdogan, il Papa, Amnesty international, e tanti altri leader e istituzioni, criticano pesantemente l’annuncio del presidente americano di iniziare a costruire tra sei mesi la nuova ambasciata Usa a Gerusalemme, dandole lo status di capitale dello Stato di Israele. C’è in ballo “la stabilità regionale”, monitano in un colloquio telefonico il presidente russo e quello turco, fino all’altro ieri tornato buon alleato degli israeliani e ora alla guida della protesta mediorientale contro Washington e Gerusalemme.
Guarda ben più ad altezza d’uomo che di geopolitica il parroco di Ramallah, capitale dell’entità statale palestinese: “Dopo 50 anni di occupazione militare, è arrivato il tempo di mettere fine a questa occupazione, cominciare a fare giustizia e lasciare i palestinesi vivere in pace nel loro Stato indipendente”, dice alla tv dei vescovi italiani padre Jamal Khader, sintetizzando bene la posizione della Chiesa cattolica, una delle religioni che considera santa la Città Vecchia confine tra Gerusalemme Ovest (israeliana) e Gerusalemme Est (araba) annessa dallo Stato ebraico nel 1967.
Il Consiglio di sicurezza Onu è stato convocato per una riunione di emergenza, mentre la Lega araba (strumento politico-diplomatico pressoché in disuso in questi anni di “primavere arabe”) farà lo stesso domani. Intanto l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) chiederà alle Nazioni Unite di delimitare i confini di Gerusalemme Est in base alle frontiere precedenti alla Guerra dei 6 giorni del 1967.
Non hanno superato i confini di Gaza i due razzi lanciati da una fazione indipendente contro Israele (che ieri sera ha condotto in risposta operazioni contro postazioni di Hamas) nonostante il gruppo che controlla la Striscia litoranea palestinese avesse chiesto di evitare provocazioni nel primo dei “tre giorni della rabbia” proclamati. La giornata più sensibile è oggi, venerdì di preghiera e di certo le proteste assumeranno proporzioni ancora maggiori.
La risposta unanime contro l’annuncio trumpiano rinsalda il mondo islamico e riporta in auge la causa palestinese tanto da appianare almeno in queste ore nel nome della protesta le distanze tra paesi arabi e addirittura tra sunniti e sciiti: anche Hezbollah (il partito di Dio libanese foraggiato dalla teocrazia sciita iraniana) ha annunciato per lunedì una giornata di sollevazione.
Nessun paese occidentale ha intenzione di seguire l’esempio degli Stati Uniti: a iniziare dal Canada in molti hanno escluso lo spostamento delle ambasciate da Tel Aviv, anche se il premier israeliano Netanyahu si è detto certo che “altri seguiranno l’esempio di Trump”.

Il Fatto 8.12.17
La faida palestinese che ha favorito i piani di Netanyahu
Il leader dell’Anp Mazen in difficoltà. La linea radicale di Hamas a Gaza ha fornito al premier israeliano il nemico che serviva per rinsaldare il potere
di Roberta Zunini


Sia The Donald sia il premier israeliano Netanyahu, a capo di una coalizione di governo religiosa e di destra, sapevano che la decisione americana di riconoscere Gerusalemme, nella sua interezza, capitale dello Stato di Israele avrebbe ridato fiato agli strali di Hamas e indebolito ulteriormente la già consunta leadership palestinese in Cisgiordania. Il movimento islamico che dal 2007 guida la Striscia di Gaza dopo una guerra-lampo con Fatah – partito leader da sempre in Cisgiordania – ha del resto fin dall’inizio dell’attività politico-bellica servito gli interessi della destra religiosa ebraica e i suoi sostenitori nel mondo della diaspora.
Gli oltranzisti ebrei che occupano dal 2009 ministeri chiave e buona parte della Knesset (il Parlamento ebraico) fin dalla nascita dell’organizzazione armata islamica hanno avuto la strada spianata per imporsi. E, con il tempo, mettere in scacco il moderato Likud guidato da Netanyahu. Che dallo scorso anno, ovvero da quando si sono intensificate le inchieste per corruzione e abuso d’ufficio a carico suo e della onnipresente First Lady Sarah, è ancora più sottomesso ai voleri dei partner estremisti e pii della coalizione. Il loro sostegno è fondamentale per consentirgli di gridare al complotto.
Perciò Bibi ha bisogno più che mai di una Hamas che sprona alla Terza Intifada. Non c’è nulla di meglio di una minaccia alla sicurezza nazionale della “Terra Promessa” per stornare l’attenzione dell’opinione pubblica dai propri guai interni. Non è inoltre un segreto che Hamas abbia ricevuto finanziamenti ambigui provenienti, secondo molti analisti, dall’intelligence israeliana. Ed è adamantino che ad Hamas faccia comodo la pericolosa decisione del duo Trump-Netanyahu. Non solo perché può rinnovare le sue accuse contro lo stato ebraico, a suo avviso palesemente intenzionato a cambiare lo status quo di Gerusalemme, piuttosto per tentare di guadagnare la popolarità persa durante la gestione della Striscia. E ci sta riuscendo visto che anche i palestinesi della Cisgiordania e di Gerusalemme Est a questo punto si rendono conto che Fatah e il suo anziano ed esausto rais Mahmud Abbas, più noto come Abu Mazen, non serve davvero più a nulla.
Se non a portare avanti l’illusione della ripresa del negoziato di pace per rassicurare la comunità internazionale, non certo i giovani palestinesi che non credono più da tempo all’ipotesi che Israele voglia davvero concludere l’occupazione e consentire la nascita di uno Stato palestinese viabile. Cioè con una continuità territoriale. Che non potrà mai esserci se le colonie ebraiche continueranno ad espandersi all’interno dei Territori palestinesi. La mossa di Trump annichilisce la dirigenza palestinese contro cui lo scorso anno c’erano state manifestazioni di piazza per la corruzione dilagante.
Intanto da due mesi le nomenklature di Hamas e di Fatah stanno lavorando assieme, si fa per dire, allo scopo di tradurre in decisioni e iniziative politiche la riconciliazione tra i due partiti avvenuta sotto l’ala di Al Sisi al Cairo.
Il vero leader, quello amato dai giovani palestinesi e dai duri e puri, ossia il 58enne Marwan Barghouti langue in prigione dal 2002 dopo le condanne a 5 ergastoli. Barghouti, che si rifiutò di presentare la propria difesa ai giudici israeliani non riconoscendone l’autorità, è ancora un membro di Fatah. Ma al proprio partito e agli avversari di Hamas il carismatico politico guerrigliero delle Brigate Tanzim, accusato di aver diretto la Seconda Intifada nata proprio sul timore del cambiamento dello status quo della città santa, è sgradito. Alle poltrone i rais palestinesi ci tengono. Tanto più con uno che potrebbe soffiare loro il posto non appena rimesso in libertà. Motivo per cui Barghouti finirà la propria vita dietro le sbarre.

Repubblica 8.12.17
E intanto Erdogan va alla conquista del Medio Oriente
Marco Ansaldo


Istanbul «Ehi Trump, cosa stai provando a fare?». Il tono è brusco, diretto, come del resto l’usuale approccio del leader turco. E la crisi di Gerusalemme diventa la grande occasione di Recep Tayyip Erdogan. Insperata, dopo i recenti dissapori con l’amministrazione americana che quasi avevano messo la Turchia in un angolo. Ma al Sultano si può imputare di tutto, tranne il fatto di essere un animale politico dall’enorme fiuto. E con i Paesi arabi formalmente uniti nella condanna, ma concretamente divisi nella risposta, il presidente turco si è insinuato come un falco nella divaricazione, ergendosi a nuovo player del Medio Oriente.
Con un attivismo espresso a 360 gradi. Mentre ieri stava con un piede sulla scaletta dell’aereo che l’avrebbe portato in Grecia nella prima visita di un Presidente turco da 65 anni ( quando non era ancora nato), al mattino aveva già dispiegato la sua strategia mollando sul tavolo l’asso: la telefonata con il Papa. «Proseguo i miei colloqui telefonici non solo con i leader degli Stati arabi e musulmani. Perché Gerusalemme è sacra anche per i cristiani e devo discutere la questione con il Papa». La diplomazia turca gli aveva prontamente segnalato che Francesco si era detto a favore dello status quo nella Città santa. Una posizione che, secondo fonti ufficiali di Ankara, Erdogan avrebbe condiviso ieri pomeriggio con il Pontefice al telefono e poche ore dopo ha fatto lo stesso anche con il presidente russo Vladimir Putin.
Allo Zar che il Sultano sente ormai più vicino dell’inquilino della Casa Bianca — da cui è rimasto deluso ( per appoggio ai curdi, mancata estradizione dell’imam Fethullah Gulen accusato del golpe, crisi dei visti consolari) — ha spiegato perché ha convocato il 13 dicembre in Turchia l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica. Quindi si è avviato verso altri colloqui telefonici, con i capi di Gran Bretagna, Francia, Spagna e Germania.
Come un vero ras del Medio Oriente, il leader turco conosce difatti a menadito i personaggi che aleggiano nella regione. E al di là delle condanne formali da loro pronunciate, ha colto al volo le differenze fra l’asse che per convenienze di vario tipo sostiene Trump ( composto da Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrein, Egitto) e quello che lo avversa (Giordania, Iran, Siria, Iraq, Hezbollah). A tutti loro, il Sultano che guarda con nostalgia al ritorno dell’Impero ottomano ha detto: «Riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele equivale a gettare il Medio Oriente in un cerchio di fuoco ». La Turchia si è subito riversata in piazza. Da Istanbul all’Anatolia, dal Mar Nero fino al Sud est.
A mezzogiorno si è infilato sul jet di Stato e in meno di un’ora era ad Atene. Per una visita di 48 ore ricca di attese e nodi da sciogliere. Ha chiesto l’estradizione di otto ufficiali considerati golpisti. Suggerito “ l’aggiornamento” del Trattato di Losanna che definisce i confini di Turchia e Grecia. Affrontato la questione dell’isola di Cipro. Poi, affari e commerci per gli interscambi bilaterali. Instancabile, stamane sarà nella regione della Tracia divisa a metà con la Grecia, per incontrare la minoranza musulmana e partecipare alla preghiera islamica del venerdì nella Moschea Vecchia di Komotini. Con l’obiettivo di compattare intorno a sé, nel segno della religione, tutti i seguaci. Quelli vecchi e i nuovi da conquistare.

