domenica 3 dicembre 2017

Corriere La Lettura 3.12.17
La vita comincia dopo 50 ore
di Manuela Monti e Carlo Alberto Redi



Corriere 3.12.17
Promesse elettorali
Gli inganni (svelati) dei politici
di Ferruccio de Bortoli

Nella cura dei tanti interessi particolari e territoriali siamo imbattibili. La discussione appena terminata in Senato sulla legge di Bilancio (ora tocca alla Camera) ha dimostrato ancora una volta che la discussione sull’opportunità di introdurre un vincolo di mandato per deputati e senatori — espressamente vietato dall’articolo 67 della Costituzione — è del tutto oziosa. Certo, se ci fosse quel vincolo non avremmo assistito finora, in questa legislatura, alla transumanza di 343 parlamentari da un gruppo all’altro. E spesso in più di uno. Ma la marea di piccoli provvedimenti approvati al Senato, alcuni assolutamente necessari per carità, a favore di questo o quel gruppo d’interesse o delle comunità di origine o riferimento degli eletti, ha confermato ancora una volta che i vincoli esistono. Ed è naturale che sia così, che si dia ascolto alle tante richieste di categorie e territori. Accade anche in sistemi più evoluti del nostro. Ogni passaggio si misura anche in voti e la campagna elettorale è già cominciata. Ma non ci rassegniamo al fatto che non vi sia un’analoga determinazione sulle questioni più importanti per il futuro del Paese: debito, spesa pubblica, investimenti. Se le ragioni dei giovani — uno degli obiettivi dichiarati della manovra — fossero difese con la stessa pervicacia con la quale si infila un comma a favore della copertura dei costi del Carnevale fino al 2020 o per dichiarare Bolzano sede disagiata, il livello delle scelte sarebbe di tutt’altro tenore.
Il vincolo che manca è proprio questo. Un vincolo di responsabilità. Non c’è la consapevolezza dell’urgenza di affrontare i grandi temi da cui dipende il futuro del Paese. Si rinvia, si rimuove. E non ci resta che apprezzare, di conseguenza, lo spirito dei costituenti quando scrissero il contestato articolo 67 sulla rappresentanza generale dell’intera nazione. Se poi guardiamo alla composizione della manovra appena licenziata dal Senato — che sarà ovviamente emendata dalla Camera — ci accorgiamo della semplice verità dei numeri. Circa l’80 per cento degli impieghi serve a disinnescare le cosiddette clausole di salvaguardia a garanzia di spese già fatte o correnti; il 15 per cento va agli statali, meno del 5 per cento allo sviluppo. Dal lato delle risorse, oltre il 55 per cento è in disavanzo, e dunque fa salire il debito; il 25 per cento in tasse o recupero evasione fiscale e meno del 20 per cento è in taglio delle spese. Finito.
Quel vincolo di responsabilità dovrebbe essere richiesto dai cittadini alle forze politiche anche nella prossima campagna elettorale. E forse, se ci possiamo permettere, sarebbe opportuno che se ne facesse interprete — magari in occasione del discorso di fine anno — lo stesso capo dello Stato. Inutile promettere quello che non si può mantenere. Pericoloso evadere dalla realtà, rimuovendo la forza delle cose e l’amarezza stringente di un elevato indebitamento. Basta ingannare gli elettori illudendoli che vi sia una torta da dividere. Non c’è più da tempo. E non è detto che proposte serie, circostanziate e credibili, non raccolgano più consenso dei giochi di prestigio programmatici.
La proposta dibattuta nel centrodestra della flat tax , una tassa piatta, è suggestiva, popolare. Non sappiamo però quale sia l’aliquota unica, né le necessarie coperture, le deduzioni, l’ampiezza della cosiddetta «no tax area». Salvini insiste sul 15 per cento. Irrealistico. Forse sarebbe il caso di spiegare agli elettori l’estrema pericolosità di un taglio immediato delle tasse che aprirebbe un catastrofico buco di bilancio. Ed è assai probabile che il primo atto di un nuovo governo dopo le elezioni sia una manovra correttiva. Altro che flat tax . Inutile poi parlare di nuove clausole di salvaguardia che si aggiungerebbero a quelle che non riusciamo a disinnescare da anni. Ha scritto opportunamente Renato Brunetta sul «Foglio» che senza riduzione del debito non vi è sovranità fiscale. Discorso assai diverso, dunque, se a un’ipotetica aliquota unica si dovesse arrivare con gradualità, in cinque anni, avendo tagliato prima la spesa pubblica per realizzare un’adeguata provvista. La proposta di Nicola Rossi e dell’Istituto Bruno Leoni di una flat tax al 25 per cento ha come presupposto irrinunciabile la neutralità dell’effetto sul bilancio pubblico. L’idea, che affascina Forza Italia, di una moneta parallela o fiscale poi, con cui lo Stato potrebbe pagare per esempio i fornitori, è ugualmente attraente. Ma temeraria perché equivale a emettere dei pagherò, cioè a fare altro debito. Ultimamente non se ne parla più. È stata accantonata definitivamente? Un altro azzardo è la proposta di Matteo Renzi, contenuta nel suo libro «Avanti», di spingere il deficit al limite del 3 per cento per abbattere le tasse, non rispettando il criticato fiscal compact. Si sottovalutano, anche in questo caso, le reazioni europee e dei mercati di fronte a un taglio delle tasse che verrebbe realizzato in deficit, anziché riducendo la spesa pubblica. E intanto l’ombrello monetario di Draghi, possibile grazie al famigerato fiscal compact, si sta chiudendo.
I Cinquestelle promettono il reddito di cittadinanza a nove milioni di persone. Si assicura l’integrazione del reddito per arrivare a 780 euro per individuo, 1100 per una coppia, 1300 con un figlio e via a salire. Nei limiti della soglia di rischio povertà Eurostat. Costo 17 miliardi, di cui 1,5 per i centri dell’impiego che, nell’idea pentastellata al limite dell’utopia, dovrebbero essere creatori di nuove imprese fra gli stessi disoccupati. Una proposta di lavoro a più di 80 chilometri da casa potrebbe essere rifiutata senza perdere il reddito di cittadinanza. Dove trovare tutti questi soldi? Tagliando 20 voci di spesa pubblica, dagli enti inutili, ai sussidi alle imprese, alle spese militari. Prima i tagli e poi il reddito, naturalmente? No, dicono i Cinquestelle, li faremo insieme. Impossibile. Non è il caso di accertarsi preliminarmente che i tagli siano effettivi? Nella legge di Bilancio 2018, con uno «sforzo titanico», si promette di tagliare le spese di soli 3,5 miliardi. Sogni e realtà.

Repubblica 3.12.17
Violenza sessuale
Proteggiamo il coraggio delle donne
di Michela Marzano

Bastano veramente sei mesi per denunciare una violenza sessuale? Sono sufficienti per recuperare le parole, superare la vergogna, trovare la forza, andare in questura, affrontare gli sguardi altrui, raccontare la violenza subita? In Italia, attualmente, sembrerebbe proprio di sì. Il ministro della Giustizia Orlando si dice favorevole a cambiare la legge, ma oggi le norme prevedono che si possa procedere contro un presunto colpevole di violenze sessuali se, e solo se, la vittima sporge querela entro sei mesi dai fatti. Ecco perché, passati i fatidici sei mesi, in Italia non c’è più nulla da fare. Anche se “i fatti in contestazione possono essere valutati come realmente accaduti” — come hanno spiegato i giudici del Tribunale del Riesame di Bari nel caso della dottoressa violentata mentre era in servizio in una guardia medica — un accusato non è nemmeno processabile. Ripercorriamo i fatti. La presunta violenza sessuale subita dalla dottoressa barese risale al dicembre 2016. La donna ha aspettato nove mesi prima di denunciare l’accaduto. Prima non ce l’aveva fatta. Era stata travolta dalla vergogna. Aveva solo sperato che finisse tutto, anche se il suo aggressore, un cinquantunenne di Acquaviva delle Fonti, non sembrava avere alcuna intenzione di smetterla e aveva continuato a perseguitarla, minacciandola persino di morte. Per il cinquantunenne resta l’accusa di stalking, visto che gli episodi sono più recenti. Ma la vittima, in ragione dell’improcedibilità dello stupro, si ritrova oggi non più solo vittima delle violenze subite, ma anche di uno Stato che sembra non capire che i termini stabiliti per denunciare uno stupro sono del tutto inadeguati. Quando si subisce una violenza sessuale, spesso ci vuole tanto tempo prima di riuscire a parlare. Lo spiega la filosofa americana Susan Brison in un libro autobiografico in cui racconta lo stupro subito più di dieci anni prima: una violenza sessuale distrugge “ogni riferimento logico” e annienta il “valore dell’essere”; ci si scopre impotenti e fragili; si dubita di se stessi e della propria dignità, ci si colpevolizza e ci si convince di non valere niente. Talvolta ci vogliono anni e anni anche solo per raccontare quello che è potuto succedere, dubitando della propria memoria e rimettendo in discussione tutto quello che si è sempre fatto o pensato. È solo col passare del tempo che si riesce a ripercorrere l’accaduto, a trovare la forza per andare avanti, a ricostruire quel minimo di fiducia in se stessi che è poi la condizione per ricominciare anche a credere negli altri. Come si può allora pensare che siano sufficienti sei mesi per sporgere denuncia? I tempi non dovrebbero essere spostati molto in avanti — se proprio si vuole dare un termine di scadenza ed evitare rischi di possibili ricatti — per dare la possibilità alle vittime di fare quel percorso interiore necessario per rimettere insieme un’identità sbriciolata? È facile — e banale e superficiale — affermare, come talvolta si sente dire, che una persona che non denunci subito una violenza sessuale perde ogni credibilità. Più è grande la violenza subita, più aumenta il tempo necessario per trovare non solo le parole adeguate per raccontare l’accaduto, ma la forza per superare la vergogna e il senso di inutilità che invade tutto. La violenza devasta sempre. Ma uno stupro, come ricorda Susan Brison, non è una violenza come le altre. È un “assassinio senza cadavere” che, anche per essere nominato, ha bisogno di un coraggio immenso.

