giovedì 7 dicembre 2017

La Stampa 7.12.17
Parroco indagato per abusi su minori


Reggio Calabria Fedeli increduli a Reggio Calabria per l’inchiesta della Procura della Repubblica che vede indagato don Carmelo Parrello, di 45 anni, parroco della chiesa di San Gregorio, accusato di detenzione di materiale pedopornografico e rapporti sessuali con minorenni. L’Arcivescovo metropolita, monsignor Giuseppe Fiorini Morosini, non ci ha pensato su due volte ed ha sospeso cautelativamente il sacerdote, privandolo della guida della parrocchia che gli era stata affidata circa quattro anni orsono.
Sulla rapidità della decisione del presule ha presumibilmente influito un grave precedente che pesa su don Carmelo: alcuni anni fa, quando era parroco a Fossato di Montebello Jonico, il centro del reggino di cui é originario, si sarebbe invaghito di un uomo sposato arrivando al punto di perseguitarlo. La vittima denunciò il sacerdote per stalking, reato per il quale il parroco é stato già rinviato a giudizio.
Monsignor Giuseppe Fiorini Morosini si é detto «fiducioso nel lavoro della magistratura, ponendosi sin da ora in atteggiamento amorevole nei confronti delle presunte vittime e chiedendo loro perdono per l’eventuale male che gli é stato arrecato».

Corriere 7.12.17
«Un bullo, ignoriamolo»
Lo scrittore israeliano Etgar Keret: «Trump e Gerusalemme non c’entrano nulla con i problemi reali come la corruzione e l’influenza dell’Iran. Trump ha dimostrato di essere un peso piuma. Questo annuncio segna il disimpegno degli Usa».
di L. Cr.


DAL NOSTRO INVIATO
GERUSALEMME «Trump e Gerusalemme non c’entrano nulla con i problemi reali — dice lo scrittore israeliano Etgar Keret —. È aria calda: il ruolo di presidente dipende anche dallo spessore della persona e Trump ha dimostrato di essere un peso piuma. Intacca i simboli, non la realtà».
Quali sono i problemi di sostanza?
«Pochi giorni fa a Tel Aviv e in altre città israeliane, decine di migliaia di persone sono scese in piazza per contestare la corruzione profonda del governo Netanyahu come non avveniva da anni. Questo è un problema molto reale. Come del resto lo è quello della crescita dell’influenza dell’Iran in tutta la regione. Si stanno creando le condizioni di una prossima guerra regionale. E intanto la Russia di Putin arriva con le sue basi in Egitto. Sono temi gravissimi per tutti. Tra dieci anni si parlerà di questo. Non delle parole vuote di Trump su Gerusalemme».
Gerusalemme è sempre stata al cuore di qualsiasi processo di pace...
«Non c’è alcun processo di pace, nessuna prospettiva concreta ormai da molto tempo. Avrebbe avuto senso se Trump nel suo discorso avesse proposto di muovere l’ambasciata americana a Gerusalemme in cambio del blocco totale delle colonie israeliane nei Territori Occupati. Ma non c’è alcuna strategia, nessun piano negoziale concreto se non il vuoto parlare di pace. Non c’è sostanza. Ho il sospetto che Trump e Netanyahu abbiano agende molto simili a riguardo. Trump si trova ancora una volta a dover giustificare al suo Paese i suoi rapporti con la Russia di Putin. Bibi rischia di andare sotto processo per la sua disonestà. Preferiscono deviare l’attenzione dell’opinione pubblica con lo status della Città Santa».
Che cosa possiamo dire del discorso di Trump?
«Che con Trump gli Stati Uniti rinunciano al loro ruolo storico di motore primo del dialogo tra israeliani e palestinesi. Quando dice che lui si adatta alla volontà dei due popoli significa che si rimette alle loro scelte, non le spinge, non le condiziona. Cosa capita se la destra israeliana si oppone a qualsiasi compromesso? E se Hamas dichiara la guerra santa a oltranza? È pura demagogia che cerca di nascondere il vuoto di idee e iniziative».
Si rischia una terza intifada?
«Se questo passo fosse stato compiuto una quindicina d’anni fa, quando i negoziati erano davvero in corso, avrebbe potuto avere un impatto forte. Ma non adesso. Oggi i palestinesi hanno il problema di muoversi quotidianamente tra le colonie ebraiche in Cisgiordania. Tra loro sono divisi, hanno una leadership debole. E in Israele siede un governo composto da gente contraria a qualsiasi concessione per la nascita di due Stati. Certo che ora potrebbero esserci violenze. E le temo. Ma con Trump adotterei lo stesso atteggiamento che consigliava mia madre quando ero bambino con i bulli a scuola: lasciali perdere, ignorali, che più si sentono ascoltati e più fanno danni».

La Stampa 7.12.17
L’ira degli arabi contro Trump “Sarà l’inferno”
Il leader dell’Anp: rischiamo la guerra Il presidente: ora il negoziato di pace
La decisione degli Stati Uniti di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e avviare il processo per trasferire l’ambasciata da Tel Aviv infiamma i Paesi arabi. Dalla Turchia all’Iran si moltiplicano le iniziative contro Trump. Hamas: «Ha aperto le porte dell’inferno». Abu Mazen: «Ci porta in guerra». Ma il leader Usa apre ai palestinesi: «Nessuna decisione su sovranità e confini della città».


La Stampa 7.12.17
La rabbia dei musulmani
“Aperte le porte dell’Inferno”
Hamas: taglieremo le mani a chi tocca la Città santa. Abu Mazen: rischio guerra Dalla Turchia all’Iran si moltiplicano le condanne contro la scelta americana
di Giordano Stabile


Dopo una giornata di acquazzoni e scrosci che facevano presagire una tempesta tremenda, la luna ha fatto capolino nella tarda serata dietro le colline di Gerusalemme. Una visione surreale, perché le mura antiche, costruite da Solimano il Magnifico, erano colorate di bianco, rosso, e blu, in omaggio alla bandiera americana e alla decisione del presidente Donald Trump. Un gesto che alla popolazione araba è sembrato un nuovo schiaffo: la prima giornata «della rabbia» è trascorsa senza vittime, ma neppure le sfumature nel discorso del leader della Casa Bianca, che qualcuno ha interpretato come timide aperture al fronte arabo, hanno calmato gli animi. Il riconoscimento della Città Santa come capitale di Israele ha aperto una diga di rancore che ora è difficile contenere. Per tutto il giorno i dimostranti hanno marciato per le strade nelle città della Cisgiordania e soprattutto a Gaza, al grido di «Gerusalemme capitale eterna», sì, ma della Palestina. Concetto ripetuto da Abu Mazen che ha ritirato il team palestinese da Washington perché «gli Usa hanno rinunciato al loro ruolo di mediatori per la pace» e ha aggiunto che questo «aiuterà le organizzazioni estremistiche a intraprendere una guerra di religione che danneggerà l’intera regione».
Come già dopo la chiusura della Spianata delle Moschee, lo scorso luglio, il richiamo di «Al-Quds», della moschea di Al-Aqsa, ha radunato attorno ai palestinesi il mondo musulmano, pronto a difendere «con il sangue» la «linea rossa» da non oltrepassare, tracciata martedì dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan e subito rafforzata dall’intero fronte «della resistenza». Sono le situazioni predilette da Hamas, che infatti ieri è stata la più attiva nell’organizzare le proteste. Uno dei portavoce, Salah Bardawil, ha rispolverato il meglio della retorica bellica: «Questa decisione porterà a una travolgente rivolta popolare e alla resistenza che scotterà la terra e taglierà la mano di chiunque toccherà Gerusalemme e i suoi luoghi sacri» e che gli Usa «hanno aperto le porte dell’inferno».
Gerusalemme, ieri, è rimasta abbastanza tranquilla ma prepara una gigantesca manifestazione per domani, proprio attorno alla Spianata delle Moschee subito dopo la preghiera del venerdì. Le scuole rimarranno chiuse, per rafforzare i ranghi con gli studenti, mentre migliaia di agenti e militari della polizia di frontiera sono arrivati a completare il dispositivo di sicurezza israeliano. La Porta di Damasco, come quella dei Leoni, sono blindate. «Siamo pronti a reagire in maniera immediata ad ogni genere di sviluppi che potrebbero verificarsi», ha precisato la polizia.
Ma Al-Fatah e l’Autorità nazionale palestinese del presidente Abu Mazen si stanno coordinando con i principali leader islamici. Il più attivo è Erdogan che ha chiamato una dozzina di colleghi, oltre al leader palestinese, e ha invitato i 57 Paesi membri dell’Organizzazione della cooperazione islamica (Oic) a riunirsi mercoledì 13 dicembre a Istanbul per un summit straordinario. Il presidente turco vuole indossare in quella occasione i panni del «difensore di Gerusalemme». «Il riconoscimento di Gerusalemme – ha detto – farà saltare le fondamenta della pace e scatenerà nuove tensioni e scontri». Dopodomani, al Cairo, si riuniranno invece i ministri degli Esteri della Lega araba, che ha definito la mossa di Trump «una provocazione ingiustificata».
Sarà però a Istanbul la vera prova di forza islamica, anche perché c’è da aspettarsi uno show dell’Iran. Ieri ha subito calcato la mano la Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei: «La Palestina sarà liberata. La comunità palestinese e quella musulmana vinceranno». L’Iran «non tollererà la profanazione dei luoghi santi islamici», ha aggiunto il presidente Hassan Rohani. Più sfumata la posizione della Siria di Bashar al-Assad. Per Damasco «il presidente Usa e i suoi alleati nella regione sono responsabili» di un «passo pericoloso».
Damasco non sottolinea il carattere «musulmano» della Città Santa alle tre religioni monoteiste, perché guarda anche alla sua minoranza cristiana, in gran parte schierata con il raiss. Lo stesso Abu Mazen usa l’accortezza, sa di avere come supporto internazionale più prestigioso il Vaticano. Ieri Papa Francesco ha chiesto che «lo status quo» di Gerusalemme «non venga modificato» così come il segretario generale della Lega araba Aboul Gheit, in quanto la città è «nel cuore di tutti gli arabi, musulmani e cristiani». E oggi a Betlemme la «Palestina cristiana» organizzerà una protesta di massa, nella piazza davanti alla Chiesa della Natività, che con il suo grande albero ricorda quanto sia vicino il Natale.

il manifesto 7.12.17
Per Trump è «ovvio» consegnare Gerusalemme a Israele
Israele/Palestina. Il presidente Usa ha mantenuto la promessa fatta a Israele. «Usa non più mediatori, Gerusalemme sarà la capitale eterna della Palestina» gli risponde Abu Mazen. Ondata di condanne e proteste da ogni angolo del mondo per un passo che rischia di far sprofondare il Medio oriente oltre a negare i diritti dei palestinesi
di Michele Giorgio


