mercoledì 6 dicembre 2017

Il Fatto 6.12.17
Gerusalemme capitale “Trionfo del non sense”
Gli Usa annunciano il cambio dell’ambasciata e lo scrittore israeliano Yehoshua prevede che il caos “diverrà quasi inestricabile”
di Roberta Zunini


La decisione di Trump di spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme è insensata oltreché pericolosa. Ma, purtroppo, The Donald è il Re del non sense, per usare un eufemismo”. Avraham Yeoshua, il decano degli scrittori israeliani che per primo ha condannato l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi e ancora si batte affinché termini dopo mezzo secolo, commenta con un filo di voce al Fatto la notizia che è balzata nel pomeriggio di ieri in testa a tutti i media internazionali. “Ora la matassa già complicata nel Vicino Oriente e Medio Oriente non potrà che ingarbugliarsi ulteriormente, nella migliore delle ipotesi”, conclude Yeoshua.
La decisione della Casa Bianca di riconoscere implicitamente Gerusalemme come capitale di Israele spostando la propria ambasciata nella Città Santa – che Israele ha annesso nella sua interezza con una decisione unilaterale del Parlamento nel 1980 – è arrivata ieri dopo gli annunci dei giorni scorsi. Nonostante in serata un funzionario dell’amministrazione statunitense avesse puntualizzato che l’ambasciata non verrà spostata subito, l’allarme scatenato in tutto il mondo dalla provocatoria scelta di Trump non si è smorzato. Rimane infatti chiaro che il genero-consigliere di Trump, quel Jared Kouschner rampollo di una ricchissima famiglia ebreo-americana repubblicana di fede ortodossa e sostenitrice delle colonie ebraiche nei Territori palestinesi, è riuscito a convincere il suocero a sfidare il mondo islamico e anche la maggior parte degli arabi, suoi alleati. Da qui il “non sense” a cui faceva riferimento Yeoshua. Riconoscere tutta Gerusalemme, ossia anche la zona orientale in predicato di diventare la futura capitale di un eventuale Stato palestinese sulla base delle risoluzioni Onu, come capitale dello Stato ebraico è stato finora un tabù oltre che una sfida al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Le reazioni sdegnate del mondo arabo e di tutto quello islamico, che comprende anche i turchi e i persiani, sono state immediate e tutte di condanna. Gli unici arabi musulmani che non si sono uniti al coro vaticinante l’esplosione dell’ennesima tragedia nel secolare conflitto israelo-palestinese-libanese, sono stati i sauditi. Prova provata che il riconoscimento di Gerusalemme tutta come capitale unica e indivisibile di Israele è la diretta conseguenza del patto di ferro stretto l’estate scorsa dalla Prima famiglia statunitense e dalla famiglia reale saudita durante la visita dei Trump a Riyadh. L’ambizioso e determinato principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e Jared Kouschner allora avrebbero gettato le basi per la ripresa dei colloqui tra palestinesi e israeliani allo scopo di arrivare alla stipula di un piano di pace a quanto pare molto sbilanciato a favore di Israele.
Le soffiate pubblicate dal New York Times lo confermano. Peccato che i due spregiudicati neo-alleati abbiano fatto il classico conto senza l’oste. Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, informato della decisione con una telefonata di Trump, ha detto che si tratta di una “decisione sbagliata e molto pericolosa”. Ma in realtà non è il debole Abu Mazen il mescitore, bensì la Lega Araba che riesce sempre a parlare con una sola voce quando si tratta di difendere Gerusalemme Est, il luogo dove sorge il Monte del Tempio, per gli ebrei, che i musulmani chiamano Spianata delle Moschee.
Ovvero il terzo luogo sacro di tutto il mondo islamico, sia sunnita che sciita, dopo la Mecca e Medina, entrambe in territorio saudita. Ecco che la scelta di includere ufficialmente anche la zona della Spianata delle Moschee dentro il “patto di pace” redatto dalla coppia ebreo-saudita, non può che essere respinta con forza dal resto degli arabi, ma anche dalle autorità turche, iraniane e giordane.
L’altra telefonata che Trump ha dovuto fare è stata infatti al re di Giordania Abdallah II, essendo il custode in pectore della Spianata delle Moschee-Monte del Tempio dopo che il padre firmò la pace con Israele divenendo il primo a dover svolgere il gravoso compito. Trump ha avuto colloqui telefonici anche con Netanyahu e con il presidente egiziano Al Sisi.

Il Fatto 6.12.17
The Donald, la gaffe che può incendiare tutto il Medio Oriente
Guai a toccare la Città Santa per tre fedi. Washington vuole un blocco con sauditi e Israele opposto all’asse Russia-Iran, ma anche gli alleati sono perplessi
The Donald, la gaffe che può incendiare tutto il Medio Oriente
di Leonardo Coen


Gerusalemme! Gerusalemme! La mossa del cavallo di Donald Trump implica parecchie incognite: trasferire l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, significa indirettamente riconoscerla come capitale d’Israele, il che è inaccettabile, secondo il punto di vista dei palestinesi, per i quali la Città Santa (per gli ebrei, per i musulmani e per i cristiani) è un territorio occupato, e comunque se mai si arriverà a stabilire il principio dei “due popoli due stati”, ecco, pure i palestinesi a loro volta rivendicano Gerusalemme, o almeno una sua parte, quale futura capitale della Palestina.
Inoltre, non si possono trascurare le conseguenze a livello internazionale: la maggior parte dei Paesi membri dell’Onu e delle organizzazioni internazionali non riconosce – e questo sia a livello giuridico che sul piano politico – l’annessione di Gerusalemme Est da parte di Israele, tantomeno come capitale di Stato. Insomma, Trump sta scardinando equilibri delicatissimi e una complessità d’intrecci religiosi, politici, sociali che hanno attraversato la storia per secoli e secoli e devastato questa Terra Promessa che ha solo mantenuto promesse di sangue e di odio, purtroppo. Trump è consapevole di aver sollevato il sipario su di uno scenario drammatico e tragico?
La clamorosa e diciamo pure provocatoria iniziativa del presidente statunitense vuole compiacere l’alleato Netanyahu, il leader di destra che guida Israele, ma non è poi così sicuro che la dirigenza israeliana abbia apprezzato la pericolosa decisione della Casa Bianca, in un momento assai delicato come quello che sta attraversando oggi il Medio Oriente.
Si sta infatti disegnando una sorta di inedito asse tra Stati Uniti, Arabia Saudita e Israele, contrapposto all’alleanza tra Mosca, Ankara e Teheran. Nemmeno il tempo di aver sconfitto il Califfato, che subito si sono riaccesi conflitti che parevano assopiti. L’Arabia Saudita contende ormai all’Iran la leadership regionale, il Libano è di nuovo preda di tensioni tra le varie fazioni e gli Hezbollah foraggiati da Teheran, nel Golfo Persico si è sta consumando una sorta di guerra fredda fra Qatar filo Iran e Emirati Arabi Uniti sostenuti da Ryad. Enfatizzare lo spostamento dell’ambasciata è come dar fuoco alle polveri: potrebbe scatenarsi una nuova Intifada. Gerusalemme è un simbolo da sempre.
Da quando Elena, la madre dell’imperatore Costantino, ne capì la profonda importanza, il significato politico non poteva prescindere da quello religioso e su questo crinale si acuì il conflitto tra Occidente e Oriente, e anche la questione ebraica, la diaspora, il mito dell’eterno ritorno, il rimpallo delle responsabilità del cristianesimo e dell’Islam.
Persino la stampa israeliana ha evocato le possibili derive collaterali della scelta di Trump. Il quale, non a caso, si è preoccupato di telefonare ieri ad Abu Mazen, presidente dell’Autorità palestinese, per informarlo sulle sue intenzioni. Mahmoud Abbas (Abu Mazen) gli ha risposto mettendolo in guardia, così ha dichiarato il portavoce palestinese Nabil Abu Rdainah, perché una simile decisione potrebbe avere “pericolose conseguenze sul processo di pace e sulla sicurezza e stabilità nella regione e del mondo”.
Inquietudine che si ritrova nelle parole di Recep Tayyip Erdogan, il presidente turco: “Lo status di Gerusalemme rappresenta la linea rossa per i musulmani”, non escludendo così una possibile rottura diplomatica con Israele. Parole minacciose che hanno indotto Trump ad annunciare, ma non ad attuare. Ha insomma tastato il terreno. Parlandone con Macron, il presidente francese che ha subito messo i paletti: “La questione dello status di Gerusalemme deve avere una soluzione, ma nell’ambito dei negoziati di pace tra israeliani e palestinesi”. Perché, come ha spiegato ieri Ahmed Abul Gheit, segretario generale della Lega araba, l’evenienza prospettata da Trump non solo può essere considerata “pericolosa” ma “avrebbe ripercussioni in tutta la regione araba e islamica”.
Ennesima gaffe dell’improvvido Trump.

Repubblica 6.12.17
Il Medio Oriente
Un colpo fatale sul cammino della pace
di Bernardo Valli


Provocazione, violazione del diritto internazionale, violenza in arrivo. In queste ore volano parole grosse non solo in Medio Oriente. Non mancano i pronostici più pessimisti nelle maggiori capitali, anche occidentali. La decisione americana di spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme e quindi il riconoscimento di quest’ultima come capitale di Israele infliggono, in effetti, un colpo fatale a una possibile ripresa del processo di pace già bloccato da tempo. Tanto più che a prendere questa iniziativa sono gli Stati Uniti ritenuti gli indispensabili promotori di negoziati, in cui avrebbero il ruolo di mediatori. Se realizzata, l’annunciata iniziativa di Donald Trump sarà appunto interpretata come un’inutile provocazione, ed anche una violazione del diritto internazionale perché secondo gli accordi lo statuto di Gerusalemme dovrebbe essere regolato nel corso di trattative, tese a creare nella pace e nella sicurezza due Stati, uno accanto all’altro.
Ma Trump ha saltato le tappe. Durante la campagna elettorale aveva promesso di spostare la rappresentanza diplomatica da Tel Aviv a Gerusalemme; e ieri ha informato personalmente della sua intenzione di mantenere la promessa il palestinese Abu Mazen e il re Abdallah di Giordania. Nell’attesa dell’annuncio ufficiale i palestinesi hanno programmato proteste di massa e nelle capitali arabe non si escludono esplosioni di violenza. Non a caso le misure di sicurezza sono state rafforzate nelle ultime ore attorno alle ambasciate americane della regione.
La questione di Gerusalemme sonnecchiava nella tormentata ma trascurata crisi israelo-palestinese, rimasta in disparte, non contagiata dal “ califfato” spuntato tragicamente nella non lontana valle del Tigri e dell’Eufrate. La paventata mossa di Donald Trump rende adesso rovente il problema della città tre volte santa. Ogni sei mesi, il presidente americano deve decidere se rinnovare la deroga a una legge del 1995 che impone di installare la rappresentanza diplomatica a Gerusalemme. La scadenza era lunedì. Lui, Trump, questa volta non ha avuto la stessa preoccupazione dei predecessori. E dei governi dei principali Paesi che mantengono le loro ambasciate a Tel Aviv. Il motivo è che lasciando aperta la questione di Gerusalemme si lascia uno spiraglio per avviare nuovi negoziati. Risolvendola con una decisione unilaterale si rende superflua di riflesso anche la trattativa per i due Stati.
Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dovrebbe rendere implicito il trasloco dell’ambasciata. E viceversa. Comunque ci vorrebbero mesi per spostare l’intera rappresentanza diplomatica. E non è chiaro quel che vuole Trump. Potrebbe scandire in due tempi la sua decisione. Prima il riconoscimento e poi col tempo il trasloco. La Russia di Vladimir Putin, con una decisione passata inosservata, ha riconosciuto tempo fa come capitale di Israele Gerusalemme Ovest. Ma è improbabile che Trump ricorra a uno stratagemma tanto ingenuo, destinato a lasciare tutti scontenti. Una decisione radicale accontenta soltanto Israele, che ha già reagito dicendo che Gerusalemme è la sua capitale « da sempre » .
La mossa di Trump rischia di sconvolgere ancora di più la situazione mediorientale. L’ostilità tra l’Arabia Saudita, sunnita, e l’Iran, sciita, in sostanza tra le due grandi correnti dell’Islam, ha creato un’alleanza tra la prima, l’Arabia Saudita, e lo Stato di Israele, massima potenza militare della regione e quindi un appoggio prezioso nel confronto sempre più acceso con l’Iran. L’intesa tra Gerusalemme e Riad sembrava impossibile fino a qualche anno fa. Oggi la collaborazione tra personalità israeliane, o vicine a Israele, e il governo saudita è intensa e tutt’altro che segreta. Le inimicizie tra i musulmani hanno favorito un’integrazione di Israele nella regione. E questo sta avvenendo con la destra al potere. Al tempo stesso la posizione degli Stati Uniti di Trump, sia in favore di Riad, e del potente principe ereditario Mohammed bin Salman, sia in appoggio a Israele, e del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, si è trasformata in un sodalizio, che va ben al di là di una forte intesa.
La questione di Gerusalemme — la decisione di Trump di riconoscerla come capitale di Israele e di trasferirvi l’ambasciata — getta un’ombra su quel sodalizio israelo- saudita. L’ Arabia Saudita, dove la corrente radicale islamica ( wahabita) è in questo momento urtata dalle innovazioni modernizzatrici del dinamico principe ereditario, potrebbe reagire al fatto che Gerusalemme, terzo luogo dell’Islam dopo La Mecca e Medina, sia riconosciuta ufficialmente capitale dello Stato ebraico dalla superpotenza amica. Il profeta Maometto si è involato su un cavallo bianco dalla spianata delle moschee, dove si trova quella di Al Aqsa, una delle più sante. Non sarà facile al principe Salman far accettare la decisione di Trump ai musulmani integralisti a lungo fedeli sostenitori della sua dinastia. Non sarà facile neppure per le altre capitali musulmane mantenere la calma delle masse religiose. Non a caso la Lega araba si è riunita d’urgenza.