Repubblica  8.12.17
Assaf Gavron
“La mossa degli Stati Uniti è l’ultima cosa che ci serviva. Così vince soltanto la destra estrema”
di Anna Lombardi


ROMA «Il riconoscimento di Gerusalemme capitale da parte di un presidente razzista e che ha strizzato l’occhio a gruppi neonazisti come Donald Trump era proprio l’ultima cosa che a noi israeliani serviva». Assaf Gavron, 48 anni, è uno degli scrittori contemporanei più affermati del Paese. Nei suoi libri, da La mia storia, la tua storia a La collina da tempo racconta le ragioni di entrambi, israeliani e palestinesi.
Non le sembra un riconoscimento simbolico importante?
«Gerusalemme è già di fatto riconosciuta dal mondo come capitale, visto che è lì che presidenti e premier da sempre vanno a incontrare i leader israeliani. Dunque è un riconoscimento inutile: che interessa soprattutto all’estrema destra israeliana e naturalmente al mondo arabo, che si sta già infiammando. E compattando».
Hamas già chiama alla nuova intifada.
«Non ho più paura di tante altre volte, ma ci sono già scontri e violenze: gli effetti negativi si sentono già e se ci scapperà anche solo un morto, com’è facile in una situazione come questa, sarà la conferma che non ne è valsa la pena. Trump ha fatto un gesto che non cambia nulla, visto che alla fine non sposterà nemmeno l’ambasciata. E probabilmente l’ha fatto proprio per far dimenticare che non sposta l’ambasciata: una delle sue promesse elettorali. Per molti israeliani, insomma, una situazione bizzarra».
Trump lo ha fatto per compiacere i donatori pro Israele e compattare la destra che lo sostiene: così almeno sostiene il “New York Times”.
«Ne sono convinto. Una mossa cinica fatta per sé stesso.
Accontenta i donatori, certo. Ma soprattutto distoglie l’attenzione dal Russiagate e dai suoi guai. Una mossa, in questo senso, che fa comodo anche a Bibi Netanyahu».
Cosa intende?
«Proprio come per Trump, anche a lui un po’ di caos servirà a distogliere l’attenzione dall’indagine per corruzione che lo riguarda. Poi, certo, per la destra israeliana è un riconoscimento dei propri valori: e dunque in questo senso è un successo. Ma non so se lo sarà sulla lunga durata».
Perché?
«Trump potrebbe chiedere un prezzo per quel gesto che ora la destra tanto acclama. Nello stesso discorso in cui ha riconosciuto Gerusalemme ha anche detto che crede nella soluzione dei due Stati: potrebbe dunque chiedere compromessi tipo, che so, lo smantellamento di alcuni insediamenti. Questo alla destra non piacerebbe certo. Anche perché, ed è triste constatarlo, all’attuale governo di Israele il processo di pace interessa sempre meno».

il manifesto 8.12.17
Visita storica di Erdogan a Tsipras ma tra i due leader restano le distanze
Grecia-Turchia. Il presidente turco insiste, inutilmente, per rivedere il Trattato di Losanna
di Theodoro A. Synghellakis, Fabio Veronica Forcella


Il presidente Erdogan ha iniziato ieri la sua visita ufficiale in Grecia, che si conclude oggi nella Tracia occidentale. Si tratta del primo viaggio di un presidente turco ad Atene dopo 65 anni. Un invito formulato nel quadro di una real-politik volta a migliorare i rapporti con un vicino ingombrante, che spesso si allontana dal rispetto degli standard di legalità internazionali.
Nella migliore delle sue tradizioni, Erdogan ha usato un doppio registro, evidentemente a uso e consumo della propaganda all’interno della Turchia. Nel corso del colloquio con il presidente della repubblica greca, Prokòpis Pavlòpoulos ha alzato i toni, dichiarando davanti ai giornalisti che «per quel che riguarda il Trattato di Losanna, ci sono delle questioni rimaste in sospeso, che non sono state comprese nel modo giusto».
Si tratta, appunto, del trattato del 1923 con cui sono stati definiti i confini tra i due paesi, lo status del Patriarcato Ecumenico di Istanbul e si è deciso quali zone dovessero riguardare lo scambio di popolazioni. Un punto di riferimento essenziale, quindi, per i rapporti tra i due paesi, che la Turchia cerca di rimettere in discussione (Erdogan ha parlato della necessità di «aggiornamenti») minando, di fatto, il diritto internazionale.
La risposta del presidente greco non si è fatta attendere: in diretta tv, Pavlòpoulos gli ha detto chiaramente che «il Trattato di Losanna non è oggetto di discussione e trattativa» e che non si può parlare né di un suo aggiornamento, né di una sua revisione.
Mentre, nel corso dell’incontro con Alexis Tsipras, il «neo sultano» di Ankara ha deciso di ammorbidire, in parte, i toni, pur rimanendo netta la distanza tra i due paesi per quel che riguarda questioni di primaria importanza.
Ha ripetuto che «ultimamente si parla molto di una riforma del trattato di Losanna», ha chiesto l’estradizione di otto militari rifugiatisi in Grecia e accusati dal suo governo di aver preso parte al fallito golpe del 2016 ed ha sottolineato che gli abitanti musulmani della Tracia occidentale hanno un reddito più basso della media dei cittadini greci.
Tsipras ha risposto, senza troppi sotterfugi diplomatici, che «il rinnovamento dei rapporti tra i due paesi può avvenire solo nel quadro del totale rispetto del Trattato di Losanna» e quindi «del diritto internazionale».
Quanto agli otto militari turchi (che hanno chiesto asilo politico) ha ripetuto che «in Grecia vige la divisione dei poteri» e che quindi «la giustizia è indipendente e le sue decisioni vengono rispettate da tutti».

Il Fatto 8.12.17
Scudi umani a difesa di sua altezza Boschi
di Daniela Ranieri


Difendere l’indifendibile, nello specifico la sottosegretaria Boschi dal sospetto di incarnare un conflitto di interessi in quanto rappresentante del governo e insieme curatrice delle questioni relative al fallimento della banca vicepresieduta dal suo babbo, è un’impresa titanica che non riuscirebbe nemmeno al chiacchierone contaballe Matteo Renzi (che infatti se ne guarda bene). Perciò al Nazareno ogni martedì si tiene una sessione di schiaffo del soldato. A turno, ogni parlamentare, ministro e dirigente, fino all’ultimo galoppino del Pd, viene fatto voltare verso il muro mentre un altro gli sferra uno schiaffo sulla nuca. Se lo schiaffeggiato indovina chi è stato, si salva. Quello che prende più schiaffi viene inviato nei talk della sera.
Martedì è stata una strage di scudi umani. Esentato Fiano (specializzato nella difesa di babbo Renzi, perinde ac cadaver), nel pomeriggio finisce a SkyTg24 tale Federico Gelli – che di schiaffi deve averne presi parecchi, per essere mandato con quel cognome a difendere una tizia chiacchierata di far parte di un cerchio che emana uno “stantio odore di massoneria”. Naturalmente scout, ovviamente toscano, eletto con Renzi nel 2013 (col Porcellum, come la Boschi), para i colpi di Fabio Rampelli di FdI con una vocazione al martirio da cavaliere medievale, blaterando di “inchiesta politica”, “gogna” e “garantismo” come neanche i berlusconiani si sognano più di fare davanti a testimoni.
A sera, a #cartabianca finisce disgraziatamente Ivan Scalfarotto. Sul perché il pm di Arezzo Roberto Rossi (ex consulente del governo Renzi) avrebbe mentito o omesso alla Commissione d’inchiesta sulle banche circa altre indagini a carico di babbo Boschi, Scalfarotto enuncia: “Ma perché un magistrato dovrebbe mentire?”. Dal che si evince che la linea di difesa al Pd la scrive l’usciere. Con la salivazione azzerata, davanti alle logiche domande di Berlinguer e De Bortoli, Ivan farfuglia delle altre banche fallite oltre a Banca Etruria, come se il punto non fosse che la Boschi, come scrive De Bortoli nel suo libro, da ministra delle Riforme (incompetente in vari sensi) si rivolse all’amministratore delegato di Unicredit Federico Ghizzoni per chiedergli di valutare una possibile acquisizione di Banca Etruria, giurando poi in Parlamento di non essersi mai occupata del dossier. Nell’intento di compiacere il capo e la di lui amica ma impossibilitato dal principio di realtà, Scalfarotto balbetta, ha la lingua felpata, grida: “Se la smettiamo di fare processi sui giornali… vogliamo parlare di Consip?”. Poi dà la colpa ai giornali per la mancata vigilanza sulle banche. Chiude dicendo “la Boschi non ha mai annunciato una causa per diffamazione”, il che è chiaramente, pateticamente falso. Verso le 23, viene rinvenuto in via Teulada in evidente stato confusionale.
In contemporanea, al funereo Ettore Rosato tocca la difesa d’ufficio a DiMartedì. Poveretto! Ripete a pappagallo il copione contenuto nel kit dello scudo umano della principessina Boschi: Etruria è stata commissariata dal governo Renzi (falso: da Bankitalia); la colpa è dei giornali che fanno la guerra al Pd diffamando Boschi (che peraltro non si sente affatto diffamata, visto che non ha querelato De Bortoli per diffamazione ma l’ha denunciato per danni). E, soprattutto, babbo Boschi non ha ricevuto alcun avviso di garanzia (siamo alla fase freudiana della negazione), o forse sì, ma per “falso in prospetto”, reato risibile inventato apposta per fregarlo.
Premio della critica a Beppe Severgnini, ospite di Otto e mezzo. Senza manco essere sotto schiaffo, si sente lo stesso il friccico del protettore di rango: dice di credere a De Bortoli, suo amico e direttore, e però, contestualmente, lamenta un “linciaggio mediatico” nei confronti della Boschi. Povera stella. Come se stesse scritto da qualche parte che questa “giovane donna” (fosse un anziano signore lo si potrebbe pure linciare) deve avere ruoli rilevanti nel governo del Paese. Come se la innocua fanciulla non avesse tentato di “riformare” la Costituzione, o non si potesse metterne in discussione il “merito”, uno dei feticci falsi di questa pseudo-classe di miracolati toscani a vario titolo legati a Renzi. Vediamo quanti voti prenderà, questo genio incompreso della Repubblica (anche se proprio Rosato ha scritto una legge che consentirà di farla agevolmente “eleggere” nel listino bloccato del proporzionale).