Corriere 3.12.17
«Renzi è una delusione Berlusconi? Scalfari sbaglia»
di Aldo Cazzullo

«Potrei votare scheda bianca — dice Carlo De Benedetti al Corriere —. Il Pd di Renzi non ha né pensiero né progetto. A Palazzo Chigi meglio candidare Gentiloni. Scalfari su Berlusconi? Se non fosse per l’età, sarebbe un endorsement sorprendente. L’ha fatto per vanità, per riconquistare la scena».

LUGANO Ingegnere, anche lei, come Scalfari, tra Berlusconi e Di Maio voterebbe Berlusconi?
«Ovviamente mi asterrei».
Non vale. Bisogna scegliere.
«È una questione improponibile. Si può restare a casa, o votare scheda bianca. Berlusconi fa venire in mente quando, rovistando tra le cose vecchie, si trova un abito in disuso; e infilando una mano nella tasca spunta un vecchio biglietto del tram già obliterato».
Allora perché Scalfari lo voterebbe?
«Scalfari è stato talmente un grande nell’inventare Repubblica e uno stile di giornale che farebbe meglio a preservare il suo passato».
Sta dicendo che ha avuto un lapsus?
«Penso l’abbia fatto per vanità, per riconquistare la scena. Ma è stato un pugno nello stomaco per gran parte dei lettori di Repubblica , me compreso. Berlusconi è un condannato in via definitiva per evasione fiscale e corruzione della giustizia. Se non fosse per l’età, sarebbe un endorsement sorprendente per uno come Scalfari che ha predicato, sia pure in modo politicamente assai cangiante, la morale».
C’è stata una frattura personale tra lei e il fondatore?
«Penso che la risposta di Scalfari abbia gravemente nuociuto al giornale».
Le piace la nuova grafica di «Repubblica»?
«È bellissima, elegante, pulita, innovativa. Un restyling molto riuscito. Un giornale però ha bisogno di spifferi, correnti, energie. Un giornale non è solo latte e miele; è carne, è sangue. Può avere curve; ma deve avere anche spigoli».
Ora c’è la novità di una condirezione.
«Io ero e rimango assolutamente contrario. Nessun grande giornale al mondo utilizza questa formula anche se penso che Tommaso Cerno sia tra i migliori giornalisti della sua generazione: è geniale, basta leggere il suo libro in versi Inferno per rendersene conto. La condirezione ha funzionato una sola volta, alla Stampa di Mieli e Mauro; che però avevano entrambi una loro agenda, e non pensavano certo di convivere a lungo».
Mieli andò a dirigere il «Corriere», Mauro «Repubblica».
«Ezio è stato un grandissimo direttore. Ora ha dimostrato di essere anche un grande scrittore: il suo libro sulla rivoluzione russa è straordinario».
Luciano Benetton, che ha 82 anni e quindi uno solo meno di lei, è tornato alla guida dell’azienda di famiglia. Lei non ci pensa?
«La scelta di Benetton mi lascia ammirato e commosso; ma io ho fatto il contrario, e ne sono felice. Sono stato l’unico imprenditore italiano a donare l’azienda ai figli».
Come vede il futuro dei giornali?
«Non facile. Però ci sarà sempre bisogno di organizzare una gerarchia delle notizie. Le notizie sono come fiori di campo; ma un mazzo di rose fa un altro effetto. Molto dipende dalla nostra capacità di farci pagare dagli Over-the-Top di Internet, che al momento ci rapinano. Si comportano come pirati: rastrellano la pubblicità legata ai contenuti che ci sottraggono».
La sua famiglia resterà l’azionista di maggioranza del gruppo Stampa-Repubblica? O toccherà a John Elkann?
«Non penso proprio che i miei figli venderanno. Non ne vedrei la ragione, tenuto conto che la Cir, l’azienda che ho loro donato, ha più di 300 milioni di liquidità. Il problema è come investire, non certo come disinvestire» .
E in Fiat cosa succederà secondo lei?
«Non lo so. Marchionne è un genio della finanza e del marketing: ha “spin-offato” molte attività industriali, creando grande valore per gli azionisti; ha puntato sui brand Jeep e 500, oscurando i brand Fiat e Chrysler. Penso sarà lui a scegliere il suo successore».
Torniamo alla politica. Berlusconi prenderà un sacco di voti. Come se lo spiega?
«È un grande campaigner : non si vergogna a ripetere le cose che diceva 23 anni or sono, e lo fa con la stessa impudenza. Non è colpa sua se c’è gente che ancora ci crede. Ma esiste una biologia della durata di un politico; e questo rende la ricomparsa di Berlusconi grottesca. Mitterrand fece due settennati, poi i francesi ridussero il mandato a cinque anni; nella loro saggezza, gli americani prevedono al massimo quattro più quattro; Blair durò dieci anni, la Thatcher undici; Kohl un po’ di più, ma solo perché c’era stata la riunificazione tedesca».
E la Merkel ?
«Credo che la sua parabola stia per terminare. Forse riuscirà a formare un governo, ma durerà poco. Penso punti a fare il presidente della Commissione europea».
Lei disse al «Corriere» che Trump poteva vincere. Ora può essere rieletto?
«Lo escludo. Ogni giorno Trump appare più inaffidabile e vuoto. La decisione di Flynn di patteggiare con l’Fbi può avere conseguenze pesanti sul suo futuro. E lo stato di confusione alla segreteria di Stato con la probabile uscita di Tillerson sarà un altro segnale di debolezza».
Renzi l’ha delusa?
«Renzi ha deluso non solo me, ma tantissimi italiani. È stato un elemento di novità e freschezza, e ha fatto bene il primo ministro. Ma ha sbagliato sul referendum, e soprattutto ha sbagliato dopo a non trarne le conseguenze» .
Cosa avrebbe dovuto fare?
«Prendersi due o tre anni di pausa. Andare in America, studiare, imparare, conoscere il mondo. Magari l’avrebbero richiamato a furor di popolo. Invece ha avuto l’ansia di chi si dimette ma non vede l’ora di ricominciare».
La Boschi?
«È talmente legata a Renzi che ne seguirà la parabola».
Chi dovrebbe essere il candidato premier del Pd?
«Il candidato naturale è Gentiloni. Ne abbiamo un gran bisogno. È stato un calmante nell’isteria della politica renziana. È uno che fa le cose, e ha con sé molti ministri competenti: Padoan, Calenda, Minniti, Delrio, Franceschini e altri ancora. Spero che, a dispetto dei sondaggi, possano continuare» .
Se invece dovesse nascere un governo di larghe intese?
«Non credo ci siano i numeri. Più facile che si torni a votare in breve tempo».
L’avventura di D’Alema?
«Ridicola».
E se il governo lo facessero gli antisistema? Grillo, Salvini, Meloni?
«Dio ce ne scampi e liberi».
Come giudica i grillini?
«Conosco solo la Appendino: una brava signora, ordinata, che si impegna; ma non mi pare che Torino stia meglio di prima. Nelle città che amministrano, da Livorno a Roma, i 5 Stelle hanno dato sempre prova di inesperienza, e talora di incapacità».
Lei voterà Pd?
«Non è detto. Potrei votare scheda bianca».
Come mai?
«La sinistra avrebbe davanti una grande occasione. Alla fine della crisi dei dieci anni, il capitale ha vinto (basti pensare alle Borse) e il lavoro ha perso. La sinistra dovrebbe riscattare questa sconfitta. Ma per farlo ha la necessità di affrontare in modo nuovo le due grandi questioni del nostro tempo: le disuguaglianze e l’immigrazione. Nel mondo ci sono due miliardi di millennial : la politica deve dare loro una speranza. Ma non vedo una riflessione seria su questo, tanto meno in Italia. Vedo la ricerca di una scorciatoia, sia da parte del populismo becero di Salvini, sia da parte del populismo intelligente di Renzi».
Renzi è populista?
«Una spruzzata di populismo è necessaria, per attirare l’attenzione degli elettori. Ma dietro ci dev’essere un nocciolo duro di pensiero e di progetto; che nel Pd di Renzi mi pare assente».

