martedì 5 dicembre 2017

La Stampa 5.12.
i drappi dell’estremismo tedesco
di Gian Enrico Rusconi


Bene ha fatto Giovanni Sabbatucci a parlare di «naziskin ingannati dalla bandiera del Secondo Reich». Anche perché credo che molti lettori condividano questo equivoco.
Ma - attenzione - non è così in Germania dove da tempo questo «equivoco» è intenzionale. Ed è uno dei motivi di forza culturale o identitaria (come si dice ora) di Alternative für Deutschland. Esponenti di primo piano della AfD insistono nel respingere e condannare il nazionalsocialismo e i suoi crimini, e non lo fanno per ipocrisia. Ma nel contempo rifiutano la «cultura della colpa tedesca», che a loro avviso oggi persisterebbe, diventando impropriamente motivo di sottile intimidazione dei tedeschi. Soprattutto interferisce e altera i rapporti politici, economici, finanziari. La Germania si sentirebbe così in qualche modo ricattata da Paesi europei altrimenti politicamente ed economicamente inaffidabili e inadempienti nei loro obblighi. Questo vale anche e soprattutto per le politiche di accoglienza messe in atto verso migranti e profughi, percepiti come grave minaccia alla integrità culturale e identitaria nazionale tedesca.
Si pensa così ad un’altra Germania forte, sicura di sé. C’è un evidente ritorno dell’idea e all’immaginario del popolo/Volk tedesco e dell’intraducibile völkisch (etno-nazional-popolare). Ma questo è un complesso simbolico ed emozionale di una Germania (forse solo immaginata) che storicamente precede lo stesso nazionalsocialismo. È difficile riportare tutta questa problematica sotto un denominatore storico-culturale omogeneo. Alexander Gauland, leader di punta dell’AfD, è giunto a lodare lo spirito anarchico (sic) che consente al movimento di integrare le più diverse correnti ideologiche e utilizzarle come forza di piazza a sostegno della rappresentanza ora in Parlamento.
In questo clima è inevitabile che simbologie e bandiere di quando la Germania era il Reich (non «il secondo» o «il terzo») seducano chi di storia non sa assolutamente nulla ma si sente in sintonia emotiva con i nuovi tempi. Tanto più se trasposto nella provinciale Italia che aggiunge confusione a confusione.

Corriere 5.12.17
Simboli neonazisti ora le denunce non bastano più
di Donatella Di Cesare


Simboli, vessilli, gesti, parole d’ordine che portano l’inconfondibile marchio fascista, se non apertamente neonazista, vengono ormai sempre più ammessi e tollerati nello spazio pubblico con una certa indulgenza che sfiora la malafede. L’aumento repentino favorisce l’assuefazione. È bene sottolinearlo. C’è chi reagisce con una scrollata di spalle: «Sono quattro esaltati!». C’è chi invece resta imperturbabile, ancorato alla certezza fideistica che la democrazia saprà sempre reagire. Come se non fossero stati eletti democraticamente i peggiori regimi. Non mancano i cittadini indignati le cui proteste, però, rischiano di svanire nel nulla, se non vengono finalmente prese serie misure di contrasto. Anzitutto quelle volte a sciogliere i gruppi responsabili.
Ma la questione più seria riguarda il paradosso di questi simboli. Da un canto non si può non vedere che esercitano un enorme richiamo e riescono a mobilitare il risentimento contro gli immigrati, l’ancestrale odio antisemita. D’altro canto questi simboli, a cominciare dalla svastica, sono diventati via via più opachi. Chi oggi ne fa uso spesso non sa o non vuole sapere l’enormità dei crimini a cui così esplicitamente si richiama. Fallimento della cultura antifascista? Certo che no.
Ma sdegno e irritazione non sono più sufficienti. Non basta né la manifestazione di piazza, né la leva dell’emotività. Occorre riconoscere che neofascismo e neonazismo non sono un «rigurgito del passato», bensì un fenomeno nuovo e non previsto nell’orizzonte del progresso. Non si può attendere che la storia faccia il suo corso e azzittisca i «pochi nostalgici». L’antifascismo non è dunque riducibile a quel lavoro di denuncia che, ogni volta concluso, deve invece ricominciare. Non c’è più la condivisione di un tempo. Per parlare ai più giovani non si deve dare nulla per scontato e occorrono nuovi e articolati argomenti culturali e politici.

il manifesto 5.12.17
Le tre trincee di Grasso e quelle della sinistra
"Liberi e Uguali" avvia un processo unitario che non va guardato con pigro scetticismo, sufficienza o rancore, ma con occhio critico, attenzione e partecipazione. Nessuno è perfetto e Piero Grasso non lo è. Però merita rispetto e fiducia, anche se la giostra dei leader che cambiano (Pisapia docet) rivela vecchie logiche di partito
di Norma Rangeri


Sui grandi giornali, come in tv, è iniziata la campagna per il voto utile urlato da Renzi e dal Pd contro un nuovo protagonista, Piero Grasso, e un nuova aggregazione della sinistra appena battezzata “Liberi e Uguali”. Un atto di nascita di fronte a migliaia di persone, in una discoteca romana che già nel nome, “Atlantico”, fa immaginare una lunga navigazione in mare aperto.
E’ una sinistra, nella parte che fa riferimento a Bersani e compagni, che viene da lontano (dal Pci) e oggi approda, in conseguenza di una scissione, a una lista elettorale in forte dissenso verso le politiche renziane che essa stessa ha condiviso per molti anni (con la fondazione del Pd) aderendo alla grande sbornia neoliberista che in Italia e in Europa ha bombardato lo stato sociale.
Poi c’è una sinistra radicale, come Sinistra italiana, che quelle politiche non le ha mai condivise e le ha combattute nelle istituzioni e nella società. E anche questa sinistra era tra le forze che domenica hanno vissuto un momento importante di reciproco riconoscimento, insieme alle persone che hanno partecipato all’assemblea dell’Eur. Dove si sono ascoltate le voci di chi combatte su ogni fronte. Da Lampedusa, alla fabbrica del panettone, al laboratorio di ricerca. Voci che raccontavano lotte quotidiane contro la diseguaglianza nelle sue varie forme.
Contenuti essenziali di un programma in parte già disegnato, che dovrà essere ben chiarito nella fase che seguirà fino a comporre nei prossimi mesi una piattaforma e una lista elettorale. Tappa intermedia verso la costruzione di un partito della sinistra italiana.
Questa almeno è l’ambizione di chi domenica era presente a Roma, venuto da ogni parte del paese per testimoniare l’urgenza di una scelta. E del resto avviare il percorso di una forza politica di sinistra, elettoralmente non irrilevante e politicamente in sintonia con le sinistre europee di alternativa, è qualcosa che certamente risponde a una domanda diffusa.
Anche per queste sommarie considerazioni non si deve guardare al processo unitario, rappresentato dalla figura di Piero Grasso, né con sufficienza, né con pigro scetticismo, né con rancore ma con attenzione, partecipazione e anche occhio critico.
Proprio come questo giornale ha fatto, alcuni mesi fa, verso un’altra grande e bella assemblea al cinema Brancaccio di Roma. Che voleva le stesse cose, che poi aveva sottoscritto con Mdp, Sinistra italiana e Possibile, una cornice di intenti. Ma quel processo si è interrotto su un diverso metodo partecipativo nella definizione delle candidature e sulla necessità di marcare una più netta differenza dai fuoriusciti del Pd.
Ragioni che hanno anche determinato il distacco di Rifondazione comunista intenzionata a fare una sua lista.
Sono critiche in parte condivisibili e certamente la lista di “Liberi e Uguali” sconta debolezze che ne segnano anche la genesi.
Nessuno è perfetto.
Pietro Grasso, che di questa aggregazione è il front-man, non lo è. Però merita rispetto e fiducia, anche se avevamo capito che, fino all’altro ieri, l’acchiappavoti indicato da Bersani rispondeva al nome di Giuliano Pisapia.
Questa frettolosa ricerca del leader rivela una vecchia logica di funzionamento dei partiti, che andrebbe superata perché poi se non si rinnovano i metodi per la scelta della classe dirigente si finisce per perpetuare un ceto politico che, nel caso di “Liberi e Uguali” mostra tre baldi quarantenni (Speranza, Fratoianni e Civati) e nemmeno una delle molte compagne di viaggio dopo tante belle parole sulla battaglia di genere (anche il nome declinato al maschile non è una scelta felicissima: forse sarebbe stato meglio “Uguaglianza e Libertà”, non cambia la sostanza ma la forma sì).
La scelta di Grasso è forte perché a disegnarne il profilo sono le tre trincee della sua storia.
La trincea di Palermo, vale a dire la linea del fronte contro la mafia insieme agli altri allora giovani magistrati a fianco di Falcone e Borsellino.
La trincea del senato, un campo di battaglia infuocato, bersagliato dalle cannonate del governo, condannato a morte certa dalla riforma renziana e salvato insieme a tutta la Costituzione dalla vittoria del no, una domenica di giusto un anno fa.
E ora Grasso si butta nella trincea della sinistra, e dal palco dice, a chi lo accompagna con gli applausi, che a lui la parola “radicale” gli piace proprio. Come gli piace l’articolo 3 della Costituzione, perché gli sembra racchiudere un programma perfetto, una bussola sicura per costruire la politica di un futuro che corre veloce. Cogliendo “il vento che sta cambiando” come ha detto Susanna Camusso in piazza contro il governo.
Se dunque è vero che il nuovo si costruisce attraverso un vero cambiamento, è anche vero che dall’Eur è stato lanciato un messaggio forte, che potrebbe rimettere in moto energie, speranze, voglia di esserci.
Proprio per questo si capisce il fuoco di fila appena iniziato: lo spauracchio di D’Alema – che certo non è il nuovo che avanza – è solo un esempio.
Sembra di sentire le parole dei comunisti sovietici che attaccarono – quasi 50 anni fa – il gruppo nascente del manifesto accusandolo di favorire la destra, quel famoso «a chi giova?» che cercò di creare un cordone politico-elettorale preventivo.
Ma questa è la pessima propaganda di certi leader che promettono un milione di posti di lavoro all’anno. Le loro urla adesso cadono nel vuoto.

Il Fatto 5.12.17
I numeri dell’effetto Grasso e il fardello delle poltrone
Sondaggi - La sua presenza può raddoppiare le cifre dei tre partiti “Liberi e Uguali”: dal 5 al 10%. Ma i seggi non bastano
I numeri dell’effetto Grasso e il fardello delle poltrone
di Tommaso Rodano


Quanto vale Pietro Grasso? La sua scelta come leader della nuova lista di sinistra “Liberi e Uguali” è davvero “un capolavoro”, come ha sussurrato Roberto Speranza domenica mattina, appena concluso il discorso di insediamento dell’ex magistrato?
I numeri devono ancora prendere forma. La lista che unisce Mdp, Sinistra Italiana e Possibile è una novità assoluta e i primi sondaggi per rivelarne il potenziale, ora che il capo politico è stato ufficializzato, saranno compiuti in questi giorni. Ma chi con quei numeri ci lavora, ha già iniziato a ragionare sulle prospettive della nuova formazione.
Quanto vale Grasso, dunque? Non poco. Per i sondaggisti potrebbe ampliare, forse raddoppiare, il consenso dei tre partiti che gli hanno affidato le chiavi della casa comune. La somma di Speranza, Fratoianni e Civati viene stimata tra il 5 e il 7%. Il bacino potenziale della nuova creatura con Grasso al comando, invece, può valere la doppia cifra, fino al 10 o al 12.
“Nei nostri sondaggi recenti – spiega Roberto Weber, presidente di Ixé – i tre partiti insieme valevano il 7%. Ora però ci sarà un effetto Grasso, è inevitabile. Sono quasi sicuro che sarà un effetto positivo, può trainare la lista alla doppia cifra. Lui ha una percentuale di fiducia personale piuttosto alta. Superiore a quella di Renzi”. L’analisi di Nicola Piepoli, presidente dell’omonimo istituto di sondaggi, è molto simile. “Non abbiamo ancora ricerche specifiche, e chiaramente il valore della nuova creatura di Grasso dipenderà dalle forze che saprà farvi confluire. Se riuscirà ad assorbire l’intero bacino della sinistra, anche dei piccoli partiti comunisti come Rifondazione e gli altri, e allo stesso tempo a recuperare una parte dell’elettorato deluso dal Pd e una piccola percentuale degli astenuti, la doppia cifra è tutt’altro che una chimera”. Piepoli espone i suoi calcoli: “Con un’affluenza che supponiamo al 60%, per avere il 10% servono circa 3 milioni di voti. Non un’impresa impossibile. Oltretutto Grasso ha un profilo valido, un’immagine positiva: è un buon attrattore di voti. Se l’operazione funzionerà, ‘Liberi e Uguali’ può superare anche il 10 o il 12%”.
Alessandra Ghisleri di Euromedia Research è più cauta: “Liberi e Uguali parte dalla base dei suoi tre partiti, che stimiamo attorno al 6%, anche se in politica la somma algebrica non è mai un buon criterio di valutazione”. E l’effetto Grasso? “È tutto da verificare. In passato figure istituzionali come i presidenti delle Camere non hanno avuto fortuna: penso a Fini, Irene Pivetti, Bertinotti. Grasso però gode di una considerazione positiva. Dipenderà anche dal simbolo, che ancora non è stato presentato”.
Infine Antonio Noto, direttore di Ipr Marketing: “Già a ottobre avevamo mostrato un nostro sondaggio che definiva il potenziale di un’area larga di centrosinistra attorno a Pietro Grasso attorno al 15%. Il problema è che Grasso, che è un personaggio trasversale, rischia di rimanere ‘ostaggio’ dei tre partiti di sinistra cui si è legato, che insieme oggi valgono il 5%. Lui gode di una fiducia personale molto alta, il 65%. Vedremo se saprà allargare i consensi del suo campo, o ne sarà schiacciato”.
Fin qui le previsioni, generalmente lusinghiere per il presidente del Senato. Poi ci sono considerazioni più concrete. Grasso si è legato a un ceto partitico che gli porta in dote 83 parlamentari: 60 deputati (43 Mdp e 17 Sinistra italiana/Civati) e 23 senatori (16 Mdp e 7 ex Sel). Nella migliore delle ipotesi delineate dai sondaggisti, se la sua lista riuscisse a raggiungere il 12%, porterebbe a casa circa 75 seggi (tutti nella parte proporzionale, visto che nei collegi “Liberi e Uguali” non è competitivi) e senza prospettive di governo: insomma, se anche gli riuscisse un capolavoro, Grasso potrebbe garantire meno poltrone di quante ne ha ereditate. Un ostacolo significativo per la riuscita di un progetto politico che vuole federare gli apparati di tre partiti.