Il Fatto 8.12.17
Arriva la norma per portare Bonino nella coalizione
Un emendamento alla manovra taglia del 75% le firme necessarie per presentarsi alle Politiche: una richiesta dei Radicali
di Marco Franchi


Tutte le difficoltà in cui si dibatte il Pd in questa fase nascono da una bizzarra scelta di fondo: distruggere la propria coalizione e contemporaneamente proporre una legge elettorale in cui un terzo dei seggi vengono assegnati da collegi uninominali (in cui servono le coalizioni). Accortisi della stranezza, i democratici stanno tentando di costruirsi in fretta qualche alleato, ma la faccenda è complicata: Giuliano Pisapia ha mollato per l’eccessiva inconsistenza del suo stesso progetto (fare il lato sinistro di Renzi mentre c’è una scissione a sinistra); Alfano e i centristi non hanno voti e in sostanza non esistono più. Ora verranno partorite due liste raccogliticce: una centrista (cioè all’ingrosso democristiana), una “laica” coi rimasugli dei rimasugli. Ci saranno ex sindaci arancione, qualche verde, qualche vendoliano, qualche socialista e, visto che nella manovra è stata inserita la norma ad hoc sulle firme, anche i Radicali italiani di Emma Bonino & C (sarebbe la lista “+Europa”).
Ieri sera una delegazione dei “piùeuropeisti” – composta dal sottosegretario Benedetto Della Vedova e dal segretario dei Radiali Riccardo Magi – è stata pure ricevuta da Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi: il tema dell’incontro era proprio quello delle troppe firme da raccogliere (oggi 750 in ognuno dei 63 collegi plurinominali in cui si vuole presentare una lista). “Abbiamo ribadito al presidente del Consiglio la questione di rendere praticabile un campo che oggi è impraticabile, quello della partecipazione alle elezioni”, ha dichiarato alla fine Della Vedova. Quanto all’accordo col Pd, “al momento non è in programma alcun incontro: La condizione per ogni decisione è che il campo delle elezioni sia praticabile”. In sostanza, prima vedere cammello.
E il cammello, per così dire, è in arrivo. Ieri i democratici hanno presentato un emendamento a prima firma Alan Ferrari che fa scendere le firme da raccogliere per singolo collegio a 375, obiettivo abbordabile e che soddisfa la costituenda lista radicale più altri sparsi. Sempre Della Vedova: “C’è stata una iniziativa del Parlamento in questo senso. La via maestra è quella, vediamo cosa accade nei prossimi passaggi”. Comunque prima vedere cammello.
Pure con questa “Rosa nel pugno 2.0” da una parte e i democristiani che metterà insieme da Pier Ferdinando Casini dall’altra non proprio un’invincibile armata. Quel che pare pensare anche Romano Prodi, che ieri mattina a Roma ha lanciato due o tre granate in direzione Nazareno: “Non tutte le frittate finiscono col venir bene… Quella di Pisapia non è stata una defezione, perché non aveva deciso: ha studiato il campo e poi ha concluso che non era cosa”. Il Professore sembra guardare al futuro, ma forse non al 2018: “Il processo va avanti. Si tenterà di nuovo perché è un processo importante ed utile al Paese. Pisapia ha esplorato e non ha trovato in se stesso o nel gruppo di riferimento motivazioni per andare avanti. E questo mi dispiace”. E quindi? “Il problema – secondo Prodi – è che bisognerebbe ricominciare da capo. Io a suo tempo non ho inventato granché, ma c’era un disegno preciso di mettere insieme forze e contenuti. Mi criticarono per il programma di 400 pagine, ma quello di 140 caratteri non è molto più soddisfacente. Un programma politico può anche essere di sei volumi. Ma con una coalizione ampia si deve scrivere. È realismo”. Parole che l’accenno a Twitter garantiscono rivolte a Renzi: un progetto politico non si costruisce così.

Il Fatto 8.12.17
Il vero voto utile è andare a votare
di Antonio Padellaro


Mettiamoci nei panni di un cittadino elettore sufficientemente informato (meno di un tempo ma ne esistono ancora), che decida di mettere in fila le notizie politiche delle ultime settimane per capirci qualcosa. Fatta la somma e tirata una riga, come potrebbe non abituarsi all’idea che, molto probabilmente, il voto di primavera (compreso il suo) sarà pressoché ininfluente rispetto al prossimo governo (o non governo) del Paese? Vediamo perché.
Il sistema elettorale, innanzitutto, che sembra tagliato su misura per evitare la creazione di maggioranze politiche certe, come ci dicono concordemente i sondaggi con immutabile cadenza. Quanto al partito che avrà preso più voti degli altri – prevedibilmente il M5S – non è detto che riceva dal Quirinale l’incarico di formare il nuovo governo se non dimostrerà, prima, di avere tutti i numeri per ottenere la fiducia dalle Camere. “Le elezioni non sono mica la Milano-Sanremo dove chi arriva primo vince” (Massimo Bordin, Radio Radicale). Quindi, per cortesia, Luigi Di Maio stia pure sereno.
Il sistema finanziario che tifa apertamente per soluzioni di governo “istituzionali”, approvate dall’Europa e a bassa intensità partitica. Michael Hartnett (Merrill Lynch-Bank of America) ha dichiarato nei giorni scorsi a Radiocor Plus: “Noi e i nostri clienti abbiamo un interesse enorme nelle elezioni italiane. Non c’è dubbio che il mercato sia posizionato presupponendo che Mario Draghi continui a vincere e la politica continui a perdere in termini di impatto sui mercati”. Più chiaro di così? Del resto, sono sei anni che, con il beneplacito di Bruxelles, a Roma si succedono governi nominati a garanzia del gigantesco debito pubblico italiano. E presidenti del Consiglio indicati (commissariati) dall’alto: da Mario Monti a Enrico Letta a Matteo Renzi a Paolo Gentiloni. L’ultimo premier eletto dal popolo è stato Silvio Berlusconi e sappiamo come andò a finire.
Il sistema parlamentare che ha perso la propria centralità. Farsi eleggere in Parlamento non è più la condizione prioritaria per “comandare”. Al contrario, i leader più influenti degli ultimi anni sono in qualche modo extraparlamentari: Berlusconi, Renzi, Beppe Grillo. Colpisce che con storie diverse e per ragioni diverse, personaggi come Angelino Alfano, Carlo Calenda, Giuliano Pisapia abbiano deciso di giocare le proprie carte stando fuori da Montecitorio o da Palazzo Madama. Scelte di vita (Alfano che vuole “cercarsi un lavoro”, mah)? Oppure calcolo oculato? Ovvero: con una legislatura breve come potrebbe essere la prossima non è meglio stare fermi un giro? Per poi ripresentarsi freschi come boccioli. È un conto che si fanno anche nella sinistra-sinistra di Rifondazione comunista (più No Tav e centri sociali) che non confluirà nel cartello elettorale della sinistra di “Liberi e Uguali” guidato da Pietro Grasso. Piuttosto che dilaniarsi per un pugno di seggi preferiscono stare fuori. In attesa di Luigi De Magistris.
Il sistema Gattopardo del tutto deve cambiare perché tutto resti come prima. È la formula della prorogatio dell’attuale governo (Antonio Polito, Corriere della Sera) che prevede uno scenario “spagnolo” dopo la chiusura delle urne. Basta che Paolo Gentiloni non finisca sfiduciato per qualche motivo ed ecco che il suo esecutivo, in mancanza di un’alternativa praticabile, potrebbe rimanere in carica, di proroga in proroga, fino all’estate. Qualcuno azzarda perfino l’ipotesi di una staffetta con Mario Draghi (vedi auspici di Merryll Lynch) ma qui saremmo in pieno fantasy visto che il presidente della Bce scade il 31 ottobre 2019.
Il sistema Renzi: ovvero meglio perdersi che perdere tutto. Non bastasse il calo costante nei sondaggi e il fallimento del partitino della Nazione, snobbato perfino da Alfano e Pisapia, il segretario del Pd non c’è rimasto bene quando ha appreso che le cose peggiori che gli rimprovera la base del suo stesso partito sono accidenti la riforma della scuola e il Jobs Act (la migliore: le unioni civili). Proprio le “riforme” che è andato sbandierando per la penisola a bordo del fischiatissimo treno. Disastri a vagonate che tuttavia non sembrano scuoterlo troppo. Da tempo lo statista di Rignano ha capito che non toccherà più a lui dare le carte della politica italiana. Si accontenta perciò di essere ammesso, quando sarà, al tavolo delle possibili larghe intese con un 20/25 per cento dei voti, sufficienti per contare qualcosa. Poi si vedrà.
A questo punto il nostro ipotetico elettore-elettore potrebbe domandarsi: se questo è il quadro, se tutto è già scritto, a cosa può servire il mio voto? Attenzione, il voto ininfluente si fonda proprio sull’astensionismo della rassegnazione e dell’indifferenza. Se per assurdo dovesse votare anche solo il 10 per cento del popolo italiano, la torta da spartire sarebbe sempre la stessa. Mentre un’affluenza alle urne, tra il 60 e il 70 per cento, sui livelli del referendum di un anno fa, sicuramente scombinerebbe i giochi di chi considera le elezioni cosa loro. Il vero voto utile è questo.