GERUSALEMME  Nel settembre del 2000 fu una “passeggiata”, quella dell’ex premier israeliano Ariel Sharon sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme, ad innescare la seconda Intifada palestinese e a segnare il destino della pace di Oslo firmata nel 1993 da Israele e l’Olp. Diciassette anni dopo un’altra “passeggiata”, quella di Donald Trump sul diritto internazionale e sulla risoluzione 181 dell’Onu, ha deciso il destino di Gerusalemme. Il riconoscimento esplicito che Trump ha fatto di Gerusalemme capitale di Israele incide sulla pietra il futuro della città, offerta su di un piatto d’argento a Israele. Per la Casa Bianca la sovranità sulla città delle tre fedi monoteistiche, dalla storia millenaria, che tante suggestioni e passioni genera in milioni di persone in tutto il mondo, appartiene solo a Israele. È in malafede chi descrive il passo di Trump come “simbolico”. Al contrario è sostanziale e inserito nel nuovo scacchiere regionale che l’Amministrazione Usa intende costruire con i suoi principali alleati, Israele e Arabia saudita, e sul quale i diritti dei palestinesi sono una pedina insignificante.
Trump ha provato a spiegare la sua decisione come la constatazione di una realtà consolidata, come un passo che gli Usa avrebbero dovuto muovere da lungo tempo. «Riconosciamo l’ovvio: che Gerusalemme è la capitale di Israele. Non è altro che un riconoscimento della realtà», ha detto aggiungendo che gli Usa restano «impegnati per facilitare un accordo di pace accettabile da entrambe le parti». E si è vagamente espresso a favore di «una soluzione a Due Stati» se, ha subito precisato, «concordata dalle parti». I suoi predecessori, ha aggiunto, hanno ripetutamente congelato il trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, deciso dal Congresso, con l’idea che ciò avrebbe favorito il processo di pace tra israeliani e palestinesi. Secondo Trump questa politica è stata fallimentare ed è venuto il momento di cambiare approccio. Ha perciò annunciato l’avvio dei lavori per la costruzione della nuova ambasciata Usa a Gerusalemme, che secondo il presidente sarà «un magnifico tributo alla pace». Ha espresso sostegno al mantenimento dello status quo dei luoghi santi di Gerusalemme, e, infine, dopo aver appiccato il fuoco della rabbia di palestinesi, ha lanciato un appello alla moderazione. «La pace non è mai al di fuori della portata di chi vuole raggiungerla, quindi oggi chiediamo calma, moderazione e tolleranza affinchè ciò prevalga su chi semina odio. Dio benedica gli israeliani, Dio benedica i palestinesi».
Recitare il ruolo del moderato e pacifista è stato facile per il primo ministro israeliano Netanyahu sazio di una vittoria decisiva. «È un giorno storico» ha commentato intervenendo in tv subito l’annuncio fatto dal presidente Usa. «La decisione di Trump – ha aggiunto Netanyahu – è un passo importante verso la pace, perché non ci può essere alcuna pace che non includa Gerusalemme come capitale di Israele». E in linea con le parole dell’alleato americano ha assicurato che «non ci sarà alcun cambiamento nello status quo dei luoghi santi. Israele garantirà sempre libertà di culto a ebrei, cristiani e musulmani». Frasi con ogni probabilità non indirizzate ai palestinesi ma ai nuovi alleati arabi, alle monarchie sunnite. Gerusalemme ormai è nostra, ha fatto capire Netanyahu, accettatelo e noi non vi imbarazzeremo davanti alle vostre popolazioni. Anzi collaboreremo ancora più convinti contro il nemico comune, l’Iran. Poi è stata solo festa, simboleggiata dalle bandiere di Israele e Stati Uniti proiettate sulle mura antiche della città vecchia di Gerusalemme, occupata da Israele nel 1967. In quello stesso momento migliaia di palestinesi, soprattutto a Gaza, manifestavano contro gli Stati uniti e Israele. Oggi è prevista un’altra giornata “della rabbia” e di scioperi di protesta ma le ore più calde delle proteste si vivranno con ogni probabilità domani, dopo le preghiere islamiche del venerdì.
In tarda serata è intervenuto il presidente palestinese Abu Mazen, apparso esausto davanti alle telecamere. «La decisione di Trump in contrasto con le risoluzioni internazionali equivale a una rinuncia da parte degli Stati uniti del ruolo di mediatori di pace» ha affermato accusando la Casa Bianca di aver fatto un «regalo» a Israele che ora, ha previsto, si sentirà incoraggiato a proseguire l’espansione delle colonie ebraiche nei Territori palestinesi occupati. Poi ha proclamato perentorio che «Gerusalemme rimarrà la capitale eterna dello Stato di Palestina». Simili le dichiarazioni dei maggiori esponenti dell’Olp. Non sono molte le carte a disposizione di Abu Mazen. Sente però di dover insistere sull’unità dei palestinesi. «L’unità – ha detto prima del discorso di Trump – è la vera risposta a tutti i tentativi volti a violare i nostri diritti». Ma il suo tempo forse è scaduto. Nello stesso Fatah, il suo partito, cresce il dissenso verso la linea della moderazione. I prossimi mesi saranno decisivi.
Dichiarazioni di condanna o di critica dell’annuncio di Trump su Gerusalemme sono giunte da ogni parte del mondo, dall’Unione europea alla Russia, dalla Giordania alla Turchia, fino al Vaticano. «Tutte queste proteste sono come gli avvertimenti per la salute dei fumatori sui pacchetti di sigarette che intanto si continuano a fabbricare», ha commentato con amarezza il poeta palestinese Ibrahim Nasrallah.

il manifesto 7.12.17
Una scelta per una nuova guerra
di Tommaso Di Francesco


È un atto violento e irresponsabile l’annuncio di Trump fatto prima ad Abu Mazen e confermato ieri dalla Casa bianca, sotto l’albero di Natale: «Gerusalemme è la capitale d’Israele. Ora pace». Il «pacifista» insiste a spostare da Tel Aviv la sede diplomatica Usa a Gerusalemme, riconoscendone di fatto l’intera appartenenza allo Stato d’Israele. Sfacciatamente dissimulando che il diritto internazionale considera la città come condivisa, nella parte ovest, israeliana, e est, palestinese.
Con tanto di sfottò «umanitario»: la nuova ambasciata Usa «sarà una grande casa della pace», dice Trump. Che, mettendo in chiaro i reali rapporti di forza, azzera la sempre più improbabile promessa di una pace fondata sullo slogan «due popoli per due Stati». Una dichiarazione che arriva però come risultante di tante, troppe omertà e complicità occidentali. Perché tutti hanno contribuito a cancellare la questione palestinese dall’agenda mondiale.
È invece una dramma concreto che, nella distrazione del mondo, si consuma ogni giorno sulla pelle di milioni di persone sotto occupazione militare in Cisgiordania, a Gaza – solo formalmente «non occupata» – e a Gerusalemme est: i territori che due Risoluzioni dell’Onu dopo la Guerra del ’67, riconoscono come palestinesi imponendo, inascoltate, allo Stato occupante di liberarle. Ricordiamo solo la recente Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 2334 del 2016, che ha riaffermato l’illegalità degli insediamenti israeliani a Gerusalemme est. Perché a Gerusalemme per il popolo dei campi profughi – questo sono da 70 anni i palestinesi – il regime di apartheid, esproprio di terre e aree fabbricabili, deportazioni, Muro di divisione, check point, vittime e tante colonie, sono perfino più opprimenti. Ma quel che a parole chiamiamo processo di pace – che già ha avuto nel 1995 un colpo secco con l’uccisione del premier laburista israeliano Rabin da parte di un integralista ebraico – da più di dieci anni è stato rimosso. A partire dalla morte violenta di Arafat, fino alla divisione dei palestinesi nel 2006, quando Hamas vinse le elezioni non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania; evento maturato, con ulteriori conflitti intestini, perché il negoziato di pace è rimasto lettera morta e il cerino del suo fallimento è nelle mani dell’Autorità nazionale palestinese. Dieci anni nei quali il Medio Oriente è stato devastato da golpe militari e nostre nuove guerre, e la Palestina è stata derubricata a nodo secondario. Nonostante che lo stesso Obama nel 2009 dall’Università del Cairo dichiarasse: «Sento in in cuor mio la disperazione del popolo palestinese, ancora senza terra e senza patria»; disperazione che, a conclusione del suo doppio mandato presidenziale, tale è rimasta. Dieci anni nei quali l’Italia, da partner del dialogo mediorientale è diventata alleata – anche militare – dei governi israeliani di destra. Mentre Macron, May, Erdogan, alzano la voce «preoccupati», l’Italia, dopo Berlusconi, Renzi e Gentiloni, manco quello. Anzi, tace e acconsente sul Giro d’Italia che farà di Gerusalemme la tappa riunificata sotto i ricatti di Netanyahu.
Ora si dirà che la decisione di Trump, senza la tradizionale proroga firmata da tutti i presidenti Usa della legge americana che di fatto riconosce Gerusalemme come capitale d’Israele, alla fine è «realistica» e «simbolica», e poi che ci vorrà tempo, due o tre anni, per la costruzione della nuova ambasciata Usa «casa della pace». La pace della strategia del caos di Trump. Intanto a restare sotto ricatto e minaccia è e sarà la condizione palestinese. Ma i simboli sono importanti se non decisivi, sia in Occidente – che fine fa la Gerusalemme cristiana, fede d’appartenenza di molti palestinesi? – che in Medio Oriente, dove diamo per scontato che le nostre guerre – Stati devastati e integralismo islamico – siano finite. L’occupazione dei «territori sacri dell’Islam» (l’Arabia saudita per le basi militari Usa e Gerusalemme-Al Qudz) è stato infatti il fulcro ideologico per la nascita di Al Qaeda; una simbolicità capace di riunificare il mondo musulmano, sciita e sunnita. C’è solo una certezza: l’annuncio di Trump riaccende l’attenzione su una realtà dimenticata dentro un Medio Oriente attraversato da conflitti sanguinosi ormai permanenti. E le uniche volte in cui i palestinesi sono stati ascoltati è stato quando la loro preziosa unità e la loro collera, covata in grande silenzio come potrebbe accadere stavolta – sono all’improvviso riemerse in superficie come lava, con la rivolta politica dell’intifada.

il manifesto 7.12.17
«Israele non può manipolare la storia e negare diritti palestinesi»
Gerusalemme. Intervista allo storico Salim Tamari: «Trump senza volerlo danneggia chi oggi festeggia. La sua dichiarazione ha ridato slancio alla battaglia per i diritti palestinesi sulla Città Santa»
di Michele Giorgio