Repubblica 6.12.17
Intervista
Yehoshua
“Lui e Netanyahu combinano soltanto guai. La destra è uno tsunami”
di Antonello Guerrera


ROMA «Trump così combina solo guai».
Abraham Yehoshua risponde da Tel Aviv con la voce consunta di chi negli anni e nelle opere ha scolpito con passione la necessità del dialogo tra ebrei e palestinesi per colmarne le crepe sempre più profonde. Non a caso, a 80 anni il grande scrittore israeliano si è convertito alla soluzione di un solo stato per israeliani e palestinesi: «Ora è impossibile sradicare i coloni israeliani, cambiamo se non vogliamo diventare una società di apartheid». Un castello di parole e speranze che vacilla di fronte all’imminente tempesta del riconoscimento americano di Gerusalemme capitale e sede dell’ambasciata in Israele.
Yehoshua, che conseguenze avrà Gerusalemme capitale riconosciuta dagli Usa?
«Il presidente Trump non sa di cosa parla. Gerusalemme è già la nostra capitale e non abbiamo bisogno di lui per saperlo. Così facendo, combina solo guai.
Sarebbe l’ennesimo ostacolo alla pace tra israeliani e palestinesi.
Una pace che dovranno raggiungere i due popoli, senza influenze esterne deleterie».
Trump dice di avere anche uno - sinora sconosciuto - piano di pace per il Medio Oriente.
«Vedremo. Durante la presidenza Obama, John Kerry è stato qui decine di volte come Segretario di Stato e non ha cavato un ragno dal buco. Difficile fare peggio».
Crede che così Trump infiammerà nuove proteste e violenze in Medio Oriente?
«Non credo sarà così decisivo, perché i palestinesi sono già molto arrabbiati. Eppure qualche speranza di accordo c’era: dopo il recente riavvicinamento tra Hamas e Anp, il presidente palestinese Abu Mazen avrebbe potuto moderare gli estremismi di Gaza e intraprendere un vero percorso di pace».
E Israele che cosa dovrebbe fare, nell’idea di un unico Stato binazionale?
«Fermare l’avanzata delle colonie in Cisgiordania, offrire ai palestinesi la cittadinanza, più territorio e allo stesso tempo maggiore autonomia. Purtroppo però oggi abbiamo un governo di destra e il premier Netanyahu non ha un approccio positivo verso i palestinesi che si comportano bene in Cisgiordania».
Netanyahu, tra l’altro, è in grande sintonia con Trump.
«Prego soltanto che dalle prossime elezioni in Israele possa uscire un esecutivo più ragionevole. La destra è oramai tornata ovunque, non solo nel mio Paese. È uno tsunami».
Intanto Israele sembra avvicinarsi a un altro conflitto: il fronte sciita di Iran, Hezbollah in Libano e Assad in Siria, tutti sostenuti dalla Russia, è sempre più minaccioso. Un fronte che più volte ha auspicato la distruzione di Israele. E così Netanyahu flirta con l’ex nemico Arabia Saudita.
«È chiaro che l’Arabia Saudita ha molti problemi con l’Iran e noi lo stesso. Allo stesso tempo Teheran ha aumentato notevolmente la sua presenza nella vicina Siria e questo è un problema per Israele.
Ma di una cosa sono sicuro: Israele non farà mai una guerra per Riad».
Però Israele si sente sempre più minacciata da Teheran.
«L’Iran è un nemico estremista e assolutamente metafisico tra l’altro, perché Israele non ha mai rubato materialmente un centimetro di territorio a Teheran. Anche Hezbollah vuole attaccarci ma sarebbe controproducente per tutto il Libano, per il suo popolo e l’economia. Non c’è alcuna ragione sensata per una guerra ma purtroppo gli sciiti sbandierano questa minaccia perché per loro Israele è un capro espiatorio e lo sfruttano per cementare il consenso interno. La minaccia è reale e si sente nel mio Paese. Ma credo che alla fine non andremo in guerra. La Russia, sempre più influente nell’area ma stanca del conflitto in Siria, non vuole altri disastri in Medio Oriente. Non permetterà ai suoi alleati iraniani e libanesi di attaccarci. O almeno, questa è la mia speranza».

Il Sole 6.12.17
Medio Oriente. Leader occidentali e del mondo arabo premono su Washington perché non formalizzi il riconoscimento come capitale d’Israele
Gerusalemme, Trump scuote il mondo
Il presidente americano preannuncia al palestinese Abbas lo spostamento dell’ambasciata nella Città Santa
di Roberto Bongiorni


La decisione è stata presa. Sono bastati pochi giorni al presidente Trump per rompere gli indugi: gli Stati Uniti intendono trasferire l’ambasciata americana da Tel Aviv, dove si trovano le rappresentanze degli altri Paesi, a Gerusalemme. Di fatto la Casa Bianca riconoscerebbe così Gerusalemme come capitale di Israele.
A dare per primo la notizia è stato nel pomeriggio il portavoce palestinese Nabil Abu Rdainah: «Il presidente (dell’Autorità nazionale palestinese, ndr) Mahmoud Abbas ha ricevuto una chiamata dagli Stati Uniti. Il presidente Trump ha comunicato la sua intenzione di trasferire l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme. Il presidente Abbas ha avvertito (Trump) delle pericolose conseguenze che una simile decisione potrebbe avere sul processo di pace e sulla sicurezza e stabilità della regione e del mondo»
Poco dopo Trump ha chiamato per consultarsi anche il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il presidente egiziano al-Sisi e il re di Giordania, Abdullah II. Informato sulle sue intenzioni, anche il sovrano giordano ha ribadito che tale decisione avrà «ripercussioni pericolose sulla stabilità e sulla sicurezza del Medio Oriente».
Trump tiene così fede a quella promessa fatta durante la campagna elettorale e poi ribadita il 15 dicembre 2016, quando nominò il nuovo ambasciatore americano a Tel Aviv, David Friedman.
Agli occhi dei Paesi arabi più influenti, dichiarare Gerusalemme capitale di Israele equivale alla pietra tombale sul processo di pace più lungo degli ultimi 50 anni. Proprio per questo il mondo arabo, e buona parte di quello musulmano, ha mostrato con forza la sua contrarietà. A cominciare dal segretario generale della Lega araba, Ahmed Aboul Gheit, il quale ha invitato Trump a «evitare qualsiasi iniziativa capace di mutare lo status giuridico e politico di Gerusalemme». L’eventuale riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele rappresenta «una linea rossa per i musulmani», ha avvertito il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, aggiungendo che questa iniziativa potrebbe portare alla rottura delle relazioni diplomatiche con Israele. Anche l’Arabia Saudita, grande alleato di Trump, ha espresso «seria e profonda preoccupazione» per una mossa che «irriterebbe i sentimenti dei musulmani nel mondo». Simile la reazione dell’Iraq.
Non è molto chiaro, tuttavia, se Trump intenda dichiarare tutta Gerusalemme capitale di Israele, come pareva durante la campagna elettorale, oppure solo la parte occidentale. Non lo ha specificato, naturalmente. Non è una questione di lana caprina. I palestinesi rivendicano da tempo Gerusalemme Est come capitale di quel futuro Stato palestinese che in teoria dovrebbe rappresentare il felice epilogo del processo di pace. Se per il Governo israeliano Gerusalemme è la capitale «una e indivisibile», per gran parte della comunità internazionale le cose stanno diversamente. Non è ancora chiaro, ma non è improbabile che la decisione americana riguardi l’intera città. D’altronde, solo nella parte orientale della città, vivono ormai quasi 200mila ebrei. Cosa che rende ancora più restio il Governo israeliano ad ogni seppur minima concessione. Anzi ora Israele si prepara a fronteggiare grandi le manifestazioni che inevitabilmente seguiranno, se non una terza Intifada, come minacciata da Hamas.
Immediate le reazioni anche da parte dell’Unione europea, sempre più in rotta con gli Usa sui più delicati dossier internazionali, incluso il nucleare iraniano. «Preoccupato», il presidente francese Macron ha telefonato domenica sera a Trump: «La questione deve avere soluzione nell’ambito dei negoziati di pace tra israeliani e palestinesi». Da Bruxelles l’Alto rappresentante Ue, Federica Mogherini è stata decisa: «L’Ue sostiene la ripresa di un significativo processo di pace verso la soluzione dei due Stati. Qualsiasi azione che possa minare questi sforzi deve essere assolutamente evitata». Per il ministro degli Esteri tedesco, Sigmar Gabriel, una simile «mossa avrebbe pericolosissimi sviluppi».
Ora che la decisione è stata presa tutti si domandano quando avverrà effettivamente il trasferimento. Secondo la Cnn il trasferimento dell’ambasciata potrebbe essere rinviato a causa delle pressioni degli alleati, dalle cancellerie europee a quelle dei Paesi arabi. E mentre i palestinesi annunciano «tre giorni di collera», da oggi a venerdì, non resta che aspettare. Sapendo che prepararsi al peggio è forse l’opzione più ragionevole.