Corriere 3.12.17
Governo del Presidente?
I Cinque Stelle e il piano B
Il movimento il retroscena
Sostenere un governo del presidente La tentazione dei 5 Stelle dopo le urne
La scelta di realpolitik nell’era di Di Maio: consensi a rischio senza una fase costruttiva
di Massimo Franco

La tentazione dei Cinque Stelle per il dopo elezioni per evitare l’ingovernabilità: sostenere un esecutivo del capo dello Stato.
La nebbia degli slogan tradizionali vela la vera strategia. Ci sono un obiettivo e una tentazione, nel futuro prossimo del Movimento 5 Stelle. Con la nuova legge elettorale e con le diffidenze e le riserve persistenti, difficilmente raggiungerà percentuali tali da permettergli di governare. L’obiettivo, dunque, è una vittoria minore ma ugualmente ambiziosa: avere seggi sufficienti per impedire che si formi un esecutivo senza o peggio contro la formazione di Luigi Di Maio e di Davide Casaleggio. In quel caso diventerebbe prepotente la vera tentazione dei Cinque Stelle, accarezzata per non restare fuori dai giochi: appoggiare un «governo del presidente», se di fronte al pericolo dell’ingovernabilità il capo dello Stato, Sergio Mattarella, dovesse fare un appello al senso di responsabilità di tutte le forze politiche.
È una ipotesi appena accennata, e tenuta di riserva, sapendo che gli effetti del sistema elettorale rappresentano un’incognita. Ma tutti i sondaggi, ufficiali e riservati, concordano nel ritenere improbabile che emerga dalle urne una maggioranza. Può darsi che in quel caso il Quirinale, dopo un incarico esplorativo senza esito, rimandi il Paese al voto: i Cinque Stelle non si metterebbero di traverso. Oppure è possibile che chieda il sostegno a un governo plasmato nel segno dell’emergenza. In questo caso, a sorpresa potrebbe trovare la sponda dei seguaci di Beppe Grillo. Non si tratta di un soprassalto di generosità nei confronti dell’odiata «partitocrazia».
Nella scelta si indovina una buona dose di realpolitik : la consapevolezza che il Movimento deve passare da una fase di opposizione totale a una stagione più costruttiva. Anche perché i suoi consensi, che ormai si attestano tra un quarto e un terzo circa dell’elettorato, sono considerati in bilico: o vengono spesi in qualcosa di diverso dalla pura contestazione del passato, o rischiano di calare bruscamente verso percentuali inferiori al venti per cento. La sfida di governo sarebbe dunque una sorta di antidoto a un ripiegamento del quale si avvertono qui e là i sintomi. D’altronde, la designazione di Di Maio come candidato premier certifica, di per sé, la scommessa su un’uscita «moderata» dalla crisi e su un possibile approdo governativo.
Fa il paio con il ruolo marcatamente defilato assunto da Grillo nella nuova fase. La virata in materia di moneta unica, la posizione meno ostile alla Nato, la ricerca di rapporti con le istituzioni finanziarie e con il Vaticano sono tutti passaggi obbligati per tentare di scalfire il muro di diffidenza che il Movimento si è costruito intorno; e che finora lo proteggeva ma lo isolava, anche, dal virus del dialogo con gli altri. Il colloquio a Washington con il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, è stato del tutto casuale, è vero. Eppure ha creato un contatto prima inesistente. È stato organizzato in fretta e furia quando Di Maio ha saputo che l’ex ambasciatore Usa presso la Santa Sede, Francis Rooney, col quale si doveva vedere, tardava perché si stava congedando da Parolin, negli Stati uniti per i lavori della conferenza episcopale americana.
In due ore, con un giro febbrile di telefonate, è stato combinato un incontro in Nunziatura non col leader dei Cinque Stelle, ma con Di Maio nelle vesti istituzionali di vicepresidente della Camera; e col patto di non chiamare né fotografi né giornalisti: impegno rispettato. Quel colloquio col «primo ministro» di Francesco ha permesso di alzare il livello di un viaggio che per il resto aveva seminato qualche tensione tra la delegazione grillina e l’ambasciata italiana a Washington. L’esito di questa «strategia della moderazione» è ancora in chiaroscuro. Dentro e soprattutto fuori dai confini italiani, il pregiudizio rimane diffuso e radicato. E quando i Cinque Stelle si accreditano come forza di governo, subito si sentono chiedere chi candideranno al ministero dell’Economia o agli Esteri.
Gli alleati occidentali vogliono essere rassicurati. E non solo. Si è saputo che di recente alcuni parlamentari del M5S si sono confrontati con una dozzina di investitori internazionali. Non è la prima volta: anche loro vogliono capire, al di là delle promesse e degli impegni verbali. Ma lo vogliono soprattutto gli italiani. Fino a Natale Di Maio batterà, partendo da Milano, l’intero Nord. Non è tanto per calamitare voti: gli basterebbe abbassare le difese e l’ostilità nei confronti del Movimento. Ma per smentire l’immagine di una formazione malata di dilettantismo e di estremismo, occorrerà qualcosa di più. Si tratta di bilanciare con profili più esperti e competenti una classe dirigente finora un po’ raccogliticcia; e di puntellare l’identikit troppo giovane dello stesso Di Maio.
La squadra di governo da presentare prima delle elezioni verrà calibrata su criteri diversi dal passato, almeno nelle intenzioni. Si potrebbe perfino arrivare a una sorta di preselezione prima di votare per le Parlamentarie, che servono a formare attraverso la piattaforma digitale Rousseau di Casaleggio le liste per il Parlamento. Sarebbe una cesura col passato, da spiegare e far digerire ai militanti. Eppure non c’è alternativa: la resa dei conti con la realtà sta arrivando anche per il primo «partito-internet».

Il Fatto 3.12.17
Non illudiamoci: ha perso Renzi più che vinto noi
Questa la lettera che Gustavo Zagrebelsky ha inviato all’assemblea di Libertà e Giustizia, associazione di cui è stato fondatore e presidente, che si tiene oggi a Firenze a un anno quasi esatto dal referendum costituzionale

Cari amici di Libertà e Giustizia, vi invio qualche mia riflessione non potendo essere presente tra voi. Immagino che si rifletterà sul significato del referendum costituzionale di un anno fa. Dovremmo avere chiaro che la vittoria del NO fu dovuta dalla somma di ragioni diverse, in prospettiva anche incompatibili tra loro, pur se unite nel contrastare il disegno Renzi-Boschi. A mio parere, importante è stato il lavoro di sensibilizzazione sul contenuto della riforma, sull’insostenibilità tecnica di diverse sue parti e, particolarmente, sull’idea politica che ne costituiva la ragione: un’idea semplificatrice che sollevava molti dubbi e preoccupazione sugli sviluppi autocratici che avrebbero potuto seguire. Questo lavoro ha contribuito significativamente a motivare tanti cittadini che ormai, normalmente, disertano i seggi elettorali. Di questo lavoro e dei suoi risultati possiamo riconoscerci, per la nostra parte, il merito.
Tuttavia non dobbiamo esagerare. Esagerando correremmo il rischio di trascurare il motivo, a mio avviso, principale che ha determinato la sconfitta della proposta di modifica della Costituzione: il fatto che si sia votato meno sulla riforma e più sul progetto di “vittoria” di Renzi e del renzismo sui suoi avversari e nemici. Che ci sia stato un clamoroso errore di strategia da parte dei promotori della riforma, ormai è riconosciuto da tutti. Forse, si può andare oltre e pensare a una verità più profonda: le riforme costituzionali promosse dai governi, poiché si identificano con i governanti stessi o con il capo dei governanti, suscitano più ripulsa che consenso. E tanto più si gonfia il loro promotore, tanto più si sgonfiano le riforme. Non ci dobbiamo illudere: in Italia c’è un diffuso desiderio astratto dell’uomo forte, ma c’è un ancora più diffuso timore e perfino disprezzo o dileggio quando l’uomo forte si propone di diventare concreto. Se questo è vero, è probabile che la riforma costituzionale sarebbe “passata” se dietro non si fosse materializzato il volto di Renzi e dei suoi che ne avrebbero fatto il trampolino per la presa duratura del potere nelle loro mani; se fosse stata una riforma tenuta a battesimo dal Parlamento e non dal governo, se fosse stata una riforma, per così dire, quatta quatta. Del resto, anche la riforma Berlusconi fu bocciata per lo stesso motivo, mentre la riforma del centrosinistra del Titolo V della Costituzione passò al referendum, sia pure con maggioranza non larga, perché non serviva come trampolino di lancio di nessun capo politico. Se guardiamo retrospettivamente a ciò che è accaduto l’anno scorso, rimaniamo stupiti di tanta stupidità.
Tuttavia, le riforme costituzionali sono tutt’altro che archiviate. Già se ne propongono di nuove. LeG ha sempre sostenuto che i mali della politica nel nostro Paese si possono curare innanzitutto con la politica e che il tentativo di superarli agendo sulle istituzioni in nome di quella cosa ambigua e ingannevole che è la “governabilità” rappresenta una scorciatoia senza senso, oltre che pericolosa per la democrazia. Questo non significa affatto che le istituzioni non siano riformabili. Non abbiamo mai fatto nostro il vacuo motto della “Costituzione più bella del mondo”. Perciò dobbiamo prepararci e avere le nostre proposte, sia per migliorare il sistema parlamentare, sia per prepararci ad affrontare le pulsioni presidenzialiste che certamente si manifesteranno dopo le elezioni: affrontarle per cercare di mantenerle nell’alveo dei principi del costituzionalismo, qualora si manifestassero con forza vincente. Sia anche – aggiungo – per promuovere, come nostre e non come risposta a idee altrui, idee di uguaglianza nei diritti e nei doveri a favore dei più deboli, di protezione dei beni pubblici e dei beni comuni, e tante altre cose che sono racchiuse nelle nostre due parole: libertà e giustizia. Insomma: ci sarà molto da fare.
In breve: il referendum dell’anno scorso è alle spalle e non è una garanzia per il futuro. Il futuro richiederà impegno rinnovato e non solo per dire di no. LeG è e deve restare una associazione di cultura politica che non pratica alcun collateralismo rispetto a partiti o movimenti. I suoi associati devono essere liberi di operare in politica secondo i propri orientamenti pratici, pur in conformità con gli ideali dell’Associazione alla quale aderiscono. LeG deve fornire idee ed elaborazioni e non limitarsi a protestare, a denunciare, a fare appelli che per lo più cadono nel vuoto e ci attirano le critiche e spesso il sarcasmo di chi ci vede come i soliti astratti fustigatori che troppo comodamente e facilmente lanciano strali “contro” ed evitano di esporsi “per”. Se avessi potuto essere presente, avrei sviluppato questi concetti ma voi avete certamente compreso che cosa voglio dire. Occorrono energie e le energie sono i giovani, soprattutto, a doverle fornire.
Con le energie, la fantasia, le proposte, i contatti, anche le amicizie, la partecipazione a ciò che c’è di vivo nella nostra società. Tanto più in un momento come è il nostro, in cui il Paese incomincia a essere percorso da pulsioni che non avremmo mai pensato di constatare così presenti e crescenti: l’intolleranza, il razzismo e perfino il fascismo nemmeno in forme nuove, ma proprio in forme ricalcate sulle vecchie, squadrismo compreso. LeG dovrebbe e potrebbe essere, in base alla sua storia – purché non appiattita su un partito o un movimento –, un fattore di scossa contro l’indifferenza e un elemento di collegamento tra quanti avvertono il pericolo. Altrimenti, sarà destinata a sopravvivere nell’irrilevanza.