GERUSALEMME La storia passata e recente di Gerusalemme e la rilevanza della città per ebrei, musulmani e cristiani sono al centro dell’attenzione dopo la dichiarazione di Donald Trump volta a realizzare soltanto le aspirazioni di Israele. Su questi temi abbiamo intervistato il professor Salim Tamari, sociologo e storico di Gerusalemme. Direttore dell’Institute of Jerusalem Studies e della rivista internazionale Jerusalem Quarterly, Tamari dopo la conferenza di Madrid del 1991 ha partecipato all’unico negoziato ufficiale – senza alcun risultato – tenuto sino ad oggi da arabi e israeliani sul diritto al ritorno per i profughi palestinesi della guerra del 1948.
La maggior parte degli israeliani quando parla di Gerusalemme sottolinea esclusivamente il legame della città con l’Ebraismo e il premier Netanyahu (ieri) ha descritto la dichiarazione di Trump come un’enfasi dell’identità storica e nazionale d’Israele. Eppure Gerusalemme ha uguale importanza per i palestinesi e gli arabi e per i musulmani e i cristiani in tutto il mondo.
Per gli arabi Gerusalemme non è solo una identità. E’ stata ed è il luogo della passione di Cristo e di preghiera per i palestinesi cristiani. E per i musulmani Gerusalemme è la città del viaggio notturno di Maometto e il sito della Spianata di al Aqsa, il terzo luogo santo dell’Islam. Pertanto i sentimenti e l’attaccamento degli arabi e dei palestinesi, che sono musulmani e cristiani, per Gerusalemme non sono meno importanti e significativi di quelli che provano gli ebrei. La storia di Gerusalemme parla chiaro, Israele non può manipolarla come crede e, in definitiva, non può vantare sulla città un diritto esclusivo.
Intanto Trump, contro le risoluzioni internazionali e a rischio di scatenare una grave crisi, l’ha riconosciuta come capitale di Israele e l’ambasciata americana, presto o tardi, sarà trasferita da Tel Aviv a Gerusalemme. Cosa cambia in concreto la dichiarazione del presidente Usa
Siamo di fronte ad una svolta della posizione americana (su Gerusalemme) che in termini pratici non cambia molto rispetto alla situazione che già conosciamo. Sul terreno vedremo manifestazioni di collera di palestinesi e arabi contro questa azione di forza degli Stati uniti ma i riflessi maggiori a mio avviso si avranno sullo status di Washington nella mediazione tra israeliani e palestinesi. Il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele manda in mille pezzi la posizione mantenuta dagli Usa per decenni, ossia che lo status della città sarebbe stato definito da negoziati finali tra israeliani e palestinesi. Gli Stati uniti, ancora più di prima, non hanno i titoli e la credibilità per presentarsi come mediatori tra le due parti.
Siamo giunti alla fine del processo diplomatico che proprio gli Stati uniti avevano avviato a Madrid e che nel 1993 era confluito negli accordi che Israele e Olp avevano in segreto raggiunto in Oslo.
Questa iniziativa statunitense, basta guardasi intorno, è fallita da lungo tempo. E Trump già da un anno si muove fuori dal percorso tracciato dai suoi predecessori dopo Oslo. A inizio anno ha mandato in pensione la soluzione dei Due Stati, Israele e Stato palestinese, che è stata la colonna portante del negoziato sostenuto in particolare da Usa e Europa. Il presidente americano lavora al suo “Grande accordo” tra Israele e mondo arabo e procede seguendo linee diverse da quelle note sino ad oggi. Trump punta a raggiungere obiettivi non inseguiti, almeno non così apertamente, dai suoi predecessori. Eppure, senza volerlo, Trump ha innescato un movimento che non è a favore di Israele. Con la sua mossa ha riportato l’attenzione su Gerusalemme, ha suscitato nuove passioni nei palestinesi. Trump indirettamente ha costretto i Paesi arabi ed occidentali a prendere di nuovo posizione a sostegno dei diritti dei palestinesi su Gerusalemme e sul futuro della città. E non tarderanno a emergere le gravi discriminazioni che Israele attua nei confronti degli arabi a Gerusalemme. Non penso di essere un ottimista ma questo sdegno internazionale non si vedeva da tempo e potrebbe ritorcersi contro chi oggi in Israele festeggia le parole di Trump.

il manifesto 7.12.17
Da città internazionale a città occupata
Gerusalemme. L'ovest annesso illegalmente da Israele nel 1948, l'est nel 1967, per Tel Aviv è la propria capitale dal 1980 in violazione del diritto internazionale. Oltre 300mila i palestinesi, apolidi e residenti permanenti, un limbo politico che ne mette in pericolo l'esistenza
di Chiara Cruciati


Gerusalemme resta, insieme al diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi, uno dei cuori della questione palestinese. Tanto più negli ultimi decenni quando più radicali si sono fatte le politiche israeliane di de-palestinizzazione della Città Santa.
Cancellazione dell’identità musulmana e cristiana, della sua natura araba, di spossessamento fisico di terre e quartieri. Eppure Gerusalemme è città internazionale secondo quanto previsto 70 anni fa dal piano di partizione delle Nazioni Unite, che divise la Palestina storica in uno Stato ebraico e uno arabo. La Città Santa doveva cadere sotto il controllo e la sovranità internazionale, città aperta al mondo.
L’anno dopo, nel 1948, il movimento sionista occupa la parte ovest di Gerusalemme e la dichiara subito parte del nascente Stato di Israele. La parte est – divisa da quella occidentale dalla linea dell’armistizio con la Giordania, lunga 7 km e costellata di torrette militari e trincee – va sotto l’autorità di Amman.
Fino alla guerra dei sei giorni: nel giugno 1967 l’esercito israeliano occupa Gerusalemme est e la pone sotto la propria autorità, in palese violazione del diritto internazionale.
Nel 1980 la Knesset approva la Jerusalem law che definisce Gerusalemme «capitale indivisibile e unita dello Stato di Israele», istituzionalizzando (di nuovo in violazione delle risoluzioni Onu) l’annessione dell’intera città. Le Nazioni Unite rispondono con la risoluzione 478 che dichiara «nulla e non valida» la legge israeliana.
Dal 1967 in poi Israele ha però proseguito incessantemente alla colonizzazione della parte orientale della Città Santa con la costruzione di undici insediamenti illegali all’interno dei quartieri palestinesi o su terre palestinesi, in cui vivono oggi 200mila coloni. I gerusalemiti palestinesi sono invece 300mila, circa il 40% della popolazione totale della città.
Ma non sono mai stati riconosciuti cittadini israeliani: il loro status è di «residenti permanenti», dunque apolidi, e il loro «diritto di residenza» può essere revocato in qualsiasi momento dalle autorità israeliane che li considerano al pari di migranti stranieri. Negli ultimi 50 anni Tel Aviv ha revocato 14.400 residenze.
Secondo l’Onu, il 78% dei palestinesi e l’84% dei bambini vive sotto la soglia di povertà. L’isolamento dalla Cisgiordania, il muro di separazione, le colonie, l’impossibilità di costruire nuove abitazioni e imprese economiche provoca ogni anno la perdita di 200 milioni di dollari in opportunità lavorative e di sviluppo.

il manifesto 7.12.17
Gli ebrei statunitensi in coro: «Una decisione irresponsabile»
Gerusalemme. Da destra a sinistra, la comunità ebraica americana condanna la mossa di Trump. Chi sottolineando i pericoli per gli israeliani e gli ebrei nel mondo, chi la violazione dei diritti dei palestinesi
di Marina Catucci


NEW YORK Non sono state entusiaste le reazioni delle varie anime della comunità ebraica americana all’idea di Trump di spostare l’ambasciata americana in Israele, da Tel Aviv a Gerusalemme.
Il Jewish Reform Movement, nonostante si sia detto concorde con l’idea che Gerusalemme debba essere considerata israeliana e che Trump «abbia fatto la cosa giusta», l’ha anche accusato di ignoranza e di un processo decisionale «irresponsabile», mettendolo in guardia riguardo reazioni negative.
Il rabbino Rick Jacobs, presidente dell’Unione, ha affermato che gli ebrei riformati «non possono sostenere la sua decisione di cominciare a preparare questa mossa ora, in assenza di un piano globale per un processo di pace. La Casa bianca non dovrebbe indebolire questi sforzi prendendo decisioni unilaterali che quasi certamente esacerbereranno il conflitto».
Anche J Street, gruppo di avvocati ebrei liberal con sede negli Stati uniti, si è opposto allo spostamento dell’ambasciata. Il loro presidente, Jeremy Ben-Ami, ha affermato che «l’effetto di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme prima di un accordo negoziato sarà quello di far arrabbiare i principali alleati arabi, fomentare l’instabilità regionale e minare i nascenti sforzi diplomatici degli Usa per risolvere il conflitto. L’amministrazione Trump dovrebbe anche notare che solo una piccola minoranza di ebrei americani, solo il 20%, sostiene un trasferimento unilaterale dell’ambasciata».
Il gruppo dichiaratamente di sinistra Jewish Voice for Peace ha commentato la dichiarazione di Trump come «un’ammissione dell’annessione di Israele agli Usa». Rebecca Vilkomerson, direttore esecutivo di Jvp, ha dichiarato che «per 70 anni gli Stati uniti hanno dato a Israele l’approvazione tacita per rubare la terra palestinese, costruire insediamenti illegali ebraici e negare ai palestinesi, a Gerusalemme est e altrove, i loro diritti. La decisione di Trump porta queste politiche al livello successivo; ciò è imprudente, irresponsabile e mette in pericolo la vita di palestinesi e israeliani».
Il New Israel Fund, con sede negli Stati uniti, ha anche sollevato riserve sui potenziali pericoli che tali mosse potrebbero comportare per gli israeliani e gli ebrei nella diaspora. L’ad, Daniel Sokatch, ha affermato che «il presidente Trump non capisce cosa sia in gioco qui. Spostare l’ambasciata rischia di innescare un’esplosione di rabbia, frustrazione e disperazione come già esiste a Gerusalemme».

il manifesto 7.12.17
Il diritto internazionale non esiste più
Trump/Gerusalemme. Noi indignati e impotenti, la comunità internazionale colpevole di complicità e sostegno ai governanti d’Israele che dovrebbero essere portati davanti al Tribunale Internazionale per i crimini commessi contro la popolazione palestinese
di Luisa Morgantini