Il Fatto 8.12.17
Banca Etruria. L’audizione di Ghizzoni che spaventa Maria Elena Boschi
di Alessandro Ianni


La testimonianza dell’ex amministratore delegato di Unicredit Federico Ghizzoni è essenziale per risolvere il contrasto tra Maria Elena Boschi e De Bortoli sull’intervento (richiesto?) di Unicredit in Banca Etruria. Poiché sembrerebbe che la Commissione d’inchiesta non abbia il tempo di audirlo, non sarebbe comunque opportuno (necessario) che Ghizzoni si esprima comunque al riguardo? Non potrebbe inviare alla Commissione una dichiarazione giurata in cui chiarire se le cose sono andate (o non andate) come ha scritto De Bortoli nel suo libro? Ciò, tra le altre cose (in primis, se la Boschi ha mentito in Parlamento), farebbe luce anche su questa azione civile che la Boschi ha anticipato di voler intraprendere contro De Bortoli.
Caro Ianni,siccome non ogni giorno, ma ogni minuto ha la sua pena, io non saprei proprio dirle se Ghizzoni verrà audito dalla Commissione banche o no. Al momento, mentre scrivo (sono le ore 18.17 del 7 dicembre), parrebbe di sì, visto che il suo nome è nella lista approvata l’altroieri dai commissari. Ma è pur vero che quella lista include un’infinità di persone, più o meno da Adamo ed Eva in giù, dunque è sempre possibile che i renziani tentino qualche manovra dilatoria per allontanare dalla Boschi l’amaro calice di un’audizione che potrebbe smentire la sua versione. Che, fra l’altro, non è ben chiara. Inizialmente la Boschi negava sdegnosamente di aver chiesto a Ghizzoni di salvare, fra le 7 banche decotte, proprio quella vicepresieduta da suo padre. Poi Renzi, nel suo libro, scrisse che non c’è nulla di male se un ministro parla di banche con un banchiere (sorvolando sul fatto che De Bortoli non ha scritto che la Boschi parlava di banche con Ghizzoni, ma gli chiedeva di salvarne una, guardacaso proprio Etruria, senza peraltro avere alcun titolo per occuparsi di dossier finanziari). L’altra sera, a Porta a Porta, la Boschi è parsa correggere il tiro, negando di aver mai “fatto pressioni”: ma De Bortoli non parlava di pressioni, bensì di una semplice richiesta (che poi, provenendo da un ministro di primissimo piano, almeno all’epoca dei fatti, era ben più di una pressione, oltreché un’entrata a gamba tesa in pieno conflitto d’interessi). Non credo che Ghizzoni possa inviare, se nessuno glielo chiede, una dichiarazione giurata con la sua versione, essendo vincolato da un patto di segretezza sottoscritto all’uscita da Unicredit. Solo una convocazione in commissione (che ha i poteri della magistratura) o una richiesta di intervento scritto può liberarlo da quel “voto di silenzio”.

La Stampa 8.12.17
Le illusioni dei partitini svaniscono
di Lucia Annunziata

qui

Repubblica 8.12.17
Intervista
Giuliano Pisapia
“Ho provato a unire due sinistre sorde Ora finirà male come in Sicilia”
intervista di Stefano Cappellini


ROMA Pisapia, cominciamo dalla fine. La sua scelta di non candidarsi alle politiche è un ritiro dalla contesa elettorale? O addirittura dalla politica?
«La parola ritiro non l’ho mai usata.
Già la scorsa primavera avevo dichiarato che non mi sarei candidato. Per me la politica è quello che diceva don Milani, uscire insieme dai problemi, non solo competere per un seggio. Quella è la politica che continuerò a fare, perché dall’impegno civile non ci si ritira».
I suoi critici le obiettano che da mesi era chiaro che un’unità tra il campo renziano e anti-renziano era impossibile. È stata un’ingenuità sperarci?
«Quando, nel dicembre 2016, è nato Campo progressista, il mondo della sinistra non era ancora così drammaticamente diviso. E ancora non era neppure ipotizzata una legge elettorale devastante come quella approvata dal Parlamento.
Era giusto provarci».
Il Pd ha virato sul Rosatellum proprio per tornare alle coalizioni.
«Questa legge non prevede coalizioni vere, ma apparentamenti. Non ci sono primarie, non c’è un candidato premier comune, non c’è un programma condiviso. Sarebbe servito, quantomeno, il voto disgiunto. Lo dissi a Gentiloni, in tempi non sospetti, che questa legge elettorale era una follia».
Eppure l’alleanza con il Pd pareva quasi fatta. E’ stato lo slittamento dello Ius soli in Senato a far precipitare tutto?
«No. Personalmente ho apprezzato l’impegno di Piero Fassino e di altri esponenti del Pd: aperture ci sono state sulla legge di stabilità, come la progressiva eliminazione dei superticket sanitari e l’estensione della cassa integrazione per le aziende in crisi, ma su temi fondamentali quali il precariato, la tutela del lavoro, la cittadinanza, il perimetro delle alleanze, non c’è stata alcuna certezza. Per noi non era possibile avere come alleati chi contrastava l’approvazione di leggi di civiltà come biotestamento e ius soli e ha una visione diametralmente diversa dai valori della sinistra. In molti, dei nostri è aumentata la sfiducia nella possibilità di un accordo. Ho preso atto di questa divisione e ne ho tratto le conseguenze».
Minniti dice che sullo Ius soli è ancora tutto aperto.
«Per fare un accordo servono certezze. Se lo Ius soli sarà legge non possiamo saperlo il giorno prima di fare le liste».
Si parla molto dei “rancori personali”, però l’impressione è che ormai esista davvero un fossato tra le sinistre in termini di programma.
«In generale, penso che non sia una buona idea rottamare. Né le persone né i provvedimenti. Non si costruisce demolendo, ma accettando con umiltà le critiche e migliorando. Il paradosso è che molte delle cose che dividono sono state votate da entrambi».
Dice Tabacci: Renzi non ha mai creduto davvero alla coalizione.
«Questo andrebbe chiesto a Renzi.
Posso dire che se da un lato il Pd ha dato prova di voler ascoltare la nostra voce, dall’altro non vi è mai stata una seppur timida autocritica sulle politiche degli ultimi anni.
Campo Progressista chiedeva discontinuità, non abiure».
Un passo avanti di Gentiloni, o di un altro candidato premier con un programma rinnovato, l’avrebbe convinta a restare in campo?
«Sarebbe stato un segno di discontinuità importante, ma con i “se” non si fa la storia».
Per mesi l’hanno rappresentata come un pendolo tra le due sinistre. Ha mai davvero preso in considerazione l’idea di candidarsi con i fuoriusciti dem contro il Pd?
«No, mai. Ho sempre pensato che due sinistre, incapaci di arrivare a sintesi, sono destinate a perdere. Il mio progetto originario è sempre stato quello del modello Milano, e di tante altre amministrazioni locali, dove è stata sconfitta la coalizione di destra e il Movimento cinque stelle non ha toccato palla. È per questo che ho lavorato con caparbietà e non ho mai cambiato idea. Forse mi sono fidato troppo di chi ci ha chiesto di fare un percorso con noi, dicendo che condivideva il nostro progetto, ma che, in buona o cattiva fede, aveva altri obiettivi».
Come giudica la scesa in campo di Grasso?
«Confido che il presidente Grasso, col quale ho un rapporto di stima e di amicizia, farà di tutto per attenuare le già troppe divisioni esistenti. Bisogna evitare quanto meno che la campagna elettorale si trasformi in una lotta fratricida».
È vero che, nel vostro colloquio privato al Senato, lei gli sconsigliò di accettare una leadership di parte?
«No, e comunque non sono abituato né a dare consigli non richiesti né a riferire in pubblico il contenuto di conversazioni private. Certo, la presenza di una personalità di rilievo alla testa di tre soggetti politici che faticavano a trovare una leadership nuova, ha creato un effetto di attrazione».
Perché la destra riesce a compattarsi pur in presenza di divergenze forti al suo interno mentre la sinistra è vocata al frazionismo?
«Questo è un cruccio di molti. Penso che a destra non si vada tanto per il sottile pur di arrivare al potere.
Potere inteso come aggettivo, non come verbo. Ma è impossibile poter fare le cose che si dicono quando si dicono cose così diverse. Purtroppo la destra e i populisti stanno raccogliendo il consenso cavalcando le paure delle persone e forse perché sono dotati di una dose di cinismo superiore alla nostra».
Ha sentito cosa dice Prodi del suo tentativo? “Non sempre le frittate riescono”.
«Prodi è stato carino con me, sa tutto l’impegno che c’ho messo».
Gli elettori di centrosinistra devono rassegnarsi ad assistere alla contesa tra Berlusconi e Grillo?
«I sondaggi segnano questa tendenza. E purtroppo in Sicilia è andata proprio così. Temo che la lezione non sia servita».
Si rimprovera qualcosa? C’è qualcosa che non rifarebbe o, al contrario, qualcosa che avrebbe dovuto fare?
«Non ho mai creduto nell’uomo solo al comando e ho sempre cercato il dialogo e il confronto. Credo ancora che solo un centrosinistra radicalmente innovativo, che sappia unire anime e storie diverse, che hanno però lo stesso obiettivo, sia l’unico modo per dare una speranza a chi ha perso ogni speranza e per evitare che alla fine vinca il partito dell’astensione. Certamente ho fatto anche io errori ma non sono pentito di aver provato a indicare la strada dell’unità. Ma prendo atto che oggi non è percorribile».