Il Fatto 3.12.17
No grazie
di Antonio Padellaro

Un anno fa, il 4 dicembre 2016, più di 33 milioni di italiani uscirono di casa per recarsi ai seggi del referendum sulla riforma costituzionale Renzi-Boschi. Il 65,47 per cento degli aventi diritto.
Un numero gigantesco di persone, impensabile se confrontato con la fuga crescente degli elettori che da anni disertano le urne, con percentuali, è il caso di dire, bulgare: fino ad arrivare ai due assenti su tre di pochi giorni fa nel voto di Ostia. I motivi profondi di questa straordinaria eccezione così li aveva spiegati Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari nella famosa intervista del 1981 sulla questione morale: “Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di una parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti.
Ebbene sia nel ’74 per il divorzio, sia ancora di più, nel 1981 per l’aborto, gli italiani hanno fornito l’immagine di un Paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al Nord come al Sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari”. Ora, dando atto ai radicali di aver valorizzato in Italia questo essenziale strumento di democrazia diretta e rimpiangendo l’epoca lontanissima in cui la sinistra parlava di operai e proletari, proviamo a vedere che cosa resta di quel voto “assolutamente libero da condizionamenti”, soltanto un anno dopo. Di positivo, certamente, c’è il mancato stravolgimento della Carta costituzionale. Il Senato è rimasto al suo posto e la nostra democrazia parlamentare, con tutte le sue imperfezioni, non è stata trasformata con un colpo di mano in un regimetto a uso e consumo dello statista di Rignano sull’Arno. Non è affatto poco viste le dimensioni della minaccia. Per il resto la lezione democratica del referendum è rimasta pressoché inascoltata. Non soltanto Renzi non si è ritirato dalla politica, come si era impegnato a fare in caso di sconfitta, ma se si toglie la fugace ammissione dell’“abbiamo straperso”, ha continuato imperterrito a considerarsi il capo di un partito personale. Riflessioni autocritiche? Correzioni di rotta? Quando mai. Si è fatto rieleggere segretario incurante dell’emorragia di voti che nell’arco di tre anni ha quasi dimezzato il famoso 41 per cento delle Europee. Da uomo solo al comando a uomo solo, perso nell’illusione che quei 13 milioni di Sì gli appartengano per grazia divina. Forse per effetto indotto ma la partecipazione al fronte vittorioso del No ha in qualche modo rivitalizzato il centrodestra guidato da Silvio Berlusconi. Che tuttavia ha già fatto capire di non escludere un nuovo patto del Nazareno con Renzi nell’eventualità (probabile) che dal prossimo risultato elettorale scaturiscano problemi di governabilità. Tutto come prima. I Cinque Stelle hanno rappresentato il motore del No ma da quel vasto voto non hanno ancora ricavato l’esigenza di uscire dal loro splendido isolamento, per aprirsi ad alleanze, per costruire ponti con altre realtà. Con quella sinistra, per esempio, non lontanissima da loro sui temi della legalità e della lotta al disagio sociale. Insomma, stanno bene come stanno. Se il 4 dicembre 2016 non sembra aver smosso granché nella politica nel suo insieme questo giornale si sente partecipe di quei 19 milioni e mezzo di No. Essi appartengono esclusivamente ai cittadini che hanno reagito al rischio di una involuzione democratica. Ma noi del Fatto Quotidiano a essi abbiamo creduto, da subito e fino in fondo. Quando la propaganda ossessiva del Sì sembrava non avere argini, pressoché da soli abbiamo continuato a sventolare la bandiera di un Paese “liberissimo e moderno”. Il 4 dicembre è anche la nostra festa.

Il Fatto 3.12.17
Questo fascismo non inizia da Como
di Furio Colombo

La decisione è stata ferma e precisa: niente fascismo che torna, niente grida di allarme. Volare basso su fatto irrilevante di ragazzi sfacciati ma educati, che ti entrano in casa per un momento con un loro volantino. Semmai ridere di chi si spaventa per l’accaduto, o denuncia simile sciocchezze. Non sappiamo di chi sia questa decisione, ma è stata osservata con scrupolo. Quasi tutti i giornali l’hanno presa come una prepotenza innocua. Hanno usato la parola ormai consueta, “skinhead” legata al mondo giovane e ribelle, per descrivere i 13 uomini (uomini, non ragazzi) che sono entrati nel Chiostrino di Santa Eufemia, hanno circondato il tavolo a cui erano seduti i volontari (tutti di età media o anziani, uomini e donne).
A quel punto uno dei “ragazzi”, con la calma burocratica di qualcuno che ha potere e non deve dimostrarlo, ha letto una serie di regole a cui chiunque sia sottomesso dovrebbe attenersi. E uno stravagante messaggio, metà con il linguaggio dei primi “no global” metà con l’interpretazione del mondo secondo i suprematisti americani. Poiché le persone sottoposte alla ronda avevano fatto sapere in anticipo il tema del loro incontro (salvare i migranti), la lettura di norme e “valori” rigorosamente razzisti può essere interpretata anche come ultimo avviso. Tanto più che gli intrusi hanno concluso la visita non voluta e non richiesta, con la frase “E adesso continuate pure a distruggere la vostra patria”. Dite che non è una minaccia? La frase di riferimento di tutto il circo fascista non è “O patria o morte”? Come ho detto, le risposte suggerite da qualcuno a quasi tutti i giornali e telegiornali, che hanno prontamente passato il messaggio, era “andiamo, non è successo niente” oppure: “Attenti al trucco: vi parlano di fascismo per non dirvi le mascalzonate che stanno preparando” (affermazione quasi uguale da varie parti politiche). I partiti fascisti vestiti in borghese, quando si rivolgono a noi, esclamano con pretesa indignazione “fascista io?”. Ma hanno i loro linguaggi nei comizi, coperti dalla discrezione del buon giornalismo, che non fa certo lo spione sul fascismo che si espande, coperto da “ragionevoli” obiezioni sull’eccesso di immigrazione. E i fascisti “in divisa” (CasaPound, Forza Nuova) ci tengono a dimostrarsi ortodossi perché lo spazio è libero (gli altri sono solo xenofobi) e sanno che nessuno avrà voglia di obiettare faccia a faccia proprio a loro. Sanno anche che troppo tempo è passato dal giorno in cui avrebbero dovuto comparire, con il loro saluto romano, davanti a un giudice. Adesso l’argomento, sostenuto dai migliori commentatori è che le opinioni sono libere e sacre, e protette dalla Costituzione (la stessa fondata sul comunismo, al punto da infierire persino sulla libertà di impresa). Riguardatela in immagini la scena dei fascisti che vi entrano in casa. Hanno avuto fortuna a entrare in una casa di pacifisti. Qualunque commerciante della stessa regione e dello stesso credo di chi è entrato spavaldamente in casa d’altri, avrebbe sparato. Il progetto di invasione, la trovata di circondare le persone che discutono, come si fa quando qualcuno prende il potere, e vuol far capire subito ai circondati che è inutile il loro parlare e che devono solo ascoltare, e ascoltare bene, è una bella scena da film ma è accaduta davvero. Ti entrano in casa quando vogliono, calmi, tranquilli, prendono la parola, ti tolgono la parola, e intanto sei circondato. L’azione è stata misurata in modo professionale, facendo ciò che è necessario: paura. Una leader politica della stessa cultura ha detto: “È stata una intimidazione, non un atto di violenza”.
Vediamo. È stata una intimidazione a persone piene di buona volontà e di sentimenti umani, ma non di forza. Hanno imposto il loro discorso, non un dialogo. Sono andati per umiliare, non per rubare. Da quello che ci dicono documentari, film attendibili e racconti di sopravvissuti, non occorreva violenza, ma intimidazione, per tutta la prima fase delle leggi razziali. Oggi (ma oggi, non allora) sappiamo tutto del senso di quelle iniziali intimidazioni. Di queste? Qualcuno dei presenti ha raccontato che l’argomento interrotto riguardava il problema dell’acqua, non per lavarsi, ma per bere. La sete è uno dei problemi più gravi se vieni privato da ogni possibile accoglienza e aspetti per sempre mentre tenti di passare una frontiera. Si ricordi il caso di Ventimiglia, dove il sindaco aveva vietato l’acqua ai “clandestini” che si accampavano per le strade di quella città italiana di frontiera. Un progetto crudele fondato sull’odio razziale, sul disprezzo per chi non condivide quell’odio e su una accusa di tradimento (“continuate a rovinare la nostra patria”) detta da questa gente che ti entra in casa, è più di una intimidazione. Da questo momento, a governo fermo e politici ciechi, questa gente ti può entrare in casa quando vuole ed esercitare la sua intimidazione se solo vieni sorpreso a esprimere un sentimento di umanità o la difesa di un diritto. È la prossima Italia