Il Sole 6.12.17
Se la Casa Bianca oltrepassa la linea rossa
di Roberto Bongiorni


Se dal 1995 i presidenti americani, anche repubblicani di ferro come George W. Bush, hanno sempre firmato un provvedimento per mantenere l’ambasciata americana a Tel Aviv, la ragione era semplice. Non farlo equivaleva a varcare una linea rossa. Per tutti loro, che ambivano ad essere ricordati come gli artefici di uno storico accordo di pace, duraturo e definitivo, tra palestinesi e israeliani. Riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele avrebbe rappresentato la pietra tombale sul processo di pace più lungo e difficile degli ultimi 50 anni. Ecco perché, pur divergendo sul sostegno a Israele, hanno seguito la stessa linea dell’Unione Europea: devono essere israeliani e palestinesi, avvalendosi della mediazione internazionale, a trovare un accordo su Gerusalemme. I presidenti americani conoscevano bene il “Jerusalem Embassy Act”, la legge approvata dal Congresso di Washington nel 1995 che invita la Casa Bianca a trasferire l’ambasciata a Gerusalemme . Ma tutti si sono avvalsi di una clausola in base alla quale, in qualità di presidenti, potevano rinviare l’attuazione della legge ogni sei mesi per ragione di superiori «interessi di sicurezza ».
Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama hanno firmato questa deroga, con regolarità, ogni sei mesi. Anche Donald Trump, nel primo semestre del suo mandato. Poi, così come per altri delicati dossier internazionali, si è distaccato da chi lo ha preceduto. La sua promessa in campagna elettorale di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele, e di voler trasferire l’ambasciata americana da Tel Aviv(dove si trovano tutte le altre sedi diplomatiche) è un’iniziativa che,se portata a termine, rischia di incendiare il Medio Oriente in un periodo già drammatico. D’altronde il nodo di Gerusalemme è sempre stato rimandato come la parte finale dei negoziati di pace. E alla fine una soluzione sul suo status non è mai stata trovata. Nemmeno quando Bill Clinton, nell’estate 2000, a Camp David ci arrivò più vicino di tutti. L’allora premier israeliano Ehud Barak offrì il 95% della Cisgiordania alla controparte palestinese– cosa impensabile per l’attuale governo di Benjamin Netanyahu – ma alla fine l’accordo con l’allora presidente dell’Autorità nazionale palestinese Yasser Arafat naufragò proprio su Gerusalemme Est, che i palestinesi rivendicano come capitale del loro futuro Stato.
Così Gerusalemme è rimasta per Israele la sua capitale «unica e indivisibile», ma non per la comunità internazionale. Agendo unilateralmente – Trump ha creato una spaccatura con l’Europa - con cui è ai ferri corti su altri dossier bollenti come il nucleare iraniano. E in misura maggiore rischia di compromettere le relazioni degli Usa con i paesi arabi alleati. Sembra che Trump voglia approfondire la linea di discontinuità con la politica di Barack Obama. Durante il mandato di Obama le relazioni tra Israele e Stati Uniti non erano mai cadute così in basso. Lo stesso si può dire delle già controverse relazioni con l’Arabia Saudita. Trump ha fatto il contrario. Ora è intenzionato ad andare dritto per la sua strada. Ma le sue strategie diplomatiche non sono mai stata una linea retta. Piuttosto un percorso fatto di frettolose e clamorose dichiarazioni, di parziali smentite, di arresti. Quando si affronta il tema Gerusalemme occorre però procedere con estrema cautela. La storia lo insegna.

Il Fatto 6.12.17
Gerusalemme “capitale”. Hamas promette Intifada
Gli Usa hanno in agenda l’annuncio dello spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv alla Città Santa: il mondo arabo teme svolta pro-Israele
Gerusalemme “capitale”. Hamas promette Intifada
di Roberta Zunini


Dopo i ministri degli Esteri di Egitto e Giordania, anche le autorità turche hanno pubblicamente avvertito con toni allarmati il segretario di Stato americano, Rex Tillerson, che una eventuale decisione di spostare l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme “porterebbe al collasso il processo di pace israelo-palestinese”.
Trasferire l’ambasciata nella Città Santa delle tre religioni monoteiste (ebraica, cristiana, islamica) sarebbe per i musulmani di tutto il mondo il segnale che gli Stati Uniti riconoscono come capitale dello stato d’Israele tutta Gerusalemme.
Secondo l’Onu e il suo massimo organo decisionale -il Consiglio di Sicurezza incaricato di emanare le risoluzioni sulle dispute internazionali – la parte orientale di Gerusalemme sarà la futura capitale dello stato palestinese, quando e se mai nascerà. Ma il processo di pace invocato dai ministri degli Esteri dei paesi islamici dell’area è in realtà già collassato nel 2014. Il piano di pace che il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e il genero-consigliere ebreo americano del presidente Trump, Jared Kushner, avrebbero ormai definito prevede uno stato palestinese con capitale Abu Dis e non Gerusalemme Est.
Nonostante le smentite da parte di Washington e Riyadh all’articolo in proposito pubblicato dal New York Times, la reazione dell’Autorità Nazionale Palestinese, Anp, è stata immediata e chiaramente contraria non solo all’ipotesi che una cittadina dei Territori Occupati diventi la capitale al posto della città che ospita la Spianata delle Moschee, il terzo luogo di culto più importante dell’Islam. Sono innumerevoli infatti i cambiamenti al fu piano di pace delle Nazioni Unite che Kushner e i sauditi avrebbero previsto “a favore di Israele”, commentano da Ramallah, la capitale transitoria dell’Anp.
Per la sua portata simbolica però quello cruciale è proprio il riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele, volontà maturata all’interno del cerchio magico sempre più ristretto di Trump, che sarebbe anticipata dal trasferimento lì dell’ambasciata statunitense. Così come per il capo del Dipartimento di Stato Tillerson, anche per il consigliere alla Sicurezza Nazionale, Il generale HR McMaster, questa decisione non è opportuna, soprattutto in questo frangente storico di cambiamenti geostrategici in Medio Oriente e nel resto dell’Asia.
McMaster ha detto di “non sapere se Trump deciderà di spostare la sede dell’ambasciata americana in Israele eo di riconoscere Gerusalemme capitale unica di Israele”. Intanto si è fatta sentire anche Hamas, in via di “riconciliazione” con Fatah, il partito che guida il governo dei Territori Occupati. Da giorni il movimento islamico egemone nella Striscia di Gaza lancia espliciti avvertimenti: “Facciamo appello al popolo palestinese di rilanciare l’intifada se queste ingiuste decisioni riguardo Gerusalemme venissero adottate”. Queste scelte, ha ammonito Hamas, avrebbero l’effetto di garantire ad Israele “una copertura dei suoi crimini, fra cui lo svuotamento della popolazione palestinese”. Il riconoscimento di Gerusalemme come Capitale di Israele “sarebbe visto dai palestinesi come un attacco alla città da parte degli Stati Uniti”.

La Stampa 6.12.17
Nel Medio Oriente degli scontri fratricidi
riesplode la battaglia per la Città Santa
La dichiarazione Usa può innescare nuovi conflitti nella regione Erdogan e il re di Giordania furiosi, l’Arabia Saudita cerca di mediare
di Giordano Stabile


C’è ancora un refolo di speranza nelle cancellerie dei Paesi arabi filo-occidentali. Non è legato al «quando» dell’annuncio, che sarà oggi, ma al «dove». Donald Trump potrebbe tirare fuori dal cilindro il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, sì, ma solo a «Ovest». E dare qualche minima garanzia ai palestinesi sulla loro capitale, magari in un pezzo dei sobborghi orientali della Città Santa. Un «riequilibrio» che potrebbe evitare «la catastrofe». Altrimenti, per le nazioni che hanno firmato la pace con Israele, sfidato opinioni pubbliche riottose e le minacce del terrorismo islamista, il rischio è di fare un salto indietro di 20 o 40 anni, e di finire risucchiate nel «fronte della resistenza» guidato dall’Iran, al quale si è aggiunta, con tutto il suo peso, la Turchia.
Il fronte oltranzista si prepara già alla «battaglia di Gerusalemme». I palestinesi annunciano tre «giorni della rabbia» a partire da oggi, mentre le forze di sicurezza israeliane sono in massima allerta, pronte a inviare rinforzi in Cisgiordania e attorno agli obiettivi sensibili statunitensi, e le autorità americane ordinano ai loro cittadini di «evitare la Città Vecchia».
Sono attesi scontri duri e prolungati. La crisi ha ricompattato le fazioni palestinesi. Domani a Gaza Hamas porterà in piazza decine di migliaia di sostenitori, nel trentesimo anniversario della sua fondazione; a Ramallah tutte le fazioni politiche marceranno unite contro Trump.
In un clima incandescente, ad Amman, al Cairo, a Riad non si capisce il senso della scelta americana. Toccare il tasto Gerusalemme, considerata sua capitale «unica e indivisibile» dallo Stato ebraico, è visto come un regalo agli estremisti. Il più preoccupato, e che fonti diplomatiche descrivono «infuriato», è Re Abdullah di Giordania, che già vive momenti burrascosi nelle relazioni con Israele, con l’ambasciata israeliana chiusa da mesi dopo la sparatoria del 23 luglio finita con la morte di due giordani. La Giordania è stata il secondo Stato arabo a riconoscere lo Stato ebraico, dopo l’Egitto. Metà della popolazione è di origine palestinese. Una bomba pronta a esplodere in un Paese provato dall’afflusso di 700 mila profughi siriani, infiltrata da cellule dormienti dell’Isis e di Al-Qaeda.
L’altro Stato arabo in imbarazzo è l’Arabia Saudita. Il principe ereditario Mohammed bin Salman ha rotto tutti i tabù. Ha visitato lo Stato ebraico «in incognito», ha aperto in modo chiaro e netto alla possibilità di un suo riconoscimento ufficiale. Ha messo con le spalle al muro il presidente palestinese Abu Mazen e gli ha «ingiunto» di accettare il piano di pace, sulla falsariga della proposta saudita del 2002. Gli serve un’alleanza d’acciaio con Israele e con l’America per organizzare la controffensiva nella regione nei confronti dell’Iran. Ma nessun leader saudita, custode delle «Sante Moschee» alla Mecca e Medina, può avallare la «cessione» della sede della Moschea di Al-Aqsa. Così Re Salman ha chiamato Trump e gli ha sconsigliato una «flagrante provocazione» che «irriterebbe i sentimenti dei musulmani nel mondo».
Un linguaggio netto ma ancora amichevole. Le parole del presidente turco Recep Tayyip Erdogan lasciano intravedere altri programmi. Sembra l’Erdogan del dopo incidente della Mar Marmara. Ha chiesto una riunione d’emergenza dell’Organizzazione della cooperazione islamica, evocato la «rottura delle relazioni diplomatiche» con Israele. E definito Gerusalemme «la linea rossa» per i musulmani. Il leader turco torna su un terreno che gli è consono, da «difensore dell’islam», alla guida delle nazioni musulmane arabe e no. E’ un terreno che lo porta ad avvicinarsi ancora di più all’Iran, pure un rivale sciita. Il presidente Hassan Rohani gli ha fatto eco, ha invitato «tutti i Paesi islamici» a rompere i rapporti con la Stato ebraico.
Per la Repubblica islamica fondata da Khomeini l’occasione è irripetibile. E’ rientrata nei giochi mediorientali con le guerre in Siria e in Iraq, dove le sue milizie sono state decisive per battere i gruppi jihadisti. Ora ha necessità di riallacciare con le potenze sunnite. C’è riuscita in parte con la Turchia. La «battaglia di Gerusalemme» potrebbe spingere nelle sue braccia altri Stati arabi. Alla riunione della Lega araba al Cairo si è visto un Abu Mazen coccolato come non accadeva da anni. Il segretario generale Ahmed Aboul Gheit ha riassunto una posizione univoca, inedita fra i rissosi Paesi arabi: la mossa di Trump «minaccia la stabilità del Medio Oriente». Il presidente palestinese ha chiesto a Papa Francesco di intervenire sulla Casa Bianca. Poi ha ricevuto la telefonata del leader russo Vladimir Putin: lo status della città potrà essere deciso «solo nelle trattative fra Israele e i palestinesi». Lo Zar, che si è già erto a difensore dei cristiani in Siria, ha davanti a sé un’altra «opportunità strategica». Difficile immaginare che non proverà a sfruttarla.

La Stampa 6.12.17
“Guadagneremo solo un simbolo che può costarci troppo caro”
Giora Eiland: scelta pericolosa, lo status quo della città non cambierà


«A rischio d’inimicarmi il 90 per cento dei miei connazionali che in queste ore non credono alle loro orecchie, voglio dire che la fuga in avanti di Trump è un grosso errore e non fa affatto gli interessi di Israele». Il generale Giora Eiland, analista ed ex capo dell’Israeli National Security Council, è in ospedale per un intervento ma, dice, la questione di Gerusalemme è troppo urgente per tacere.
Sembra che Trump finirà per non pronunciare la frase «capitale indivisibile» ma resterà sul generico. Cosa si aspetta dopo?
«In quel caso sarebbe solo una mossa simbolica, ma ugualmente molto pericolosa perché da queste parti non si scherza con i simboli, diventano subito pretesti incendiari. Due anni fa l’Intifada dei coltelli iniziò dopo la sfida portata da un politico israeliano sul monte del Tempio e divenne immediatamente una causa islamica capace di mobilitare in poco tempo molti giovani. Anche adesso ci sono movimenti islamici che aspettano solo la scusa giusta e l’emotività è una benzina formidabile».
Cosa rappresenta Gerusalemme per gli israeliani?
«Moltissimo, ma il punto non è questo. E lo dice uno piuttosto di destra che di sinistra. La mossa di Trump rischia di darci poco e costarci tanto. Alla fine mettiamo che si spostasse davvero l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, dove credete che sorgerebbe? Verosimilmente a Ovest, oltre la linea verde. Voglio dire che anche con l’ambasciata a stelle e strisce non ci sarebbe alcuna legittimazione della parte Est, lo status quo della città non cambierebbe di una virgola, guadagneremmo un simbolo per ritrovarci nel caos».
Pare si stia discutendo anche una possibile compensazione per i palestinesi. Ne vede una?
«Lo ripeto: parliamo di simboli, emozioni, d’immaginario».
Non crede che però politicamente sarebbe un successo per un governo israeliano offrire agli elettori Gerusalemme?
«Il mio approccio è laico, qualsiasi sia la linea politica le condizioni devono renderla efficace. Ho l’impressione che l’attuale primo ministro preferisca tenere sotto controllo il conflitto mantenendolo costante anziché risolverlo. Ebbene anche in questo caso, uno strappo su Gerusalemme non sarebbe nel nostro interesse perché cambierebbe le carte in tavola».
E se invece Trump proclamasse tutta Gerusalemme capitale dello Stato d’Israele?
«Sono scettico. Sarebbe clamoroso, ma allora come risposta avremmo la terza intifada. Siamo proprio convinti che sia nell’interesse d’Israele?».
Sotto le pressioni di mezzo mondo l’iniziativa di Trump finirà con un nulla di fatto o magari sarà rimandata per un po’?
«Onestamente non lo so».