La Stampa 5.12.17
“Aperti a Grasso”, tentazione M5S
Grillini in cerca di intese per il governo: “Ma Liberi e uguali deve fare un buon risultato”
«Aperti a un’intesa con Grasso dopo il voto». La tentazione si fa strada tra i grillini in cerca di accordi per il governo: «Ma “Liberi e uguali” deve fare un buon risultato». Intanto il presidente del Senato prepara un tour per l’Italia. Piano di Gentiloni per non scivolare sullo Ius soli.
Cinquestelle tentati dalla “Cosa rossa”
“Pronti a un’intesa dopo il voto”
I grillini cercano sponde in caso di incarico di governo. Ma non chiudono alla Lega
di Ilario Lombardo


«Guardiamo con attenzione a Pietro Grasso. Se i sondaggi si dimostreranno più generosi con lui, si potrebbe aprire un bel ragionamento». È domenica sera. Gli smartphone di molti 5 Stelle si illuminano di messaggi WhatsApp. Luigi Di Maio è in contatto continuo con diversi parlamentari e altri fedelissimi. Grasso potrebbe essere l’uomo che il candidato premier del M5S stava aspettando.

La premessa alle reazioni grilline all’incoronazione dell’ex pm antimafia leader della sinistra anti-Pd è una questione di numeri. Il M5S cerca un partner che abbia in dote un numero a due cifre alle elezioni. «Se Grasso lo raggiunge è possibile un’intesa». Nel vocabolario dei 5 Stelle il termine alleanze non deve esistere. Preferiscono parlare di «convergenze programmatiche». Ma per arrivarci bisogna realizzare un capolavoro non politico ma di aritmetica. I 5 Stelle sono diventati grandi appassionati di sondaggi. A oggi le proiezioni dicono 170 deputati. Loro credono di poter arrivare a 200. Calcolano che se andasse molto bene potrebbero arrivare al 35%. A quel punto la strada verso il Quirinale, per ottenere l’incarico, potrebbe essere spianata. Potrebbe. Serve appunto un altro consistente numero di seggi per la maggioranza. C’è un presupposto, però, che deve realizzarsi. E se lo stanno ripetendo ogni giorno: «Il Pd e Forza Italia insieme non devono raggiungere il 50%».
Ma - si chiederanno in tanti - nel M5S non stavano guardando a un’alleanza anti-establishment con Matteo Salvini? È così. Serve entrare nei meccanismi del pensiero politico grillino per capire le loro ambizioni. Il Movimento si sta strutturando come partito omnibus e il ventaglio di proposte sviluppate va da quelle che si sposano con i canoni della destra ad altre più di sinistra. In tal senso il viaggio in Usa di Di Maio è stato uno spartiacque. Fonti americane confermano che molto di quanto sostenuto dal grillino a Washington non è piaciuto, soprattutto sulla politica estera. Una frase, però, li ha soddisfatti. Quando Di Maio ha detto che si prenderà «la responsabilità di non lasciare il Paese nel caos». Una garanzia di stabilità che Di Maio vuole ribadire agli Usa.
C’è un metodo infatti nell’evoluzione delle sue dichiarazioni. La proposta fiscale ispirata a Donald Trump serve a persuadere il mondo produttivo del Nord, a corteggiare la piccola e media impresa. È uno sguardo a destra, per soffiare voti a Lega e Forza Italia. Poi però Di Maio ha parlato di sostegno alle famiglie, sul modello di welfare di Emmanuel Macron che non dispiace ai centristi. Infine, e qui vanno cercate le tracce di uno spostamento verso sinistra, ha ripreso a insistere su articolo 18, smantellamento di Jobs Act e Buona Scuola. Sono punti su cui la convergenza con Grasso sarebbe facile. Anche il tempismo del convegno di ieri sulle Ong non è un caso. La strategia che stanno delineando segue uno schema e si ispira a quanto avvenne 5 anni fa, a parti invertite. «Quando Bersani ci convocò per sondare le nostre intenzioni. Disse che non voleva fare alleanze ma c’era la possibilità di convergere su alcune proposte. La differenza è che ora siamo noi al centro». La parola è calzante: il M5S sta al centro, pronto a spostarsi a destra se la Lega si slegherà da Berlusconi. O ancora più facilmente a sinistra se Grasso avrà un exploit e, dicono, «svuoterà il Pd di Renzi». Si dirà: puro cinismo. Ma loro preferiscono definirla «malleabilità», o «realismo post-ideologico». Certo, la nuova fisiognomica del M5S molto deve alla spruzzata di moderatismo che ha dato Di Maio. E che permette al M5S di avere più libertà di movimento. Reddito di cittadinanza, lavoro, abolizione dei privilegi ai parlamentari, temi della giustizia: sono i nodi che potrebbero sciogliere attorno al tavolo con Grasso. «Ma senza scambi di poltrone e a condizione che il governo sia a guida Di Maio». In cambio, il M5S garantirà un esecutivo «con gente di alto profilo», si parla di «dirigenti pubblici» come ministri a cui «nessuno direbbe di no».
Ai parlamentari è piaciuta la fotografia del teatro che acclamava Grasso, con il palco lasciato libero dai leader storici. Anche perché Beppe Grillo su questo ha frenato un po’ gli entusiasmi: «Va bene tutto ma non voglio che parliamo con mostri da prima Repubblica come D’Alema». Sono diversi i senatori che vedono bene un matrimonio d’interesse con Grasso. Vito Crimi, ma anche Paola Taverna, non proprio una signora che diresti rossa di cuore, o Maurizio Buccarella. Con Grasso, un magistrato stimato per la lotta alla mafia, ci sono stati scontri in aula, a volte feroci e irridenti, come all’approvazione del Rosatellum. Ma in questi anni più volte i grillini si sono confrontati con lui, gli hanno esposto le loro frustrazioni per la «violazione del Parlamento» e «l’abuso dei decreti leggi», e dietro la terzietà istituzionale, mantenuta fino all’ultimo, hanno intravisto che il presidente del Senato su molte cose la pensava come loro: riforme costituzionali, leggi elettorali, anticorruzione. I 5 Stelle farebbero leva su questo pacchetto per superare eventuali ostacoli a un’intesa. E se sull’immigrazione gli orizzonti sembrano distanti, c’è sempre il metodo Di Maio: rendersi malleabili, pronti ad aggiustare la rotta per non dire di aver cambiato idea.

La Stampa 5.12.17
L’alternativa che nasce dalla fragilità
di Marcello Sorgi


Del lungo e appassionato intervento con cui domenica Pietro Grasso s’è assunto la responsabilità di guidare verso il voto la sinistra di Mdp, Si e «Possibile», colpivano essenzialmente due cose.
La prima era l’amarezza personale, un dolore esplicitato fino all’intimità, che ha portato il presidente del Senato a lasciare il Pd, che lo aveva candidato e in maggioranza eletto alla seconda carica dello Stato.
Una decisione sofferta, eppure ineludibile, determinata, è parso di capire, non solo dalla mancata condivisione delle scelte fondamentali di questa legislatura, a cominciare dalla tentata cancellazione del Senato, ma dall’assoluta impossibilità di esprimere le sue riserve e trovare un minimo d’ascolto in un luogo di dibattito.
Grasso insomma, catapultato da Bersani al vertice di Palazzo Madama, dopo l’arrivo di Matteo Renzi alla segreteria del Pd s’è sentito solo. Con il nuovo leader immaginava di poter costruire lo stesso tipo di rapporto che aveva avuto con il predecessore, invece ha trovato il silenzio, la cortina di indifferenza, l’assenza di consigli (e sì che ne aveva bisogno, trovandosi alla sua prima esperienza parlamentare), di cui faticava a trovare le ragioni, sentendosi a mala pena sopportato.
Così il distacco maturato apertamente dopo la fiducia imposta sulla nuova legge elettorale, che aveva praticamente impedito ai senatori di discutere il testo del Rosatellum, in realtà era cominciato molto prima, quando già un anno fa Grasso, sottovoce, aveva fatto sapere di sentirsi più vicino al «No» che non al «Sì» al referendum.
Chi ha memoria di rapporti difficili tra autorevoli «esterni» siciliani e sinistra, paragona impropriamente la rottura tra Renzi e Grasso a quella, assai più sanguinosa, tra Enrico Berlinguer e Leonardo Sciascia alle elezioni del 1979. Ma pur essendo difficile avvicinare la storia del supermagistrato antimafia amico di Falcone e Borsellino con quella dello scrittore eretico, entrato in Parlamento con Pannella e sull’onda del pamphlet «L’affaire Moro», in cui senza clemenza inchiodava la Dc alle proprie responsabilità per l’assassinio del leader sequestrato dalle Brigate rosse, qualcosa che le collega c’è di sicuro, non fosse solo il carattere dei siciliani, l’ombrosità, la permalosità, il modo antico di litigare togliendosi il saluto e la possibilità di parlarsi per sempre.
In questo senso la seconda cosa, strettamente connessa alla prima, del discorso di Grasso, è che se qualcuno dei suoi compagni d’avventura, all’indomani del voto, e magari in presenza di un risultato buono o discreto, dovesse lontanamente pensare di andarselo a spendere nel campo di una rinegoziazione con il Pd, Grasso non ci starà. Non a caso, dalla tribuna su cui è salito per assumere la leadership e dire «Io ci sono!», ha parlato di valori, di giustizia, di eguaglianza, della sua storia personale piena di sacrifici e lutti non rimarginabili, ma non ha inserito alcun accenno alle alleanze possibili, come invece normalmente usa fare un leader politico, e come perfino Renzi fa, fingendo di crederci, quando ancora si augura «la vittoria del centrosinistra», inteso come insieme separato che dovrà prima o poi ritrovare l’unità.
Si sa: D’Alema e Bersani sperano che il leader del Pd alle politiche prenda la botta definitiva che lo spinga a togliersi di mezzo, e solo allora ritengono che possa chiudersi la ferita che ha portato alla scissione. Ma Grasso, sul futuro di Renzi e sulla sua capacità di resistenza, è più pessimista: non considera così semplice una ricomposizione a breve termine. Pensa piuttosto a un’alternativa che - nascendo da quel pezzo di società civile impegnata da cui lui stesso proviene, forgiata nella lotta antimafia e in buona parte rifluita verso l’astensionismo o il voto ai 5 Stelle - non si inquadri obbligatoriamente nello schema politica-antipolitica, populismo-antipopulismo, sinistra di governo o di opposizione, ma delinei una prospettiva diversa, che i mutati (molto più, spera, nella prossima legislatura) rapporti di forza potrebbero rendere realistica. Una scomposizione trasversale dei gruppi parlamentari che il ritorno al proporzionale e la fragilità dichiarata in partenza delle attuali alleanze potrebbero alla fine incoraggiare. Trasformando Grasso e la pattuglia della sinistra che lo sostiene in interlocutori, forse alleati, di un prossimo governo a 5 Stelle.