Donald Trump lo aveva promesso durante la sua campagna elettorale: «Trasferirò immediatamente l’ambasciata Usa a Gerusalemme, l’eterna capitale del popolo ebraico».
Lo aveva espresso con grande passione ma come dicono i gruppi di ebrei progressisti americani molto «irresponsabilmente». Poi da presidente ha dovuto mettere qualche freno, ma il cammino è cominciato e se non vi sarà una reazione e pressione forte dalla comunità internazionale terminerà non solo con l’ambasciata Usa a Tel Aviv ma con altri paesi che seguiranno l’esempio, ministri del governo Netanyahu, come Naftali Bennet, lo stanno già chiedendo. Mentre scrivo Trump ha appena rivelato il suo piano, e già in precedenza la sua portavoce Katrin Pierson aveva dichiarato alla Fox che «questo è un grande giorno per il popolo degli Stati uniti, il presidente riconoscerà quello che è già di fatto la realtà, Gerusalemme è la capitale d’Israele». Dire che la legalità internazionale non conta nulla per Trump è troppo ovvio, non esiste legalità internazionale esiste quello che Trump a seconda degli umori decide. E lo sanno bene i governanti israeliani che della violazione del diritto internazionale hanno fatto il loro credo con la colonizzazione e l’insediamento della propria popolazione sulle terre palestinesi, ma anche con le torture, le detenzioni amministrative, le demolizioni delle case, il furto dell’acqua, l’assedio di Gaza, e con un’occupazione militare brutale e persecutoria che dura da cinquant’anni, un tallone di ferro sul capo di ogni bambino, giovane, donna, uomo palestinese.
E la soluzione Gerusalemme capitale condivisa per due popoli e due Stati verrà definitivamente sepolta, e Israele porterà a compimento il piano di colonizzazione dell’intera Cisgiordania, lasciando bantustan palestinesi e non certamente cittadini con pari diritti. L’Unione Europea, con la dichiarazione di Federica Mogherini, si dichiara assolutamente contraria al trasferimento dell’ambasciata, fa eco anche il nostro ministro Alfano che però ha avallato la partenza del Giro d’Italia da Gerusalemme a maggio 2018, in onore ai 70 anni dalla fondazione dello Stato d’Israele, che per i palestinesi ha significato la «Nakba», la catastrofe, con i 700mila profughi e i più di 500 villaggi palestinesi distrutti.
Anche la premier inglese Teresa May ha dichiarato di voler parlare con Trump perché non proceda nella sua decisione, il ministro degli esteri britannico ha dichiarato alla Bbc che non trasferiranno la loro ambasciata. Le reazioni nel mondo arabo e musulmano si sono fatte sentire, a parole; anche l’Arabia saudita, ormai consacrata all’alleanza Usa-Israele, ha preso posizione, anche se il piano di soluzione (si dice in accordo con gli Usa) presentato al presidente Mahmoud Abbas, sembra ricalchi le orme del piano di Camp David al tempo di Ehud Barak e Clinton e cioè che la capitale della Palestina sarebbe stata ad Abu Dis, villaggio alla periferia di Gerusalemme, dove peraltro il muro di annessione coloniale costruito da Israele a partire dal 2002 e condannato dalla Corte Internazionale dell’Aja, ha tagliato a metà, una parte nella Cisgiordania, l’altra divenuta periferia di Gerusalemme.
Ma non sarà solo vittoria per Israele, dovrà prendere delle decisioni, perché mentre afferma l’indivisibilità di Gerusalemme, la città è divisa, Gerusalemme est è sotto occupazione militare e malgrado l’impedimento a costruire case, la deportazione lenta dei palestinesi e la crescita di colonie, i palestinesi sono ancora circa 300mila, il 40% della popolazione: gli verranno riconosciuti i diritti al pari degli israeliani? La scelta di Trump scatenerà rivolte?
Forse non subito, la popolazione palestinese è stanca e costretta a pensare ogni giorno alla sopravvivenza. In questi giorni poi i dipendenti pubblici non hanno ricevuto il salario e sono sopraffatti dai bisogni, la leadership palestinese debole e sotto continuo ricatto. Ieri è stato il primo giorno della rabbia in Palestina, non c’è stato molto, ma tutti aspettano la dichiarazione di Trump. Mentre Israele bombarda la Siria.
Noi indignati e impotenti, la comunità internazionale colpevole di complicità e sostegno ai governanti d’Israele che dovrebbero essere portati davanti al Tribunale Internazionale per i crimini commessi contro la popolazione palestinese.

Il Fatto 7.12.17
La Capitale della discordia e il salto nel vuoto di Trump
Il presidente Usa definisce scontata la scelta di spostare l’ambasciata e conferma la soluzione dei “Due Stati”. Contrario il Papa
di Roberta Zunini


Il dado sarebbe dunque tratto. Trump ha osato quello che dal 1995 i suoi predecessori non avevano fatto: dare seguito alla legge varata 22 anni fa dal Congresso americano che ordina di spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.
Da Bill Clinton passando per George W. Bush fino a Obama, nessun inquilino della Casa Bianca aveva emanato un ordine esecutivo.
Lo status di Gerusalemme è da sempre infatti il nodo gordiano del conflitto israelo-palestinese-arabo. perché si tratta di una questione non solo territoriale ma religiosa, trovandosi concentrati nella zona orientale della Città Santa i principali luoghi di culto dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’Islam, all’interno cioè della cosiddetta Città Vecchia.
“Il mio pensiero va ora a Gerusalemme – ha detto Papa Francesco – non posso tacere la mia profonda preoccupazione per la situazione che si è creata negli ultimi giorni e, nello stesso tempo, rivolgere un accorato appello affinché sia impegno di tutti rispettare lo status quo della città, in conformità con le pertinenti Risoluzioni delle Nazioni Unite”
Molti analisti sostengono che proprio il trionfo della Russia, alleata dell’Iran in Medio Oriente ma anche potenza con buoni rapporti nell’establishment israeliano e i problemi scatenati dal Russiagate siano i motivi per cui Trump ha fatto la sua mossa. The Donald starebbe insomma usando la pericolosa carta di Gerusalemme per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica americana dalle sue pericolose relazioni con Putin; per tentare di cancellare lo smacco della “russificazione” in atto nell’area del Medio Oriente; per prendersi la rivincita sull’Iran e i libanesi di Hezbollah nemici suoi, dell’Arabia Saudita e di Israele. Ma soprattutto per accondiscendere al volere dell’Aipac, la più potente lobby conservatrice ebreo americana, a cui appartiene la famiglia di Jared Kushner, il genero ortodosso nonché consigliere senior di Trump per il Medio Oriente. L’Aipac, fondamentale lo scorso anno per convincere i big delle merchant bank e di Wall Street a dare il voto a Trump e oggi a sostenerne la riforma fiscale, è costituita da molti ebrei che vogliono tutta Gerusalemme, compresa cioè la parte orientale, capitale d’Israele. Secondo le risoluzioni dell’Onu invece Gerusalemme Est è destinata a diventare la futura capitale di un eventuale stato palestinese a tutti gli effetti.
Dall’Aipac inoltre partono buona parte dei finanziamenti alle fondazioni non profit per la creazione e l’allargamento delle colonie ebraiche nei Territori palestinesi occupati, che secondo la Quarta Convenzione di Ginevra comprendono anche Gerusalemme Est.
“Gerusalemme appartiene tutta al popolo ebraico da più di tremila anni e quindi deve essere la capitale di Israele nella sua interezza. Finalmente c’è a capo dell’unica superpotenza mondiale un uomo che ci permetterà di ottenere giustizia. Anche se saremo ulteriormente isolati dai vicini arabi, turchi e libanesi, non è un problema lo siamo già del resto. Per fortuna in Arabia Saudita ora c’è un ministro della Difesa e principe ereditario un uomo che appoggia questa decisione di Trump anche se non lo può affermare ufficialmente”, dice Daniel Luria, fondatore della associazione no profit Ateret Cohanim, finanziata in parte dall’Aipac; non si definisce un colono proprio perché ritiene Gerusalemme Est capitale di Israele anche formalmente dal 1950. Questa non profit ebraica è stata creata proprio con l’intento di portare quanti più ebrei possibile nella zona orientale di Gerusalemme e di aiutarli a impossessarsi delle case date ai profughi palestinesi del ’48 dall’Onu. “Non ci importa se scoppierà la Terza Intifada, siamo abituati a subire la violenza del mondo non solo dei musulmani. Gerusalemme, la Giudea e la Samaria appartengono a noi”, conclude Luria. E ora lo dicono anche i palestinesi: “La questione dei due Stati è ormai morta per colpa di Trump e Netanyahu. Combatteremo per riprenderci tutta la Palestina”.

Repubblica 7.12.17
Nella parte araba della città
Tra i palestinesi “Pronti a difendere casa nostra”
L’esercito blinda il consolato americano Si temono violenze. “Tre giorni di rabbia”
di Francesca Caferri


Dalla nostra inviata
GERUSALEMME È sera e lungo Salehddine Road, una delle arterie principali di Gerusalemme Est, la parte araba della città contesa, tira un vento gelido. In giro ci sono poche persone: effetto del freddo e della pioggia, dicono i titolari dei caffè e dei ristorantini, ma anche della presenza della polizia. Le macchine bianche e blu israeliane passano in continuazione, dall’interno gli agenti scrutano la strada guardinghi. «Non succederà nulla oggi, è inutile che passino. Le conseguenze di quello che sta per succedere le vedrete fra due anni, non adesso», dice minaccioso un uomo mentre addenta un panino con il figlio. All’improvviso si ferma, e con lui tutto il negozio: sugli schermi della televisione appare Donald Trump. Qualche minuto, e poi le frasi che tutti si aspettavano: Gerusalemme è la legittima capitale dello Stato di Israele e per questo l’ambasciata americana sarà trasferita qui.
L’uomo butta via il panino, indispettito: «Non basta un presidente americano a fermare la Storia, questa è anche casa nostra: non decide lui», dice trascinando via il figlio senza lasciare il nome.
La furia di questo padre è lo specchio del sentimento che si respira per le strade della parte araba della città contesa: se a Gaza sin dalla mattina ci sono state dimostrazioni proseguite fino a notte, con foto di Trump e le bandiere americane bruciate, Gerusalemme Est al primo sguardo appare tranquilla. Ma basta parlare con la gente per capire che la rabbia è forte: «Cosa vi aspettavate, che scendessimo in strada adesso? Per farci sparare? È chiaro che qualcosa accadrà, non possiamo accettare quello che ha detto Trump», dice Muhammad, che della tavola calda che serve kebab è uno dei gestori.
Gli israeliani questo lo sanno benissimo: lungo le mura della città, in corrispondenza delle porte vecchie di millenni, stazionano macchine della polizia e dell’esercito. Intorno al consolato americano lo spiegamento di forze è massiccio: nel pomeriggio sembrava che potesse trasformarsi in un luogo di protesta, ma la pioggia e il vento hanno disperso i pochi che erano arrivati. Il dipartimento di Stato ha diffuso una nota invitando gli americani alla massima prudenza in tutta la regione. Quando Trump finisce di parlare nelle stradine della città vecchia si sentono solo i rumori dei passi dei militari di pattuglia: qualche ora prima del discorso sulle antiche mura erano state proiettate le bandiere degli Stati Uniti e di Israele. Ma di fare festa, al di là delle dichiarazioni ufficiali del governo, pochi qui sembrano aver voglia.
Il movimento che contesta il primo ministro Benjamin Netanyahu dalle parole di Trump sembra aver preso forza. Sabato tornerà in strada per chiedere le dimissioni del primo ministro.
«Per il presidente americano è facile parlare. È a migliaia di chilometri di distanza. Ma noi siamo qui e pagheremo le conseguenze delle sue parole», dice Dorit Rabinyan, una delle scrittrici israeliane della nuova generazione, diventata famosa con un libro, “Borderlife”, che racconta la storia d’amore fra una giovane ebrea e un palestinese. «È il classico battito di ali di farfalla: un movimento che appare minimo nel luogo dove avviene, ma è capace di provocare un uragano dall’altra parte del mondo». Come tanti Rabinyan teme una nuova ondata di violenza e le reazioni palestinesi fanno temere che abbia ragione.
In un’intervista ad Al Jazeera, il responsabile politico di Hamas Ismail Haniyeh ha parlato dell’inizio di «un periodo di terribili trasformazioni per tutta la regione» e diverse fazioni hanno diffuso un comunicato congiunto invitando la popolazione a «tre giorni di rabbia». Da parte sua il presidente Mahmoud Abbas ha parlato di «decisione inaccettabile». A Salehddine Road Abbas non è troppo popolare, soprattutto fra i giovani: «Troppi compromessi, troppa corruzione.
È anche per colpa sua se siamo a questo punto», sintetizza Hassan, 23 anni, che con tre amici ha seguito il discorso dal telefonino nel negozio di jeans in cui uno di loro lavora. Con il suo ottimo inglese e sempre connesso sui social, Hassan pare il ritratto perfetto di una generazione che dal processo di pace sente di non aver più niente da guadagnare.
«La realtà — dice — è che ci hanno abbandonato tutti. Trump non avrebbe fatto questa dichiarazione se non fosse stato d’accordo con i sauditi, che sono d’accordo con Netanyahu. Ma Gerusalemme non sarà mai solo per gli ebrei: nessuno come gli abitanti di Gerusalemme sa difendere questa città. E lo faremo».