il manifesto 3.12.17
Camusso: «Questa piazza ci dice che la manovra può cambiare»
Le manifestazioni della Cgil . La segretaria dal palco di Roma al governo: «Di più su pensioni e lavoro o torneremo presto a mobilitarci». Secondo il sindacato l’esecutivo ha tradito gli impegni, e ha dimenticato giovani e donne. «Non capiamo Cisl e Uil, ma proviamo a riannodare i fili»
La segretaria generale della Cgil Susanna Camusso ieri sul palco di piazza del Popolo, a Roma
di Antonio Sciotto

«Il governo non ha rispettato gli impegni sulle pensioni, ha chiuso le porte sui giovani e le donne: la legge di Bilancio è un’occasione persa, ma noi non vogliamo perderla». Susanna Camusso parla a schermi unificati dal palco di Piazza del Popolo, a Roma: il suo discorso è proiettato anche a Torino, Bari, Cagliari e Palermo. Il popolo Cgil, insieme agli studenti, ai migranti, è sceso in piazza per chiedere interventi più incisivi su previdenza e lavoro, e la segretaria lancia un messaggio chiaro all’esecutivo: «La prossima mobilitazione generale non è lontana».
CON LA CGIL sfilano anche i dirigenti della sinistra, esponenti di Mdp, Sinistra italiana e Possibile che oggi ufficializzeranno la nascita di un soggetto unitario che correrà alle prossime elezioni con Pietro Grasso. Presente pure una delegazione di Campo progressista.
Ampiamente prevista l’assenza del Pd, bersaglio polemico della Cgil per le leggi varate dai governi Renzi (la liberalizzazione dei contratti a termine, il Jobs Act) e Gentiloni (l’ultima manovra, inadeguata appunto sulla previdenza).
LA LEGGE DI BILANCIO, comunque, non è ancora stata approvata definitivamente, e infatti Camusso si è appellata ai gruppi parlamentari – dopo gli incontri svolti nelle ultime due settimane – perché possano migliorarla ulteriormente. Nessuna facile illusione, naturalmente, ma per la Cgil «è solo la prima mobilitazione: continueremo a esserci, rispetto al Parlamento e in piazza».
«Ci ripetono che il sentiero è stretto – ha proseguito la segretaria Cgil – ma come mai per gli evasori non lo è, e si continuano a fare condoni? Il sentiero sarà sempre stretto, se non si decide di cambiare un fisco iniquo verso chi ha meno, mentre non si interviene sulle grandi ricchezze».
LE DISUGUAGLIANZE, crescenti, come la povertà, la precarietà, il disagio dei più deboli e degli anziani, sono il grande rimosso dalle politiche degli ultimi governi, «per questo sarebbe stato importante, ora che ci dicono che c’è la ripresa – prosegue la segretaria Cgil – restituire a chi ha pagato negli anni della globalizzazione».
Intanto, però, alcune acquisizioni nella manovra ci sono, ma si dovrà vigilare perché le promesse vengano realizzate: «Ci sono le risorse per i contratti pubblici – dice Camusso – ma non ci bastano gli annunci: bisogna fare i rinnovi». Lo stesso per la ricerca e le assunzioni dei precari: «Non si potranno fare se non si mettono risorse».
MANCA DEL TUTTO, secondo la Cgil, «il capitolo sanità: il Def prevede di diminuire la percentuale delle spese sul Pil. Cosa diciamo agli 11 milioni di persone che rinunciano a curarsi e ai non autosufficienti?».
Malissimo il capitolo lavoro. «Non ci sono investimenti per far crescere l’occupazione, si continua con la logica della decontribuzione – denuncia Camusso – Licenziare costa meno di attivare gli ammortizzatori». La cassa integrazione, che aveva salvato tante aziende e posti di lavoro nel picco della crisi, oggi sembra un lontano ricordo e le imprese hanno gioco facile a licenziare e riassumere con contratti precari.
«L’ARTICOLO 18 NON è un totem ideologico, come dice l’ex presidente del consiglio – dice la leader Cgil riferendosi a Renzi – è una tutela concreta che permette di superare le divisioni nei luoghi di lavoro». Il sindacato continua a ritenere che vada reintrodotto, come è scritto nella Carta universale dei diritti.
Naturale il riferimento alle tante vertenze aperte: «Amazon, Ikea, Castelfrigo, Froneri, Ideal Standard», solo per citare quelle più attuali. Camusso attacca frontalmente il colosso delle vendite sul web: «Ringraziamo i lavoratori di Amazon – dice – perché hanno squarciato il velo sulle condizioni di lavoro nella nuova economia. Se otto bianchi detengono una ricchezza pari a quella di 3,6 miliardi di persone, e uno di loro è il proprietario di Amazon, forse possiamo dire che non è obbligato a fare lavorare male la gente, ma dovremo dire con onestà che vuole arricchirsi sulle spalle di quei lavoratori».
IDENTICHE CRITICHE a Ikea, dove «i lavoratori hanno rialzato la testa: si licenzia una madre che deve accudire i suoi figli, ma non vogliamo credere che non esista un turno che le permetta di conciliare tutto». Casi che dimostrano che «il vento sta cambiando» e che «non si può discutere con i lavoratori, presi uno per uno, ma bisogna confrontarsi con il sindacato».
I conti del governo sulle pensioni non tornano, dice lo slogan delle cinque manifestazioni: «Ogni volta si annunciano platee che poi non ci sono. Per l’Ape ci era stato detto che sarebbero state accolte il 75% delle domande, e l’ultimo dato parla del 39% per la social e del 34% per i precoci». Un governo che, «se non mantiene gli impegni, perde credibilità».
MA C’È ANCHE UN messaggio per Cisl e Uil: «Non abbiamo capito come possano dire “ok così, se ne riparla alla prossima puntata», critica Camusso. Ma poi lancia un appello a «riannodare i fili»: «Stabiliamo regole comuni per verificare le vertenze, a partire dalle piattaforme». Porte aperte dalla Uil: il segretario Carmelo Barbagallo dice che è «sempre pronta la saletta unitaria, la Cgil però non prosegua in azioni solitarie».

Repubblica 3.12.17
Dalla piazza Cgil la spinta al partito del lavoro
Per dare un’identità alla sinistra si riparte dai diritti. Camusso: “Il vento sta cambiando”
di Roberto Mania