La Stampa 8.12.17
Resa dei conti sul Jobs act
Blitz della minoranza Pd e il governo finisce battuto
Più risarcimenti ai licenziati. Marcia indietro dopo il flop con Pisapia
di Carlo Bertini


«Ma che davvero volete mandare sotto il governo a due mesi dalle elezioni sul Jobs act?», aveva chiesto incredula, alla riunione del gruppo Pd della commissione Lavoro, Irene Tinagli, ex Scelta Civica, fiera sostenitrice dell’attuale impianto della riforma. Ma è quello che puntualmente è avvenuto ieri: il governo, nella persona di Luigi Bobba, sottosegretario del ministro Poletti, chiede il ritiro e poi si dichiara contrario a due emendamenti della commissione. Uno sulla governance dell’Inps (che introduce una riforma ordinamentale tramite la legge di bilancio), l’altro sul raddoppio degli indennizzi ai lavoratori per i licenziamenti senza giusta causa. Il presidente della Commissione, Cesare Damiano, però non lo ritira e il testo viene approvato con i voti Pd.
La materia è bollente ed è entrata due settimane fa nella trattativa con Giuliano Pisapia. Non solo: con la premessa «non rinneghiamo ciò che abbiamo fatto», nella dichiarazione di voto contro il ripristino dell’articolo 18 chiesto da Mdp, Ettore Rosato in aula alla Camera aveva detto che il Pd era disponibile a ragionare, dati alla mano, su un aumento degli indennizzi, se fosse stato utile per la coalizione. Insomma era il punto di mediazione con la sinistra.
Ma ieri è deflagrato il cortocircuito: Damiano è uno dei big della minoranza che fa capo a Orlando. Con questa piattaforma, mirata a rendere meno conveniente per le imprese licenziare, ha accompagnato Fassino quando tentò di far entrare Mdp nella coalizione. E ora la rivendica. Quando la trattativa con Pisapia era al suo apice, dal governo informalmente vi fu una cauta apertura su questa correzione al Jobs act, sgradita alle imprese. «Ma oggi che con Pisapia è finita la storia, il governo tira i remi in barca e non accetta più una modifica che Renzi non ha mai amato», ammette un pezzo grosso del Pd per spiegare cosa sia successo.
Fatto sta che il Partito democratico in Commissione va in ordine sparso e il risultato è un caos: al momento clou, esponenti della maggioranza Pd di varie correnti, Rotta, Gribaudo, Tinagli, Di Salvo, Lavagno, Arlotti, Rostellato, non votano il raddoppio da 4 a 8 mesi delle mensilità minime e da 24 a 36 di quelle massime come risarcimento per i licenziati nelle aziende con più di 15 dipendenti. L’emendamento a prima firma Damiano dunque passa però con i voti degli altri membri della commissione, che fanno capo tutti alla minoranza. Un fattaccio tutto «interna corporis» al Pd, visto che in Commissione non c’era nessuno delle opposizioni, presenti solo Prataviera e Auci del Misto. «La minoranza ha forzato la mano sapendo che il governo sarebbe andato sotto», commenta una deputata sdegnata. La Rotta è imbarazzata. «Speriamo che tutto si chiarisca, non esiste che Commissione e governo vadano in due direzioni diverse».
Il paradosso è che i deputati della maggioranza Pd che non sono contrari sul merito, non potendo andare contro il governo per gli evidenti riflessi politici, preferiscono non partecipare allo scrutinio. Ma non lasciano agli atti un voto contrario.
Anche tra i renziani meno ortodossi c’è chi sostiene che «non si possono fare ritorsioni per quanto successo con Pisapia e bisogna correggere il Jobs act». Fatto sta che questo emendamento non si trasformerà in norma: la Commissione Bilancio boccerà tutto. «Abbiamo voluto dare un segnale di correzione all’attuale normativa perchè oggi licenziare costa troppo poco ed è troppo facile», dice soddisfatto Damiano. Ma al di là della bandiera piantata dalla minoranza Pd, il caso è sintomatico della confusione che regna sovrana tra i dem dopo il flop delle trattative a sinistra.

La Stampa 8.12.17
“Rottamiamo i pasdaran attorno a Renzi o andiamo a sbattere contro un muro”
Cuperlo: giusto alzare l’indennità, il governo deve ascoltare
di Andrea Carugati


«Se non c’è subito una correzione di rotta, il Pd alle elezioni rischia di andare contro un muro», avverte Gianni Cuperlo, della sinistra dem.
Che giudizio dà sul ritiro di Giuliano Pisapia dalla coalizione?
«Provo amicizia e stima verso Giuliano. Si è proposto come federatore di un campo che invece è imploso. Bisogna prenderne atto e affrontare la campagna elettorale con due sinistre di governo divise. La sola certezza da non rimuovere è che l’avversario è a destra e non la forza più vicina a noi».
Renzi sostiene che si possa andare comunque avanti con altri partner minori.
«Vorrei che rispondessimo a un principio di verità. A oggi il centrosinistra non c’è più ma se siamo arrivati a questo è anche per ragioni che precedono il tentativo di Pisapia. Penso a tante, troppe, rotture fino allo strappo sulla legge elettorale. Avevo supplicato il Pd di aprire al voto disgiunto perché era il modo di non chiudere ogni spiraglio verso una coalizione più ampia e flessibile. Si è pensato che fatta la legge tutti sarebbero scesi a patti. Che miopia!».
Di chi è la responsabilità ?
«Quando ci si spezza, una quota di responsabilità ricade su ciascuno. Ma se parliamo del Pd vedo una inadeguatezza e una mancanza di sensibilità del gruppo dirigente che ha portato all’isolamento di adesso. Il referendum e le urne lo hanno certificato più volte ma si è preferito non vedere».
Renzi rivendica i risultati del suo governo e di quello attuale. E’ mancata l’autocritica?
«Io rivendico le cose positive di questi anni. Ora chiedo a Renzi e Gentiloni di non mollare la presa e approvare fine vita e ius soli. Ma non si possono ignorare limiti e errori che hanno segnato riforme vissute da molti come delle ferite. Di questo non ci si è voluto far carico, ma non puoi per anni ignorare o aggredire la sinistra, dentro e fuori al Pd, salvo poi mandare Fassino a cercare un’intesa a tempo scaduto».
Crede che Renzi dovrebbe fare un passo indietro e lasciare la guida della coalizione ad altri?
«Credo che si dovrà discutere di tutto. Al gruppo dirigente chiedo buon senso e cura verso un progetto, il Pd, che non è proprietà di qualcuno».
Se verrà convocata una direzione in tempi rapidi quali critiche e suggerimenti muoverà?
«Si cambi registro sulle riforme. Se diciamo “meno tasse per tutti” tanti voteranno l’originale. Noi siamo quelli che devono colpire gli evasori e allargare i diritti. Non si fanno vere riforme senza la parte di società che scegli di promuovere e se vuoi rappresentare la sinistra non puoi denigrare la Cgil, additandola per anni come ostacolo tra mercato e modernità. Si rottamino i pasdaran che troppi danni hanno prodotto. Sarebbe la premessa per poter ricostruire il giorno dopo».
Si sente ancora a casa nel Pd?
«Ho scelto di restare dicendo dei sì e dei no. Alcuni mi sono costati, ma non ho mai piegato le mie convinzioni all’opportunismo o al trasformismo. Quando ti accorgi che stai andando contro un muro devi fermarti e invertire marcia: è quello che chiedo ora».
Alla Camera, contro il parere del governo, il Pd ha votato un emendamento che aumenta l’indennità per i licenziati.
«Un fatto positivo, che ha migliorato la manovra. Si è rispettata l’autonomia del Parlamento. Il governo ora deve prenderne atto».

La Stampa 8.12.17
«Non tutte le frittate riescono bene»

«Non tutte le frittate finiscono con il venir bene...». È l’analisi di Romano Prodi sulla situazione del centrosinistra dopo il passo indietro di Giuliano Pisapia. A chi ieri gli ha chiesto se l’ex sindaco di Milano abbia fatto bene, il fondatore dell’Ulivo ha risposto «non lo so». No comment anche sui futuri scenari all’interno del centrosinistra: «Aspettiamo». Prodi ieri ha visto Piero Fassino e ha avuto contatti anche con Renzi. La linea del Professore è quella di proseguire con l’esperienza di Campo Progressista anche senza Pisapia.