il manifesto 7.12.17
Pisapia alla fine dice no. Renzi in pressing ma l’alleanza gli frana
Democrack. L’ex sindaco: «Senza ius soli non ci sono le condizioni». I suoi divisi Bersani: «Aperti a Giuliano», ma nella lista prevale la diffidenza. Per i dem si allontana la «beneduzione» di Prodi Cp divisa fra chi guarda a Grasso e chi resta
di Daniela Preziosi


«Il mio tentativo non è riuscito, ma non sono venute meno le ragioni che lo hanno ispirato». E alla fine, dopo più di un anno di offerte e ripensamenti, di stop and go, di aperture entusiastiche e improvviso arroccamenti permalosi, Giuliano Pisapia batte in ritirata: nessuna coalizione con il Pd, almeno non in suo nome. Lo ha deciso ieri alla fine di una riunione drammatica al Centro Cavour, a Roma, andata avanti fino a metà pomeriggio. La tardiva presa d’atto che lo ius soli non diventerà legge in questa legislatura, che la maggioranza ha paura anche di portarlo in discussione in aula è stato il colpo finale di una trattativa, quella con il Pd, anemica e stentata sin dall’inizio, nonostante la propaganda di rito. Niente ius soli, «impossibile proseguire il confronto», dice alla fine Pisapia. Il capogruppo al senato Luigi Zanda continua nel minuetto delle ipocrisie che il Pd ha portato avanti fino alla fine: «Sia il fine vita che lo ius soli sono stati calendarizzati per l’aula del Senato, come auspicato da Campo progressista, su iniziativa del Pd, con l’obiettivo di farli approvare nelle prossime due settimane». Ma ormai nessuno più ci crede.
Ironia feroce della sorte, Pisapia annuncia il suo no a Renzi nello stesso giorno in cui anche Angelino Alfano, l’alleato più indigesto per gli arancioni, decide di non candidarsi. Leva un problema ai dem, ma ormai è troppo tardi.
Da Campo progressista i segnali di allarme verso il Nazareno erano stati parecchi nelle ultime ore. Ma Piero Fassino, l’ambasciatore di Renzi, aveva risolto «con pacche sulle spalle» e confidato in un happy end che sembrava già scritto. Poi nella giornata di martedì anche Lorenzo Guerini e Ettore Rosato erano stati informati del piano inclinato che era stato imboccato al lato sinistro delle trattative. Infine Renzi.
E Renzi si mette in moto in effetti. Ma solo ieri nella tarda mattinata, quando da dentro l’assemblea arrivano le prime voci della rottura che si sta consumando. Il segretario telefona all’ex sindaco di Milano e manda sms a molti dei presenti. Così fa anche il presidente Paolo Gentiloni.
Perché se Atene piange, anche Sparta non ride. Se per Pisapia la ritirata è una figuraccia senza aggettivi – persino Bersani, invitandolo a unirsi a Liberi e uniti, ricorda impietosamente che l’ipotesi di un accordo con il Pd presentava «già in partenza dei problemi difficilmente superabili» – per il Pd siamo alla Caporetto della coalizione prima ancora del giudizio degli elettori. Resiste la lista dei moderati di Casini e Lorenzin, ma con i radicali italiani di Emma Bonino le trattative sono ancora per aria: sono in rivolta per l’eccesso di firme da raccogliere per una presentazione autonoma. Campo progressista invece non si schiera con Renzi. Restano fedeli all’idea dell’alleanza i Verdi, i centristi di Tabacci e alcuni ex Sel come Luciano Uras, Michele Ragosta, il sindaco di Cagliari Zedda. Ma in queste condizioni la agognata «benedizione» di Prodi diventa un miraggio.
Renzi va in pressing sui vicinissimi a Pisapia, fa sapere di aver già convinto Massimiliano Smeriglio. Che però frena: «Prendiamo atto della decisione di Giuliano, il Pd non ci ha mai preso sul serio. Ma adesso fermiamoci a riflettere». Dal Nazareno giurano che «perlomeno ora c’è chiarezza» e che «si va avanti». «Il Pd avrà comunque una forza alla propria sinistra e una al centro in coalizione. Ci presenteremo in tutti i collegi e supereremo il 30 per cento in tutti i collegi», cerca di alzare il morale la sottosegretaria Maria Elena Boschi. Ma la realtà dei fatti è un’altra: la gamba di sinistra della coalizione si sgretola e il Pd resta un partito di centro che guarda a destra.
Stamattina la riunione di Campo progressista, o di quel che ne resta. L’area nel frattempo si è fatta in tre: quelli che «con il Pd a prescindere» e che accusano gli altri di «tradimento» e di «lavorare per una poltroncina», come Michele Ragosta; quelli che propongono una pausa di riflessione (come Smeriglio); e infine quelli che da settimane si sono avvicinati alla presidente Laura Boldrini, che a sua volta prepara il suo sì a Grasso.
Non che il rientro «a casa» con gli ex sia in discesa. Nella lista «Liberi e uniti» ormai ci si avvicina al momento della stretta delle candidature, il momento peggiore per dimostrarsi generosi. A Radio Radicale Pier Luigi Bersani spalanca le porte al figliol prodigo: «Noi abbiamo preso una strada chiara, per tempo e ci teniamo molto aperti, anche a Pisapia».
Ma da Sinistra italiana trapelano toni e accenti diversi: «Prendiamo atto che l’esito di questa vicenda dimostra che avevamo ragione e che quello di Cp era un progetto campato per aria. Se ora qualcuno di loro vuole sostenere la lista di Liberi e uguali ben venga». Non è precisamente un «bentornati compagni».

Il Fatto 7.12.17
Elezioni, Giuliano Pisapia si ritira: “Ius soli affossato, impossibile proseguire confronto con il Pd”
L'ex sindaco di Milano fa un passo indietro dopo che la proposta di legge che riforma la cittadinanza è stata praticamente condannata a non vedere mai la luce in questa legislatura. Parte di Campo progressista verso la nuova formazione di Grasso "Liberi e uguali". Il dem Zanda: "Ha gettato la spugna"

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il manifesto 7.12.17
Contro Grasso il fuoco amico di un Pd autolesionista
Sinistra. E se per scegliere i candidati «Liberi e Uguali» usasse il metodo del partito laburista inglese? Non è un brutto sistema e neppure tanto macchinoso
di Alfio Mastropaolo