Il Fatto 5.12.17
Quello che fa paura agli ex pd: lavoro e pensioni
di Francesca Fornario


Per spiegare la trappola in cui si è infilata la sinistra con Grasso mi tocca dire di Salvini: uno che se gli domandi cosa ne pensa del biotestamento risponde “Mi occupo dei vivi, non dei morti”. Qualcuno gli spieghi che la legge serve a far morire in pace i vivi, non a riportare in vita i morti: confonde il biotestamento con l’alleanza con Forza Italia. Uno che ha ereditato il più screditato dei partiti e i suoi rimborsi elettorali gonfiati e ha triplicato i consensi abbandonando la Padania per dare addosso ai migranti: “L’Immigrazione favorisce la Mafia!” – quindi la Lega andrà in coalizione con l’Immigrazione? – ma soprattutto alla Bce e “Alla Fornero”. Non c’è intervento in cui Salvini non attacchi “le riforme volute dalla Bce”. E votate dal suo alleato Berlusconi, il quale sta al gioco di far finta di non conoscersi per vincere con il solito schema: a nord con Salvini, al centro con Meloni, a sud con Mastella, De Mita, chiunque abbia voti. Si vede che Berlusconi ha letto il kamasutra. L’allungamento dell’età pensionabile è il più impopolare dei provvedimenti dei governi Monti-Gentiloni. Abolirla – e rinfacciare a Salvini che Berlusconi l’ha votata – dovrebbe essere la prima cosa per guadagnare consensi a sinistra, ma i “Liberi e Uguali” di Grasso, all’assemblea fondativa, non hanno mai citato il provvedimento o il pareggio di bilancio in Costituzione o il Jobs Act, poiché proprio loro hanno votato la legge Fornero, il pareggio di bilancio in Costituzione (Bersani, D’Alema), il Jobs Act (Speranza). Il problema dell’aver fatto la sinistra con gli ex Pd è che se la sinistra non si impegna a cancellare le riforme impopolari non è convincente e se lo fa questa sinistra qui non è credibile. Grasso si è dovuto limitare a promettere Ius Soli e legge sul fine-vita: d’accordo con il il Pd, che si è convinto a sostenere un protocollo per accelerare il decesso del malato terminale: una volta lo chiamavano “Larghe intese”.

La Stampa 5.12.17
Grasso prepara il tour in Italia
Pressing anche sulla Boldrini
Si lavora al nuovo simbolo e ai candidati. Ma la presidente per ora glissa
di Andrea Carugati


«La manifestazione di domenica è andata oltre ogni aspettativa». Il giorno dopo il battesimo da leader di “Liberi e uguali”, il presidente del Senato Pietro Grasso non nasconde la soddisfazione. «È stato solo il primo passo, c’è tanta strada da fare», ricorda ai tanti che lo chiamano.
Ieri Grasso è tornato a pieno regime nel suo ruolo di presidente dell’Aula di Palazzo Madama: oggi sarà una giornata importante, la riunione dei capigruppo deciderà il calendario delle ultime settimane di lavoro della legislatura. Il presidente conferma che il suo stile nella guida dell’assemblea resterà identico a come è sempre stato. E scrolla via con un gesto della mano l’ipotesi ventilata da alcuni retroscena di un suo blitz per calendarizzare lo Ius soli e mettere così in difficoltà il Pd. «Chi conosce il presidente e il regolamento capisce subito che questi sospetti sono infondati», spiegano fonti vicine a Grasso.
Questo non significa che, da domenica, il neo leader non si sia calato al 100% nel nuovo ruolo. Già oggi dovrebbe incontrare i «tre ragazzi», come ha battezzato Roberto Speranza, Nicola Fratoianni e Pippo Civati, per fissare l’agenda delle prossime settimane. In cima alle priorità c’è il simbolo, che dovrebbe essere ufficializzato in un paio di giorni: sfondo rosso con la scritta “Liberi e uguali - Con Grasso presidente”. «Dobbiamo sbrigarci, i militanti stanno creando dei loghi fai-da-te», avverte Speranza.
Il nuovo marchio debutterà nel weekend del 16-17 dicembre, con 5 assemblee in tutta Italia, da Padova a Bologna a Roma, per «costruire il programma in modo partecipato». Saranno repliche della kermesse di domenica all’Eur: accanto ai leader ci saranno esponenti del mondo sindacale, dell’impresa e dell’associazionismo. In programma, ma si parla di gennaio, anche un tour di Grasso per l’Italia per ascoltare i mondi che lui stesso ha invitato ad unirsi al suo progetto: oltre a quelli da sempre vicini alla sinistra, vuole dialogare con l’arcipelago del volontariato cattolico, con le parrocchie, come ha detto dal palco dell’Eur. Alla kermesse era presente Gianni Bottalico, già presidente delle Acli e ora tra i fondatori dell’Alleanza contro la povertà. Su temi come la dignità del lavoro e la lotta alle diseguaglianze, i big della nuova lista di sinistra sono convinti di poter intercettare un sentimento che «va molto oltre i tre partiti fondatori».
Nei prossimi giorni la squadra di vertice composta da Grasso e dai «tre ragazzi» si amplierà, coinvolgendo anche alcune figure femminili in arrivo dalla società civile, per compensare una foto di gruppo «fin qui esclusivamente maschile». Prosegue il delicato pressing su Laura Boldrini, che ieri ha definito il lavoro «una urgenza democratica». Nel Pd viene già data in tandem con Grasso, ma lei rimanda la decisione a dopo l’ok alla manovra. Chiuso il programma, inizierà la delicata opera di costruzione delle liste: un mix tra i partiti e alcune personalità civiche scelte da Grasso. «Giocheremo molto larghi», assicura Speranza. Per ora di nomi non ce sono. «Ma i profili saranno simili a quelli visti sul palco di domenica». Molto gettonato Pietro Bartolo, il medico dei migranti di Lampedusa che ha commosso i delegati parlando del «nuovo Olocausto nel Mediterraneo».
Nel Pd l’area vicino a Renzi ha pronta l’arma del voto utile contro la nuova cosa. «L’autorevolezza di Grasso viene spesa per un progetto che è solo contro il Pd», attacca il sindaco di Firenze Dario Nardella. Andrea Orlando definisce «una sconfitta» la nascita del nuovo movimento: «Ora siamo tutti più deboli». Michele Emiliano lancia un estremo appello al dialogo tra Renzi e l’ex magistrato.
La coalizione attorno al Pd, al netto di Mdp e soci, fatica a decollare. Anche il gruppo di Giuliano Pisapia fa sapere che «l’accordo non è chiuso». «Se lo Ius soli non andrà neppure in aula al Senato per noi sarà impossibile allearci coi dem», spiega Marco Furfaro. «Mai coalizzati con chi boicotta queste norme», gli fa Alessandro Capelli, rivolto ad Alfano. Dentro Campo progressista spiegano che il dialogo col Pd «sarà portato avanti fino all’ultimo su punti di merito». Ma in caso di fallimento non è escluso un avvicinamento a Grasso, che Pisapia conosce da molti anni.

La Stampa 3.12.17
Parisi: con Pietro i postcomunisti fanno una scelta rivolta al passato
L’uomo di Prodi: “L’Ulivo invece cercava di guardare avanti”
di Alessandro Di Matteo


Professor Arturo Parisi, il centrosinistra diviso in campagna elettorale è ormai una certezza.
«Questa è almeno la risposta che la sinistra-sinistra ha dato a Fassino appena qualche giorno fa. Perché non augurarsi che Grasso, che da domenica ne è il nuovo leader, voglia e possa imprimere una svolta al riguardo?»
Non sarà contento lei che predicava “uniti per unire” quando Ds e Margherita non volevano la lista unica.
«La verità è che non più accomunati nella competizione elettorale dall’obiettivo di dare un governo al Paese, solo il sentimento di una comune responsabilità può trattenerci dalla tentazione di dividerci magari con la scusa di moltiplicare i voti».
La colpa è dell’«intruso» Renzi o dei titolari della «Ditta» che non accettano la sua leadership?
«Il problema di fondo è la difficoltà ad accettare l’idea che il Pd sia quel partito nuovo che aveva promesso di essere. Né la somma dei partiti passati, e neppure il nuovo nome del PcdI-Pci-Pds-Ds aperto a nuovi apporti. Renzi lo ha reso definitivamente evidente: con la sua storia, le sue proposte, e, purtroppo, diciamo pure, con i suoi toni. Capisco che chi aveva immaginato il partito in continuità col passato possa essersi d’improvviso sentito a disagio in una casa che aveva pensato come la sua, soltanto sua. È arrivato il momento di riconoscere finalmente che è nato un nuovo partito. E allo stesso prendere atto che c’è gente che in esso non si riconosce».
Grasso è la persona giusta per guidare Liberi e Uguali come dice D’Alema?
«Dirsi “ragazzo rosso”, cioè dirsi rosso fin da ragazzo, per uno che di anni ne ha 72 di certo aiuta. Guidare è un’altra cosa. Lo dico con comprensione per la fatica che lo attende».
Peppino Caldarola, che dirige proprio la fondazione di D’Alema ha detto che Grasso serve ai «post-comunisti per rendersi presentabili» come già accadde con Prodi...
«Sostanzialmente Caldarola ha ragione, ma Prodi non si dichiarò a partire dal suo passato ma a partire da un progetto futuro. Costruire il polo di centrosinistra in competizione col fronte berlusconiano, dentro il sistema bipolare prodotto dalla riforma maggioritaria. Una riforma per la quale lui stesso si era battuto. Di Grasso - per ora - conosciamo invece soprattutto il passato e soltanto il colore. Caldarola ha comunque ragione. All’origine della scelta di Grasso sta il desiderio di relativizzare un passato del quale lui è invece da sempre dichiaratamente orgoglioso».
Il presidente del Senato è stato attento a evitare polemiche. Vede il rischio di un corto-circuito col Pd in questo scorcio di legislatura che rimane?
«Spero proprio di no. Così come ha lasciato il Pd solo dopo il compimento del processo di approvazione della legge elettorale nonostante gravi dissensi sul merito e il metodo, lui sa bene che i suoi doveri di terzietà non si sono esauriti domenica».
Lei è un analista attento, faccia un pronostico: come finirà questa sfida a sinistra?
«Di certo regalerebbe al centrodestra troppi seggi aggiuntivi. Quanto alla leadership di Renzi dentro il partito è più facile che la rafforzi che il contrario. A meno che il Pd registri sul piano dei voti una dura sconfitta e il loro partito consegua quel 10% che ancora ieri D’Alema ha indicato come un dato a portata di mano».
Sembra scettico sul 10%. Ma il presidente del Senato ha già aperto anche al mondo cattolico, guarda oltre la sinistra...
«Per quanto Grasso sia noto ci vuole ben altro che il volto di un uomo a far nuovo un partito. E per di più in poche settimane. Né basta evitare nel nome la parola sinistra, quando si legge che il dosaggio riconosce a Mdp il 50 per cento dei posti, a Si il 35 e a Civati il 15. Per potersi orientare la gente continuerà a cercare i volti dei leader passati anche se non sono più seduti vicini tra loro in prima fila».
A questo punto, come può il centrosinistra limitare i danni della divisione? C’è spazio per ricostruire?
«Lo si deve trovare. Pensando al Paese che ci chiede un governo e ricordando che la grandezza della politica sta appunto in questa faticosa e continua ricerca di una unità più grande. Lo si deve cercare riconoscendoci reciprocamente nonostante quello che ci fa diversi. E ricordando le cose che nonostante tutto continuano ad accomunarci. Come dimenticare che il centrosinistra guida tuttora assieme il Paese nel governo della maggior parte delle Regioni e dei Comuni? O vogliamo sfasciare veramente tutto?».

La Stampa 5.12.17
L’ira di Santagata su Pisapia
di Carlo Bertini


Il bivio ormai incombe: Giuliano Pisapia deve imboccare una strada, dire in fretta sì o no all’alleanza col Pd, ma prima di decidere vuole vedere se verrà messo ai voti anche lo Ius soli. Ma così facendo rischia di perdersi per strada un pezzo importante della sua carovana: gli ulivisti di Prodi, quelle personalità che ancora possono trascinare consensi in una parte di mondo di centrosinistra. Senza i quali sarebbe più difficile uscire dal recinto dello zero virgola e ambire a quel 4% che possa fare la differenza nei collegi contendibili. Giulio Santagata, l’animatore di questo mondo che ha in Romano Prodi un riferimento costante, ieri ha avuto uno scontro con Pisapia, dopo l’ennesimo rinvio. «Sono amareggiato da questo continuo dilazionare sui tempi che rende difficile fare una cosa che ha un senso, potrei mollare tutto». Gli ha detto chiaro e tondo cosa pensa dei suoi tentennamenti, di questo restare nel limbo. Ma la disputa è sulla linea politica, influenzata dalle istanze della sinistra radicale. «Vogliono farne una questione identitaria. E invece l’intento dovrebbe essere fare una lista civica nazionale, senza una matrice ideologica di destra o sinistra, per non consegnare il Paese a Berlusconi o a Di Maio. Manca un mese alle liste. E già oggi avremmo dovuto essere in campagna elettorale da un pezzo...».