ROMA Due dicembre 1977, quasi trecentomila metalmeccanici della mitica Flm sfilano per le strade di una Roma raggelata, una svolta nella politica economica del governo monocolore democristiano, guidato da Andreotti e sostenuto anche dalla non sfiducia del Pci di Enrico Berlinguer. Ieri, due dicembre 2017, Roma è stata di nuovo attraversata da un corteo sindacale per quanto più esile e meno combattivo: quello della Cgil impegnata nella sua solitaria “vertenza pensioni” contro il governo Gentiloni, la cui maggioranza è formata dal Pd, partito erede anche del Partito comunista. Quella di ieri è stata sì la piazza rossa, per via del colore delle bandiere, dei cappellini, delle felpe, dei palloncini, degli ombrelli, degli impermeabili e dei caschi, ma pure la piazza delle coincidenze, anch’esse rosse. E di una costante: il ruolo e il peso che il sindacato italiano ha sempre avuto nelle dinamiche della politica. Quarant’anni fa, “una forza operaia immensa”, come titolò l’Unità, avviò il declino della strategia della solidarietà nazionale; ieri la Cgil dei pensionati e del lavoro frantumato non solo dalla globalizzazione, ha fatto da starter alla formazione della nuova Cosa Rossa che nascerà oggi con Pietro Grasso leader.
Coincidenze.
La Cgil non si farà assorbire dal movimento nascente, non sarà il sindacato ancillare di una forza politica destinata ad essere minoranza. Non lo era neanche del Pci e nessuno può realisticamente pensare che lo faccia nel nuovo secolo. Eppure Susanna Camusso, segretaria della Cgil, oggi ci sarà alla convention della Cosa Rossa, non solo perché invitata («andiamo dovunque ci invitano», ha detto ieri ) ma anche perché è in questa nuova sinistra (con Mdp, Sinistra italiana e Possibile) che si ritrova un comune sentire. Perché quello che nasce ha l’ambizione di essere un (nuovo?) partito del lavoro. Ed è quel che cerca da anni la Cgil dai tempi di Sergio Cofferati, capo osannato dai due milioni “rossi” del Circo Massimo del 2002.
Dunque è il lavoro che ritorna a definire le identità a sinistra, non solo per contrapporsi alle destre.
Non a caso nella piazza politica di ieri non c’era il Partito democratico, schierato con la Cisl e la Uil. Quasi un’assenza inedita per gli eredi del partito di Berlinguer. Ma d’altra parte il Jobs Act è stata la riforma più incisiva e caratterizzante del governo di Matteo Renzi; contro il Jobs Act sta nascendo la Cosa Rossa e per cancellare il Jobs Act la Cgil ha presentato il suo piano per il lavoro e la sua Carta che riscrive i diritti del lavoro. Il lavoro è lo spartiacque tra le sinistre. «L’articolo 18 - ha sostenuto Camusso dal palco di piazza del Popolo - non è un totem ideologico, come dice l’ex premier, ma è una necessità concreta per superare le divisioni nei luoghi di lavoro».
Qui si salda la strategia della Cgil con quella della nascente Cosa Rossa. In un contesto nei (nuovi) luoghi di lavoro che sta aprendo squarci imprevedibili: prima lo sciopero dei lavoratori della logistica di Amazon, poi lo scandalo del licenziamento della mamma turnista di Ikea. Come se improvvisamente all’idea del posto di lavoro a qualunque prezzo, senza diritti, senza tutele e mal pagato, si contrapponesse di nuovo pubblicamente l’idea del lavoro dignitoso e delle condizioni di lavoro rispettose dei diritti. Piccoli e timidi segnali di cambiamento dopo che qualcosa si è inceppato nella Repubblica “fondata sul lavoro”.
Come dimostra ancora la paura dei lavoratori a denunciare in pubblico con il proprio nome e il proprio volto, le regole cui sono sottoposti: dai ritmi insostenibili ai turni dettati dagli algoritmi. Da tempo, però, uno sciopero non godeva (come è accaduto invece a quello dei dipendenti Amazon) del consenso dell’opinione pubblica. Lo sciopero come risposta al sopruso e non come stanco rituale sindacale spesso a danno (nel settore dei trasporti, per esempio) dei cittadini. «Il vento sta cambiando», ha detto Camusso. «E il vento che sta cambiando ci dice - ha aggiunto che nonostante quelli che pronosticavano la fine del sindacato, il sindacato continua ad essere nei luoghi di lavoro. E di sindacato c’è bisogno».
Probabilmente vale anche per le sinistre.

Il Sole 3.12.17
La manifestazione Cgil. «Ricomporre l’unità con Cisl e Uil»
Camusso e Cinque stelle all’assalto dell’articolo 18
di Manuela Perrone

ROMA C’è un fil rouge che va dalla manifestazione Cgil di ieri ai Cinque Stelle fino al nuovo soggetto politico della sinistra guidato da Pietro Grasso, che sarà presentato oggi a Roma: la battaglia contro il Jobs Act per il ripristino dell’articolo 18. Politicamente, è il tema del lavoro che potrebbe rappresentare l’ossatura di future alleanze post-voto tra M5S e sinistra, di cui al momento non si parla (il mantra del Movimento è “correre da soli” nella speranza di diventare il primo partito e ottenere l’incarico dal presidente Mattarella), ma che aleggiano sottotraccia.
Nelle piazze di Roma, Torino, Bari, Cagliari e Palermo la mobilitazione della Cgil al grido “Pensioni, i conti non tornano” è stata scaldata dalle parole della segretaria Susanna Camusso, che sarà anche in platea all’assemblea di Mdp, Sinistra italiana e Possibile e che ha invocato una svolta su previdenza, lavoro e giovani. I mondi si mescolano: al corteo romano sfilavano Nicola Fratoianni, Stefano Fassina, Guglielmo Epifani, Alfredo D’Attorre. L’affinità è elettiva. «Rilanceremo i temi proposti della Cgil nei nostri emendamenti alla legge di bilancio alla Camera», promette Francesco Laforgia, capogruppo dei bersaniani a Montecitorio e primo firmatario della proposta di legge per il ripristino dell’articolo 18 in caso di licenziamento illegittimo e della sua estensione anche alle imprese sotto i 15 dipendenti. Nel mirino dunque finiscono sia le scelte del governo, che secondo Camusso «ha chiuso la porta alla prospettiva previdenziale dei giovani e non ha previsto soluzioni per le lavoratrici», sia il Pd di Matteo Renzi, quello che, ha sostenuto Fratoianni, «ha applicato il programma della destra, con lo Sblocca Italia, il Jobs act, la buona scuola, le scelte sui migranti».
E allora, al segretario dem che ha escluso passi indietro sull’articolo 18 «perché è un totem ideologico di una parte del sindacato», Camusso - che ha invitato Cisl e Uil a «ritessere i fili dell’unità» sindacale - ha replicato: «Non è un totem ideologico, ma una necessità concreta per superare le divisioni nei luoghi di lavoro». Se sulle pensioni si tornerà all’attacco da domani alla Camera con l’arrivo della manovra, l’assalto al Jobs Act è arma di lungo periodo da brandire in campagna elettorale.
I Cinque Stelle cavalcano l’onda, con la solita ossessione per i distinguo. «Vogliamo abolire il Jobs Act e ripristinare l’articolo 18, ma crediamo che non vada esteso alle imprese sotto i 15 dipendenti, perché in quel caso sono a conduzione familiare», ha ribadito il candidato premier Luigi Di Maio a margine del suo “rally” in Lombardia. Oggi farà tappa nel luogo simbolo del Pio Albergo Trivulzio, da cui partì Mani Pulite, poi rientrerà a Roma. Barcamenarsi non è facile. Proporre il ritorno dell’articolo 18 potrebbe far perdere consensi proprio in quel Nord produttivo che si sta cercando di conquistare a colpi di annunci di riforme fiscali choc modello Trump, sfidando il centrodestra sul suo terreno. «È dura per loro», riassume Umberto Bossi dalla Lega. «Qui la gente è concreta, vuole vederci chiaro».
Eppure il M5S continua a muoversi frenetico in più direzioni. Di Maio ha confermato l’incontro al Senato del 23 novembre, rivelato da Bloomberg, tra i grillini Carla Ruocco, Carlo Sibilia e Laura Bottici e il gotha di banche d’affari e hedge fund: investitori che gestiscono 5mila miliardi di dollari. Sibilia, archiviata la stagione delle proteste contro Bilderberg, al Sole 24 Ore tira acqua al suo mulino: «Questo incontro rientra tra quelli con gli stakeholders. Sono arrivate tante domande sul programma. E g li investitori hanno convenuto con noi sul fatto che gli altri interlocutori hanno ormai scarsa credibilità politica». La strategia è stata chiarita da Di Maio: «È importante far capire che noi siamo l’occasione di stabilità, non di instabilità, per l’Italia». L’amo ai mercati è lanciato, ma p er eventuali convergenze a sinistra dopo le elezioni torna utile la questione banche. «Surreale» per Di Maio la richiesta di scuse avanzata dal Pd: «Sono Renzi e Boschi, che hanno salvato Visco e i vertici di Consob e hanno mandato sul lastrico centinaia di migliaia di risparmiatori, che dovrebbero chiedere scusa al Paese».
Ancora più complessa la partita di Grasso. Marcare le distanze da Renzi è necessario per il tentativo di palingenesi della sinistra, che però il presidente del Senato vorrebbe allargata alla società civile, ben oltre “la Cosa Rossa”. Sarà questo progetto - insieme al suo vissuto di “ragazzo di sinistra” diventato magistrato simbolo della lotta alla mafia - che evocherà nel discorso per lanciare il “partito del lavoro”. Il nome (fino a ieri sera in pole rimaneva “Liberi e uguali”) sarà svelato oggi. Perso Giuliano Pisapia, che martedì dovrebbe chiudere l’accordo con il Pd, ancora contesa è Laura Boldrini. La speranza è comunque catalizzare i voti della galassia che si sente tradita dal Pd renziano. Ma anche di quella che ha guardato con simpatia alM5S e che adesso, come sembra dimostrare l’astensionismo in Sicilia e a Ostia, tentenna.

La Stampa 3.12.17
Un mezzo flop che annuncia il dopo-Camusso
di Fabio Martini

Una piazza freddina con la sua leader: per Susanna Camusso neppure un applauso in mezzora di intervento. Una piazza piena di palloncini rossi ma mezza vuota. Due dati che condensano il senso di un evento: la “chiamata” della Cgil contro la politica pensionistica del governo si è trasformata, nella romana piazza del Popolo, in un mezzo passo falso. La risposta del “popolo” della Cgil, che in “campo” c’è sempre, è stata però fiacca in termini di passione e di partecipazione: Camusso ha cercato più volte il calore della folla, urlando «non ci fermeranno», annunciando nuovi «cortei e scioperi» ma il tutto è caduto nel silenzio dei quindicimila partecipanti, che hanno gratificato Camusso di un solo battimani “rotondo”: quello di commiato.
Un segnale di allarme per il più grande sindacato italiano, l’unica organizzazione in tutto il Paese ancora capace di mobilitare molte migliaia di persone e di organizzarne a milioni. A Roma sono confluiti in pullman quadri e militanti delle regioni rosse e della Campania, oltreché del Lazio. Un mezzo passo falso in qualche modo preannunciato dalle discussioni, a porte chiuse, negli organismi dirigenti della Cgil. Lì dentro si è manifestata una dialettica, sia pure senza urla e col riserbo tipico di questa organizzazione, tra la segretaria (che non aveva escluso uno sciopero contro il governo) e alcune delle categorie più importanti - pensionati, chimici ed edili - che invece hanno spinto per una manifestazione che consentisse alla Cgil di incassare le concessioni dell’esecutivo, le prime importanti dalla stagione del governo Prodi.
Ma proprio questa divisione interna e l’esito non esaltante delle manifestazioni di ieri, per la prima volta preannunciano l’arrivo di una nuova stagione in Cgil: il dopo-Camusso. In termini statutari l’attuale segretaria dovrà lasciare allo scadere dell’ottavo anno di leadership, nell’autunno del 2018 e dunque nei prossimi mesi si apriranno i giochi per la nuova leadership. Non soltanto una competizione tra nomi, ma si preannuncia anche un confronto sulla linea politico-sindacale. Dal 2002 in poi - sotto la guida di Guglielmo Epifani e Susanna Camusso - la Cgil ha sposato una linea “autarchica”: scioperi e manifestazioni in solitaria. Una linea che era stata inaugurata da Sergio Cofferati ma con ben altri “numeri” e che ora, quasi 20 anni dopo, sarà chiamata ad una profonda verifica dal prossimo congresso della Cgil.