La nuova formazione politica, che si è proposta di occupare il vastissimo spazio sgomberato dal Pd alla sua sinistra, si è testé presentata dandosi un nome – “Liberi e Uguali” – e un front man, nella persona di Pietro Grasso.
Riuscirà questo progetto? Vedremo.
Di questi tempi i partiti pare si possano improvvisare anche in pochi mesi. Ma bisogna essere bravi per farlo. Ciò che tuttavia colpisce di più è come da subito l’artiglieria abbia iniziato a tuonare contro Grasso. Che tuonino i cannoni del nemico è comprensibile.
Fa invero un po’ ridere che solo qualche mese fa il Pd si era buttato ai piedi di Grasso scongiurandolo di candidarsi alla presidenza della Regione Siciliana: chissà perché lì andava bene e nelle fila di «Liberi e uguali» sarebbe fuori posto.
Ciò che è nondimeno più inquietante è il fuoco amico, iniziato contestualmente e con fragore.
BASTA FARE UN GIRO tra i social. Sarà Grasso in condizione di guidare la nuova formazione politica? La sua esperienza di magistrato è requisito sufficiente per farne un leader? Non c’era in giro un quarantenne che desse alfine il segno di un cambiamento? E avrà, questo Grasso, forza e capacità per sottrarsi (l’argomento è a dire il vero trasversale) all’influenza di vecchi arnesi della politica come Bersani e il mefistofelico D’Alema? Che dire infine del fatto che Grasso non ha rinunciato alla sua carica di presidente del Senato?
Il fuoco amico, va da sé, è sempre il più scoraggiante. I tempi sono difficili. Il Pd è sequestrato da un delirio suicida di onnipotenza. Il rischio di tornare nelle mani di Berlusconi e dei suoi torvi sodali è altissimo. Il Movimento 5 Stelle svolge un’azione a dir poco distruttiva e non sappiamo se preoccuparci di più per la disinibita incompetenza di Di Maio, o per l’oscura competenza di chi ne tira i fili.
«LIBERI E UGUALI» È una scommessa ed è pure la sola di cui credibilmente disponiamo per le prossime elezioni. Grasso per parte sua ha le carte in regola. È stato un magistrato degnissimo. Ha guidato la procura antimafia. Ha sempre tenuto una postura molto sobria, lungi da furori giustizialisti. Si è messo a riposo prima di candidarsi. È stato un presidente del Senato impeccabile. Personalmente preferirei si dimettesse dalla carica. Ma, a vedere come sono spesso gestiti in questo paese gli incarichi istituzionali (pensiamo allo scempio in corso alla commissione bicamerale sulle banche), l’ostacolo non è insormontabile. Ciò che conta è come Grasso agirà in Senato in ciò che resta della legislatura.
IN PIÙ. DA UNA formazione politica che si chiami «Liberi e Uguali» e voglia recuperare la tradizione, rigettata dall’attuale Pd, della sinistra italiana e dell’accordo costituente, una cosa da aspettarsi è appunto il superamento della leadership personale. Colpisce invece che in molti a sinistra siano anche loro prigionieri del paradigma personalistico.
Quando la partita con Renzi è da giocare non opponendogli un leader antagonista, ma rifiutando il suo modello di leadership e adottando il metodo del lavoro collegiale. Una cosa è indicare una figura che dia il senso di ciò che la nuova formazione vuol essere, un’altra è scegliere un capo cui sottomettersi. Il mito del leader è un pessimo vizio da cui liberarsi.
C’È DA AUGURARSI piuttosto una larga mobilitazione di energie, volta a elaborare e sostenere un ambizioso progetto di cambiamento. Serve un programma, che al momento non c’è, e servono poche e chiare proposte che suscitino attenzione e restaurino la fiducia nella politica, oggidì ridotta al lumicino. Contestualmente la partita è da giocare sul piano delle candidature. Per quanto meritino simpatia, non avrebbe senso una lista volta a risarcire le vittime del mobbing politico renziano. Nel futuro parlamento dei nominati, c’è bisogno il più possibile di figure nuove: uomini e donne che si siano segnalati nel governo locale, nell’azione sindacale, nelle professioni, nell’associazionismo democratico. Ci sono, vanno invitati, se possibile elaborando una procedura trasparente e meno maldestra delle cosiddette «parlamentarie» per selezionarle.
IL PARTITO LABURISTA inglese sceglie i candidati alle cariche elettive pubblicando un appello: chi è interessato presenta il suo curriculum. I curricula possono essere pure presentati da altri, ad esempio dalle associazioni. Alla luce dei curricula, un comitato a livello di collegio seleziona un numero ristretto di nomi. Costoro sono convocati e sottoposti a pubblica audizione, onde scegliere il più credibile in ragione sia delle sue esperienze e competenze, sia delle esigenze di rappresentanza del collegio. Non è un brutto metodo.
Nemmeno troppo macchinoso.

Il Fatto 7.12.17
Pd, il tesoriere Bonifazi chiede mezzo milione di euro agli ex compagni di Mdp: “Soldi dovuti secondo lo statuto”
"La richiesta si riferisce alle somme dovute fino a quando i colleghi hanno mantenuto la loro adesione al Pd, non oltre", scrive il tesoriere del partito di Matteo Renzi su facebook, che ha chiesto 83mila euro a Piero Grasso, presidente del Senato e leader della nuova formazione Liberi e Uguali

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Repubblica 7.12-17
Il pd solo e scoperto a sinistra
di Stefano Folli


Non ci sarà una coalizione intorno al Partito Democratico. Nonostante gli sforzi del plenipotenziario Piero Fassino, l’impresa era probabilmente fallita prima di cominciare per mancanza di condizioni preliminari. Pisapia ha tentato l’impossibile: individuare uno spazio tra Renzi e la sinistra scissionista che oggi si chiama “Liberi e uguali”. Vien voglia di dar ragione a Franco Monaco quando dice: il tentativo andava fatto anche se tutto era contro l’ex sindaco di Milano.
Quella “terra di mezzo” era stata bruciata e devastata nei mesi scorsi per responsabilità variamente distribuite.
Ieri Pisapia ha annunciato il suo ritiro. Da tempo aveva dichiarato che non si sarebbe personalmente candidato: la novità è che anche Campo progressista si sfarina, qualcuno andrà con Renzi, altri confluiranno nel cartello guidato da Grasso. Ognuno per sé.
Questo per quanto riguarda la sinistra.
Sul versante del presidio centrista, il ministro degli Esteri Alfano ha comunicato a “Porta a Porta”, la cosiddetta terza Camera, la sua intenzione di non ripresentarsi. Si dirà che dopo il fallimento in Sicilia lo spazio di Ap era ormai irrisorio. Tuttavia anche questo ritiro ha un valore simbolico. Ora spetta al solo Pierferdinando Casini il compito di dimostrare che esiste un valore aggiunto centrista in grado di aggiungere qualche decimale di punto al risultato del Pd renziano. Non appena avrà concluso il suo lavoro alla commissione parlamentare sulla banche, non c’è dubbio che Casini si metterà all’opera. Ma riesce difficile credere che un mini-cartello aggiustato all’ultimo momento possa raggiungere la soglia minima del 3 per cento. Darà corpo semmai a quella che si definisce una “lista civetta”: al vertice uno o più nomi presentati come indipendenti del Pd in collegi all’incirca sicuri, in basso un certo numero di voti sparsi da riversare nel calderone del partito renziano per contribuire alla divisione dei seggi (ma dovranno essere almeno l’uno per cento).
C’è poi il caso della lista europeista di Emma Bonino. Riunisce una buona classe dirigente, forse la migliore del centrosinistra, ma è bloccata dall’assurda regola delle firme: 50mila da raccogliere in poche settimane per avere il diritto di presentare la lista. Se le cose non cambieranno, l’ex ministra Bonino potrebbe seguire il destino di Pisapia e restarsene a casa. Lasciando che altri del mondo laico-radicale facciano la loro scelta un po’ alla spicciolata. Potrebbero tentare di conquistare un posto nelle liste del Pd, ma è chiaro che sarebbe la solita corsa in salita. O per meglio dire, sarebbe una testimonianza sul cui successo ci sono molti dubbi. Come è ovvio, questa catena di fallimenti ha una causa e almeno una conseguenza. La causa è che non si sono mai costruiti i presupposti di una vera coalizione: in fondo al suo animo Renzi ritiene di essere autosufficiente e non gradisce quel tanto di condizionamento che un’alleanza impone. Al massimo lascia quale posto in lista per dei compagni di strada, meglio se con nomi ben conosciuti. Quanto alla conseguenze, la principale riguarda la sinistra. Si esaurisce con Pisapia il tentativo, forse velleitario, di creare un po’ di concorrenza al cartello Grasso-Bersani-D’Alema. L’addio del personaggio-chiave rende il partito renziano ancora più solo. A rappresentare le ragioni di una sinistra, diciamo così, classica resta Orlando.
Quando è evidente che il Campo progressista avrebbe colpito di più la fantasia di un certo tipo di elettore.

Il Fatto 7.12.17
Ghizzoni in lista d’attesa e Boschi inizia a confessare
La commissione vuole ascoltare l’ex Unicredit. Maria Elena parla del loro incontro
Ghizzoni in lista d’attesa e Boschi inizia a confessare
di Carlo Tecce


Federico Ghizzoni è in lista d’attesa. L’ex Ad di Unicredit, a cui si rivolse Maria Elena Boschi per “valutare una possibile acquisizione di Banca Etruria (il padre del sottosegretario era vicepresidente dell’istituto aretino, ndr)”, secondo il racconto di Ferruccio de Bortoli nel libro Poteri forti (o quasi), sarà ascoltato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta. Non c’è una data, se non un’indicazione che l’audizione avvenga prima di Natale, entro il 22 dicembre.
Dopo l’annuncio di una richiesta di risarcimento danni nei confronti dell’ex direttore del Corsera e di altri (e non specificati) giornalisti, la sottosegretaria è tornata in televisione. A Porta a Porta, Boschi ha accolto così la notizia su Ghizzoni: “L’audizione aiuta, è un elemento positivo, se dirà la verità sarà un bene per tutti”. L’ex ministro inizia a testare la sua difesa mediatica. Scontata la solita smentita: “Io non ho mai chiesto a Ghizzoni di studiare l’acquisizione di Banca Etruria, la mia famiglia aveva azioni per 10 mila euro. Quello che scrive De Bortoli non è vero”. Ma la parte più interessante è un’altra. Quella in cui Boschi ammette di aver parlato di banche con l’ex Ad di Unicredit e attribuisce erroneamente a De Bortoli l’utilizzo del termine “pressioni”: “Ho incontrato Ghizzoni, ma negli incontri avuti, che erano pubblici, come rappresentante del governo, è vero che ci sono state discussioni sul sistema e anche sulle problematiche del mondo bancario, ma da questo non si può arrivare a dire che io ho fatto pressioni su Unicredit. Io non ho fatto pressioni, non è vero, ora è giusto tutelare la verità. Il governo si è occupato di banche, Etruria, Monte dei Paschi e delle altre banche per tutelare i correntisti. Il governo Renzi ha poi deciso che Banca Etruria dovesse essere commissariata, mandando a casa il Cda, dove c’era mio padre”. La sottosegretaria ribadisce quello che aveva detto solennemente alla Camera per respingere una mozione di sfiducia: “Non mi sono mai occupata di Etruria”. Ora Ghizzoni dovrà dire se ha mentito oppure no.