Il Fatto 5.12.17
De Benedetti stronca la sua Repubblica, contro Renzi e Scalfari
Separati in casa
di Stefano Feltri


Non è una scaramuccia tra arzilli vecchietti, per usare un’espressione di Diego Della Valle: l’intervista di Carlo De Benedetti al Corriere della Sera rende esplicito come mai prima d’ora una crisi culturale nel centrosinistra che coincide con il crepuscolo del renzismo (e forse c’è un nesso di causa effetto tra la troppa fiducia riposta in Matteo Renzi e il caos identitario seguito alla sua caduta).
Tra Luigi Di Maio e Silvio Berlusconi, l’Ingegnere si rifiuta di scegliere: “Ovviamente mi asterrei”. L’altro fondatore di Repubblica, cioè Eugenio Scalfari che del giornale fu il primo direttore nel 1976, ha invece ribadito più volte che il male minore è Berlusconi, perché “la politica è una cosa diversa dalla morale”. De Benedetti dice ad Aldo Cazzullo del Corriere: “Penso che la risposta di Scalfari abbia gravemente nuociuto al giornale” e che “Scalfari è stato talmente un grande nell’inventare Repubblica e uno stile di giornale che farebbe meglio a preservare il suo passato”. Tradotto: Scalfari ha 93 anni, farebbe meglio a lasciar parlare il suo passato invece che comprometterlo con interventi dettati solo dalla “vanità”.
A 83 anni, De Benedetti è ormai un ex finanziere e anche un ex editore: prima ha passato ai figli Rodolfo e Marco l’impero economico controllato dalla holding Cir poi, completata la fusione con l’Itedi della famiglia Agnelli, si è ritirato anche dal ramo editoriale, lasciando a fine giugno la presidenza del Gruppo Espresso (che ora si chiama Gedi). Per il sito Dagospia, l’intervista al Corriere “è la prova che l’83enne De Benedetti non conta più nulla a Repubblica”.
In realtà il messaggio dell’intervista, che ha esplicitato quanto De Benedetti ha spesso detto in privato in questi mesi, sembra ben altro: la vera Repubblica non è quella in edicola, che vende solo 185.000 copie, reduce da un restyling che non ne ha cambiato la natura (“un giornale non è solo latte e miele; è carne, è sangue. Può avere curve; ma deve avere anche spigoli”), con una catena di comando che non può funzionare, tra un direttore molto moderato, Mario Calabresi, e un condirettore più pugnace, Tommaso Cerno (“Nessun grande giornale al mondo utilizza questa formula”) e che deve schierare una delle sue firma di punta, Michele Serra, per chiedere ai lettori di accettare qualche garbata critica al Pd renziano mentre invece, ricorda De Benedetti, “Renzi ha deluso non solo me, ma tantissimi italiani”, molto meglio Paolo Gentiloni, “un calmante nell’isteria della politica renziana”. Ecco, quella non è la vera Repubblica e – è il sottinteso – quella non è la vera cultura del centrosinistra progressista di cui quel giornale è stato la voce ma anche il laboratorio. La vera Repubblica resta quella di De Benedetti ed Ezio Mauro (“un grandissimo direttore”), immolato sull’altare della fusione con La Stampa cementata dall’arrivo alla direzione di Mario Calabresi, oggi stimato da John Elkann ma non certo da De Benedetti (l’Ingegnere non lo nomina in tutta l’intervista) che preferisce Cerno, già direttore dell’Espresso.
Nel gruppo Gedi oggi l’approccio De Benedetti-Mauro è all’opposizione. Ma le cose cambiano in fretta. Calabresi, che nei mesi scorsi è stato a un passo dall’addio, potrebbe avere nuove opportunità dopo le elezioni 2018 (le condirezioni come quella con Cerno non sono fatte per essere permanenti). C’è da anche da scegliere un nuovo direttore per il coordinamento dei quotidiani locali Finegil, dopo il passaggio di Roberto Bernabò al Sole 24 Ore. La Repubblica normalizzata e filogovernativa dell’era renziana sta seguendo la caduta di Renzi. Meglio cambiare prima che sia troppo tardi, è il monito di De Benedetti.

il manifesto 5.12.17
Povertà, la beffa del potere
di Marco Revelli


Grottesca e crudele. La vicenda del Reddito di inclusione (Rei) sta raggiungendo vette di insipienza inimmaginabili anche per chi è da tempo abituato a commentare le imprese di una classe di governo difficile da qualificare. Che la marea dei poveri fosse in Italia in tumultuosa crescita era cosa conosciuta da chi si occupa professionalmente del fenomeno, anche se mascherata nel racconto pubblico da una buona dose di ottimismo a buon mercato.
I 4.742.000 «poveri assoluti» certificati dall’ Istat nel suo ultimo rapporto parlano di una vera e propria emergenza sociale. Ma oggi sappiamo che quella marea montante, sollecitata dalla promessa di un pur parzialissimo sollievo alla propria condizione costituito dalla annunziata e strombazzata possibilità di accesso a un frammento di reddito, si è messa in movimento. Ha invaso le sedi comunali, poi – non trovandovi risposte adeguate- è trabordata verso i Caf (Centri di assistenza fiscale).
Ne ha travolto le deboli strutture, è dilagata verso l’Inps, alla ricerca disperata di un ufficio, un funzionario, un responsabile che sapesse dar loro risposte che nessuno sapeva articolare per la semplice, atroce ragione che nessuno sapeva che fare, che cosa suggerire. Nessuno aveva indicazioni «dall’alto», strutture attive o attivabili, linee di comportamento definite…
Secondo un copione troppe volte ripetuto, la «politica» (i partiti di governo, i ministri e le ministre che ne elaborano i provvedimenti, gli uomini e le donne che siedono in parlamento e votano le leggi) ne aveva elaborato il testo curandone la funzione-annuncio ma si era del tutto disinteressata delle procedure e delle strutture necessarie per renderlo operante. E quando l’esercito dolente dei poveri tra i poveri si è presentato agli sportelli, cercando di indovinare quale potesse essere quello giusto, si è assistito all’ennesimo 8 settembre della nostra burocrazia.
I Comuni – i primi a esser presi d’assalto – hanno dovuto ammettere di «non essere attrezzati a dar risposte ai cittadini», in particolare di non avere «gli strumenti per strutturare il percorso di inserimento al Rei», e ciò nonostante che la legge istitutiva del Rei stanzi il 15% delle (già miserrime) risorse disponibili proprio per l’istituzione degli sportelli comunali. Ma, come dovrebbe essere noto ai decisori pubblici, buona parte dei Comuni italiani sono paralizzati sul versante degli organici dalle regole sul pareggio di bilancio, per cui anche se ricevessero quei fondi non li potrebbero spendere.
Così in molte realtà i questuanti sono stati reindirizzati ai Caf (come accade in rete quando un sito è «andato giù»), che però stentano già a star dietro alla domanda ordinaria, figurarsi a un’onda di piena, e poi hanno un contenzioso aperto con lo Stato per i fondi loro promessi per le dichiarazioni Isee (l’Indicatore della situazione economica equivalente, necessario anche per accedere al Rei). E considerano i compensi attualmente previsti dalla convenzione con l’ Inps drammaticamente insufficienti, tanto che sollecitano un’integrazione in Legge di Bilancio. Così quel passo a suo tempo definito «epocale», che avrebbe dovuto dare anche all’Italia un brandello di reddito di emergenza (come chiamarlo altrimenti), si è trasformato in un’altra atroce beffa ai danni dei poveri.
Beffa burocratica, questa volta. Inescusabile, perché se già appare intollerabile l’inefficienza amministrativa in generale, quando questa si rivela una forma di vessazione verso la parte più fragile del Paese la cosa assume tutti i caratteri del sadismo sociale, da autocrazia d’altri tempi.
Un racconto crudele – di ordinaria crudeltà burocratica – degno di Gogol che anticipò il diluvio che spazzò via la dinastia degli zar. Forse non vedremo nascere un’opposizione sociale forte almeno quanto è grande l’oltraggio che il privilegio compie ai danni degli ultimi, ma magari – chissà -, potrebbe comparire, tra le nebbie del tempo, un altro padre Gapon, il prete ortodosso che nel gennaio del 1905 organizzò la celebre marcia dei poveri passata alla storia come il punto culminante dell’anteprima della rivoluzione russa. Allora la marea dei poveri di Pietroburgo giunse fino alle porte dei palazzi del potere con le croci di Cristo e i cappelli in mano, chiedendo «giustizia e protezione» a nome di «un popolo intero lasciato all’arbitrio del governo dei funzionari, formato da dilapidatori e saccheggiatori».

Il Fatto 5.12.17
Le nuove battaglie dopo il referendum
di Tomaso Montanari


Pubblichiamo uno stralcio delle conclusioni lette al seminario di domenica a Firenze su “La nostra via: politica e istituzioni a un anno dal referendum” da Tomaso Montanari, presidente di Libertà e Giustizia.

Non si riporteranno i cittadini italiani a votare alle Politiche finché questi cittadini non capiranno che il loro voto conta davvero qualcosa. Il 4 dicembre siamo andati a votare in tanti perché sapevamo che il nostro voto sarebbe stato decisivo. Ma ora? Finché un Parlamento di nominati costruisce leggi elettorali che mettono tutto nelle mani dei capi dei partiti, chi può davvero aver voglia di votare? Chi è contento di partecipare a un gioco truccato?
L’annullamento delle regole democratiche è una peste che non riguarda solo il Parlamento, ma che ha infettato in egual misura tutti i singoli partiti. Partiti-azienda, partiti del Giglio magico, movimenti a controllo familiare con diritto di successione, coalizioni di partiti che organizzano cerimonie di investitura del capo e le chiamano assemblee sovrane. Ebbene quale spazio è, non dico offerto o costruito, ma almeno concesso a una partecipazione dei cittadini che non si risolva in una plaudente acclamazione? Se davvero vogliamo riuscire a riconciliare con l’idea stessa della rappresentanza parlamentare quel vasto mondo della cittadinanza attiva che ogni giorno rende migliore questo Paese, e che poi però non va nemmeno a votare, il punto cruciale è costruire regole trasparenti. E poi rispettarle.
Per Libertà e Giustizia la battaglia sulla legge elettorale è dunque una battaglia fondamentale. Così come sono fondamentali la battaglia per le regole della partecipazione dei cittadini alla vita politica, e la grande questione della democrazia nei partiti e nei movimenti.
Diciamocelo chiaro: tutto questo significa tentare di scardinare il professionismo parlamentare. Non sembri una preoccupazione dettata dall’antipolitica recente. È Piero Calamandrei a scrivere, nel luglio del 1956: “Deputati e senatori sono diventati a poco a poco, anche senza volerlo, professionisti della politica: la politica, da munus publicum è diventata una professione privata, un impiego. Questo cambiamento ha segnato una svolta di tutto il sistema, lo ha snaturato, e rischia di distruggerlo: essere eletti deputati vuol dire trovare un impiego, l’attivismo politico diventa una carriera, non essere rieletti vuol dire perdere il pane. E le campagne elettorali diventano per molti candidati lotte contro la (propria) disoccupazione. I partiti da libere associazioni di volontari credenti si sono trasformati in eserciti inquadrati da uno stato maggiore di ufficiali e sottufficiali in servizio attivo permanente, nei quali a poco a poco si intimidisce lo spirito dell’apostolo e si crea l’animo del subordinato, che aspira a entrare nelle grazie del superiore. L’elezione dipende dalla scelta dei candidati: la qual è fatta non dagli elettori, ma dei funzionari di partito”.
Credo che il compito di Libertà e Giustizia sia dunque quello di formare cittadini che vogliano, caparbiamente e non importa quanto ingenuamente, disturbare i manovratori con un impegno pressante, tenace, fecondo. Fare politica, senza appartenere alla politica. Portare il punto di vista dei cittadini ‘comuni’ dentro il cuore del professionismo politico.
Naturalmente, in cima ai nostri pensieri sta la regola delle regole: la nostra amata Costituzione. È fin troppo evidente che all’orizzonte del dopo voto si affaccia un nuovo Patto del Nazareno finalizzato a “riformare”, cioè a deformare, la Carta.
Pochi giorni fa, alla Stazione Leopolda, il segretario del Pd è tornato a difendere le ragioni del Sì, dicendo che bisognerà ripartire dalle riforme costituzionali: ed è chiaro che si cercherà di imputare proprio alle regole lo stallo creato dall’incapacità e dalla disonestà degli attori della politica. Libertà e Giustizia non dà indicazioni di voto: ma è chiaro che nessuno di noi si sognerà di votare per i partiti che intendono usare il prossimo Parlamento di nominati per cambiare a maggioranza la Carta, magari sperando di aver i due terzi necessari per imbavagliare, stavolta, il popolo sovrano.
Nei prossimi mesi dovremo avere la forza di indurre ogni partito a dichiarare apertamente le proprie intenzioni. Chi è già pronto a utilizzare l’ennesimo Parlamento illegittimo per cambiare la Costituzione, dovrà essere indotto a dirlo mentre chiede i voti dei cittadini e non dopo. E in base alle risposte, ognuno potrà regolarsi: se non altro sapendo bene chi non votare.