La Stampa 6.12.17
“Sono sotto choc, è una provocazione
Questo luogo è il cuore del nostro popolo”
Mahdi Abdul Hadi: non ce ne andremo mai da qui, resistiamo per esistere


È una sera strana, in cui i telefoni dei palestinesi, di Gaza e di Ramallah, squillano ma alla risposta si sente un canto come di muezzin, sempre lo stesso. «Può darsi che stiano tutti pregando» spiega Mahdi Abdul Hadi, analista e fondatore del Palestinian, Arab and International institutions. Ha poco tempo, deve tornare a cena con gli amici che intanto in sottofondo continuano a parlare di Gerusalemme.
Qual è l’umore condiviso?
«Sono nato a Nablus nel 1944 e sono venuto a Gerusalemme poco dopo, con la Nakba (la catastrofe, come i palestinesi chiamano la nascita dello Stato d’Israele ndr.). Questa città è un simbolo, è identità, religione, storia, senso di appartenenza, è la prova che un popolo può essere privato di tutto ma non della sua anima».
Se l’aspettava da Trump che poche settimane fa il ministro degli Esteri palestinese Malki aveva definito su questo giornale più promettente di Obama?
«Trump si sta rivelando una delusione, questo annuncio è stato più di una provocazione per i palestinesi, siamo sotto choc. Se sul serio dichiarasse la città “indivisibile” sarebbe la fine di qualsiasi negoziato sulla base di due popoli e di due stati, la fine di qualsiasi mediazione americana, una brusca sveglia per tutti».
E se restasse vago sulla geografia della città ma vi trasferisse l’ambasciata americana?
«Non si tratta di edifici da costruire ma del futuro e soprattutto del passato. Si tratta di istituzionalizzare lo sbilanciamento a favore di Israele che è una realtà sin dall’inizio».
Cosa farebbe lei personalmente in una capitale non sua?
«Ho lasciato la mia casa una volta, a Nablus. Non me ne andrò più e non ce ne andremo mai né da Gerusalemme né dalla Palestina. Non abbiamo altra identità che questa, resistiamo per esistere».
Gerusalemme dovrebbe essere la capitale di due stati o, simboli per simboli, anche voi nel profondo la sognate indivisa?
«Gerusalemme è il cuore, la testa, la pancia dei palestinesi».
Hamas dice che si è superato il limite, la Cisgiordania convoca tra giorni di rabbia E adesso?
«L’irritazione monta e riattizza il risentimento per un conflitto senza fine, vedo buio».

Repubblica 6.12.17
Piani di pace, pericoli di guerra
Con Gerusalemme Trump dà battaglia in Medio Oriente
La Casa Bianca riconosce la capitale d’Israele. Macron e Riad frenano Ma alla corte saudita si prepara anche una proposta per i palestinesi
di Francesca Caferri,


Roma New York Beirut
Diviso per linee settarie e scontri di personalità, raramente il Medio Oriente ha parlato con una voce unica come in queste ore. Dalla Turchia di Recep Tayyip Erdogan, all’Arabia Saudita di Mohammed Bin Salman, passando per il re giordano Abdallah tutti i leader della regione hanno chiesto alla Casa Bianca di non pronunciarsi sulla possibilità di spostare l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme. Ma Donald Trump non ha intenzione di cambiare idea e oggi annuncerà lo spostamento, facendo degli Stati Uniti il primo Paese importante a riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico: « Trump mantiene le promesse » , è la frase uscita ieri da Washington. La sua alleanza con il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, è di ferro, questa è un’altra prova di fedeltà.
L’ultima versione di ciò che il presidente dirà oggi, stando alle anticipazioni, indica qualche concessione agli alleati arabi: pur dichiarando il riconoscimento formale di Gerusalemme come capitale, rinvierà lo spostamento dell’ambasciata a una data da definirsi. La Casa Bianca parla di acquistare un terreno ad hoc: un accorgimento che può far slittare l’apertura di anni.
Basterà questo a placare gli animi? È improbabile. Le parole di Trump arrivano in una regione che negli ultimi mesi ha visto moltiplicarsi i focolai di tensione e le alleanze consolidarsi attorno a due nemici secolari, l’Iran e l’Arabia Saudita, burattinai neanche tanto nascosti di scenari di crisi vanno dallo Yemen alla Siria, passando per il Qatar e la Libia. Di fronte a loro, una variegata serie di spettatori: l’Unione europea, impotente per natura e perché paralizzata dalla stallo tedesco, che punta tutto sull’attivismo del presidente francese Emmanuel Macron per conservare un posto sulla scena. Un’America che ha scommesso su un unico giocatore, l’ambizioso principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman ( detto MBS). E la Russia di Vladimir Putin, l’unico vincitore della partita fino a questo momento: l’uomo che ha permesso a Bashar al Assad di restare al potere a Damasco.
A voler cercare una data di inizio per il nuovo Medio Oriente, è al 21 maggio che bisogna andare: in una Riad addobbata a festa in suo onore, Trump mise tutto il peso della sua presidenza dietro a MBS, sposando la visione saudita di un Iran sponsor del terrorismo e pericolo per la regione. Da allora in Medio Oriente ogni residuo equilibrio è saltato: l’Egitto e la Giordania di Abdel Fatah al Sisi e del re Abdallah, che negli anni passati avevano avuto un ruolo di primo piano, sono diventati marginali. E la regione ha acquisito un nuovo, indiscusso protagonista: il 32nne MBS. Nel giro di poche settimane il principe ereditario saudita ha isolato il piccolo e ambizioso Qatar, colpevole di vicinanza agli odiati Fratelli musulmani. Intensificato un conflitto, quello in Yemen, che ha portato sull’orlo della carestia sette milioni di persone. E inaugurato una guerra di parole con l’Iran che ogni giorno rischia di diventare reale.
In questo quadro così confuso è emerso un asse inedito: quello che da Washington passa per Tel Aviv e finisce a Riad. Un’alleanza cementata dall’avversione che i governanti delle tre capitali nutrono verso l’Iran. « Minaccia esistenziale » per Israele, per usare le parole del premier Benjamin Netanyahu. Paese responsabile di “ violenza” per l’Arabia Saudita. Paese che, con la vittoria in Siria al fianco della Russia, oggi appare più minaccioso che mai per Israele, vicino com’è con le sue milizie ai suoi confini. Indebolito dal fallimento di fatto dell’accordo sul nucleare firmato con l’Amministrazione Obama, il presidente iraniano Hassan Rouhani appare sempre più debole al cospetto dei conservatori della guida suprema Khamenei.
Se tutte queste tensioni sono rimaste in un fragile, ma per ora stabile equilibrio, le parole di Trump oggi rischiano di far saltare tutto. E di scompaginare ancora una volta le alleanze: quello di Gerusalemme è infatti l’unico nodo capace di tenere insieme sunniti e sciiti, sauditi e iraniani. «Una linea rossa per tutti i musulmani», per usare le parole di Erdogan. Dai remoti villaggi dello Yemen alle periferie romane, non c’è moschea del mondo che non riservi all’immagine della città sacra un luogo speciale. Non è un caso che la definizione dello status di Gerusalemme, che anche i palestinesi rivendicano come capitale, ancorché riferendosi soltanto alla parte orientale, abbia sempre rappresentato uno degli ostacoli principali del processo di pace. Da oggi potrebbe esserlo ancora di più: i sauditi hanno fatto sapere che il piano di pace israelo-palestinese a cui MBS sta lavorando con il genero del presidente, Jared Kushner, verrebbe danneggiato dalle mosse di Trump. La prima crepa in un asse che finora sembrava inscalfibile.
Ininfluente in Siria, malvisto da un alleato storico come la Turchia, odiato da gran parte delle popolazioni locali, che cosa farà Trump se perderà il sostegno di Riad in questa parte di mondo? «Difficile da dire. Ha dimostrato di essere bravissimo ad accendere micce ma non a spegnere incendi », sintetizza Marina Ottaway del Wilson center, una dei più navigati osservatori della regione. Nell’incendio che oggi potrebbe divampare l’unico pompiere all’orizzonte ha le fattezze del presidente russo Vladimir Putin, uscito trionfante dalla campagna di Siria e capace di dimostrarsi un interlocutore valido per Paesi diversi come Israele, la Turchia, l’Egitto e il Qatar. A lui più che a ogni altro Trump sta consegnando i destini della regione più instabile del mondo.

il manifesto 6.12.17
Pisapia verso la rottura: «Così l’alleanza non si fa»
Campo progressista. L’ex sindaco stretto dai suoi: senza ius soli impossibile l'intesa con Renzi. La presidente della camera Boldrini ormai decisa: alla fine della manovra annuncerà il suo sì a Grasso
di Daniela Preziosi