La Stampa 7.12.17
Ecco i prestiti di Etruria a Boschi
Fino a 9 milioni a società collegate
di Gianluca Paolucci


Una serie di società riferibili a Pier Luigi Boschi ha ricevuto in totale affidamenti da Banca Etruria tra 9,1 milioni e 6,3 milioni nel periodo nel quale il padre del sottosegretario Maria Elena Boschi era consigliere della banca.
Una informativa della Guardia di finanza che analizza le posizioni conclude però che le posizioni esaminate «non presentano profili di criticità». L’informativa, che utilizza anche le risultanze di un esame delle strutture interne della banca, analizza 43 posizioni in totale di società e persone fisiche. Di queste, 17 risultano «non censite» nei sistemi della banca mentre delle restanti 26 sono 13 quelle che hanno affidamenti in essere. Una di queste, la cooperativa Zootecnica del Pratomagno, è classificata in sofferenza dal 13 febbraio del 2015, subito dopo il commissariamento di Etruria da parte di Bankitalia.La posizione era però classificata in bonis almeno fino al 31 dicembre 2014, poche settimane prima del commissariamento. In questa società, Boschi è diventato consigliere il 26 giugno del 2014 - poco dopo essere diventato vicepresidente della banca- mentre l’ultima pratica di affido, per un totale di 253 mila euro, è del 6 agosto dello stesso anno. La pratica è però stata gestita dal responsabile territoriale del credito mentre un affido precedente, nel 2012, era passato dal cda. L’apertura della pratica di affidamento è del 2010. Al 31 dicembre 2015, annota la Gdf, la società non è più censita tra le sofferenze ma non chiarisce quando e perché esce.
Tra le altre posizioni anomale c’è la Immobilare Casabianca, dove Boschi è azionista (con il 16,67%) e consigliere. La posizione è classificata come «past due» (crediti scaduti o sconfinati da più di 90 giorni, la categoria meno grave dei crediti deteriorati). Ma l’ammontare del fido è di poche migliaia di euro. Due persone fisiche collegate a Boschi per questa pratica - entrambe socie di Immobiliare Casabianca - hanno avuto un fido di 101 mila euro nel 2007, poi ridotti a 10.400 nel 2012.
Per la Valdarno Superiore, una cooperativa agricola dove Boschiè stato consigliere e presidente, i prestiti di Etruria sono molto più grandi. La coop di San Giovanni Valdarno, in provincia di Arezzo, è affidata per 1,483 milioni di euro ed è classificata come «anomala» e «sotto controllo centrale» - la soglia che precede la classificazione a credito deteriorato - a più riprese tra il 2012 e la fine del 2013. Controllata della Valdarno è la Società agricola la Treggiaia, nella quale Boschi è stato presidente. La società ha un debito di 250 mila euro, erogato per la prima volta nel luglio del 2014 ed è classificata come «anomala» fino al 3 giugno del 2015.
C’è poi il caso della M.e. spa, una società che ha affidi con Etruria per 3,2 milioni di euro classificati «in bonis». In questa società non risultano cariche di Boschi, neppure per il periodo precedente al suo ingresso nel cda della banca. Ma nelle anagrafiche dell’istituto aretino figura una pratica cointestata alla società e a Boschi. Mentre un’altra persona fisica collegata alla stessa pratica e cointestataria della posizione con Boschi risulta avere un debito di 90 mila euro passato a incaglio nell’ottobre del 2014.
Boschi ha dichiarato la consiglio il proprio conflitto d'interesse per le pratiche di nove società e due persone fisiche, tra le quali figura la Zootecnica ma non la Valdarno Superiore.

Il Fatto 7.12.17
Scudi umani a difesa di sua altezza Boschi
di Daniela Ranieri


Difendere l’indifendibile, nello specifico la sottosegretaria Boschi dal sospetto di incarnare un conflitto di interessi in quanto rappresentante del governo e insieme curatrice delle questioni relative al fallimento della banca vicepresieduta dal suo babbo, è un’impresa titanica che non riuscirebbe nemmeno al chiacchierone contaballe Matteo Renzi (che infatti se ne guarda bene). Perciò al Nazareno ogni martedì si tiene una sessione di schiaffo del soldato. A turno, ogni parlamentare, ministro e dirigente, fino all’ultimo galoppino del Pd, viene fatto voltare verso il muro mentre un altro gli sferra uno schiaffo sulla nuca. Se lo schiaffeggiato indovina chi è stato, si salva. Quello che prende più schiaffi viene inviato nei talk della sera.
Martedì è stata una strage di scudi umani. Esentato Fiano (specializzato nella difesa di babbo Renzi, perinde ac cadaver), nel pomeriggio finisce a SkyTg24 tale Federico Gelli – che di schiaffi deve averne presi parecchi, per essere mandato con quel cognome a difendere una tizia chiacchierata di far parte di un cerchio che emana uno “stantio odore di massoneria”. Naturalmente scout, ovviamente toscano, eletto con Renzi nel 2013 (col Porcellum, come la Boschi), para i colpi di Fabio Rampelli di FdI con una vocazione al martirio da cavaliere medievale, blaterando di “inchiesta politica”, “gogna” e “garantismo” come neanche i berlusconiani si sognano più di fare davanti a testimoni.
A sera, a #cartabianca finisce disgraziatamente Ivan Scalfarotto. Sul perché il pm di Arezzo Roberto Rossi (ex consulente del governo Renzi) avrebbe mentito o omesso alla Commissione d’inchiesta sulle banche circa altre indagini a carico di babbo Boschi, Scalfarotto enuncia: “Ma perché un magistrato dovrebbe mentire?”. Dal che si evince che la linea di difesa al Pd la scrive l’usciere. Con la salivazione azzerata, davanti alle logiche domande di Berlinguer e De Bortoli, Ivan farfuglia delle altre banche fallite oltre a Banca Etruria, come se il punto non fosse che la Boschi, come scrive De Bortoli nel suo libro, da ministra delle Riforme (incompetente in vari sensi) si rivolse all’amministratore delegato di Unicredit Federico Ghizzoni per chiedergli di valutare una possibile acquisizione di Banca Etruria, giurando poi in Parlamento di non essersi mai occupata del dossier. Nell’intento di compiacere il capo e la di lui amica ma impossibilitato dal principio di realtà, Scalfarotto balbetta, ha la lingua felpata, grida: “Se la smettiamo di fare processi sui giornali… vogliamo parlare di Consip?”. Poi dà la colpa ai giornali per la mancata vigilanza sulle banche. Chiude dicendo “la Boschi non ha mai annunciato una causa per diffamazione”, il che è chiaramente, pateticamente falso. Verso le 23, viene rinvenuto in via Teulada in evidente stato confusionale.
In contemporanea, al funereo Ettore Rosato tocca la difesa d’ufficio a DiMartedì. Poveretto! Ripete a pappagallo il copione contenuto nel kit dello scudo umano della principessina Boschi: Etruria è stata commissariata dal governo Renzi (falso: da Bankitalia); la colpa è dei giornali che fanno la guerra al Pd diffamando Boschi (che peraltro non si sente affatto diffamata, visto che non ha querelato De Bortoli per diffamazione ma l’ha denunciato per danni). E, soprattutto, babbo Boschi non ha ricevuto alcun avviso di garanzia (siamo alla fase freudiana della negazione), o forse sì, ma per “falso in prospetto”, reato risibile inventato apposta per fregarlo.
Premio della critica a Beppe Severgnini, ospite di Otto e mezzo. Senza manco essere sotto schiaffo, si sente lo stesso il friccico del protettore di rango: dice di credere a De Bortoli, suo amico e direttore, e però, contestualmente, lamenta un “linciaggio mediatico” nei confronti della Boschi. Povera stella. Come se stesse scritto da qualche parte che questa “giovane donna” (fosse un anziano signore lo si potrebbe pure linciare) deve avere ruoli rilevanti nel governo del Paese. Come se la innocua fanciulla non avesse tentato di “riformare” la Costituzione, o non si potesse metterne in discussione il “merito”, uno dei feticci falsi di questa pseudo-classe di miracolati toscani a vario titolo legati a Renzi. Vediamo quanti voti prenderà, questo genio incompreso della Repubblica (anche se proprio Rosato ha scritto una legge che consentirà di farla agevolmente “eleggere” nel listino bloccato del proporzionale).

Repubblica 7.12.17
Se Mélenchon scopre grillo
di Anais Ginori


Chiamatelo pure Beppe Mélenchon. L’ipotetico «tribunale per dare sanzioni simboliche ai giornalisti bugiardi» chiesto da Jean-Luc Mélenchon assomiglia molto alla «giuria popolare per le balle dei media» proposta qualche tempo fa dal fondatore del Movimento 5 Stelle. A prima vista non ci dovrebbe essere nulla in comune tra l’ex comico che ha cominciato con il Vaffa day e l’ex dirigente della nomenclatura socialista, ora diventato capopopolo solitario. Troppo diverse le storie personali, le radici, i percorsi politici.
Mélenchon è capace di citare a memoria Victor Hugo, utilizza passaggi dei Miserabili nei suoi comizi, si vanta di possedere dodicimila libri, tra cui molti dedicati alla Rivoluzione francese. Eppure. Nonostante biografie e stili diversi, entrambi fomentano lo stesso odio per i giornalisti, con toni non poi così lontani. L’ultima intemerata del leader della France Insoumise è scattata dopo l’invito a “L’Emission Politique” sull’emittente pubblica France 2. Nelle oltre due ore di programma televisivo, Mélenchon è stato messo più volte in difficoltà. E quindi, l’indomani, ha parlato di «trappola organizzata», «abuso mediatico». Ha messo in dubbio l’autenticità delle domande del pubblico, la neutralità degli intervistatori. La conduttrice Léa Salamé è stata descritta come un’«isterica» che «squittisce», facendo abbondante ricorso a vecchi cliché maschilisti. Fino a proporre la creazione di un tribunale dei giornalisti, che dovrebbe, così si legge nella sua petizione online, «permettere ai cittadini di accedere a un’informazione sincera, indipendente e onesta».
In Francia come altrove la stampa e i giornalisti non sono esenti da colpe, errori, connivenze con il potere. Quando ci sono abusi della professione o notizie diffamanti devono rispondere davanti alla giustizia. Ogni riflessione o critica è benvenuta in un sistema multimediale, nel quale tende a sparire l’intermediazione e nessuno detiene più il monopolio delle notizie. Mélenchon preferisce cedere al facile insulto. «Iena», «Brutto stronzo », era stata l’accoglienza riservata a un cronista tv durante un comizio. I militanti di solito seguono l’esempio del Capo. Una giornalista di Le Monde che ha avuto la malaugurata idea di firmare un ritratto non autorizzato del leader è stata travolta di minacce e ingiurie sessiste sui social network. Il leader arrivato in terza posizione alle presidenziali ha boicottato tutti gli inviti dell’emittente France Inter, colpevole, a suo dire, di aver messo in evidenza le contraddizioni del suo programma politico. A seconda dei giorni e delle situazioni, il leader della France Insoumise può essere iroso o disponibile alla conversazione. L’abbiamo visto aggredire un giornalista britannico colpevole di aver chiesto lumi sulla sua posizione europea, su un eventuale Frexit: nulla di così strano per qualcuno che si candida a governare il Paese. Nel migliore dei casi, l’ossessione anti-media si risolve con la promozione di blog e canali YouTube.
Mélenchon scrive frequenti post e ha un canale molto popolare nel quale pubblica una “Rassegna” con il commento sui principali fatti della settimana. Il suo movimento, la France Insoumise, si appresta a battezzare un nuovo giornale, Le Media, che dovrebbe garantire «la libertà di informazione in un sistema dove 90% dei media è di proprietà di 9 miliardari». Un’organo di propaganda. Come l’Unità o l’Humanité di una volta, per inseguire quella “egemonia culturale” teorizzata da Antonio Gramsci, ci ha raccontato Mélenchon qualche tempo fa. Qualcosa non torna: dalla denuncia dei giornalisti faziosi e la richiesta di un tribunale si arriva alla promozione di nuovi media che stanno da una parte sola, la sua. La battaglia per l’informazione va combattuta altrove.