Corriere 5.12.17
Montanari, il sacerdote della sinistra immacolata (che si è epurato da solo)
di Alessandro Trocino


Storico dell’arte, custodisce lo «spirito del Brancaccio»
È il sacerdote di una sinistra immacolata, che ancora non c’è ma che, se mai ci sarà, sorgerà «dal basso», sconfiggendo le «manovre politiciste», «il marketing politico», «i testimonial del vecchio». È il cantore della sinistra europea — di Corbyn, Iglesias, Tsipras, Sanders — contrapposta alle miserie della nostra, «che sceglie i capi più telegenici». È il vestale della politica come «casa di vetro», sintesi tra la poetica e inquietante «casina di cristallo» di Palazzeschi e gli streaming interrotti dei 5 Stelle.
Non è bastato a Tomaso Montanari «lo spirito del Brancaccio», formula esoterica che evoca spesso. Insieme all’altra medium, Anna Falcone, si è ritratto. Sdegnoso. Una scissione preventiva. Un harakiri da sinistra pura che si epura da sola, per non correre il rischio di contaminarsi.
Montanari non è un politico. Non ancora almeno. È uno studioso serio, con studi alla Normale (e prima ancora al liceo con «il grande bugiardo» Renzi). Ora insegna Storia dell’arte moderna a Napoli e scrive libelli suggestivi come «Contro le mostre» (con Vincenzo Trione). Ma è anche presidente di «Libertà e giustizia» ed è reduce dalla vittoria al referendum. Un «no» seguito da molti altri. Gli ultimi sono per Pietro Grasso e per «Liberi e uguali». Che dice di voler criticare «con delicatezza». Parla di «umiliazione», di «scelta di palazzo, ombelicale», di «tentativo di rattoppare il vecchio»: «Vogliono un capo rassicurante. Ma noi dobbiamo rovesciare il tavolo. Sennò ci addormentiamo».
Lui è vigile. Come in un rituale psicomagico alla Jodorowsky parla direttamente all’inconscio della sinistra, terapia panica per guarire le anime dall’ignobile realismo della politica. «Forse sono ingenuo» — ammette — ma questa sinistra che vuole cambiare il mondo è fatta di quattro capetti maschi». Sarà perché, come diceva l’evangelista Luca che Montanari cita volentieri, «i figli delle tenebre sono più scaltri dei figli della luce». Lui, però, guarda avanti. «Faremo liste a Firenze». Vuol diventare sindaco? «Vedremo. Di certo, non mi autocandido». Naturalmente sarà scelto, se sarà il caso, «dal basso».

Il Fatto 5.12.17
La Boschi teme Ghizzoni: “De Bortoli mi risarcisca”
Fattore tempo - Dopo mesi dall’annuncio della querela, la sottosegretaria dà mandato al legale proprio alla vigilia della decisione sulla convocazione dell’ex ad in commissione
di Wanda Marra


“Ho firmato il mandato per l’azione civile di risarcimento danni nei confronti del dottor Ferruccio de Bortoli”. L’annuncio di Maria Elena Boschi arriva alle 18:30 di una giornata nerissima, dopo che sono emerse le nuove indagini a carico di Pier Luigi Boschi e le omissioni sul punto nell’audizione in Commissione al Senato del pm di Arezzo, Roberto Rossi. Da Matteo Salvini ai 5Stelle, tutta l’opposizione va all’attacco di Rossi e del Pd, pronto ad usare le sue argomentazioni a difesa della Boschi e contro Bankitalia. Così Boschi annuncia l’azione legale che era già stata strombazzata 7 mesi fa e mai era arrivata. Adesso non si parla di querela per diffamazione, come allora (i termini sono scaduti senza che la Boschi agisse) ma soltanto di azione civile.
La Boschi cerca di uscire dall’angolo dove si è trovataper l’ennesima volta. Non solo: oggi l’Ufficio di presidenza della Commissione dovrà decidere se audire Federico Ghizzoni, ex ad di Unicredit. de Bortoli, nel suo libro, ha scritto che la Boschi gli aveva chiesto di interessarsi a Banca Etruria: dunque, l’annuncio di ieri della sottosegretaria è stato letto da molti come un segno di intimidazione verso il banchiere. “Altro che conflitto di interessi: noi abbiamo mandato a casa quel Cda”, scrive la Boschi. Anche se il suo interessamento per la banca del padre è emerso in numerose occasioni.
La sottosegretaria si difende: “Qualcuno usa questa vicenda da due anni per attaccare me e il Pd”. All’annuncio di querela (che “riguarderà anche altri giornalisti”), De Bortoli risponde in un tweet: “Mi aspettavo l’annunciata querela per diffamazione, che non è mai arrivata. Dopo quasi sette mesi apprendo che l’onorevole Boschi mi farà causa civile per danni. Grazie”.
Stasera alle 19 c’è l’ufficio di presidenza della commissione. L’audizione di Ghizzoni sarà chiesta dall’opposizione. Starà al Presidente, Pierferdinando Casini, decidere se ammetterla. Potrebbe anche dirsi contrario e rimettersi al voto della commissione (che sarebbe domani). I membri del Pd ieri ribadivano che la scelta è del presidente. E anche che mai, fino ad ora, la commissione ha rifiutato un’audizione.
E c’è un altro dato: in calendario, prima, ci sono le audizioni del governatore di Bankitalia, Ignazio Visco (il 15 dicembre) e del ministro Piercarlo Padoan (il 18 o il 19). La legislatura è agli sgoccioli. E a Palazzo Chigi a questo punto non vedono l’ora che si concluda: Boschi resta inamovibile e la commissione è imprevedibile. Ad evitare che Ghizzoni sia audito potrebbe essere il calendario.
Sono passati solo tre giorni da quando Matteo Renzi cantava vittoria, “vendendo” come prova della definitiva riabilitazione del padre della sottosegretaria l’audizione in cui Rossi ne ridimensionava il ruolo e gettava ombre sulla Vigilanza di Bankitalia. E il castello di carte che il segretario aveva tentato di costruire è crollato di nuovo.
Dopo due mesi di attacchi costanti a Visco, la strategia di giocare tutta la campagna elettorale contro Bankitalia e come paladino dei risparmiatori, è decisamente indebolita. E per questo è proprio Renzi che dà ordine di far partire l’attacco, unica difesa possibile. “Il Pd non ha niente da nascondere”: è la linea. Trasmessa per prima cosa ai membri del Pd in Commissione Banche. “Domani (oggi, ndr) chiederò al presidente Casini di riconvocare il Procuratore di Arezzo”, dice Andrea Marcucci. Segue Francesco Bonifazi: “Il ridicolo disegno dei Cinque Stelle è semplice: far credere che tutti i problemi delle banche si chiamino Etruria”. Poi, l’annuncio della la Boschi.

Corriere 5.12.17
Si riapre lo scontro su Etruria
Nuove accuse da Mdp e M5S. Boschi: vicenda usata per attaccare me e il Pd
di Fiorenza Sarzanini


Nessuna omissione. Si difende il procuratore di Arezzo Roberto Rossi, accusato di aver mentito alla commissione parlamentare sullo stato delle inchieste per Banca Etruria con una lettera al presidente della Commissione banche, Pier Ferdinando Casini. «Io corretto — ha spiegato il pm — sul papà di Boschi indagato ho annuito». Intanto divampa la polemica politica con Cinque Stelle e Mdp all’attacco del Pd. Maria Elena Boschi annuncia causa civile contro l’ex direttore del Corriere , Ferruccio de Bortoli.
ROMA «B anca Etruria ha omesso di comunicare informazioni certamente necessarie per consentire agli investitori di pervenire ad un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale e finanziaria dell’emittente, nonché sui suoi risultati economici e sulle sue prospettive». È questo il passaggio chiave della delibera 20068 della Consob del 12 luglio 2017 che sanziona il cda dell’Istituto di credito aretino in carica nel 2013. L’accusa mossa dall’organo di vigilanza del mercato riguarda la compilazione dei prospetti relativi all’emissione obbligazionarie per oltre 677 milioni di euro effettuate quattro anni fa per cercare di risanare i bilanci della banca. Ed è proprio questo documento — trasmesso al procuratore di Arezzo Roberto Rossi — ad aver determinato l’apertura di un nuovo filone d’indagine sui componenti del cda, compreso Pier Luigi Boschi, padre del sottosegretario Maria Elena. «Falso in prospetto» è l’accusa ipotizzata dal magistrato, finito a sua volta nel mirino perché durante la sua audizione di giovedì scorso avrebbe omesso di informare la Commissione parlamentare, dilungandosi invece sull’altra accusa di bancarotta e sottolineando come «nei confronti del dottor Boschi non sono emersi elementi a carico».
La lettera del pm
Nella lettera trasmessa ieri mattina al presidente Pier Ferdinando Casini, il procuratore Rossi sostiene di aver fornito le informazioni richieste dai parlamentari e di aver «annuito, quando mi è stato chiesto se i membri del cda potessero essere indagati». La decisione di scrivere — allegando anche l’audio — arriva al termine di una mattinata evidentemente complicata per il magistrato, dopo la lettura dei giornali che davano conto della richiesta di trasmettere il testo del suo verbale al Csm per reticenza. Non a caso Rossi nella missiva inserisce uno stralcio della sua audizione, evidenziando anche il «minutaggio» in cui avrebbe — secondo la sua versione — soddisfatto le richieste dei commissari.
La smentita
In realtà il dettaglio degli orari non basta a fugare i dubbi perché non svela che cosa sia accaduto durante la parte di audizione secretata. Ma soprattutto perché sia Carlo Sibilia dei 5 Stelle, sia Andrea Augello di Idea — entrambi presenti durante l’intera seduta — lo smentiscono. «Quando ho chiesto chiarimenti, Rossi ha detto che un solo dirigente ha redatto quel prospetto e che non si può parlare di cda coinvolto», spiega Sibilia. «Le domande sono state poste ma Rossi non ha fornito alcuna notizia utile a comprendere che Pier Luigi Boschi era indagato, anzi è stato a dir poco reticente sulle accuse e molto prolisso quando si è trattato di scagionarlo, scagliandosi invece contro Bankitalia», sottolinea Augello.
L’accusa di Consob
Le sanzioni di Consob superano i due 2 milioni e 700 mila euro, 120 mila euro è la cifra richiesta a Boschi. Tra le accuse mosse ai componenti del cda in carica nel 2013 c’è quella di non aver «adeguatamente riflesso nella documentazione sui prestiti obbligazionari le iniziative di vigilanza poste in essere da Banca d’Italia con le proprie note del 24 luglio 2012 e del 3 dicembre 2013, nonché i contenuti del rapporto ispettivo del 5 dicembre 2013 nei profili rilevanti ai fini dell’offerta al pubblico». Sono tre i punti che Consob ritiene fondamentali per dimostrare le omissioni dei vertici e dell’intero consiglio di Etruria. E infatti nella delibera è scritto: «Con riguardo alla gravità obiettiva, assumono rilevanza gli elementi di seguito indicati: la preminenza degli interessi protetti dalla norma violata, funzionali ad assicurare la tutela degli investitori mediante un’adeguata e corretta informativa in merito ai rischi e alle caratteristiche essenziali all’operazione; la circostanza che le carenze informative in parola concernevano aspetti significativi che si riflettevano su elementi della documentazione d’offerta essenziali per consentire un consapevole apprezzamento dell’offerta; la carica ricoperta da ciascun esponente aziendale e il periodo di permanenza nella stessa, nonché l’effettiva funzione svolta all’interno della banca».
La difesa del cda
I componenti del cda hanno presentato ricorso contro le multe sostenendo di aver agito correttamente e di aver fornito le informazioni necessarie sia a Bankitalia sia a Consob. Di tutto questo si sta occupando Rossi che durante l’audizione lo aveva annunciato spiegando che «sono in corso verifiche con i consulenti sull’attività della Vigilanza» senza però chiarire che la competenza sarebbe della Procura d i Roma. E anche di questo discuterà oggi la Commissione parlamentare.

Corriere 5.12.17
Nuove accuse su Etruria, ira di Boschi
di Andrea Ducci


ROMA L’iscrizione nel registro degli indagati per falso in prospetto e accesso abusivo al credito di Pier Luigi Boschi, ex vicepresidente di Banca Etruria, innesca lo scontro politico. Nelle ore in cui deflagra la polemica sull’audizione in Commissione banche del procuratore di Arezzo, Roberto Rossi, a intervenire è la figlia dell’ex banchiere Maria Elena Boschi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, che su Facebook fissa alcuni punti. «La verità è semplice: se mio padre ha commesso reati ne risponderà come privato cittadino. Al momento — osserva — non è neanche rinviato a giudizio. Ma comunque è una sua vicenda personale, non del Pd». Boschi annuncia, inoltre, che chiederà i danni a Ferruccio de Bortoli, per avere scritto che fu lei a sollecitare l’ex ad di Unicredit, Federico Ghizzoni, per intervenire a favore di Banca Etruria. Ricostruzione smentita dalla diretta interessata, ma non da Ghizzoni. «Apprendo che mi farà causa. Grazie», dice de Bortoli.
La mossa di Boschi in difesa del partito è inevitabile per l’escalation di richieste di dimissioni sia da parte di Mdp, per bocca del senatore Miguel Gotor, sia dal fronte del M5S, che con il capogruppo Giovanni Endrizzi denuncia «il sistema messo in piedi da Matteo Renzi e dalla ministra Boschi. Renzi e Boschi si facciano da parte». Un clima che spinge il sottosegretario a scandire come «dal punto di vista politico il nostro comportamento è stato ineccepibile. Nessuno può negare questi due fatti: noi abbiamo commissariato (Banca Etruria, ndr) e noi abbiamo lottato contro il sistema sbagliato delle vecchie banche popolari. Chi ha sbagliato ad Arezzo ha pagato e pagherà. Spero accada anche altrove». A surriscaldare la temperatura, del resto, concorre la condotta del procuratore di Arezzo nell’audizione in Commissione banche sulla vicenda Etruria. A Rossi è stato contestato di avere omesso ai parlamentari che nei confronti di Boschi, già indagato per bancarotta, sono ipotizzati reati anche in merito a un ulteriore filone d’inchiesta. Tanto da risultare nuovamente indagato. Alle contestazioni Rossi ha risposto con una lettera al presidente della Commissione, Pier Ferdinando Casini, rivendicando di non avere «nascosto nulla circa la posizione del consigliere Boschi». Nella missiva il magistrato precisa, tra l’altro, di avere annuito quando gli è stato chiesto se Boschi e il cda potrebbe esser e indagato in nuovi filoni di inchiesta. Ricostruzione sconfessata da Carlo Sibilia (M5S), che chiede di desecretare l’audizione di Rossi .