«Fine». Chi ha indole più prudente si attesta sull’annuncio del crack: «Siamo al punto di rottura». Gli ufficiali negoziatori di Campo progressista ieri hanno aspettato la fine della capigruppo al Senato per avere la prova provata, se mai ce ne fosse stato bisogno, che lo ius soli non solo non sarà approvato ma non approderà neanche in aula per quel dibattito che fino all’ultimo avevano richiesto. Invece la capigruppo ha calendarizzato lo ius soli, sì: ma come ultimo punto, e senza una data. All’uscita della riunione Loredana De Petris (Si) è chiara: «Aver messo lo ius soli all’ultimo punto dell’ordine del giorno significa non volerlo fare. Si va avanti con ipocrisia, c’è di mezzo il gioco delle alleanze». Cecilia Guerra (Art.1): «Abbiamo assistito ad un balletto di molte forze politiche per prendere tempo, ci sono i diritti dei circa 800mila ragazzi nati in Italia che attendono un provvedimento».
ALL’ALA SINISTRA DI CP non resta che prenderne atto. Stamattina una riunione con l’ex sindaco a Roma (lontana dai palazzi del potere) prenderà la decisione finale. Pisapia stavolta non potrà non dire l’ultima parola sull’accordo con il Pd, dopo una storia di stop and go che dura da un anno esatto: dai giorni del referendum costituzionale a cui era favorevole. L’ultima beffa: circola la voce che il Pd vorrebbe schierarlo contro Bersani, forse a Bologna. Forse una fake news, ma indicativa.
Ieri intanto rullavano i tamburi di guerra. Alla camera Ciccio Ferrara, furioso, si apparta nella “Corea” con Lorenzo Guerini. Alla fine del colloquio le facce non dicono nulla di buono. Le distanze restano. Incolmabili. «Bisogna essere ottimisti», dice con filosofia l’ambasciatore dem. Anche lui, che nel negoziato delle alleanze Pd teneva il filo con i moderati centristi, negli ultimi giorni è stato avvertito della china che prendeva la trattativa a sinistra. E il capogruppo Ettore Rosato. Alla fine il messaggio è arrivato a Renzi. Ma non è successo nulla . «Siamo impegnati su tutti i fronti nel segno dei diritti», giura il vicesegretario Martina. «Lo ius soli è per noi un provvedimento essenziale, ci sentiamo impegnati», gli fa eco Fassino. Ma la linea è quella di Renzi alla Leopolda: meglio puntare sulla riforma «possibile», cioè sul biotestamento, che su quella troppo rischiosa: per la maggioranza, il governo. E per l’alleanza con i moderati. Che anzi si rafforza: i boati parlano del rientro dell’ex ministro Lupi, che nel frattempo ha trattato con il candidato Gori in Lombardia.
NEI CAPANNELLI di Montecitorio i pisapiani dicono basta: «C’è un arretramento serio. Il Pd così sceglie Alfano». Massimiliano Smeriglio, il vicepresidente del Lazio, è durissimo: «Abbiamo chiesto almeno la calendarizzazione dello ius soli perché si potesse svolgere un dibattito davanti al paese in cui ciascuna forza politica si prende le sue responsabilità. Neanche questo. E non solo perché non ci sono i numeri ma perché il Pd non vuole parlarne in campagna elettorale. Ma per una forza come la nostra è qualificante ed essenziale. Doveva essere questa la nostra funzione nell’alleanza. Sono per l’accordo ma non a qualsiasi prezzo. La nostra è una linea politica non un’operazione di messa sul mercato». Una nota del portavoce di Cp, Alessandro Capelli, esprime l’aria che tira anche al quartier generale arancione, a Milano: «E’ inaccettabile che si continui a giocare con la vita di un milione di bambine e bambini, di famiglie, di compagne e compagni di classe e di tutte e tutti coloro che si aspettavano un calendario dei lavori del Senato diverso». C’è chi va giù anche più pesante. «Siamo stati chiamati per portare un valore aggiunto alla coalizione. Invece siamo stati catturati, disarmati ed ora resi inutili e sbeffeggiati. E non ci vengano a parlare del pacchetto sociale, lì siamo persino sotto il minimo sindacale. Fassino ci ha dato solo delle pacche sulle spalle».
IL REALTÀ LA RICHIESTA di discutere di ius soli era una mission impossible dall’inizio. C’è chi riferisce che il Colle suggerisce di non ricorrere a voti di fiducia negli ultimi passi della legislatura. Non a caso Pisapia aveva parlato di «scriminante» a proposito dell’approvazione del biotestamento, e non dei diritti dei nuovi cittadini. Ma gli ambasciatori del sindaco con il Pd erano stati chiari: solo grazie allo ius soli era possibile “mascherare” la presenza di Alfano nella coalizione, un rospo già difficile da mandare giù. «Non era un veto sulla persona, ma sulle politiche. Ma se non c’è neanche la possibilità di discuterne in aula noi non possiamo mobilitare il nostro mondo; le Ong, il volontariato e il terzo settore. E Laura Boldrini», spiegano.
La presidente della camera, già orientata verso la lista di Piero Grasso, ha fatto dei diritti di tutti la sua personale battaglia di questi anni. A questo punto è quasi certo che dopo il sì alla manovra, fra il 20 e il 21 dicembre, annuncerà la sua scelta. Lontana dal Pd. Molti deputati di Cp la seguiranno. E la lista “di sinistra” del Pd resterà in mano agli ex dc di Tabacci.

Il Fatto 6.12.17
Boldrini molla Pisapia e va in ticket con Pietro Grasso
di Gianluca Roselli


La scelta verrà mantenuta riservata ancora qualche giorno, così da consentire alla Camera di approvare la legge di Bilancio. Poi Laura Boldrini annuncerà il suo passaggio a Liberi e Uguali, la lista della sinistra alternativa al Pd guidata da Pietro Grasso, abbandonando al suo destino Giuliano Pisapia. Non è una decisione presa a cuor leggero quella della presidente della Camera. Chi ci ha interloquito negli ultimi giorni la descrive in preda a riflessioni e dubbi. Ma è una scelta che si è fatta da sé per incompatibilità con le politiche del Pd. A partire dall’ultimo caso, lo ius soli che il partito di Renzi ha fatto slittare in Senato a favore del biotestamento. Elemento che ha allargato ulteriormente il già ampio fossato tra la terza carica dello Stato e i dem. Cui Boldrini negli ultimi tempi non ha concesso tregua. “Al momento non ci sono le condizioni per un’intesa con Renzi”, diceva tre settimane fa alla convention romana di Campo progressista. Prima ancora c’era stato lo scontro sulla mozione su Bankitalia. Poi i contrasti sulle politiche per il lavoro. Più altre frecciatine sottotraccia. Distanze che rendono improbabile l’adesione della presidente della Camera a una lista alleata del Pd, come si appresta a essere quella di Pisapia. A Liberi e Uguali sono pronti ad accoglierla. “Questo è il naturale approdo del suo percorso politico”, fanno sapere da Mdp. Ma se Grasso è il leader, che ruolo avrà Boldrini? “Sarà un magnifico ticket in grado di dare una scossa agli elettori di sinistra, compresi quelli che non votano più”, aggiungono. Nel frattempo lei manda chiari segnali: domenica all’incoronazione di Grasso si sono visti il suo portavoce, Roberto Natale, e il suo capostaff, l’ex deputato Carlo Leoni.
Il dado è tratto? Quasi certamente sì. A meno che Pisapia non torni a guardare a sinistra. A quel punto Boldrini, che con l’ex sindaco mantiene un solido legame, non avrebbe più motivo di rompere. Di più se ne saprà oggi, dopo l’incontro che l’ex sindaco terrà con la sua truppa, a Montecitorio. Ma Boldrini non ci sarà.

Repubblica 6.12.17
L’ultimatum di Pisapia: senza la cittadinanza la coalizione è impossibile
Sms di Cp al leader dem “Matteo, non abbiamo alcuna voglia di fare un partitino dello 0,2 per cento”
di Tommaso Ciriaco


Roma L’ultimatum plana sull’iPhone di Matteo Renzi a metà pomeriggio. « Caro segretario - è la sintesi dell’sms di Ciccio Ferrara, plenipotenziario unico di Giuliano Pisapia - se fai così non ci lasci altra scelta. A queste condizioni l’alleanza non esiste. Noi non abbiamo voglia di fare il partitino dello 0,2%.E se finisse così, senza Ius soli, cosa diremmo alla nostra gente, che Alfano non lo fa passare?». È qualcosa in più di un’ultima chiamata. È l’ultima spiaggia dell’alleanza di centrosinistra.
È già buio quando l’avvocato milanese sale sull’ultimo treno diretto a Roma Termini. In viaggio, lo raggiunge al telefono Piero Fassino. Si erano già sentiti nei giorni scorsi, dopo che Campo progressista aveva supplicato Renzi in persona di “ intercedere” con Luigi Zanda per far calendarizzare a Palazzo Madama lo Ius soli. La legge è entrata nell’agenda, ma in fondo alla “ lista”. « Ma era la vostra richiesta - spiega Fassino a Pisapia e noi l’abbiamo esaudita. Prima ci sono biotestamento, la norma per gli orfani del femminicidi, la tutela dei collaboratori di giustizia, tutta roba importante sul piano dei diritti. Poi approveremo anche la legge sulla cittadinanza, vedrete ». Ci crede poco, Pisapia. Per questo si precipita a Roma. E per la stessa ragione ha convocato per oggi un delicatissimo vertice con i suoi parlamentari.
Alla Camera, intanto, Lorenzo Guerini si fa in quattro per mediare. Eppure, lo Ius soli che si allontana è come una spina ficcata nel petto degli arancioni. «Io mi sono battuto sempre per un’intesa - si arrabbia Filiberto Zaratti - ma senza una legge sulla cittadinanza non la reggiamo » . Non la regge sicuramente Laura Boldrini, che senza questa riforma sposerà la causa di Piero Grasso. Pisapia no, più probabile che si faccia da parte. E i suoi? Schiacciati tra due scelte impossibili, si spaccheranno: un pezzo seguirà la Presidente della Camera, un altro chiederà asilo nel Pd.
Sembra tensione, ma a volte è soltanto delusione. « Com’è possibile che il Pd non muova un dito per tutelare il nostro profilo programmatico? – non si dà pace il vicepresidente del Lazio Massimiliano Smeriglio - Così perdiamo un mondo, quello che va dalla Boldrini fino alle ong, passando per il volontariato ». In effetti, Campo progressista aveva fatto cadere anche il veto su Angelino Alfano, a patto però di portare in Aula la legge sulla cittadinanza. Senza fiducia, ma aprendo un dibattito pubblico su cui costruire un miglio decisivo di campagna elettorale. E invece nulla: «Ma perché, perché domanda Michele Ragosta - Renzi non vuole darci una mano?».
A dire il vero, il Pd qualcosa farà. Prometterà, ad esempio, ulteriori ritocchi alla manovra. Alcuni nuovi interventi sul sociale. Ma la verità è che la battaglia sullo Ius soli è considerata l’unica in grado di forgiare un’alleanza che vada oltre lo “zerovirgola”. Lo pensa anche Emma Bonino, urtata da questo “rinvio”.
E Renzi? Non abbandona lo schema a tre punte, anche se Maria Elena Boschi gli consiglia di passare alla linea del “ Pd contro tutti”. La verità è che ha bisogno di non scoprirsi troppo sul fianco sinistro. Da lì arriveranno gli affondi di Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema, pronti a sfidare i big dem nei collegi. « L’avversario sono i grillini e Berlusconi - frena però il segretario dem - Non ci presteremo a questo giochetto».

Il Fatto 6.12.17
Pd&Casini coprono Boschi per non sentire Ghizzoni
Slitta la decisione sull’ex ad di Unicredit. Pressioni Dem su Forza Italia per evitare di chiamarlo e chiede l’audizione della sorella di Ghedini
di Carlo Di Foggia e Wanda Marra | 6 dicembre 2017


Pier Ferdinando Casini tra oggi e domani presenterà all’Ufficio di Presidenza della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche una possibile lista di audizioni. Se ci sarà un accordo, si procederà. Altrimenti, si arriverà al voto in Commissione. Quello che è successo nella riunione di ieri dell’Ufficio di presidenza è che il Pd ha proposto una serie di audizioni nel tentativo di evitare quella dell’ex Ad di Unicredit Federico Ghizzoni, chiesta dai gruppi di opposizione. Un modo per fare pressione e costringere di fatto Forza Italia (e la Lega) a dire di no. Tanto è vero che ieri tutti i gruppi di opposizione hanno chiesto di ascoltare Ghizzoni, tranne Forza Italia.
“Se si vuole concludere la Commissione col rigore con cui è stata gestita da tutti i partiti fin qua, Ghizzoni non deve essere audito. Se invece la si vuole trasformare in un ring elettorale sì. A quel punto non c’è solo lui”. Matteo Orfini, presidente Pd, membro della Commissione, a metà pomeriggio di ieri, la posizione dei Democratici la sintetizzava così. Matteo Renzi e Maria Elena Boschi sono decisi a fare tutto il possibile per evitare che l’ex ad di Unicredit vada a rispondere all’unica domanda per la quale di fatto la Commissione di inchiesta lo vorrebbe chiamare: se è vero, come ha scritto Ferruccio de Bortoli, che la Boschi chiese di valutare un possibile salvataggio di Banca Etruria dove sedeva il padre dell’ex ministro
L’Ufficio di Presidenza dura un’ora e mezza. Tocca ad Andrea Augello tirare fuori la questione. Dice a Casini: “O Ghizzoni è tra le audizioni, o lo mettiamo al voto in commissione”. A quel punto è lo stesso Orfini a intervenire: “Ci possiamo arrivare. Anche noi abbiamo i nostri da sentire”. E cita l’ex padre padrone di Popopolare di Vicenza Gianni Zonin, e l’ex ad di Veneto Banca Vincenzo Consoli, oltre a Giulio Tremonti. Tra le altre audizioni ventilate anche il governatore veneto Luca Zaia (Lega) e Luisa Ippolita Ghedini, già consulente di Veneto Banca nonché sorella di Niccolò Ghedini, storico avvocato di Berlusconi, e moglie del procuratore di Treviso Michele Dalla Costa, anch’esso convocato. La strategia è quella di provare a tenere buona di Forza Italia. Tanto è vero che Brunetta ieri l’audizione di Ghizzoni non l’ha chiesta. “Il Pd lascia intendere che se apre ad audizioni politiche non ne esce vivo nessuno”, dice Giovanni Paglia di Si. “Sono evidenti le pressioni su FI”, spiega anche Carlo Sibilia (M5S). Le audizioni richieste in tutto sono 21.
In questo gioco pericoloso, il Pd si prende pure il rischio di sentirsi dire di sì a Consoli, l’uomo che –ha rivelato il Fatto – a marzo 2014 si trovò a casa Boschi a Laterina, alla presenza dell’allora ministro per discutere di come arginare le pressioni di Bankitalia su Etruria. E lo stesso intercettato al telefono con Pier Luigi Boschi mentre questi spiega che parlerà con la figlia e con Renzi della situazione della banca. Il tempo è poco, molte le audizioni fissate. Casini non potrà indicare tutti: deve scegliere.