La Stampa 7.12.17
Talmud, la rivelazione permanente
Con il trattato sulle “Benedizioni” prosegue la traduzione integrale del testo sacro ebraico: insegna quando pregare e quando studiare
di Elena Loewenthal


C’è qualcosa di profondamente paradossale ma non meno congeniale all’ebraismo nel fatto che la tradizione d’Israele chiami «Torah orale» un immenso corpus di testi scritti. Questo suggestivo ossimoro porta con sé l’idea di una sorta di rivelazione permanente che comincia con la chiamata di Abramo - che in ebraico significa «Padre grande» -, prosegue con la dettatura della Legge su al Sinai, s’incammina nella storia del popolo d’Israele con i Profeti e gli Agiografi, e procede in una progressiva discesa ma anche diluizione dell’ispirazione divina che continua peraltro ad animare i detti dei rabbini e il loro inesauribile discutere intorno al testo sacro, cioè la Torah scritta - la Bibbia ebraica.
La Torah she beal peh, «Torah che sta sulla bocca» è fondamentalmente il Talmud, parola ricavata dalla radice ebraica che - in nome di quella straordinaria didattica dello scambio che fa dire a un grande maestro: «Ho imparato soprattutto dai miei discepoli» - significa a un tempo «imparare» e «insegnare»: un immenso verbale di discussioni, commenti, divagazioni e interpretazioni della Bibbia, passo per passo. Non fine a sé stesso, beninteso, bensì parte integrante di un continuo dialogare tra cielo e terra alla ricerca di quegli infiniti significati che la Bibbia contiene ma che non sono palesi.
Giunto alla sua redazione finale intorno al VI secolo, il Talmud è composto da sei ordini e 63 trattati, per un totale di molte migliaia di pagine. Questo testo straordinario (di cui a dire il vero esistono due redazioni, una detta «di Gerusalemme» e una, quella canonica, che viene invece «da Babilonia» perché quello era allora il fulcro della cultura ebraica) è ben più di un dotto commento alla Legge divina, cioè alla Bibbia: è una vera e propria enciclopedia della vita, per quanto disordinata e difficilissima da esplorare, in cui il materiale si delinea - sempre disordinatamente - secondo due categorie: la halakhah, cioè l’insieme di regole, e la haggadah, cioè la narrazione.
In questi giorni esce il secondo volume del monumentale progetto che prevede la prima traduzione italiana integrale di tutti i 63 trattati talmudici, avviato ormai molti anni fa e sostenuto fra gli altri dal Miur e dalla Presidenza del Consiglio (https://www.talmud.it). Si tratta del trattato Berakhot, che vede oggi la luce nella nostra lingua con la prefazione del rabbino Gianfranco Di Segni (in due tomi per i tipi della Giuntina, € 90) e che è forse il più suggestivo, il più ricco di evocazioni di tutto il Talmud.
Berakhot si traduce convenzionalmente con «Benedizioni» ed è uno dei trattati contenuti nell’ordine Zeraim, cioè «sementi» (e dunque tutto ciò che è legato alla vita produttiva dell’uomo e al suo rapporto con la terra, con la materia). Ma nell’universo ebraico la benedizione è qualcosa di difficile se non impossibile traduzione, perché, scrive Di Segni, «non rende bene la ricchezza semantica e concettuale che risuona nel termine ebraico. […] È il modo più tipicamente ebraico con cui si esprime la fede in Dio Re e Creatore del mondo». L’uomo benedice Dio e Dio benedice l’uomo in una dinamica in cui attivo e passivo si scambiano, l’astratto si fa concreto e viceversa, come quando è il Signore stesso a imporre all’uomo «Benedicimi!».
I primi tre capitoli del trattato si occupano della lettura dello Shema («Ascolta Israele», la professione di fede dell’ebraismo), e delle relative benedizioni; seguono parti dedicate alla preghiera «generica» e a quella che si ha da recitare «in piedi» (Amidah); poi si tratta delle benedizioni per il pasto, i cibi, i fenomeni naturali, i miracoli, la salvezza, i vestiti nuovi…, perché tutto è degno di benedizione. Ma, come scrive il più grande talmudista vivente, Rav Adin Steinsaltz, il tema centrale di queste pagine è la fede stessa attraverso un dialogo a molte voci che coinvolge lo spazio e il tempo del mondo.
Forse più il tempo dello spazio, perché l’ebraismo per millenni ha abitato nel primo molto più che nella geografia reale. E allora uno dei temi centrali del trattato Berakhot è quello di capire quando pregare, quando dedicarsi allo studio: «Come faceva re David a capire quando era mezzanotte? Lui aveva un segno per sapere quando era mezzanotte. C’era un’arpa appesa sopra il letto di David, e quando giungeva la mezzanotte veniva un vento dal Nord e soffiava attraverso l’arpa, e l’arpa suonava da sola. Immediatamente David si alzava e si occupava di Torah fino al sorgere dell’alba».
È proprio così che il Talmud si dipana: interrogando il testo sacro là dove esso tace, cercando ciò che in apparenza manca e che invece sta lì, negli inesauribili spazi bianchi fra le righe, là dove tutto è detto, fuori del tempo e dello spazio.

Corriere 7.12.17
Personaggi Il museo di Torino intitolato al criminologo, diretto da Silvano Montaldo, ne sta mettendo in rete la corrispondenza
Il lato poetico di Lombroso
Romanticismo o positivismo? Ecco il dilemma che domina l’epistolario giovanile
di Marco Demarco


Filippo Turati, il padre del socialismo italiano, comincia a scrivere a Cesare Lombroso per raccontargli di quel terribile mal di testa che lo fa sentire «intronato, intontito, sonnolento». O anche di quando, lui che non frequentava i bordelli («i comuni abbeveratoi»), aveva finalmente conosciuto una ragazza «di facile abbracciabilità». E non smette mai di ringraziarlo per averlo preso in cura. Anna Kuliscioff, la rivoluzionaria, scrive invece alla moglie del «professore» per ringraziarla «delle ore di geniale compagnia» e per confessarle che l’atmosfera colta nella sua casa le sta facendo cambiare idea sulla famiglia: la felicità, scrive, «forse non è un semplice sogno da poeta, o una frase retorica dei buoni borghesi, ma un fatto, una realtà». Ma questo è il Lombroso adulto, che riceve dalle 10 alle 20 lettere al giorno.
C’è poi quello giovane, ancora lontano dal diventare il fondatore dell’antropologia criminale, che scrive a sua volta perché ha molti dubbi. A 19 anni, mentre legge l’epistolario di Ugo Foscolo per assaporarne «i famosi sfoghi e i nobili scopi», vuole sapere se fa bene ad «annichilare ogni scintilla di fantasia» per non «barcollare» nella strada che ha già scelto, quella del «coltello anatomico» e della «fredda e severa analisi della storia». Scrive allora al suo amico Ettore Righi, etnografo e poeta, e la lettera è conservata presso la biblioteca civica di Verona. Gli confessa che ha una gran voglia «di abbandonare la vita del pensatore per quella dell’uomo di cuore». E che vuole dedicarsi ai versi e alle rime per provare «quelle fervide e negate passioni, quei sussulti vigorosi e pronunziati, quella gioja e quei grandi dolori che valgono ben la fisica e intermittente fiammella di qualche acuta osservazione, o di qualche nuova scoperta».
Positivismo o romanticismo? Il dilemma vero è questo. La misurazione di tutto, anche delle emozioni o l’emozione come misura assoluta dell’uomo? Il giovane Lombroso è disgrafico, in molti gli scrivono di essersi persi nei suoi geroglifici, ma il difetto non gli blocca il racconto. Quasi criptandolo, anzi, addirittura lo potenzia nell’intimo. Arrivano così le ammissioni più frivole e impudiche. Caro Righi, «ho imparato a sgambettare, volea dire a ballare (ma il termine per ora non è giusto)... e sia pur anche a fare all’amore».
Poi, però, Lombroso impugna i suoi attrezzi — quelli chirurgici, ma anche quelli meno invasivi come gli album in cui ha raccolto di tutto, dai disegni dei tatuaggi alle foto segnaletiche dei delinquenti — e diventa il medico, lo psichiatra, l’antropologo, il criminologo, il collezionista e l’intellettuale più noto, discusso e contraddittorio del suo tempo: ebreo, pone le basi del razzismo scientifico; razionalista, si occupa anche di occulto; scienziato, inanella molte cantonate. Fanno discutere i crani che sezionava convinto di poter trovare i segni distintivi del tipo criminale; o la contrarietà al diffondersi della bicicletta che, diceva, avrebbe velocizzato la devianza. Ma anche i suoi studi sulla genialità e sull’ art brut , quella dei marginali; o la militanza socialista e l’adesione al pensiero meridionalista.
Di lui molto già si sa. Ma molto sta emergendo anche dalla sua fluviale corrispondenza. Ci sta lavorando, Silvano Montaldo, direttore del Museo Lombroso di Torino, con l’obiettivo di mettere «in rete» entro giugno, più di 2.500 lettere: sia quelle del fondo archivistico del museo, comprensivo delle donazioni dei discendenti, catalogate da Sara Micheletta e Cristina Cilli, sia quelle rintracciate, in Italia e all’estero, da Emanuele D’Antonio, dell’Università di Torino. «Quel che resta di questo immenso epistolario lombrosiano — dice Montaldo — consente di aprire piste di ricerca del tutto nuove, perché di nessun autore tanto noto conosciamo così poco della sua vita e delle sue relazioni, se non per quello che le figlie nelle biografie del padre ci hanno voluto trasmettere. Stiamo comprendendo ispirazione, influenze, motivazioni e ricadute che stanno a monte e a valle dei suoi celebri (e famigerati) libri». Il filo conduttore della poesia, dove il privato sfida il pubblico, sembra essere uno dei più solidi. È la poesia che trattiene all’inizio Lombroso dal diventare quello che è diventato; è la poesia che lo avvicina a Turati, di cui vuole acquistare i versi appena pubblicati; è Turati che gli fa conoscere Anna Kuliscioff. Ma Lombroso è incontenibile. Corrispondeva con mezzo mondo. Con Herzl e Nordau, che cercano di impegnarlo sul fronte sionista ottenendone solo un pubblico messaggio. Con Durkheim e con Sorel. Con Mosca e Pareto. Con Verga e con Capuana. Con Ernesto Teodoro Moneta e con Giustino Fortunato.
Questo lo rende in qualche modo «specchio» di un’epoca: anche in virtù della considerazione in cui era tenuto. Tutti hanno qualcosa da chiedergli, da confessargli, di cui essergli riconoscenti. La lettera che segue è appunto di Giustino Fortunato, l’altro grande padre, quello del meridionalismo, ed è datata 13 maggio 1909: «Mio amatissimo venerato amico, perché mi date del Voi? A me spetta il tu, a me che ogni giorno fo voti per una vita che è di esempio, di ammaestramento, di supremo conforto per tutti i buoni!».