Corriere 5.12.17
L’incognita è se tutto il pd asseconderà la linea dura
di Massimo Franco


È difficile sottrarsi alla sensazione che la sinistra continui a essere inseguita dal proprio passato. Lo conferma la vicenda di Banca Etruria, con la coda velenosa di polemiche nella commissione parlamentare di inchiesta. L’annuncio di un’azione civile per risarcimento danni contro alcuni giornalisti da parte della sottosegretaria a Palazzo Chigi, Maria Elena Boschi, promette di proiettarla sulla campagna elettorale. Si tratta di un terreno scivoloso. Ma evidentemente, Boschi e il Pd si sono convinti che sia meglio l’attacco.
L’idea di arrivare alle urne bersagliati quotidianamente hanno suggerito una reazione dura, da muro contro muro. E sembrerebbe che la sottosegretaria sia riuscita a imporre la sua linea all’intero partito. «Qualcuno usa questa vicenda da due anni per attaccare me e il Pd. Io penso che sarebbe più giusto fare chiarezza sugli errori commessi da tanti per non sbagliare più», ha scritto ieri. L’identificazione con il governo di Matteo Renzi è totale. Nella ricostruzione di Boschi non ci sono stati errori o ritardi, o conflitti di interessi, ma meriti da rivendicare.
«Il fatto che mio padre sia stato per qualche mese vicepresidente di Banca Etruria», scrive, «non ha impedito al nostro governo di fare il commissariamento, come avremmo fatto con chiunque altro. Altro che conflitto di interessi». Il seguito è l’azione civile, ipotizzata da mesi, contro l’ex direttore del Corriere , Ferruccio de Bortoli, che aveva parlato di un interessamento dell’allora ministra alle vicende della banca, in un colloquio con Federico Ghizzoni, all’epoca amministratore di Unicredit: interessamento smentito da Boschi, nel silenzio del banchiere.
A questo punto, la scelta della tempistica diventa decisiva. Lascia intuire un’analisi preoccupata delle inchieste giudiziarie e dei contraccolpi politici, anche strumentali. Arriva il giorno dopo il lancio di Liberi e Uguali, la formazione dei delusi dal Pd guidata dal presidente del Senato, Pietro Grasso: operazione insidiosa. D’altronde, l’offensiva del vertice dem contro Bankitalia, accusata di non avere vigilato bene, non ha dato i frutti sperati.
Il governatore Ignazio Visco è stato confermato con il «placet» del premier Paolo Gentiloni e del capo dello Stato, Sergio Mattarella. Il conflitto, però, non si ferma e l’annuncio di ieri lo fa salire di tono. Il problema è che promette di tenere il caso Banca Etruria in primo piano ancora a lungo: una manna per il M5S e tutti gli avversari del Pd renziano. Forse l’obiettivo è di costringere un partito piuttosto silenzioso a fare quadrato. Ma potrebbe rivelarsi l’ennesimo azzardo.

Il Fatto 5.12.17
Licenza politica di demolire tutto
Neo-regole - Si afferma un nuovo stile di tutela all’italiana: volete distruggere un edificio vincolato? Fate pure, purché ne ricostruiate altrove un pezzettino. Come può succedere all’ippodromo di Tor di Valle
di Salvatore Settis


La neo-tutela all’italiana fa passi da gigante. Presto solo sparuti gruppuscoli di gufi intoneranno le solite giaculatorie sull’Italia patria della tutela del patrimonio storico-artistico, sull’articolo 9 della Costituzione, sul rispetto delle leggi vigenti, e simili anticaglie.
La nuova frontiera della tutela sta per essere fissata, e la neo-regola sarà questa: se volete distruggere un edificio vincolato, fate pure i vostri comodi, purché ne ricostruiate da qualche parte un pezzettino. Così, tanto per gradire. Questo è quanto sta per accadere all’ippodromo di Tor di Valle. Tutelare l’esistente non è importante, se si tratta di costruire qualcosa di “produttivo”. E i precedenti non mancano.
A Torino, la prescrizione-base per le nuove architetture sarebbe di non superare l’altezza massima della Mole Antonelliana (167,5 metri). Norma rispettata fino a quando un progetto (di Renzo Piano) previde un grattacielo alto quasi 200 metri. Di fronte alle polemiche, l’altezza fu ridotta a 167,25 metri: 25 centimetri meno della Mole, irrisoria differenza che pare uno sberleffo. Naturalmente il prossimo grattacielo (progettato da Fuksas) dovrebbe arrivare a 209 metri, 40 in più della Mole. Viene così ignorato il significato che la Mole ebbe nell’architettura del suo tempo: per Nietzsche essa era “la costruzione più geniale che sia mai stata fatta”, “un impulso assoluto verso l’alto”, il segno del “fatale destino dell’altezza, il nostro fatale destino”, in quanto coeva ai primi grattacieli, come il Wainwright Building di Louis Sullivan a St Louis, Missouri.
In Emilia, dopo il terremoto del 2012, anziché consolidare e restaurare i campanili parzialmente crollati (come nella stessa Regione si era fatto con successo dopo il terremoto del 1996), si è deciso di abbatterli con la dinamite, per giunta lanciando alla fiera di Bologna una sorta di concorso di idee per campanili new style. Si videro allora disegni di improbabili campanili costituiti da una pila di grandi forme di parmigiano (per rispettare la gastronomia locale), o decorati da grandi bocche femminili. “Provocazioni” o “scherzi”, si è detto a chi protestava: ma dopo un terremoto è proprio il caso di scherzare? Certo non scherzava l’assessore provinciale di Mantova secondo cui, per dar lavoro ad architetti e imprese, sarebbe giusto abbattere quartieri o centri storici onde creare (dice lui) “una nuova socialità”. Tipo quella, per intenderci, delle berlusconiane new town che assediano la martoriata città dell’Aquila lasciandone per decenni in rovina il centro storico.
In Toscana, uno scavo archeologico a San Casciano in Val di Pesa ha identificato un insediamento etrusco-romano, che aveva il torto di essersi sviluppato in un’area che duemila anni dopo sarebbe stata destinata a capannoni industriali. E si è deliberato che il capannone, in quanto “produttivo”, deve sfrattare l’improduttiva archeologia; via libera al fabbricato, dunque, smantellando i resti archeologici e ricostruendoli da un’altra parte. Un falso storico (“archeopatacca”, scrissero allora i comitati locali). Il nuovo che avanza.
A Roma, mentre si discuteva la complicatissima questione del nuovo Stadio, la Soprintendenza di Stato vietò la distruzione anche parziale dell’ippodromo di Tor di Valle, “opera di grande innovazione costruttiva degli architetti Lafuente e Rebecchini” (1960). Inoltre, quattro Comitati tecnico-scientifici del ministero dei Beni Culturali (quelli per l’archeologia, il paesaggio, le belle arti e l’architettura contemporanea), riuniti in seduta congiunta, si espressero contro quel progetto, e in favore del vincolo sull’ippodromo. Ma ora, in una versione edulcorata del progetto iniziale, in cui le cubature degli edifici previsti intorno allo Stadio sono state significativamente ridotte, si è deciso di distruggere l’ippodromo, ma inventando un meccanismo compensativo: verrà costruita in quei paraggi la copia di una “fetta” dell’edificio, destinata a perpetuarne la memoria.
Idea davvero interessante, che – possiamo supporre – verrà presto imitata altrove. Se, puta caso, un convento medievale intralcia il percorso di un’autostrada o dà fastidio alla costruzione di un condominio, ecco fatto. Si distrugge il convento, se ne ricostruisce una porzione, e la modernità avanza senza intoppi. Altri sviluppi sono in vista: per esempio, potremmo approntare copie in formato ridotto di interi centri storici (come nei parchi dell’ “Italia in miniatura”), metterle in museo, e abbattere i relativi quartieri, secondo la visione profetica dell’assessore mantovano, al fine di ricostruirli in perfetto “stile periferia”, la grande invenzione degli architetti italiani nel Novecento.
Quanto all’ippodromo di Tor di Valle, delle due l’una: o gli organi del ministero avevano ragione, e dunque l’edificio, in quanto vincolato, va tutelato, restaurato, riusato. Oppure l’ippodromo non è poi così importante, e dunque gli organi ministeriali devono fare marcia indietro, e il vincolo va tolto. Ciascuna di queste alternative ha una sua logica (ovviamente soggetta a discussione). La bizzarra ipotesi di una copia parziale, invece, ottiene un solo effetto: denuncia la riluttanza delle autorità preposte a prendersi fino in fondo la propria responsabilità, e la loro tendenza a rifugiarsi in una soluzione furbesca, figlia dell’eterna vocazione italiana al compromesso, all’inciucio dove tutto finisce a tarallucci e vino. Ma la legalità (the rule of law, se per esser presi sul serio dobbiamo dirlo in inglese) non è fatta di compromessi e di astuzie. È fatta di rispetto delle norme.

il manifesto 5.12.17
Trump deciso a riconoscere Gerusalemme capitale di Israele
Israele/Palestina. L'annuncio del presidente americano è previsto per domani pomeriggio. Inutili i tentativi di fermarlo fatti dai palestinesi. Il passo forse prelude alla attuazione di un piano volto a consolidare l'alleanza nella regione tra Israele e Arabia saudita.
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Il conto alla rovescia è cominciato. Domani pomeriggio Donald Trump con ogni probabilità annuncerà il riconoscimento unilaterale da parte della sua Amministrazione di Gerusalemme capitale di Israele, incluso il settore Est, arabo, della città occupato nel 1967 e rivendicato dai palestinesi. A quanto pare non comunicherà anche lo spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme per non rendere ancora più devastante il colpo inferto ai palestinesi. Ma è solo una questione di tempo. Trump – incurante del diritto internazionale e della risoluzione 181 dell’Onu – ha deciso di mantenere, costi quel che costi, la promessa fatta a Israele in campagna elettorale. A nulla è servita l’offensiva diplomatica avviata dai palestinesi per tentare di bloccarlo. Peraltro gli avvertimenti lanciati dall’Anp e dell’Olp si sono concentrati sulla «fine del ruolo di mediatori imparziali» per gli Stati Uniti e la «cessazione del processo di pace». Come se Washington avesse svolto sino ad oggi un ruolo super partes tra israeliani e palestinesi e fosse in corso un negoziato credibile.
La Lega araba oggi si riunirà «con urgenza». E altrettanto dovrebbe fare l’Organizzazione per la cooperazione islamica (OIC). La Giordania, che si proclama custode dei luoghi santi islamici di Gerusalemme, per bocca del ministro degli esteri Ayman Safadi ha messo in guardia dalle «pericolose conseguenze» politiche e nelle strade arabe dell’annuncio di Trump. Simili le dichiarazioni di Ankara e dell’Egitto. Tuttavia è un errore pensare che siamo di fronte all’ultima delle scelte irrazionali di un Trump perennemente ai confini della realtà. È possibile che il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele rientri in quel “Great Deal” con il quale gli americani intendono ridisegnare il Medio Oriente sulle fondamenta di una stretta alleanza tra Israele e Arabia saudita in funzione anti-Iran, di cui nelle ultime ore ha parlato anche il capo della Cia, Mike Pompeo. Un quadro in cui la questione palestinese risulterebbe del tutto marginale rispetto ai trattati di pace tra Tel Aviv e le capitali arabe sunnite.
Non può passare inosservato il silenzio mantenuto sino a ieri dall’Arabia saudita sul possibile annuncio di Trump. Come non possono bastare le smentite di Riyadh sulle rivelazioni fatte dal New York Times circa la proposta che il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman avrebbe fatto al presidente dell’Anp Abu Mazen di proclamare capitale di un futuro Stato palestinese il villaggio di Abu Dis – nel governatorato di Gerusalemme, oltre il Muro costruito da Israele in Cisgiordania – in cambio di ingenti aiuti finanziari al futuro Stato di Palestina (comuque minuscolo e senza sovranità reale). La storia ritorna. Proprio Abu Mazen nel 1995 fu autore assieme all’ex ministro israeliano Yossi Beilin di una bozza di accordo che prevedeva la proclamazione di Abu Dis “capitale temporanea” della Palestina. Non se ne fece nulla ma ad Abu Dis fu avviata la costruzione del Parlamento palestinese.
La mossa di Trump, se confermata, rappresenterà un successo eccezionale, storico, per Israele, paragonabile per importanza solo all’approvazione nel 1947 del piano dell’Onu per la partizione della Palestina e alla proclamazione della nascita dello Stato ebraico nel 1948. E sarà con ogni probabilità parte di uno scambio in cui i sauditi dovranno ottenere qualcosa di grosso, magari quella guerra per annientare la potenza politica e militare dell’Iran che loro non sono in grado di combattere. «L’ipotesi è plausibile ma Trump, i sauditi e gli israeliani in ogni caso corrono troppo, non credo che un piano del genere abbia, in questo quadro regionale, reali possibilità di realizzazione. I palestinesi non lo accetteranno mai», spiega al manifesto l’analista Hamada Jaber. Al momento, aggiunge Jaber, «lo sbocco più immediato dell’eventuale passo di Trump sarà il crollo di tutto il processo politico e diplomatico di compromesso con Israele sul quale Yasser Arafat, Abu Mazen, l’Olp e l’Anp hanno fondato la loro strategia negli ultimi decenni». Inevitabile sarebbe inoltre il declino del presidente palestinese che non avrebbe altra scelta, conclude l’analista, «se non quella andare a un’alleanza programmatica con tutte le forze politiche palestinesi, a cominciare proprio dagli islamisti di Hamas, oggi suoi accaniti rivali».
Per ora Abu Mazen e il leader di Hamas, Ismail Haniye, si sono trovati d’accordo solo sulla necessità di tenere una manifestazione a Gerusalemme per «unificare gli sforzi del popolo palestinese». Hamas invoca una «nuova Intifada» in risposta a Trump.