La Stampa 8.12.17
Il soccorso di Prodi e Veltroni l’ultima carta per salvare i dem
di Marcello Sorgi


Prodi e Veltroni al capezzale del Pd, dopo la rinuncia di Pisapia e il ritiro di Alfano. Il tentativo è quello di salvare il salvabile dell’alleanza larga, dai centristi alla sinistra, che Fassino per conto di Renzi stava cercando di ricostruire. Il Prof ha avuto parole di comprensione verso l’ex sindaco di Milano («Ha capito che non era cosa») e non ha nascosto le difficoltà («La colla non ha funzionato») di tentare egualmente di rimettere insieme attorno al Pd la coalizione, evitando che gli esponenti della sinistra che hanno impedito a Pisapia di fare l’accordo con Renzi vadano a ingrossare le file di «Liberi e uguali», l’alleanza di Mdp, Si e Possibile guidata dal presidente del Senato Grasso.
L’affanno dell’ex sindaco di Milano nell’impresa di stabilire un ponte tra le varie componenti di «Campo progressista» e il Pd era emerso da tempo. Ed è evidente che la rottura sullo spostamento dello Ius soli in fondo al calendario dei lavori del Senato, con un’implicita rinuncia a discutere e approvare la legge sulla cittadinanza dei figli degli immigrati, è stato, se non proprio un pretesto, un’occasione scelta ad hoc per tirarsi fuori da una trattativa ormai da tempo ferma al palo.
L’ostacolo di fronte al quale il confronto s’è arenato non era solo di tipo programmatico, ma di prospettiva: il timore, cioè, che dopo il voto, in mancanza di una maggioranza chiara, Renzi potesse dar vita a un nuovo governo di larghe intese con Berlusconi: scelta inaccettabile per «Campo progressista», che si sarebbe trovata a dover rompere l’intesa dopo aver fatto una campagna elettorale sulle ragioni dell’unità a sinistra.
Meno difficile si presenta il recupero dell’accordo con i centristi, anche se l’uscita di scena di Alfano potrebbe dare il via alla diaspora di Ap verso il centrodestra e l’ipotesi di tenere insieme le varie componenti schierandosi al centro, senza alleanze organiche a destra o a sinistra, si scontra con la difficoltà, stando ai sondaggi, di superare la soglia di ingresso in Parlamento del 3 per cento stabilita dal Rosatellum.

Corriere 8.12.17
Ci riprova Nencini il «pedalatore»
Il suo Psi ha perso anche Bobo Craxi


Il suo sito personale è in costruzione, come la coalizione di Renzi. Il testo recita mestamente: «Riprovare più tardi». E il passista Riccardo Nencini, nipote della leggenda del ciclismo Gastone, ci riproverà. Anzi, ci sta già riprovando. Pedala da tempo, andatura costante, direzione Senato. Il gruppo, nel frattempo, si dirada. C’è chi scarta e chi si ferma.
Dal 2009 Nencini è il leader del Psi che fu di Turati e Bissolati. Di diaspora in diaspora, si è fatto sottile, quasi invisibile, perdendo persino Bobo Craxi. Fino a poche ore fa Nencini confidava in Giuliano Pisapia. Il dispiacere per l’addio è misurato: «Il Psi ha l’1% nei sondaggi. Giuliano aveva lo 0,5. Ricorda?». Abbandonato senza rimpianti Pisapia, Nencini guarda avanti: «Solo? Ma no: ex malo bonum» (dal male nasce il bene). Il «bene» è in arrivo: «Lavoriamo alla terza gamba del centro sinistra. Nome e simbolo li saprete a ore». È la lista degli ex Sel? «C’è Massimo Zedda. Ma come bravo sindaco di Cagliari, non come ex Sel». Si candiderà in questa lista? «È l’ultimo dei problemi».
Sarà affrontato, al momento necessario. Per ora Nencini pedala. Da viceministro è in tour per l’Italia. Passa da un convegno sugli appalti a una visita in viadotto, senza disdegnare una mostra del tartufo e un raduno di massoni. Negli intervalli, tiene una rubrica sull’ Avanti (tra i titoli, Lettera di un trifoglio a una mangrovia e Il cecchino e il velociraptor ). E scrive libri, come Il Fuoco dentro , sull’amica Oriana Fallaci, e Il magnifico ribelle , su Giotto. Nella sua biografia, c’è la coerenza laica e socialista. C’è un duro discorso contro la ‘ndrangheta. che gli valse la scorta. E c’è la vittoria della Cialtron Cup, assegnata al liceo Dante di Firenze (lo stesso di Renzi) ai calciatori più scarsi del liceo. Nencini ne è sempre stato fiero. Ma da allora, senza scomporsi, è salito sulla bicicletta e non ha più smesso di pedalare.

Corriere 8.12.17
Mattia tra deliri religiosi e fobie 

La madre: si era isolato dal mondo
di Federico Berni e Cesare Giuzzi


Due anni fa aveva perso il lavoro e usciva dalla sua stanza solo per mangiare
I giorni passati al computer, la crociata in casa contro l’uso del telecomando
Milano «Mattia, come hai fatto ad avvelenarli, dove hai nascosto il veleno?».
«Mi dispiace maresciallo, rimarrà con questo dubbio tutta la vita».
Mattia Del Zotto ha gli occhi scuri, il viso magro coperto da una barba di un paio di centimetri. Indossa una felpa scura a collo alto e una tuta. Non piange, non si dispera neanche quando i carabinieri gli elencano le prove raccolte contro di lui. «Non ho bisogno di un’altra persona per difendermi, potete scegliere l’avvocato che più vi aggrada. Sono stato io. Non saprete mai perché l’ho fatto. Non voglio collaborare con la vostra istituzione o con altre istituzioni di questo Stato».
La prima vita di Matteo Del Zotto finisce a 25 anni. Studia ragioneria, lavora in un call center, poi come manovale e magazziniere. Non ha vizi né strani giri. Una sola passione: la palestra. I pochi amici lo ricordano come un ragazzo muscoloso, «uno grande e grosso», come si dice in Brianza. Ma non come un ragazzo violento. La mamma Cristina Palma, interrogata dai carabinieri, dice che la prima vita di Mattia finisce due anni fa quando perde il lavoro in un supermercato di Paderno Dugnano: «Da quel momento abbiamo avuto un rapporto difficoltoso con nostro figlio. È diventato introverso e ha intrapreso un percorso di chiusura relazionale con tutti».
Nelle parole fredde del verbale si nasconde il dramma di due genitori che forse non si sono resi conto del buio che in questi mesi stava inghiottendo il loro unico figlio: «Abbiamo provato a proporgli l’aiuto di uno psicologo, ma lui stava bene così». I Del Zotto allora si rivolgono a Wimala, una cromoterapeuta: «È venuta a casa nostra, ha parlato con Mattia». Ma nulla cambia. Anzi. Il 27enne non esce più dalla camera se non per mangiare. «Era sempre al computer, diceva che stava cercando lavoro o che aveva delle collaborazioni via Internet».
Il ragazzo viene travolto da fobie e manie di persecuzione: «Dalla camera ha tolto tutto, soprammobili o robe simili, lasciando solo i vestiti. Le cose essenziali. Quando termina di utilizzare qualcosa di elettrico, deve togliere per forza tutte le prese. Se dopo aver usato il microonde lascio l’adattatore attaccato alla spina, lui deve toglierlo e riporlo in un cassetto. In camera non vuole la tv, ma se io e mio marito la guardiamo e c’è la pubblicità, lui cambia canale: si alza e deve farlo direttamente dalla tv perché è contro l’uso del telecomando...».
Mattia smette di guidare («Non sopportava l’idea che una macchina da dietro potesse fare gli abbaglianti o suonare il clacson») e anche di usare i mezzi pubblici («Dice che sopra ci sono persone arroganti e che bestemmiano»). Il ragazzo non ha amici, neppure una fidanzata. Quando gli inquirenti gli chiedono se abbia mai avuto una ragazza o abbia fatto sesso lui alza le spalle: «Non sento questo impulso».
Alle manie si aggiunge il deliro mistico. «Ci ha detto di non essere più cattolico e che sta seguendo una religione di cui non ci ha dettagliato», racconta la madre: «La mia deduzione è che si tratti di una specie di setta... questo stile di vita è ispirato da un gruppo chiamato “Concilio Vaticano II”. Una volta mi ha fatto vedere un video di papa Francesco che guardava una coppia ballare il tango e ha criticato l’atteggiamento del Pontefice. Eppure sono anni che non entra in una chiesa, ai funerali dei nonni e della zia Patrizia non è neppure venuto...». Il ragazzo confermerà poi ai carabinieri di essersi «avvicinato da tre anni alla religione ebraica».
La madre, che ancora non sa dei sospetti degli investigatori, però difende il figlio: «Ultimamente ce l’ha con il mondo intero. Però non credo sia in grado di fare del male a nessuno. Suppongo che nel caso si sarebbe rivolto prima contro me e mio marito». Il padre Domenico, figlio e fratello delle tre vittime, conferma che Mattia non esce dalla sua stanza se non per mangiare: «Caratterialmente non è propenso ad avere contatti con le persone». Il profilo che emerge dalle 29 pagine di ordinanza firmate dal gip Federica Centonze, è drammaticamente simile a quello dei mass murder americani. Agli investigatori ha detto soltanto di avere ucciso «esseri impuri».
Per acquistare il tallio (aveva cercato informazioni anche sull’arsenico) crea l’account di posta elettronica fittizio a nome «Davide Galimberti». Decide di rivolgersi a un’azienda di Padova, la sola che accetta pagamenti in contanti e ritiro di persona. A un certo punto, in una mail, si lamenterà perché nella fattura gli viene addebitata due volte l’Iva. Va a Padova a ritirare il tallio il 15 settembre. Il giorno del suo 27esimo compleanno.