Il Fatto 6.12.17
Scalfari stordito dalle malefatte di B.
di Eugenio Ripepe


L’ultima performance di Eugenio Scalfari da Floris avrebbe meritato un’eco più vasta. Non tanto per l’ennesima cappellata nella quale è incorso (le sue defaillance culturali non fanno più notizia) quanto per il contesto argomentativo nel quale essa era inserita. La cappellata è consistita nel retrodatare di un paio di millenni la “scoperta” dell’autonomia della politica dalla morale, che la vulgata attribuisce a colui che è stato a lungo il segretario fiorentino per antonomasia (prima di essere spodestato proprio da un attuale beniamino pro tempore di Scalfari), attribuendola ai greci.
Ora, che una distinzione tra morale e politica i greci la facessero è dimostrato dal fatto stesso che le designavano con termini diversi, ma non per questo le ritenevano reciprocamente irrilevanti come ha sostenuto Scalfari. Avesse fatto il nome di Tucidide, ancora ancora… Invece ha chiamato in causa Platone e Aristotele, spiegando che “per Platone quelli che facevano la politica erano i filosofi. Che cosa poi i filosofi facessero moralmente era un problema che né Platone né Aristotele prendevano in considerazione”. Nel bignamino di filosofia di Scalfari le pagine su Platone e Aristotele devono mancare. Come nessuno (pardon: quasi nessuno) ignora, infatti, Platone, in linea con l’intellettualismo etico socratico, vuole i filosofi al governo dello Stato proprio (e solo) perché ritiene che, conoscendo il bene e il giusto, essi non possano non governare virtuosamente e secondo giustizia. E nemmeno Aristotele doveva essere tanto convinto della reciproca irrilevanza di morale e politica se per lui l’etica fa parte della politica, la quale ha di mira il bene comune.
Un velo pietoso su quanto Scalfari ha aggiunto a riprova dell’asserito amoralismo politico di Aristotele tirando in ballo il suo allievo Alessandro Magno che “della morale se ne fotteva nel più totale dei modi. Non a caso ha fatto un impero in cui andava a dormire con le varie imperatrici, se erano belle. Lui occupava il paese e poi di queste se ne faceva una ventina”. Una lettura pecoreccia della storia, alla luce della quale il grande Alessandro non sarebbe stato altro che un piccolo B. E in effetti era qui che Scalfari voleva andare a parare: alla riabilitazione di Berlusconi, anticipata già nella risposta alla prima domanda di Floris: “(Berlusconi?) Adeguato alla cosa pubblica lo è”. Qualunque cosa significhi, una dichiarazione di grande apprezzamento: quali che ne siano agli occhi dei perbenisti i vizi privati, le pubbliche virtù di Berlusconi non possono esserne offuscate.
Altro che l’apertura di credito implicita nella preferenza per Berlusconi rispetto a Di Maio dichiarata alcuni giorni prima! Sedici anni dopo, Scalfari smentiva l’Economist che a suo tempo aveva bollato Berlusconi come unfit to lead Italy, proclamandolo fit, perché non si devono trasformare in giudizi di carattere politico i giudizi, o magari i pregiudizi, di carattere morale. Come se da un quarto secolo in qua i giudizi negativi su Berlusconi abbiano avuto a oggetto esclusivo la sua morale privata, e in particolare la sua condotta sessuale, invece che la sua mancanza – come dire? – di moralità politica. Sotto il governo di Berlusconi, ha aggiunto Scalfari, le cose sono andate più o meno come sotto i governi precedenti. Vale a dire che il capo del triunvirato Berlusconi-Dell’Utri-Previti e, che so, un Ciampi per lui pari sono. Se la denuncia quotidiana delle malefatte (politiche) di Berlusconi venuta per vent’anni da Scalfari e dal suo giornale ha lasciato il campo alla scoperta della sua affidabilità (politica), oltre che alla sua riscoperta come delizia del genere umano, o Scalfari ha ragione ora, e dovrebbe vergognarsi di fronte a Berlusconi per come lo ha infangato, o aveva ragione prima, e dovrebbe vergognarsi di fronte a se stesso.
Questo ragionamento è forse troppo schematico perché tertium datur. Scalfari potrebbe aver espresso sinceramente il proprio pensiero sia allora sia ora, solo che, non essendo un paracarro, ha subito un’evoluzione che lo porta a giudicare i fatti diversamente: quello che gli sembrava inammissibile ieri, gli sembra ammissibile oggi.
Ma proprio questo suo passaggio dall’anti-berlusconismo all’anti-anti-berlusconismo dimostra la gravità di uno dei pericoli fin dall’inizio intravisti nel berlusconismo, e cioè che alla lunga determinasse un’assuefazione alle sue anomalie. Ecco, si è assuefatto perfino Scalfari! Nel quale il processo di mitridatizzazione ha avuto come catalizzatore, stando a quello che ha detto a Floris, il bisogno di governabilità. Più o meno quello che fece accettare a tanti non fascisti l’avvento del fascismo, nel cui regime poi parecchi di loro trovarono modo di integrarsi. C’è da augurare a Scalfari che non gli appaia mai in sogno qualcuno dei personaggi che abitano il suo pantheon privato, per esempio un Pertini col suo carattere fumantino. Sarebbe un notte agitata…

Corriere 6.12.17
Quagliariello rivela: così Renzi lavorò per giubilare Prodi
di Monica Guerzoni


«Lo raccontò Alfano il giorno del voto»
ROMA È la primavera del 2013. Al Quirinale gli scatoloni di Napolitano sono pronti per il trasloco e sul tavolo resta solo un piattino di ovetti di cioccolato per addolcire l’addio. Ma il 18 aprile, quando il Parlamento si riunisce per eleggere il nuovo capo dello Stato, cala improvvisa «la notte più buia della Repubblica». In poche, drammatiche ore, un Pd scosso da faide e vendette incrociate brucia le candidature di Marini e Prodi, costringendo Bersani a dimettersi da segretario.
È tra queste righe della storia recente che Gaetano Quagliarello, autore di Sereno è. Scena e retroscena di una legislatura spericolata (Rubbettino), rivela un particolare inedito che rischia di rinfocolare le polemiche sui 101 franchi tiratori del Pd. «Tra i grandi elettori non c’è Renzi — si legge a pagina 26 —. Il giovane virgulto è però attivissimo... In un capannello in Transatlantico, Alfano ci racconta di averlo sentito al telefono e di aver ascoltato una voce beffarda assicurare che avrebbe dato tutto il suo contributo alla giubilazione di Prodi». La prova, per il fondatore di Idea, che i renziani presero parte all’agguato contro l’ex presidente della Commissione europea, su ordine del «giovane rampante di Rignano sull’Arno».
Il professore di Storia che fu tra i «saggi» di Napolitano ripercorre con puntiglio (e perfidia) la «repentina ascesa e il rapido declino dell’astro renziano». Gli attribuisce l’«inattitudine assoluta a concepire accordi» e lo accusa di aver scalzato Enrico Letta da Palazzo Chigi con «un disegno cinico, lucido, predeterminato». Il leader del Pd non gli è «mai piaciuto». Non a caso colleziona gufi e ha intitolato il libro Sereno è, come una canzone di Drupi del 1974: «E la volta che hai guidato tu/ Dentro il fosso a testa in giù...».
Nel metaforico fosso Renzi sarebbe finito per la «brutta storia» dell’elezione di Mattarella, quando il segretario del Pd rompe il patto con Berlusconi e punta dritto sull’allora giudice costituzionale. Quagliariello rivela gli sforzi di Napolitano per scongiurare lo strappo: «Mi confida che aveva pregato Renzi affinché organizzasse una cena informale con Berlusconi e Amato, per far presente loro l’impossibilità politica di far convergere il Pd sulla candidatura di quest’ultimo...». Se Renzi avesse cercato un’ampia convergenza su Mattarella, Quagliariello è convinto che l’avrebbe trovata, ma certo non avrebbe avuto il via libera di Pier Ferdinando Casini. Il quale per stroncare «con foga» l’ipotesi sul nascere si alzò «addirittura in piedi» durante un vertice.
L’altro filo rosso è il dramma che la decadenza di Berlusconi dal Senato rappresentò per il Pdl. Il primo agosto del 2013 la Cassazione rende irrevocabile la condanna al processo Mediaset, i dirigenti corrono a Palazzo Grazioli e «per la prima volta» Quagliariello vede Alfano piangere. Un capitolo è dedicato alla «grazia (non) ricevuta». Il senatore racconta di quando l’ex premier lo inviò sul Colle per verificare l’iniziale disponibilità del presidente Napolitano nei confronti di un possibile atto di clemenza. Dopo pareri, contropareri e documenti riservati, la missione si conclude con una fumata nera: «In seguito il Colle non avrebbe più preso in considerazione nemmeno l’ipotesi di un più minimale provvedimento di clemenza» .

Repubblica 6.12.17
I nuovi camerati
La nostalgia del fascismo
di Piero Ignazi


Si susseguono gli episodi di esaltazione del fascismo e, a volte, affiorano persino simpatie neonaziste. Evidentemente rimangono ancorate al fondo della politica italiana nostalgie inestricabili rispetto a quel passato. Non per nulla per più di quarant’anni la repubblica democratica e antifascista ha tollerato l’esistenza di un partito dichiaratamente nostalgico come il Movimento Sociale di Giorgio Almirante, nonostante una chiara prescrizione costituzionale (la XII disposizione transitoria, tuttora valida), e la legge Scelba, introdotta nel 1952 in attuazione di quella norma della costituzione. Provvedimenti che vennero in seguito rafforzati dalla legge Mancino- Modigliani ( 1993) contro l’ “apologia del fascismo” e le manifestazioni razziste — nei confronti della quale la Lega Nord, nel 2014, ha presentato le firme per un referendum abrogativo.
Nonostante queste iniziative legislative la fiamma della nostalgia continua a bruciare. Come mai questa resilienza? Le responsabilità investono non solo la politica bensì, anche e soprattutto, una società civile indifferente, ripiegata a fare i propri interessi, priva di senso dello Stato, e infastidita dai richiami ai valori fondanti della Repubblica. Troppa indulgenza, per troppo tempo, verso le manifestazioni di nostalgia — e troppa retorica fondata solo sull’anti- fascismo e non sui principi liberali, democratici e solidali — hanno abbassato le difese immunitarie e lasciato campo libero ai cultori dei regimi totalitari.
Quando si è consentito che, per anni, il capo del governo — nella fattispecie Silvio Berlusconi — disdegnasse di partecipare alle manifestazioni del 25 aprile ( eccetto nel 2009, nelle zone terremotate), la causa dell’antifascismo, ancor più delle ambiguità di Alleanza Nazionale, ne risultava depotenziata. Un certo sentimento di fastidio dell’opinione pubblica moderata- conservatrice di fronte all’antifascismo roboante, e di indulgenza rispetto al passato regime, è stato legittimato e rafforzato, per due decenni almeno, proprio dal comportamento della destra “ istituzionale”.
Poi, la resilienza del neofascismo, così come tutte le pulsioni anti-sistemiche, si alimenta delle debolezze del sistema democratico. La scarsa rispondenza e responsabilità verso le domande dei cittadini e l’immagine di inefficienza e corruzione della classe politica fomentano l’antica polemica contro la democrazia, quell’ “ infezione dello Spirito”, secondo la celebre espressione di Pino Rauti.
Alla distrazione/ disattenzione dell’opinione pubblica e ai deficit della politica vanno poi aggiunte le capacità di attrazione proprie dei movimenti nostalgici. CasaPound, ad esempio, non si limita alle azioni dimostrative contro gli immigrati, né a riverniciare i meriti del regime fascista: cerca di creare una “ subcultura nera”, di legare militanti e simpatizzanti in una vita associativa intensa, fatta di rapporti personali e di esperienze comuni in modo da formare una comunità coesa, alimentata sì dal riferimento al fascismo, ma abilmente connesso con la realtà in cui il movimento opera. Questo mix di esperienze comunitarie e di visioni politiche “alternative” penetra attraverso i varchi della rete civile. Laddove si diffonde la sensazione di abbondono, di marginalità e di esclusione, un messaggio nero di identità, di “ difesa e protezione”, e di opposizione radicale al sistema trova terreno fertile. Non per nulla, persino nell’Emilia rossa movimenti di estrema destra si sono presentati alla ribalta con il manto d’agnello per organizzare eventi sociali e ricreativi con finalità di beneficenza. Un piccolo esempio di come l’antidemocrazia neofascista trovi nuove strade per insinuarsi.
Le intimidazioni e le violenze costituiscono solo il versante più truce e scoperto. Il consenso si acquisisce anche in altri modi, meno eclatanti. E più inquietanti.