La Stampa 5.12.17
Mercenari musulmani
Così Mosca garantirà i suoi interessi in Siria


Migliaia di mercenari, musulmani, attinti dalle repubbliche asiatiche dell’ex Unione Sovietica. È la carta segreta, neanche troppo, che Vladimir Putin è pronto a giocare in Siria. Lo Zar si trova di fronte al dilemma di dover ritirare gran parte delle truppe per motivi politici e nel contempo salvare i vantaggi strategici ottenuti con l’intervento lanciato il 30 settembre 2015. Nella nuova repubblica siriana, molto più federale come mostrano le indiscrezioni sul piano di Staffan de Mistura, ci sarà meno spazio per le forze regolari di Mosca. Ma il Cremlino ha come obiettivo minimo la permanenza a Damasco di un regime amico, che non metta in discussione le basi militari di Lattakia e Tartus. Per questo deve mettere in sicurezza l’asse che va da Aleppo al confine con la Giordania. Per farlo servono uomini.
Anche dopo la distruzione dell’Isis, il governo di Bashar al-Assad si troverà a fronteggiare problemi di sicurezza, legati a un’insorgenza cronica sunnita, che non si è mai spenta del tutto dall’inizio degli Anni 80 ed è esplosa fra il 2011 e il 2013, fino all’irruzione dello Stato islamico. Ed è nel 2013 che arrivano i primi contractors, del Moran Security Group, basato ad Hong Kong ma con diramazioni in Russia. Agli uomini della Moran viene affidata la difesa dei pozzi petroliferi a Deir ez-Zour, senza grande successo. Nell’autunno del 2015 arrivano invece gli uomini della Wagner, un’altra compagnia di contractors fondata da Dmitry Utkin, ex comandante dei corpi speciali Spetsnaz.
Gli uomini della Wagner giocano un ruolo importante nelle liberazione di Palmira dall’Isis ma è dopo la riconquista di Aleppo che i contractors si moltiplicano e, ora, sono fra i tremila e i quattromila, secondo l’analista ed ex consigliere militare turco Metin Gurcan. Fra di loro c’è una componente preponderante di ex militari turcofoni delle repubbliche asiatiche. Hanno il vantaggio di essere musulmani, per lo più sunniti, e quindi di poter interagire con più naturalezza con la popolazione locale. I loro compiti ora sono soprattutto di mantenimento dell’ordine e ora si è aggiunta una terza compagnia, più misteriosa, la Turan. Il nome si rifà a Tamerlano, fondatore di un impero turco-mongolo nel XIII e XIV secolo, che comprendeva anche la Siria. Fra di loro ci sarebbero anche sciiti che farebbero da «ufficiali di collegamento» con le milizie libanesi e irachene.
L’esercito dei contractors ha quindi raggiunto quasi le dimensioni del contingente russo, stimato in 8 mila uomini. Il loro compito sarà tutelare gli interessi di Mosca in una Siria molto decentralizzata, come si desume dal piano che l’inviato speciale Staffan de Mistura ha presentato a governo e opposizioni a Ginevra, e anticipato dal quotidiano arabo Asharq al-Wasat. Prevede uno «Stato non settario», con amministrazioni locali che avrebbero responsabilità sulla sicurezza, «in accordo con l’esercito nazionale». Insomma, una Siria federale. Non solo, il nome dello Stato potrebbe cambiare: da Repubblica araba siriana, a Repubblica siriana. Una richiesta fatta dai curdi, che arabi non sono.
[gio. sta.]

il manifesto 5.12.17
Accedere all’inconscio non è un pranzo di gala
«Alfabeto d’origine» di Lea Melandri per Neri Pozza. Cosa significano «scrittura dell’esperienza», femminismo e narrazione di sé
Un fotogramma tratto da «My sister is a painter», di Virginia Eleuteri Serpieri (2014)
di Francesca Romana Recchia Luciani


Tra «lingua ritrovata», «corrispondenze amorose», «scrittura di esperienza» e alcune «riprese», come recitano i titoli dei capitoli di cui si compone l’ultimo libro di Lea Melandri, con Alfabeto d’origine (Neri Pozza, pp. 169, euro 16) siamo in presenza di un testo sorprendente, dipanato con il fascino e la suggestione di una confessione irrimandabile e di un flusso emozionale che proviene dall’inconscio.
La lettura procede come un incontro con un pensiero alimentato dalla «forza invasiva del mondo interno», di cui si cerca in ogni frase la difficile traduzione attraverso scrupolosa cura semantica e acribia stilistica, condensate in parole precise e ricercate, significati acuminati come una lama che hanno la virtù di attraversare, insieme a quello dell’autrice, anche l’inconscio di chi legge.
UN APPUNTAMENTO tra anime favorito da una scrittura felice, da una parola sempre appropriata, da una ricerca che si spinge, ogni volta più audacemente, sotto lo strato delle apparenze verso una profondità melmosa e inconfessabile, a inseguire le tracce dei desideri rimossi, dei bisogni negati, degli impulsi insopprimibili. Non soltanto, dunque, la testimonianza militante di una battaglia femminista contro gli schemi a buon mercato, manifesto di un’opposizione di lunga durata a binarismi di comodo e a semplificazioni oppositive ma prive di dialettica, bensì al contempo un’esplorazione del profondo che intercetta l’inconscio collettivo decifrando quello individuale.
UNA VISIONE del presente, quella di Melandri, condensata e polimorfa, per via della stratificazione di senso che ella attribuisce al tempo vivente, in quanto prospettiva storica ed ermeneutica della complessità che si interpone sempre tra «due tempi, quello dell’origine a quello della storia», con l’obiettivo di lasciarsi alle spalle la mitologia binaria degli abituali schematismi dicotomici, la «falsa dialettica degli opposti», come lei la definisce, per giungere a cogliere la realtà «nell’intrigo delle sue varie e molteplici componenti». Questo volume, a tratti diario, a tratti rapsodia, che attraversa la biografia della sua autrice ma anche quella di una generazione in lotta (a modo suo un’«autobiografia per interposta persona»), è anche un documento politico che addita le facili e banali «polarizzazioni» come la più infausta e insieme persistente semplificazione della complessità del reale che solo un’irriverente prospettiva, come quella azzardata in questi scritti, in grado di intrecciare senso esterno e senso interno, può restituire ad una semantica dell’interezza, ad una grammatica dell’insieme, ad una sferica totalità in cui torni a valere il senso delle relazioni, delle connessioni, di quel che vincola ogni cosa al suo contrario.
ALTRO TEMA RICORRENTE in queste pagine è quello della memoria, luogo dell’impasto tra il racconto di sé e la storia comune, di un vissuto esistenziale e corporeo che si trasferisce ora nei bassifondi dell’inconscio ora nelle vette del pensiero, lasciando ovunque le sue tracce. Segni impressi nei racconti empatici e nelle ricostruzioni appassionate, ma anche nella direzione epistemologica e cognitiva di queste riflessioni/introflessioni, poiché l’archeologia del sapere che indaga anima e corpo fin nelle loro più recondite pieghe qui si fa stile di pensiero e interpretazione del mondo, conosciuto, letto e interpretato nel suo contrasto con «l’altrove». «Come se fossero le opposte sponde di un asse che un improvviso fulmine ha spezzato in due, il maschio e la femmina – il corpo e la mente, la realtà e il sogno, l’infanzia e la storia – giacciono nella lontananza riconoscibili gli uni agli altri solo per la mutilazione subita» e aprono «la strada alla nostalgia di impossibili ricongiungimenti».
Alfabeto d’origine celebra, tuttavia, almeno un’avverabile riconciliazione, una vera e propria ricomposizione di sé che avviene sotto il segno della scrittura, «le parole del silenzio» che costituiscono la trama di un dialogo muto ma serrato tra una lettrice e molti libri da un lato, tra gli autori e le autrici di quei testi e un’interprete a sua volta scrittrice dall’altro, tratteggiano i contorni indefiniti di corrispondenze amorose, baciate da una cura affettuosa e da una dedizione partecipe.
SEMBRA QUASI DI LEGGERLI con lei e attraverso di lei, quei libri. Anche se poi occorrerà lasciarsi alle spalle le forme culturali consolidate per affrontare il mare aperto, per intraprendere cioè quello scavo necessario, «una mineralogia del pensiero» che attraverso la «scrittura di esperienza» renda possibile varcare le «zone di frontiera tra corpo e mente, inconscio e coscienza, sogno e realtà».
E così Lea Melandri ci fa generosamente dono, con questo testo pluriverso, di una pratica, odierna traduzione della liberatoria pratica femminista dell’autocoscienza, che, come Melandri stessa va indefessamente spiegando in giro per l’Italia, può divenire condiviso artificio autoterapeutico per una riscoperta di sé, attraverso la scrittura del profondo, nella relazione con l’alterità dell’altro/a.

Il Fatto 5.12.17
Abbasso gli analisti, evviva le nevrosi
Marco Rinaldi fa un viaggio tra lacaniani, freudiani, junghiani per poi capire che, in fondo, il Sé non è poi così vero

Lettini d’autore – Alessandro Gassmann e Marco Giallini in “Tutta colpa di Freud”

“C’hanno provato, c’hanno provato in tanti”.
Racconta l’Autore che il primo, più di quarant’anni fa, è stato un giovane psichiatra lacaniano, il dottor A., liquidato un anno e mezzo dopo l’inizio della terapia con un assegno inviato per posta.
Lui, l’Autore, dice di vergognarsi molto di quel comportamento, ma poi ha fatto fuori così anche tutti i terapeuti successivi, dopo un periodo massimo di diciotto mesi, oppure non appena le sedute trascorse in silenzio superavano il numero di quattro; perché sarà pur vero che per l’analisi del profondo i silenzi sono significativi, ma a lungo andare uno si sente un po’ coglione, dice l’Autore.
Per le sue fughe, il vigliacco, aspettava sempre le vacanze estive o quelle di Natale.
In Italia, si è comportato in questo modo ignobile con un freudiano (il dottor L.) e tre junghiani (i dottori F. , M. e C.).
In Polonia, ha mollato di colpo la dottoressa G. dopo un anno e mezzo di ipnosi regressiva, perché s’era stufato di inventare cazzate; stessa cosa col dottor M., cognitivo-comportamentale.
Insomma, una vera ecatombe di professionisti, verso i quali adesso dice di nutrire un forte senso di colpa e anche un certo affetto.
Il problema è che lui, dice la moglie, custodisce inconsapevolmente le sue nevrosi, le insicurezze e tutta quella roba lì, con lo stesso amore con il quale si prende cura delle piante che invadono il suo terrazzo: le annaffia, le concima, e poi, quando crescono troppo, chiama un giardiniere, mai lo stesso, e gli fa dare una bella potatina, perché altrimenti coprono il panorama, che da casa sua, nonostante tutto, non è niente male.
Oltretutto dev’essere patologicamente curioso perché, come se niente fosse, tra un’analisi e l’altra si è sottoposto anche a radiestesia, numerologia, pendolino, tarocchi, astrologia e Sat Nam Rasayan… e durante i suoi soggiorni cubani si è rivolto volentieri perfino a sensitivi e babalao.
Alla fine, dopo aver speso tempo, soldi ed energia, l’Autore, oltre a non aver trovato il vero Sé, si è ritrovato con un discreto casino nel Sé che aveva prima di cominciare.
Così, quando Maurizio, un amico che non vedeva da anni, gli ha raccontato con gli occhi spiritati la sua strana esperienza con un brillante psicoanalista di origini polacche, l’Autore dice di essere rimasto sconcertato, ma di averlo ascoltato senza perdere una parola. “Io Maurizio me lo ricordavo mite e ingenuo, un succube, insomma. Del resto… con una moglie stronzissima, un fratello ingegnere con Porsche, e un capo rozzo… sì, un punto di riferimento ce l’aveva pure… una puttana di lungo corso dal cuore grande almeno quanto il culo”.
Adesso, invece, Maurizio era un uomo allegro, sicuro di sé, affermato sul lavoro e pieno di donne, tanto che l’Autore, forse un po’invidioso, ha insistito per conoscere questo psicanalista.
“È stato un colpo di fulmine”, ha confessato, e dopo due o tre giorni ha ricominciato con lui un altro viaggio nei misteri dell’inconscio.
“Il dottor Grabski, per essere rigoroso è rigoroso”, dice l’Autore, “ma per fortuna non ha pregiudizi, e palleggia come un giocoliere del Medrano le tecniche terapeutiche di Freud, Yung, Lacan, Winnicot, Rank e molti, molti altri”.
Preso in quel caleidoscopio dai colori sgargianti, l’Autore dice di aver percepito per la prima volta “un certo transfert”, o qualcosa del genere. Transfert o non transfert, però, dopo qualche mese ha sentito il solito inspiegabile bisogno di tagliare la corda.
Ma, probabilmente a causa dei prolungati silenzi, il dottore deve aver intuito il rischio di perdere il suo cliente, al quale era unito da un solido controtransfert, foraggiato dal regolare pagamento, da parte dell’Autore, di congrue parcelle. Così, da profondo conoscitore dell’animo umano, ha fatto in modo che il paziente si perdesse in un bosco che pullula di archetipi, nel quale peraltro l’Autore, protetto dalla Grande Madre che tiene a bada Edipo, e dal Guerriero che lo difende dai Demoni, si sente incredibilmente a suo agio, e dal quale non ha nessuna voglia di uscire.
In quel bosco è nato Il grande Grabski.
Nel romanzo, l’Autore ha scritto la storia di Maurizio, che è un po’ anche la sua, per parlare della difficile ricerca del vero Sé, ma anche per raccontare come, tuttavia, con un pizzico di transfert e molto controtransfert, uno se la può cavare anche senza trovare il vero Sé, anche perché “Alla fine”, come mi ha detto l’Autore sottovoce, come parlando a sé stesso, “chi ce lo dice quant’è vero, il vero Sé?”