Corriere 3.12.17
Il giorno di Grasso Una carta dei valori per «Liberi e uguali»
L’assemblea della sinistra con il nuovo leader
di Monica Guerzoni

ROMA Sereno, determinato, convinto di aver fatto la scelta giusta. Con questo spirito, nella tarda mattinata di oggi, Pietro Grasso salirà sul palco dell’Atlantico Live di Roma. Per chiudere l’assemblea costituente della nuova sinistra e lanciare la sua candidatura alle Politiche, alla guida della lista unitaria che mette assieme i destini di Mdp, Sinistra italiana e Possibile.
Per Bersani, D’Alema e compagni è una cessione di sovranità che non ha precedenti nella storia del centrosinistra. Gli ex ds consegnano al presidente del Senato le chiavi della nuova «ditta», convinti che Grasso dimostrerà sul campo quella «leadership naturalmente pop», nel senso tutto positivo del termine, che il governatore Enrico Rossi gli attribuisce.
Il discorso di investitura è pronto e somiglia più una carta dei valori, che a un programma di governo. Equilibrato nei toni e del tutto privo di formule e slogan politicisti, il testo che l’ex magistrato ha scritto a Palazzo Giustiniani dopo l’approvazione della legge di Bilancio ha come capisaldi i principi e i valori fondamentali della Costituzione. Uguaglianza, giustizia, libertà, lavoro. Una traccia che spiega perché il presidente abbia alla fine scelto come nome della lista Liberi e uguali, a dispetto delle pressioni di chi avrebbe voluto un riferimento alla parola sinistra. Il dibattito interno è stato così acceso e foriero di tensioni, che la presentazione del logo è stata rimandata.
In prima fila siederanno D’Alema, Bersani e gli altri «big» fuoriusciti dal Pd. Dal palco parleranno Speranza, Fratoianni e Civati e, fra un intervento e l’altro dei leader quarantenni, il microfono passerà a una quindicina di testimonial: un giovane sindaco, i presidenti di Arci e Legambiente, l’operaia della Melegatti, il medico di Lampedusa, un rappresentante di Banca Etica. Antonio Bassolino ha accettato l’invito «con piacere». Susanna Camusso ha confermato la sua presenza. Laura Boldrini invece aspetta il via libera alla manovra prima di ufficializzare la sua scelta di campo. A sinistra, sperano nel fronte di Grasso. Dal Pd arriva il polemico «in bocca al lupo» di Matteo Orfini, spaventato per gli effetti della rottura nei collegi: «Le persone più felici saranno Berlusconi, Salvini e Grillo, non certo il proletariato». Gianni Cuperlo scrive a Speranza, Fratoianni e Civati, un ultimo appello a incollare i cocci del centrosinistra: «Non mi arrendo all’idea che la nostra metà del campo marci divisa». E anche Andrea Orlando si augura che Grasso pronunci la parola «unità».

Il Fatto 3.12.17
“Liberi e uguali” Oggi Pietro Grasso debutta da leader
Assemblea a Roma - Il presidente del Senato prende le redini della nuova lista E come primo atto tiene fuori dalla costituente “l’impresentabile” De Gaetano
di Tommaso Rodano

La nuova lista della sinistra italiana si chiamerà “Liberi e Uguali”. Tra poche ore sarà ufficiale: stamattina all’Atlantico di Roma si celebra il battesimo della creatura politica di Pietro Grasso. Ora ci sono un nome e un leader ufficiali, mentre per il simbolo probabilmente bisognerà aspettare ancora qualche settimana.
Il presidente del Senato si presenta finalmente ai partiti che gli hanno affidato i propri destini: Mdp, Possibile e Sinistra italiana (e alla platea più ampia dei possibili interessati). È il suo primo intervento da politico a tutti gli effetti, dopo una lunga carriera da magistrato e una legislatura da seconda carica dello Stato. Sarà un discorso – fanno sapere dagli uffici di palazzo Giustiniani – con una “forte impronta costituzionale”, radicale nei contenuti ma non nello stile: Grasso non vuole rinunciare al profilo di uomo delle istituzioni consolidato in questi anni.
Il nuovo leader della sinistra chiuderà l’assemblea nazionale dell’Atlantico. Parlerà per ultimo. Prima di lui, per i partiti, prenderanno la parola Roberto Speranza (Mdp), Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana) e Pippo Civati (Possibile). Ma ci sarà spazio per una serie di testimonianze da quei settori della società che la sinistra si candida a rappresentare: un operaio della Melegatti, i ricercatori precari del Cnr, un medico di Lampedusa, esponenti di Libera, Arci, Legambiente.
La “cosa”. “Liberi e Uguali” è la lista che nasce dall’accorpamento di tre partiti alla sinistra del Pd: i bersaniani e gli ex Sel che hanno fatto nascere Mdp, i vendoliani di Sinistra Italiana e Possibile, il movimento di Civati. La lunga e faticosa costituente della lista unica è iniziata prima dell’estate. La decisione di lanciare un movimento e un’assemblea comune è stata ufficializzata lo scorso 11 novembre.
Il leader. In origine doveva essere Giuliano Pisapia: l’ex sindaco di Milano aveva ricevuto l’investitura direttamente da Bersani. Il primo luglio, con una manifestazione a Roma, avevano lanciato “Insieme”, la piattaforma di lancio della lista unica. Le timidezze e i tentennamenti di Pisapia – soprattutto sul tema dei rapporti col Pd di Renzi – hanno portato alla rottura. I primi contatti con Grasso risalgono a fine settembre. Il 28, il presidente del Senato si è presentato alla festa di Mdp a Napoli e si è definito “un ragazzo di sinistra”. Ha promesso di sciogliere ufficialmente la riserva sul suo impegno politico solo dopo l’approvazione al Senato della legge di Bilancio. Ora è arrivato il momento.
Il nome. Ne sono stati vagliati molti: Italia progressista, Italia solidale, Italia di Tutti. Già a metà novembre Grasso aveva espresso la sua preferenza per “Libertà e Uguaglianza”, alla fine è stata preferita la formula “Liberi e Uguali”.
I dirigenti. Dietro al frontman Grasso ci sono i tre 40enni Speranza, Fratoianni e Civati. Più defilate – ma ancora più che influenti – le figure dei “vecchi” Bersani, D’Alema e Vendola: si vuole marcare la discontinuità con il passato (nessuno dei tre sarà sul palco questa mattina).
L’impresentabile. Tra i 1500 delegati eletti nelle scorse settimane dalle assemblee provinciali della nuova lista c’è anche Antonino De Gaetano, esponente calabrese di Mdp, imputato nel processo sulle “spese pazze” con i rimborsi regionali e in passato finito agli arresti domiciliari con l’accusa di voto di scambio. La novità è che De Gaetano questa mattina non parteciperà all’assemblea: Mdp non rilascia dichiarazioni sul suo delegato; ha pesato – evidentemente – l’intervento persuasivo di Grasso.
Gli assenti. Non ci saranno nemmeno Anna Falcone e Tomaso Montanari. Il movimento del Brancaccio in un primo tempo aveva aderito alla lista unica, poi si è ritirato, lamentando la natura tutta partitica della nuova creatura. Resta fuori anche Rifondazione comunista, guidata da Maurizio Acerbo.
Il programma. È tutto da scrivere, chiaramente, ma un segnale significativo è la partecipazione in blocco dei dirigenti della lista unica alle manifestazioni di ieri della Cgil (Susanna Camusso è ospite dell’assemblea di oggi, come gli altri segretari dei sindacati confederali). Il 7 novembre i tre partiti hanno presentato un documento comune con una bozza di programma (era stato firmato anche da Falcone e Montanari): il primo punto è la “modernità del modello sociale ed economico disegnato dalla nostra Carta costituzionale”. La prima proposta è “restituire ai lavoratori i diritti sottratti, con la legge sul Jobs Act, che va cancellata”.