Repubblica 6.12.17
Viaggio nell’ultradestra
L’isola naziskin che fa paura alla Genova rossa
Due degli estremisti del blitz di Como sono partiti dalle colline del capoluogo ligure
di Paolo Berizzi Marco Preve


GENOVA C’era una volta Genova “red and blue”. O forse solo “red”, tralasciando il calcio. Rossi erano il porto e i suoi camalli. Rossi erano i mercati. Rosso è lo stadio. Rossi anche i caruggi, le vene che innervano il centro storico e degradano fino al mare. Rossi i quarti di nobiltà, anzi, di popolo, della Superba, così la ribattezzò Francesco Petrarca. Oggi “La Superba” è un gruppo neofascista federato con gli hammerskin antisemiti di Lealtà Azione. Gli skin dei “martelli incrociati” - dal film The Wall - passati dalle “azioni” di strada a un ambizioso tessuto associativo che strizza l’occhio al sociale: l’arma dolce con cui LA ha lanciato un’Opa per il controllo del Nord-Ovest nero.
«Fascisti? È riduttivo. Siamo sovranisti, guardiamo al futuro», dice il leader della “Superba” Giacomo Traverso. Ventisette anni dopo Genova blues, l’inno di Baccini e De André, il rosso Genova si è stinto. Un baco bruno prova a insinuarsi nel fiore del capoluogo: dalla Lanterna alla riviera di Levante, dalle colline vip a quell’entroterra da cui otto giorni fa sono partiti per Como Giorgio Gardella e Max Tinelli.
Uno di Montebruno, l’altro di Rossiglione. Veneto Fronte Skinhead. C’erano anche loro nel manipolo naziskin dell’irruzione nella sede di Como Senza Frontiere. Blitz la cui mozione di condanna è stata respinta ieri dalla regione Lombardia.
Questo viaggio nell’ultradestra genovese non può che incominciare dal luogo che più di tutti connota la città ora guidata dal centrodestra. È il polmone che trasporta l’ossigeno economico, la cartina di tornasole che restituisce i mutamenti sociali. Il porto. È probabile che i loro nonni con le magliette a strisce nel giugno 1960 fossero in piazza De Ferrari a scontrarsi con i celerini per impedire il comizio di Almirante nella città medaglia d’oro della Resistenza. L’unica che, nel 1945, costrinse alla resa le truppe tedesche. Chi sono? La terza generazione di quei camalli “resistenti”. I soci della Compagnia Unica Lavoratori Merci Varie. Aristocrazia della classe operaia. Eppure anche sulle banchine più rosse d’Europa è arrivata l’onda nera. Fra i dipendenti dei terminal privati, certo, ma pure nel cuore del porto, nella Culmv. Qui raccolgono simpatia e adesioni CasaPound, Lealtà Azione e Forza Nuova.
«Abbiamo sostenitori nel mondo portuale e fra i camalli, come del resto fra gli operai. Una cosa inimmaginabile fino a ieri”.
Cristian Corda è responsabile della nuova sede CasaPound. Via Montevideo, zona Foce. Dopo il letame e gli striscioni scaricati dagli antagonisti a ottobre, un mese dopo i “fascisti del terzo millennio” quella sede l’hanno inaugurata con una conferenza in un hotel di Nervi.
In città le tartarughe nere hanno un centinaio di iscritti. Ma anche un fronte molto caldo di non simpatizzanti, per usare un eufemismo: gli stessi che, sempre a ottobre, in via Serra, durante un corteo antifascista hanno murato la sede de “la Superba” (di cui diremo dopo).
Cristian Corda tira dritto e snocciola numeri. «180 tesserati fra Genova e provincia e 50 militanti attivi dai 16 agli 85 anni.
Con le raccolte davanti ai supermercati assistiamo 65 famiglie bisognose e italiane nei quartieri popolari. Abbiamo iniziato quattro anni fa e il fatto che oggi il nostro boom corrisponda ai governi locali di destra è solo una casualità». Di casi è piena la vita. Sta di fatto che un mese fa Sergio Gambino, consigliere di Fd’I, in veste di delegato del sindaco Bucci, e dunque con fascia tricolore, ha deposto una corona di fiori sulle lapidi dei caduti della Rsi al cimitero Staglieno. Nella storia di Genova era la prima volta che l’amministrazione lo faceva. «Un atto storico», dice Gambino. In effetti nella città di Palmiro Togliatti e di piazza Alimonda qualcosa è successo. Torniamo al porto. Fine ottobre. Viene diffuso un volantino a firma “Lavoratori del porto di Genova” per chiedere l’intervento di Assiterminal e Confindustria. La velina parla di “un top manager del gruppo che si dice sia un caporione di questi nazifascisti”. Gli indizi portano a un alto dirigente della compagnia Messina: Gabriele Parodi, 50 anni, uno dei leader di CasaPound Genova. Su Fb Parodi posta l’immagine di Mussolini che saluta il popolo in piazza della Vittoria a Genova nel 1938. Ottant’anni dopo è il tempo dei “lupi” di Lealtà Azione (una trentina di iscritti) e dei sodali della “Superba”. Sapete dove hanno sede questi ultimi?
Nei locali della Fondazione Assarotti, una onlus benefica cattolica. In via Serra gli inquilini neofascisti, nemici ad alzo zero dell’immigrazione, “abitano” a pochi metri dalla scuola elementare e dall’asilo frequentati anche da molti bimbi stranieri.
Storia surreale. «Un contratto siglato in buona fede», secondo padre Andrea Melis, direttore della Fondazione Assarotti. Solito escamotage. La Superba “si è presentata come associazione che aiuta gli italiani indigenti” (progetto “CooXazione”). In Fondazione l’hanno bevuta. A Melis i neri hanno solo spiegato che nel locale «terranno le derrate alimentari». I pacchi di pasta dell’ultradestra. Un “cavallo di Troia” per creare consenso tra le fasce deboli. Poi c’è il lato B. Quello oscuro. I genovesi di Superba e Lealtà Azione il 29 aprile hanno partecipato alla parata dei mille saluti romani al cimitero Maggiore di Milano. C’era, in prima fila, anche Giacomo Traverso. Che però ha dichiarato: «Il nostalgico becero non ci interessa». Appunto. Chissà cosa ne pensa il suo braccio destro. Roberto Pecchioli, ex responsabile cultura di Forza Nuova. Gli ultimi eventi organizzati dai due camerati? Un convegno anti-gender e uno a difesa dei cristiani perseguitati.
Ai due incontri partecipa anche l’assessore alla sicurezza Stefano Garassino (Lega Nord). Pure lui fa le passeggiate della legalità.
Scortato dalla Digos.
Il sindacato autonomo di polizia è insorto. “Se questi muri sapessero parlare anche le strade potrebbero arrossire”, cantavano Baccini e De André.

Repubblica 6.12.17
Intercettazioni, i pareri delle commissioni: “ Il testo va cambiato”
Dal ruolo della polizia giudiziaria alla tutela dell’informazione I punti critici rilevati al Senato e alla Camera
di Liana Milella


Roma Intercettazioni, la nuova legge del Guardasigilli Orlando va cambiata. Non deve spettare alla polizia giudiziaria decidere quali conversazioni sono rilevanti; gli avvocati hanno diritto ad avere copie cartacee; è dannoso, e va eliminato, il frenetico riporre nell’archivio riservato ogni telefonata che a un primo esame sembra irrilevante; va garantito il diritto all’informazione. A tre settimane dalla scadenza della delega – time limit il 2 gennaio – oggi le commissioni Giustizia di Camera e del Senato voteranno il parere consultivo ( che non è vincolante, ma fa testo per possibili e futuri ricorsi alla Consulta) sulla riforma delle intercettazioni. Un parere più duro, quello del Senato, dove il relatore è Felice Casson di Mdp, ex giudice istruttore. Più favorevole quello della Camera, proposto dalla presidente della commissione Giustizia, la Pd ed ex pm Donatella Ferranti. Sarà un consiglio dei ministri subito prima di Natale a verificare possibili modifiche su cui Andrea Orlando non sarebbe contrario. Casson e Ferranti concordano su alcune anomalie, le stesse evidenziate dai capi delle sei procure più grandi – Giuseppe Pignatone ( Roma), Armando Spataro ( Torino), Giuseppe Creazzo ( Firenze) Francesco Greco ( Milano), Gianni Melillo ( Napoli), Francesco Lo Voi ( Palermo) – che hanno scritto alle due commissioni parlando di una riforma «irrealistica» e destinata a creare «notevoli problemi». Un giudizio critico cui, domenica scorsa a 1/ 2 ora in più di Lucia Annunziata, si è aggiunto quello del nuovo procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho: « Così com’è, la legge sulle intercettazioni, finisce per ostacolare l’esercizio delle indagini».
È questa la valutazione di Casson che parla di «Costituzione aggirata » perché la legge sul processo penale, che contiene la delega sulle intercettazioni, è stata votata con la fiducia, quindi il governo ha delegato se stesso impedendo di discutere modifiche. Nel merito, Casson chiede di cambiare il meccanismo che di fatto attribuisce alla polizia giudiziaria la selezione delle intercettazioni. Parla di «danno alle indagini » , chiede che non si stabilisca subito, all’atto dell’ascolto, se una telefonata è irrilevante, perché «la mia esperienza mi dice che io leggevo le carte due o tre volte scoprendo via via nuove connessioni e dettagli » . Netta la richiesta di concedere più spazio agli avvocati difensori, che verrebbero penalizzati dall’impossibilità di ottenere copie cartacee. Netta la critica alla norma sui Trojan Horse, i captatori informatici i cui risultati vengono esclusi per reati diversi da quelli per cui sono stati usati pur all’interno dello stesso processo. Bocciata la stretta per la stampa, che vede favorevole Ferranti, convinta che sia positivo mantenere la riservatezza sulle intercettazioni anche dopo il deposito. Anche l’ex segretaria del Csm boccia la continua trasmissione di carte all’archivio riservato e propone di renderla meno frenetica, così come chiede che alla difesa vada riconosciuto il diritto di ottenere copie.

il manifesto 6.12.17
Lapo Berti, il critico radicale del capitalismo
Ritratti. La scomparsa dell'economista e filosofo, che studiò classici come Marx e Schumpeter ed elaborò le sue teorie sulla moneta
di Andrea Fumagalli