Repubblica 8.12.17
I muscoli e la setta tutte le ossessioni di Mattia il solitario
Dal rifiuto di guidare alla mania per il pc Ma in paese nessuno sospettava di lui
di Massimo Pisa


Ci ha detto che segue una religione di cui non ha dato dettagli — spiega la madre ai carabinieri — Mi ha fatto sentire anche un audio di una voce metallica, faceva paura Con lui ho conservato un buon rapporto — mette a verbale la nonna dall’ospedale — Ma ci vediamo poco, da quando sono ricoverata non è mai venuto a trovarmi

NOVA MILANESE «Mio fratello, che fa l’allenatore e lo conosceva, è convinto: troppi anabolizzanti, poi si è sgonfiato di colpo. Qualcosa devono avergli fatto, alla testa. Quel ragazzo è stato sempre uno strano». Il vicino di casa che accetta di fare due passi davanti alle Poste di Nova ha una sua teoria. Come tutti, qui in paese. E come tutti, Mattia Del Zotto non lo conosceva. Patrizia, la zia, quella sì: «L’avevo vista il 15 settembre — racconta — di ritorno da Ischia, aveva male alle gambe. Ma ci abbiamo scherzato. Chi poteva dire...». E anche ora che i tg fanno rimbalzare i dettagli degli omicidi al tallio, chi potrebbe dire qualcosa di quel 27enne autorecluso e muto? La dirimpettaia della villetta dei Del Zotto, in via Fiume, si affaccia al cancello per ribadire la sua: «Continuo a pensare a una disgrazia». Non un pensiero malevolo, in questi mesi, su Mattia, anche perché chi poteva dire di averlo visto negli ultimi due anni? Di ricordarselo? Due domande discrete al Carrefour della confinante Paderno Dugnano, l’ultimo suo posto di lavoro da magazziniere, producono solo aria interrogativa e teste scosse. Idem nelle due palestre, sotto casa e sulla strada per quel lavoro perduto, dove Mattia andava a pompare i pettorali, prima di dimagrire. E al bar La Piazzetta in centro a Nova, un euro per un “bianchino” all’ora dell’aperitivo sotto al campanile di Sant’Antonino. Qui nonno GioBatta aveva dato una mano a sistemare il dehors e zio Enrico, uno degli scampati al veleno, era segretario del disciolto Inter Club. E il ragazzo?
«Mai visto».
Nel piccolo mondo antico di Nova, 20mila anime tra Milano e Brianza con le targhe in dialetto all’ingresso delle corti, Mattia era riuscito ad allontanarsi da tutto e tutti. Famiglia compresa. Mamma Cristina, a verbale coi carabinieri di Desio il 16 novembre, se ne doleva: «Da due anni abbiamo un rapporto difficoltoso, è improvvisamente diventato introverso». Ostile. Tanto da denunciare una volta papà Domenico, che gli toglie le chiavi di casa e medita di cacciarlo, «ma io mi sono opposta». Cuore di mamma. Che vede Mattia sprofondare nelle sue ossessioni: «Non guida più perché non sopportava che un’altra vettura potesse fare gli abbaglianti o suonare il clacson. Non utilizza i mezzi perché a suo dire ci sono persone arroganti e che bestemmiano. Per l’ordine è maniacale. Ultimamente ce l’ha col mondo intero, ma non credo sia in grado di far male a nessuno: nel caso si sarebbe rivolto prima contro me e mio marito, con gli altri parenti non c’erano ostilità».
Manie. Fobie. Spegnere il pc e staccare la spina. Termosifone spento. Staccare le prese.
Cambiare canale se c’è la pubblicità, ma senza usare il telecomando. Mattia Del Zotto approda al delirio mistico dopo il fallito tentativo dei genitori di portarlo dallo psicologo. Papà Domenico coi carabinieri lo giustifica: «Non è propenso ad avere contatti con altre persone».
Vano il colloquio con la cromoterapeuta di famiglia Wimala, infine l’avvicinamento a un gruppo misterioso, dopo aver criticato papa Francesco per aver assistito a un’esibizione di tango: «Ci ha detto che sta seguendo una religione di cui non ha dato dettagli — è ancora mamma Cristina a parlare — se non ricordo male un gruppo chiamato Concilio Vaticano II. La mia deduzione è che si tratti di una specie di setta. Mi ha fatto ascoltare un audio di una voce metallica, mi faceva quasi paura». Ma coi carabinieri Mattia sosterrà la sua conversione all’ebraismo da tre anni. E per i familiari il ragazzo ha solo parole di ghiaccio: «Per il semplice fatto che siano miei parenti, non devo necessariamente avere un rapporto di affetto. Con i miei genitori non ho un rapporto di profondo dialogo». Ai funerali dei nonni paterni non va. Dagli altri lo trascinano. Eppure, dice la nonna materna Maria Lina Pedon, intossicata, «con lui ho sempre conservato un buon rapporto. Ma è molto tempo che non viene a trovarci, da quando sono ricoverata non è mai venuto per una visita». Così zia Laura, che lotta ancora contro il veleno: «Si esprime poco, è poco espansivo, molto chiuso in casa a seguito del forte dispiacere per la mancanza di un lavoro».
E zio Enrico: «Mio figlio Andrea con suo cugino non ha un gran rapporto, è sempre stato un tipo chiuso, poco espansivo e timido». Mai un vero sospetto, su Mattia lo sconosciuto.

Corriere 8.12.17
La mamma uccide il figlio di 5 anni A casa aveva soffocato la sorellina
Mantova, la donna ha provato a togliersi la vita. Il padre è un ex rugbista azzurro
di Giusi Fasano


Come se la coperta potesse nascondere il male che aveva fatto. Antonella l’ha posata sul corpo ormai senza vita di Lorenzo Zeus, il suo bambino di cinque anni, e ne ha tenuto un lembo anche per lei. A modo suo si è nascosta al mondo mentre provava a morire con lo stesso coltello usato per uccidere il piccolo.
È stato un pastore a notare quell’auto ferma nell’area di golena fra Guastalla e Luzzara, in provincia di Reggio Emilia. Da lontano si vedeva la sagoma di qualcuno al posto di guida. Immobile. Il pastore si è fatto largo fra il bestiame al pascolo e ha deciso di andare a controllare. Dentro l’auto c’era una donna che non dava segni di vita, sotto una coperta. Pochi minuti dopo i carabinieri di Reggio Emilia hanno scoperto il resto. Lei aveva il coltello ancora nel petto, quando sono arrivati. Ha avuto la forza di sfilarlo e di farfugliare qualcosa, poi si è lasciata soccorrere. I medici dicono che dovrebbe salvarsi.
Mentre un’ambulanza la portava in ospedale i documenti hanno rivelato la sua identità: Antonella Barbieri, 39 anni, un indirizzo a Suzzara, in provincia di Mantova, sposata con Andrea Benatti, 38 anni, e madre di due bambini. Due.
Nella sua vita c’era anche una bambina di due anni, Kim. Hanno temuto e allo stesso tempo hanno sperato, gli uomini dell’Arma. Una corsa con la sirena fino a casa della famiglia Benatti e nella testa di tutti un solo pensiero: «Dio, fa’ che non abbia ucciso anche lei». E invece l’aveva fatto, Kim era morta soffocata.
Antonella è da tempo in cura psichiatrica: è il primo dettaglio annotato nelle carte dell’inchiesta affidata ai comandi dei carabinieri di Reggio Emilia e Mantova. Il colonnello Fabio Federici e il collega Antonino Buda stanno cercando di capire se esiste un motivo scatenante della furia omicida di Antonella o se è da cercare semplicemente nelle sue fragilità mentali.
«Antonella aveva problemi» hanno detto i nonni dei piccoli e ha ripetuto Andrea, suo marito, che aveva appena finito di lavorare e stava rientrando a casa quando ha ricevuto la chiamata che avrebbe cambiato per sempre la sua vita. Gli chiedevano di correre in caserma, a Mantova. E lui ha capito subito che era successo qualcosa di irreparabile.
Andrea è un ex giocatore di rugby. Ha giocato come terza linea negli Aironi, in Celtic league, nel Viadana, con cui ha vinto lo scudetto 2002, e in Nazionale. Nel 2011 — quando giocava negli Aironi — ha però dovuto ritirarsi per problemi alla retina e adesso lavora nell’officina meccanica di famiglia, a Motteggiana, pochi chilometri di distanza da casa sua. Chi gli è stato accanto ieri sera racconta di «un uomo che non esiste più». Non è più un padre, non più un marito, non sarà mai più quello che ha fretta di tornare a casa per giocare con i suoi bimbi.

Corriere 8.12.17
Manovra, governo battuto sui licenziamenti
Cambia la governance dell’Inps. No agli stipendi in contanti. Arriva la proroga dell’Ape social
di Mario Sensini


ROMA Uno scivolone riparabile, un segno evidente della sfilacciatura nel Partito democratico. In commissione Lavoro della Camera, dove la minoranza ha più membri della componente fedele al segretario Matteo Renzi, il governo è stato battuto ieri due volte sulla legge di Bilancio. La prima che prevede il superamento dell’attuale vertice monocratico dell’Inps, guidata da Tito Boeri, l’altra che porta da quattro a otto mesi le mensilità di indennizzo a favore dei lavoratori licenziati nelle imprese con oltre 15 addetti.
Due misure che difficilmente passeranno al vaglio della commissione Bilancio, e poi dell’Aula. Nel caso dell’Inps il governo ha espresso parere contrario perché la norma è «ordinamentale» e nella legge di Bilancio non potrebbe entrare. Nel merito il governo «conviene» sull’esigenza di andare verso un diverso assetto dei poteri dell’Ente, ma in Commissione il suo «no» è stato sconfitto. Come sull’aumento degli attuali indennizzi per i licenziamenti, che invece l’esecutivo considera «equilibrati». Due temi, insiste il presidente della commissione Lavoro, Cesare Damiano, anch’egli della minoranza Pd, «su cui il partito dovrebbe fare una battaglia, perché oggi alle imprese costa meno licenziare piuttosto che mettere in cassa integrazione».
Entra nella manovra, invece, la proroga al 2019 dell’Ape sociale e l’inclusione di marittimi, pescatori, lavoratori agricoli e siderurgici, già esclusi dall’aumento dell’età pensionabile, tra le categorie che possono accedere al nuovo regime.
In commissione Lavoro passa invece lo stop al pagamento degli stipendi in contanti. Potranno essere versati solo in assegni, o anche in denaro liquido, ma solo presso uno sportello bancario. Serve per evitare che i lavoratori ricevano cifre più basse di quelle dichiarate nella busta paga (anche se la firma del lavoratore per ricevuta, secondo la Cassazione, già ora non è prova dell’avvenuto pagamento). Sempre in commissione Lavoro passano norme che estendono le tutele contro le donne che subiscono molestie nei luoghi di lavoro, ed arriva la proroga a fine giugno per i lavoratori in mobilità delle aziende in crisi a fine 2017.
La commissione Finanze ha deciso lo slittamento al 2019 dei nuovi indici di affidabilità fiscale, che sostituiranno gli studi di settore. Per le imprese si profila una maggior deducibilità dell’Imu sugli immobili produttivi. Possibile la cedolare secca sugli affitti dei negozi nei centri storici per le attività artigianali. Oggi la manovra arriva in commissione Bilancio, dove si cominceranno a tirare le somme: sul tavolo oltre 5 mila emendamenti.