Corriere 5.12.17
Un volume edito da Mondadori raccoglie i testi d’impegno civile del grande romanziere tedesco, con un’introduzione di Giorgio Napolitano. La stagione più creativa si era conclusa, cominciava la battaglia contro la barbarie nazista
La svolta di Mann sulla scia di Eschilo
di Claudio Magris

Il poeta greco fu celebrato per aver combattuto in armi
Lo scrittore si espose in difesa della civiltà democratica

Si dice che l’epitaffio sulla tomba di Eschilo lo celebrasse perché aveva combattuto da valoroso a Maratona in difesa della patria e non menzionasse le sue tragedie, capolavori assoluti che, insieme a quelli degli altri tragici greci, sono scesi nel profondo del mito, dell’inconscio e del senso della vita. Da duemilacinquecento anni ricordiamo, studiamo e amiamo l’ Orestea più che lo scudo imbracciato dal suo autore sul campo di battaglia, ma quell’epitaffio dice che la vita e la civiltà valgono più dell’arte e che quest’ultima è grande quando fa sentire a fondo tale verità, quando rimanda a qualcosa più in alto di essa.

Pure Thomas Mann ha sentito di dover brandire la spada nella lotta politica, anche se la spada che sapeva maneggiare era la penna; lo ha fatto, ricorda Massimo Cacciari, controvoglia, costretto dai devastanti disastri dell’epoca che, dopo la fine dello sciagurato massacro della Prima guerra mondiale, vedeva germogliare e proliferare dovunque violenza, odio nazionale, sete di vendetta, razzismo, ideologie barbariche e totalitarie d’ogni genere, germi di quella che sarebbe presto stata la Seconda guerra mondiale, abominio dell’umanità e in particolare della Germania nazista.

Mann è costretto a scoprire che la politica non è una sofisticazione intellettualistica e ideologica, astrattamente lontana dalla vita, bensì è la vita stessa e la sua tutela. Polis, la Città, la comunità, vita condivisa e vite che si influenzano a vicenda; stare insieme, libertà o schiavitù, onore o indegnità, pane o fame, violenza o pace. Il grande discorso Della Repubblica tedesca tenuto il 15 ottobre 1922 a Berlino — che apre questi Moniti all’Europa — è la sua dichiarazione di fede nella democrazia, contestata da numerosi studenti nazionalisti presenti in aula. Mann scopre che non vi è antitesi tra la poesia, la letteratura, l’arte e la democrazia, come aveva invece sostenuto nelle sue esorbitanti, ridondanti, talora sfasate ma geniali Considerazioni di un impolitico , gigantesco manifesto letterario del pensiero o meglio dell’atteggiamento reazionario.

In quel libro, ricchissimo di demistificazioni della retorica progressista sempre più imperante, Mann aveva contrapposto il nazionalismo all’universalismo illuminista e democratico, la tradizione sorgiva del popolo tedesco alle astrazioni internazionaliste, lo scorrere della Vita aldilà o al di qua del bene e del male ai moralismi intellettualistici e benintenzionati, il canto popolare ai verbali delle sedute parlamentari e ai codicilli giuridici, il silenzio del bosco alle ciarliere e spesso cialtronesche assemblee. La Germania, nella cui vittoria nella Prima guerra mondiale egli aveva sperato, incarnava ai suoi occhi la Kultur , la cultura quale senso profondo e totale della vita, contrapposta alla Zivilisation che egli vedeva incarnata nello spirito francese razionalista e giacobino, mera ancorché sofisticata tecnica impersonale, buona forse per l’economia o i programmi di governo ma non per l’individuo, per la vita, per il senso del mondo.

Cultura e civilizzazione, categorie vaghe e di per sé vacue ma riscattate, in quel loro voluminoso breviario, da folgoranti intuizioni sull’esistenza. Quando Mann tiene il suo discorso sulla Repubblica tedesca sono passati solo quattro anni dalle Considerazioni , che suonano come l’antitesi di quella celebrazione della democrazia che egli ora vede così fragile in Germania e in generale in Europa e che undici anni dopo sarà travolta dal più infame dei totalitarismi, il nazismo. Ma Thomas Mann, com’egli grida al pubblico che lo ascolta non senza aggressività, non revoca e non ritratta nulla. Semplicemente ha capito che la reazione nazionalista e razzista perverte e sfigura proprio quei valori vitali e poetici che egli aveva difeso e celebrato nelle Considerazioni , che il nazionalismo è il contrario e la parodia dello schietto amore della terra natia, che la mobilitazione totalitaria delle masse soffoca la libertà romantica del vagabondo e che gli inni sciovinisti sono la negazione dell’amato canto popolare tedesco. Il Reich hitleriano che trionferà pochi anni dopo sarà la distruzione dell’amata vecchia Germania, particolaristica e plurale, e della stessa Europa che egli, richiamandosi a Novalis e al suo geniale saggio poetico Cristianità ovvero Europa , vede come un’ecumene in cui il principio della regalità, del potere in qualche modo sacro ma solo perché legittimo, s’incarna nella varietà e nelle autonomie di una composita compagine «repubblicana». In una Germania nazionalista e totalitaria non c’è posto per la sua Lubecca anseatica né per le altre e altrettanto incantevoli realtà tedesche, diverse ma unite nel profondo. La letteratura, l’arte sono democratiche perché capaci di calarsi nella realtà, nella mente e nel cuore degli altri e la democrazia è a sua volta questa capacità poetica di ascoltare e far parlare l’altro, gli altri. Si ama il mare certo più delle elezioni ma si va a votare anche perché più persone possibili siano in grado di godere il mare se lo desiderano.

L’adesione di Mann alla democrazia non è priva «di un certo impaccio», scrive Giorgio Napolitano nella sua Introduzione, un saggio fondamentale, classico e insieme di vibrante attualità nella pacata fermezza del suo linguaggio, in cui c’è una profonda affinità di pensiero e di stile con quello manniano; un’analoga forza, malinconica e tranquilla, di attraversare gli uragani della Storia vedendo pure cadere tante cose e fedi attivamente condivise e amate ma senza mai cedere al pathos del negativo, al disincanto pur profondamente avvertito, e conservando anche nelle tempeste più destabilizzanti quella signorilità che è dell’animo prima ancora che del comportamento, espressione di quel «rispetto» che per Kant è la necessaria premessa di ogni virtù.

Napolitano pone l’accento sulla necessità, sentita da Mann, di confrontarsi con le proteste e le ragioni di chi, anche clamorosamente, lo attacca. Mann capisce che anche chi ragiona male, come farà poco dopo una grandissima parte della Germania, esprime (confusamente, anche barbaramente) esigenze e problemi reali cui bisogna dare risposta. Ed è questo che oggi l’Europa, l’Occidente, tutti dovrebbero voler e saper fare, rispetto al disastroso dilagare di populismi, di regressioni, di rigurgiti antidemocratici che, uniti all’insofferenza verso l’Unione Europea e alla debolezza di quest’ultima, potrebbero essere letali e devono essere combattuti ma non disprezzati o altezzosamente trascurati, come spesso fa l’opinione liberale e democratica, perché quelle reazioni nascono da problemi reali.

Sotto questo aspetto le Considerazioni di un impolitico possono svolgere una grande funzione democratica anche e soprattutto oggi, in un momento in cui la democrazia sta degenerando e negandosi, a opera di tanti che la professano ripetendo con gregaria stupidità gli slogan del letale e imbecille politically correct , in una autoparodia che favorisce l’ascesa dei populismi. L’anarchico conservatore delle Considerazioni potrebbe realmente, come ha detto lo stesso Mann, mettersi al servizio del futuro e dunque del presente che lo prepara, con la sua irrisione della retorica benpensante che imperversa sui social destando anche negli animi più aperti la tentazione di diventare reazionari. Il vagabondo manniano delle Considerazioni può esorcizzare la rissosa retorica dei talk show che rischia di generare disgusto per la discussione, sale della democrazia. Niente come l’involontaria autoparodia può disgustare dalla democrazia ed è ciò che sta avvenendo.

I saggi manniani raccolti nel volume sono, come dice il titolo, moniti all’Europa; anche e soprattutto per questo stanno a cuore a Napolitano, che nel suo saggio introduttivo parla con passione dell’Unione Europea e del ruolo che in essa deve avere e ha la Germania. Un ruolo centrale e oggi, per la prima volta dopo molti anni, minacciato anch’esso da una instabilità che sarebbe fatale per l’Europa e la sua unità, che purtroppo appare sempre più fragile, tentennante, anchilosata, timorosa di ogni netta decisione, ansiosa di unanimità, che non è espressione di democrazia, ma è la menzogna cara ai totalitarismi. Condivido la passione di Giorgio Napolitano per l’Europa, ma non la fiducia nella sua attuale realtà, anche se dichiarare fiducia aiuta già a rafforzarla.

L’impaccio che Napolitano coglie nella trasformazione di Mann da impolitico a politico ha forse pure un’altra ragione. Mann sembra avvertire che con questo passaggio la sua più alta stagione creativa si è conclusa — la stagione dei Buddenbrook , della Morte a Venezia , di Tonio Kröger , capolavori scritti senza programmi né intenzioni, quando narrava il dissolvimento di una famiglia borghese tedesca senza rendersi conto di narrare una fine ben più vasta, quella della classica borghesia europea, e scoprendo ciò che voleva scrivere solo scrivendo. Con la fine della vecchia Europa e la sua assunzione di responsabilità nella sciagurata nuova Europa cessa per lui la felice ingenuità epica.

Certo, anche dopo egli scriverà grandi opere, ma imparagonabili alla felicità impolitica dei Buddenbrook ; opere sorrette e nutrite dalla riflessione, dalla tensione e dalla vocazione a mediare le contraddizioni; cosa altamente e preziosamente politica ma artisticamente impari alla poesia con cui, osservava Cesare Cases, le aveva rappresentate senza cercare di mediarle. Non a caso egli cita due volte l’invettiva di Strindberg contro Björnson: «Falso come un oratore ufficiale». Pericolo insito nelle orazioni democratiche, anche nella forbita ed equilibrata eleganza di alcune lezioni manniane e ignoto al vagabondo e perdigiorno impolitico.

Ma «il mago» — come Mann era chiamato talora in famiglia — sapeva esorcizzare l’ufficialità e anche la propria talora quasi repulsiva freddezza (ad esempio verso i figli, in particolare verso l’infelice Klaus) con l’ironia, col gusto del gioco. Il discorso Della Repubblica tedesca , dopotutto, viene tenuto in occasione del sessantesimo compleanno di Gerhart Hauptmann, il vigoroso scrittore naturalista e poi misticheggiante tedesco che più tardi si sarebbe seppur non gravemente compromesso col Terzo Reich e di cui lo stesso Mann — che in quel discorso ufficiale, rivolgendosi a lui che gli sta seduto di fronte, lo chiama «maestro» — traccia pochi anni dopo un impietoso, sarcastico e distruttivo ritratto nella Montagna magica . Pure nel suo atteggiamento verso la Germania dopo la fine della Seconda guerra mondiale — ma non del suo esilio — manca talora quella carità che ci dovrebbe essere anche e soprattutto quando si combatte senza quartiere il male, come sapeva il suo amato Dostoevskij.