Lapo Berti fa parte dei tanti militanti che hanno dedicato la propria vita alla ricerca della verità (nel senso di «parresia») – una compagine oramai rara ai giorni nostri, così presi della performatività dell’apparire. Ha partecipato ai principali avvenimenti della rottura culturale degli anni Sessanta in Classe Operaia e in Potere Operaio, dopo) fino gli anni Novanta. È stato uno degli animatori della rivista Primo Maggio, ha partecipato al gruppo di studio sulla Moneta, con Christian Marazzi, Roberto Convenevole, Franco Gori e Sergio Bologna e più avanti Riccardo Bellofiore. Ha prodotto analisi sull’idea che la creazione di moneta – come moneta credito – fosse in ultima analisi, nonostante il monopolio di emissione della Banca Centrale, un fattore endogeno alla dinamica dell’economia capitalistica. Ha partecipato al seminario sulla Moneta animato nei tardi anni Settanta da Augusto Graziani con Marcello Messori, Roberto Convenevole, Riccardo Farina, Lilia Constabile, contribuendo allo sviluppo della Teoria del circuito monetario (insieme alla teoria de la régulation francese, le uniche capaci di creare una teoria economica in grado di essere un antidoto all’egemonia monetarista dell’epoca).
È STATO uno studioso dei classici, in primo luogo Marx, e poi Schumpeter. Dal primo ha divulgato l’idea che la moneta non è altro che un rapporto sociale, ovvero strumento del dominio del capitale sul lavoro. Dal secondo, ci ha tramandato (oltre alla traduzione di Teoria dello sviluppo economico – Sansoni, 1971 (nuova edizione 2013 per Rizzoli), la seminale, ma parziale, traduzione dell’opera schumpeteriana più misconosciuta – Das Wesen des Geldes (L’essenza del denaro) il ruolo di discriminazione che è insito nel potere del denaro. Concetti che oggi, nell’era del capitalismo cognitivo finanziarizzato, sono più che mai confermati. Ha inoltre curato l’edizione di Teoria della moneta e dei mezzi di circolazione di  Ludwig von Mises, L’equilibrio monetario di Gunnar Myrdal e ha tradotto la Teoria economica del credito di L. Albert Hahn, tutti testi che contribuirono negli anni Ottanta alla discussione sulle teorie monetarie eterodosse.
HA LAVORATO poi all’Antitrust, denunciando le storture del mercato come luogo di concentrazione del potere economico, in controtendenza con l’idea neo-liberale del mercato come luogo di pari opportunità. Negli anni Novanta si è interessato alle trasformazioni del processo di valorizzazione nella fase del capitalismo post-fordista. È stato membro della redazione di Altreragioni, primo ambito di rivitalizzazione del pensiero economico operaista di fronte alle nuove forme di organizzazione del lavoro e della globalizzazione, un passaggio cruciale per cogliere lo sviluppo dell’Italian thought di oggi. Non è un caso che è in quell’ambito che vengono sviluppate le prime analisi critiche da parte del pensiero dell’Autonomous marxism sul processo di costruzione dell’Unione Monetaria Europea, riflessione che vedono la luce, oltre che sul n. 2 di Altreragioni, nel volume collettaneo L’Antieuropa delle monete (Manifestolibri, 1992).

Corriere 6.12.17
Nel museo creazionista, dove convivono uomini e dinosauri
Il 40% degli americani non crede a Darwin e pensa che la Terra abbia 10 mila anni, come dimostrano i fossili di Santee
di Massimiliano Del Barba


E se Darwin avesse torto? A pensarlo sono 130 milioni di cittadini statunitensi. Il 40% dell’intera popolazione, stando a un sondaggio della Gallup, non crede infatti nelle teorie evoluzioniste, preferendo la tesi creazionista secondo cui la Terra sarebbe nata non più di diecimila anni fa e che, di conseguenza, i dinosauri, per un certo periodo e prima del Diluvio universale che li estinse, avrebbero convissuto con l’uomo.
Un trend confermato dalla fortuna di pubblico registrata dalla ventina di musei antidarwiniani che, dalla Florida alla California, dal Tennessee al Texas hanno aperto negli ultimi anni. A cominciare dal Creation and Hearth Museum di Santee, a un’ora di auto da San Diego e dalla frontiera con il Messico, oppure dal The Creation Museum di Petersburg, in Kentucky, che il 7 luglio dello scorso anno ha inaugurato una gigantesca Arca di Noè (150 metri di lunghezza per 16 di altezza) visitata da un milione di persone nei primi dodici mesi d’apertura.
A Santee i visitatori vengono invitati a ripercorrere la storia del mondo secondo le fasi del credo creazionista, dalla stanza dei Sei giorni della creazione a quella del Diluvio universal e per poi passare alla Glaciazione , alla Civilizzazione antica , all’ Epoca romana e così via. Il fulcro centrale è però la raccolta di fossili di dinosauri. «Conserviamo qui un corno di triceratopo che evidenzia la presenza di tessuti molli. E gli scienziati sanno che materiale di questo tipo non può essere più antico di 50 mila anni — spiega Eric Rader, project coordinator del museo californiano di Santee —. Ciò conferma come le teorie darwiniste siano errate: i dinosauri non sono vissuti milioni di anni fa, ma hanno convissuto con l’uomo, come del resto confermano alcuni fossili che conservano insieme le impronte di questi grandi animali con quelle umane, e si sono poi estinti durante il Diluvio universale».
L’Arca di Noè, in effetti, è un pivot fondamentale del credo creazionista. Cioè è il momento del prima — la preistoria — e del dopo — la storia a noi tutti nota. C’è poi una questione culturale che confermerebbe la tesi di tale passaggio (Hegel avrebbe detto) cosmico-storico : «Nel mondo occidentale e orientale — conclude Rader — è pieno di leggende di cavalieri che sconfiggono dragoni, come ad esempio San Giorgio. E cosa sono questi dragoni se non dinosauri?». Convinto lui...

Repubblica 6.12.17
Dieci anni dopo
Rogo alla Thyssen dopo la condanna i manager tedeschi ancora in azienda
I due dirigenti ritenuti colpevoli per la morte dei sette operai lavorano ancora nelle acciaierie Inascoltate le pressioni dell’Italia per farli arrestare
di Tonia Mastrobuoni


Berlino Harald Espenhahn e Gerald Priegnitz non soltanto lavorano ancora per Thyssenkrupp, nell’importante complesso industriale di Duisburg, ma secondo una fonte sarebbero persino impiegati nello stesso settore in cui si sono resi colpevoli della morte di sette operai in Italia: l’acciaio. Il gruppo non avrebbe ritenuto neanche di dover sanzionare i due manager condannati dalla giustizia italiana a nove anni e 10 mesi e sei anni e 9 mesi per il rogo nello stabilimento torinese, licenziandoli. Anzi, in attesa dell’arresto, il colosso tedesco starebbe garantendo loro uno stipendio. Non si sa se ci sia stato un demansionamento rispetto al ruolo che ricoprivano in Italia, ma certo non fanno gli uscieri.
Inoltre, dal 13 maggio 2016, da quel verdetto definitivo della Cassazione che ha ritenuto i vertici della Thyssen di Torino, compresi i due manager tedeschi, colpevoli di omicidio colposo, la giustizia della Germania sembra aver assunto tempi lunghi — italiani, verrebbe da dire — per l’esecuzione. Dopo che è stato rimosso anche l’ultimo ostacolo formale, nei mesi scorsi, sono aumentate enormemente le pressioni della diplomazia italiana e del ministro della Giustizia Andrea Orlando, ma le autorità tedesche se la stanno prendendo comoda per far arrestare Espenhahn e Priegnitz. E, come confermano informalmente dal ministero della Giustizia italiano, in teoria non c’è più alcun ostacolo all’arresto.
Un mese fa Orlando ha scritto al suo omologo, Heiko Maas, per avere lumi sul destino dei due top manager, ma non ha mai ricevuto risposta. Dal ministero della Giustizia tedesco un portavoce fa notare che la decisione spetta ai magistrati e che la materia è di esclusiva competenza dei Land. Quando è arrivata la lettera di Orlando, Maas si è limitato dunque, racconta il portavoce, « a chiedere al responsabile della Giustizia del Nordreno- Westfalia se può aiutarlo a facilitare una buona comunicazione con l’Italia». Ma non ha ritenuto di dover rispondere a Orlando. E la linea ufficiale resta che « su questo caso non diciamo nulla».
Da quando il ministro italiano ha bussato a Maas, si è mossa anche la diplomazia. L’ambasciatore Pietro Benassi, sempre vigile anche nel lungo anno in cui nessuno ha reso esecutiva la sentenza della Cassazione perché mancava sempre qualche formalità, ha incontrato di recente la sottosegretaria alla Giustizia, Christine Wirtz.
Oggi il console di Colonia incontrerà di nuovo qualcuno del ministero della Giustizia per continuare a esercitare pressioni su un sistema che su questo punto sta facendo evidentemente muro. O “sistema”, appunto, per usare un termine molto in voga tra gli estimatori del capitalismo corporativo tedesco, noto per la capacità di serrare i ranghi nei periodo di crisi e tutelare spesso i lavoratori meglio di altri Paesi. Salvo poi chiudersi a testuggine quando qualcuno osa chiedere giustizia per un fatto clamoroso e tragico come il rogo di Torino, che continua a rubare il sonno alle famiglie italiane.
Ieri Thyssen ha fatto sapere, via mail, di « essere dispiaciuta che in uno stabilimento si sia potuta verificare una tragedia del genere » e ha espresso la propria vicinanza alle famiglie

Repubblica 6.12.17
Lo studio Il lato positivo
Una ricerca italiana conferma l’origine genetica ma svela che la preferenza per l’uso della sinistra emerge alla 18esima settimana di gravidanza
Mancini si diventa nella pancia di mamma
di Elena Dusi


ROMA Già nel pancione si è mancini o destrimani.
Per succhiarsi il pollice o stropicciarsi un occhio nell’utero della mamma il bimbo usa più spesso la sua mano preferita. Dalla 18esima settimana, con un po’ di pazienza e un buon ecografo, i genitori potrebbero chiedere al medico non solo se il figlio è maschio o femmina. Ma anche se sarà mancino o meno.
Il gruppo di neuroscienziati della Sissa (la Scuola Superiore Internazionale di Studi Avanzati di Trieste) e dell’Università di Padova ha osservato 29 bambini alla 14esima, 18esima e 22esima settimana. Venti minuti di ecografia hanno registrato i movimenti delicati delle mani verso la bocca e gli occhi, oppure i pugni più rudi assestati alla pancia della madre. «A partire dalle 18 settimane gli occhi vengono identificati come organi delicati. I movimenti sono più lenti e precisi. La mano utilizzata in prevalenza è quella che in futuro diventerà la mano preferita» spiega Valentina Parma, ricercatrice della Sissa specializzata in neuroscienze cognitive. «Non tutte le differenze nei gesti sono apprezzabili a occhio nudo» aggiunge Umberto Castiello dell’Università di Padova, coautore dello studio apparso su Scientific Reports («e mancino bastonato» scherza).
«Abbiamo dovuto mettere a punto un software per apprezzare velocità e accelerazione dei movimenti dei bimbi».
Se non lo si osserva in gravidanza, per scoprire se il bimbo sarà mancino o destrimane bisognerà poi aspettare l’età dei primi disegni. «Con il nostro studio abbiamo osservato che il sistema motorio si sviluppa molto presto nella gestazione» prosegue Parma. «Ma dopo la nascita avviene una sorta di reset. La coordinazione dei movimenti deve riorganizzarsi completamente. Il passaggio dal liquido amniotico a un ambiente dominato dalla forza di gravità impone al bambino un nuovo sforzo di apprendimento. La prevalenza della destra o della sinistra riapparirà con chiarezza solo dopo diversi anni».
I bimbi osservati nel pancione della mamma dieci anni fa sono stati visitati di nuovo dai ricercatori oggi, a 9 anni. I quattro che erano mancini in utero si sono confermati tali anche dopo aver imparato a scrivere. «In più abbiamo notato – aggiunge Parma – che esistono destrimani e non destrimani. In questo secondo gruppo si trova una grande varietà di sfumature. C’è chi scrive con la sinistra ma si lava i denti, calcia o tira una palla con la destra. Solo una piccola parte dei non destrimani è veramente mancina, cioè fa tutto con la sinistra».
Di mani, ma non solo, si occupano le osservazioni dei ricercatori di Padova e Trieste. «Lo stesso tipo di movimento rallentato e delicato usato per stropicciarsi gli occhi si nota anche nei gemelli. Forse è incauto dire che si accarezzino, ma certo usano una maggiore cautela nel toccare il fratello rispetto al toccare se stessi o la parete dell’utero» spiega Castiello. «Già a 14 settimane i bambini cominciano ad avere coscienza dell’altro e a mettere in atto un comportamento sociale».
Meccanismi precoci, primitivi, che affondano le radici nella genetica: la prevalenza di una mano compare presto nella storia individuale, ma anche in quella collettiva della nostra specie. È stata notata nei Neanderthal. «Ed esiste – conclude Castiello – in molte specie animali, anche lontanissime dall’uomo».