Corriere 8.12.17
Il «placing out»
Quando il treno degli orfani lasciava New York
di Valeria Luiselli


Adesso è difficile immaginarlo, ma nel 1850 c’erano più di 30 mila bambini che vivevano nelle strade di New York: mangiavano ciò che trovavano nella spazzatura, si aggiravano come branchi famelici, dormivano sotto i ponti o tra i ponteggi degli edifici in costruzione. I genitori erano morti, o più semplicemente li avevano abbandonati. Molti erano bambini appena sbarcati dai transatlantici europei: bambini tedeschi, irlandesi, italiani.
La città di New York risolse il problema di questi bambini con una trovata disumana: perché non metterli tutti sui treni che ogni giorno partivano diretti verso l’enorme e ancora spopolato West? Lì, forse, avrebbero trovato una famiglia adottiva che si sarebbe presa cura di loro. L’idea riprendeva una soluzione già presa qualche anno prima, nel 1830, quando era iniziata l’espulsione di decine di migliaia di indigeni americani dalle loro terre che, a bordo di treni, erano stati trasportati fino alle riserve dove avrebbero vissuto confinati. L’idea funzionò: tra il 1854 e il 1929, più di 200 mila bambini partirono da New York e dalle città vicine diretti verso l’interno del Paese.
Il meccanismo venne chiamato placing out («sistemare fuori»). Ma «sistemare» è un verbo molto più gentile rispetto all’azione di mettere dei bambini su un treno sperando che uno sconosciuto li accolga per farli vivere poi chissà come. Qualche bambino «sistemato fuori» della città trovò una famiglia che effettivamente lo adottò. Ma molti finirono vivendo in condizioni di schiavitù, sottoposti ad abusi inimmaginabili, come mano d’opera gratuita nelle fattorie e nelle piantagioni.
Non è sorprendente che sia stato usato un eufemismo del genere. La storia statunitense è piena di eufemismi sulla violenza istituzionale esercitata contro gruppi di persone espulse dal grande sogno americano. Nel XIX secolo, per esempio, al posto di «schiavitù» si utilizzava l’espressione «la nostra peculiare istituzione». I due verbi che si utilizzarono per descrivere lo sterminio e le deportazioni degli indigeni americani furono «trasferire» e «rimuovere». Ancora oggi si usa l’eufemismo «rimuovere». Ma non significa più «espellere e confinare gli indigeni nelle riserve», ma «deportare gli stranieri».
Forse si può raccontare la storia di una società attraverso i suoi eufemismi: ciò che non vuole dire del suo passato e del suo presente. Gli eufemismi nascondono e, facendolo, permettono che si perpetuino gli atti di violenza che pretendono di nascondere. I governi degli Stati Uniti hanno «rimosso» più di 2,5 milioni di persone e «sistemato fuori» migliaia di bambini — solo che ora viaggiano in aereo e non in treno. Un eufemismo di successo è più che una strategia retorica: è un’arma molto pericolosa.
L’incontro Valeria Luiselli presenterà il suo libro Dimmi come va a finire (La Nuova frontiera, traduzione di Monica Pareschi, pp. 96, euro 13) a Roma, alla fiera della piccola e media editoria Più libri più liberi, domenica 10 dicembre (ore 16, Sala Luna, Nuvola dell’Eur). Con l’autrice interverranno Melania Mazzucco e Antonella Inverno (Save The Children)

Corriere 8.12.16
Sarà il 6 marzo
Giornata dei Giusti, l’Italia è il primo Paese ad approvarla
di Alessia Rastelli


Una giornata per «mantenere viva e rinnovare la memoria di quanti, in ogni tempo e in ogni luogo, hanno fatto del bene salvando vite, si sono battuti in favore dei diritti umani durante i genocidi e hanno difeso la dignità della persona rifiutando di piegarsi ai totalitarismi e alle discri-minazioni». Il Senato ha approvato ieri in via definitiva la legge per l’istituzione della «Giornata in memoria dei Giusti dell’umanità», il 6 marzo. L’Italia è il primo Paese ad aderire ufficialmente alla Giornata europea dei Giusti che fu istituita nel 2012 dal Parlamento europeo dopo l’appello dell’associazione «Gariwo, la foresta dei Giusti», presieduta da Gabriele Nissim. La legge incoraggia le scuole a organizzare per il 6 marzo attività che educhino i giovani alla responsabilità personale attraverso le storie dei Giusti; amministrazioni ed enti pubblici possono contribuire creando Giardini dei Giusti o patroci-nando incontri e mostre. In Italia il primo Giardino, in cui ogni albero è intitolato a un Giusto, è nato nel 2003 a Milano, sul Monte Stella, e da poco si è costituito GariwoNetwork, che unisce gli 80 Giardini nel nostro Paese e nel mondo. «La legge ha un valore particolare — dice Nissim — di fronte alle crescenti derive dell’oggi: nazionalismi, razzismi, rischi di guerra, terrorismo. È necessario riaffermare i valori del dialogo, della pace, dell’inclusione. Quello dell’Italia è un grande messaggio all’Europa e al mondo».

Repubblica 8.16.17
Il rapporto che accusa Pell 

Un teste: “Denunciai abusi e lui riattaccò il telefono”
di Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO L’ultimo report della Commissione australiana d’inchiesta che lavora sulle risposte delle istituzioni del Paese agli abusi sessuali commessi su minori è impietosa per le diocesi nelle quali ha operato il cardinale George Pell, uno dei nove porporati del Consiglio di Papa Francesco, dal 2014 prefetto della Segreteria per l’Economia della Santa Sede. Il testo, rilasciato in queste ore, dice che il desiderio di evitare scandali e di proteggere la reputazione dei sacerdoti e della stessa Chiesa cattolica ha condotto a un « fallimento straordinario » rispetto a ciò che invece sarebbe stato doveroso fare. E cioè proteggere i minori dai terribili abusi perpetrati da parte del clero nelle diocesi di Ballarat e Melbourne, nello stato australiano di Victoria. Ballarat e Melbourne, le città dove Pell è stato prima sacerdote poi vescovo. Il suo incarico in Curia scade nel febbraio del 2019, mentre la prima sentenza della Corte australiana a suo carico arriverà nel marzo prossimo: comunque vadano le cose, il suo ritorno a Roma è improbabile.
Per la Commissione le due diocesi hanno mancato di rispondere adeguatamente a denunce di abusi sessuali su minori nel corso di almeno tre decenni. La loro risposta «ha anche rivelato una tendenza a trattare le lamentele o asserzioni in modo sprezzante e a favore del sacerdote che era l’oggetto delle asserzioni ». Le dichiarazioni di un testimone, Graeme Sleeman, rilasciate durante i lavori della Commissione nel novembre 2015 riportano la risposta che diede il cardinale Pell di fronte alle sue richieste. « Mi attaccò il telefono», dice Sleeman.
La prassi era quella usata in diverse parti del mondo nel corso di interi decenni: in seguito a lamentele, i sacerdoti venivano trasferiti in altre parrocchie, dove commettevano nuovi abusi. La Commissione ha ascoltato testimonianze sia di vittime sia di trasgressori, fra i quali il vescovo di Ballarat Ronald Mulkearns, poi deceduto e dello stesso Pell il quale, oltre alle accuse di aver coperto i pedofili, è in attesa di giudizio per presunti abusi commessi personalmente, secondo un’email della polizia di Victoria, «a Ballarat tra il 1976 e il 1980 e a Melbourne, tra il 1996 e il 2001 » . Pell si è sempre dichiarato innocente. Ma molto si chiarirà il prossimo 14 dicembre quando un secondo report della Commissione sarà reso pubblico proprio in merito a queste specifiche accuse.
Pell era deciso a non tornare in Australia per affrontare la giustizia del Paese, ma poi, complice probabilmente anche Francesco, ha ceduto. In tutto la Commissione parla di 450 denunce in 35 anni. Pell era stato nominato vescovo ausiliario di Melbourne nel maggio del 1987, responsabile della Regione meridionale che comprendeva la parrocchia di Doveton, teatro di uno dei casi più gravi, quello di un prete pedofilo seriale, padre Peter Searson. Nove anni dopo, nel 1996, Pell divenne arcivescovo della città, succedendo a Thomas Francis Litte. Quest’ultimo è accusato di aver « lasciato cadere o ignorato » prove e indizi contro i preti pedofili, lasciandoli liberi di abusare. Il tutto senza che nessuno dei suoi collaboratori facesse nulla per impedirlo. Pell ha detto che l’inerzia era solo del suo predecessore. Oltre che di abusi, il report parla di minori costretti ad assistere a torture su animali minacciati con delle pistole, a vegliare morti nelle bare: « Per gioco » , hanno risposto gli accusati.
In Vaticano le inchieste australiane sono monitorate quotidianamente. La vulgata ripetuta da tutti è che Pell si trova «in congedo prolungato ». E che vi rimarrà fino alla prossima pensione.