La Stampa 3.12.17
A sinistra nasce Liberi e Uguali
“Con Grasso superiamo il 10%”
Il suo nome nel simbolo per i sondaggisti può far raddoppiare i voti Il Pd mette in agenda anche lo Ius soli, Pisapia pronto al sì all’alleanza
di Carlo Bertini

«Il nostro “zoccolo duro” si aggira sul sei per cento, ce lo dicono tutti i sondaggi, e con lui possiamo ottenere pure l’undici», gongola Roberto Speranza con i compagni. Sul potenziale bagaglio di voti che Piero Grasso può portare in dote al Movimento che oggi lo incoronerà leader, i sondaggisti sono scatenati. E la rilevazione piovuta sul tavolo del coordinatore di Mdp, nella sede di via Zanardelli, segna un arretramento rispetto a quelle di una settimana fa: che addirittura evocavano un potenziale 12% per la lista della sinistra unita guidata dal presidente del Senato. A dispetto del 7% che totalizzerebbero le tre sigle Mdp-SI-Possibile senza la sua mano al timone.
Per questo la personalizzazione della lista nascitura attorno al nome del nuovo leader, gioco forza, avrà sempre più importanza di qui alla primavera. E bisognerà vedere quali saranno i sondaggi dopo i primi test di Grasso leader, visto il profilo particolare con cui si affaccia nell’agone la seconda carica dello Stato.
Non sarà comunque una relazione programmatica su un progetto di governo, ma un discorso sui valori, quello che Grasso terrà oggi dopo mezzogiorno di fronte ai 1500 delegati e 1000 invitati all’assemblea costituente del nuovo movimento. Un listone il cui simbolo ancora da vidimare sarà «Liberi e uguali con Grasso Presidente»: perché il suo nome deve esserci anche se lui fa sapere di non gradire troppo. «Gli esperti dicono che c’è poco tempo per creare una connessione tra le forze che compongono questa lista e il suo leader, quindi anche se non è nel suo stile personalizzare, mettere il nome nel simbolo diventa una necessità», ammettono dal suo entourage. Non sarà una relazione programmatica perché lui vuole mantenere un profilo alto, «ci sarà un prima e un dopo lo scioglimento delle Camere», dicono i suoi, «e la seconda fase sarà certo più intensa». Anche se dai prossimi giorni verrà imbastita un’agenda densa di appuntamenti in giro per l’Italia. Sarà un discorso organizzato secondo un canovaccio preciso, che vedrà una decina di testimonial - ambiente, volontariato, aziende in crisi - portare il loro contributo; e poi il presidente del Senato salirà sul podio offrendo le sue motivazioni al mondo di centrosinistra sulla nascita di questo soggetto. Muovendosi su un terreno scivoloso, di un presidente del Senato arbitro super partes delle istanze della politica; che interpreta pure il ruolo di un capo partito che ad esempio vorrebbe l’approvazione dello Ius soli oltre che del fine vita.
E sarà proprio la calendarizzazione dello ius soli il punto di incontro tra il Pd e Pisapia: domani alla capigruppo Zanda chiederà di mettere in agenda a dicembre il biotestamento e lo ius soli. Ma se nel Pd si dà per scontato che non verrà posta la fiducia e dunque non si andrà in aula a rischiare la vita del governo, dentro Campo progressista c’è una forte dialettica: tra chi ritiene la semplice calendarizzazione dello ius soli un gesto di attenzione sufficiente; e chi vuole vedere la legge in aula prima di dare l’ok all’alleanza. Che invece, secondo il tam tam del Pd, sarà battezzata questa settimana. Mentre si fatica a trovare un punto di caduta con gli alleati centristi: che ci sia una lista con Casini non ci sono dubbi, che questa lista ospiterà pure Ap di Alfano è quasi certo ma non scontato, anche se i renziani sono sereni. La Direzione di Ap, che domani avrebbe dovuto sciogliere la riserva, salta di una settimana a causa dei contrasti interni: Maurizio Lupi vorrebbe una corsa autonoma a rischio di non fare il 3%, la Lorenzin punta sul Pd, mentre Alfano sta nel mezzo, deciso solo a non candidarsi nell’uninominale e a rischiare nei listini del proporzionale per non dare alibi ai suoi detrattori.

il manifesto 3.12.17
Dalle piazze le sirene per la sinistra
di Alfonso Gianni

Ieri il lavoro è tornato ad essere il protagonista in cinque piazze d’Italia. Il lavoro, non solo le pensioni che di una vita al e di lavoro sono il necessario e dovuto coronamento. Perché la Cgil non ha solo chiesto che si evitasse di andare in pensione a 67 anni, unici in Europa; che venissero rispettati gli accordi sottoscritti con il governo un anno fa, con nuove norme per le lavoratrici e per i giovani precari, per «rivedere», almeno, la legge Fornero. Non si è limitata ad aggiungere che bisogna cambiare la legge di bilancio, votata però già al Senato, perché essa elargisce solo sgravi e incentivi alle imprese, riservando bonus discrezionali al popolo, invece di delineare un nuovo tipo di sviluppo fondato sulla ricerca di una piena occupazione.
Ha voluto invece con una mobilitazione, geograficamente distribuita, ma sindacalmente compatta, porre davvero al centro dell’attenzione il tema lavoro, sviscerandolo e articolandolo in tutti i suoi aspetti. In particolare per quanto riguarda i giovani e le donne. Guardando alla qualità del lavoro, alle modalità e ai tempi della prestazione lavorativa, ai diritti offesi e violati ad essa connessi. Di questo hanno parlato le testimonianze e gli esempi riversati nelle piazze dai vari palchi. Il richiamo alla reintegrazione legislativa dell’articolo 18 – tutto intero, non frazioni del medesimo come qualche rappresentante di una incerta sinistra vorrebbe – ha avuto un significato tutt’altro che di routine, ma quello di riprendere in mano uno scudo contro licenziamenti ingiustificati, discriminatori e sempre più numerosi. Che peraltro, se combattuti con intelligenza e determinazione, già ora possono venire respinti da giudici capaci di trovare i sentieri stretti della giustizia in un campo pure dissestato dalla ferocia dell’offensiva neoliberista di questi anni.
Lo riconosceva ieri Maurizio Landini, proprio su questo giornale. La domanda che sorge nelle assemblee e nei cortei è una «Questa volta fate sul serio?». Una domanda semplice e terribile. Che interroga il sindacato, ma non solo. Troppi sono stati i fuochi di paglia. A volte solo flebili fiammelle immediatamente spente. La fiducia delle lavoratrici e dei lavoratori va riconquistata. E quando questa viene incrinata o persa, è cosa veramente dura. Chi ha frequentato i cortei di ieri lo ha visto e sentito. E ancor meglio nelle assemblee che li hanno preceduti. Negli sguardi attenti e preoccupati, ma mai smarriti. Nelle parole e nelle grida, determinate e ferme, ma illuminate da un senso critico che esigeva verifiche concrete. Dai palchi le e i dirigenti sindacali hanno parlato di un inizio di quella che sarà una grande vertenza. Hanno difeso l’autonomia del sindacato dai partiti e dal governo prossimo venturo, qualunque esso sia. In questo quadro acquista un senso non banale anche il tentativo ribadito di ritessere le fila con Cisl e Uil, malgrado il loro vassallaggio nei confronti dell’attuale governo.
Ma l’autonomia sarebbe parola rituale e quindi morta, se non significasse ripresa della conflittualità ad ogni livello. Nelle unità produttive, come nella logistica; sul territorio come nei vari punti che formano la catena del valore; a livello nazionale, quanto, almeno, europeo. Si tratta di ricomporre un mondo del lavoro mutato e frantumato. E il primo passo è conoscere la sua nuova morfologia. Nei nuovi processi di valorizzazione del capitale, il lavoro vivo da un lato viene mortificato nei suoi diritti o contrapposto al lavoro morto, quello incorporato nelle macchine, con cui «industria 4.0» vorrebbe sostituirlo. Dall’altro lato si annida ovunque, in ogni luogo e momento della vita quotidiana delle persone. Mai come in questa fase le paratie fra disoccupazione e occupazione, fra stabilità e precariato, fra età di lavoro e quella della pensione, sono così mobili e sottili da non essere percepibili. Su questo può basarsi la ricerca di una nuova confederalità e di una coalizione sociale che travalichi i confini organizzativi di un sindacato pur rinnovato.
Ma come non vedere come tutto ciò interroghi crudamente la politica. E come la risposta di quest’ultima più che insufficiente risulti squallida. Verrebbe quasi da dire, se non fosse per le argomentazioni appena richiamate, che l’autonomia del sindacato dai partiti è già garantita in negativo, per inconsistenza dei secondi non per succube acquiescenza del primo.
Ma allora questa mobilitazione di lavoratrici e di lavoratori, di giovani disoccupati e precari, di improbabili pensionandi e di pensionati è come un urlo che dovrebbe essere impossibile non udire. Non è solo dal sindacato che si attendono coerenti, combattive e continuative risposte. Ma dalla sinistra politica, quella che non c’è, ma di cui reclamano la ricostruzione le vene aperte di una condizione sociale abbruttita, ma non vinta, da anni di sconfitte e di crisi. Malgrado che il Censis con il suo immaginifico lessico intraveda «una vigorosa ripresa congiunturale»: un ossimoro, visto il senso negativo che solitamente viene dato a quell’ultimo aggettivo.
Ricostruire la sinistra a partire dal lavoro è impresa ancora più difficile, visto l’abisso da cui si parte. Ma è giusto pretendere almeno che alla sinistra del Pd nelle prossime imminenti elezioni si presenti una lista unitaria in totale discontinuità con le politiche degli ultimi governi, di centrodestra come di centrosinistra, denunciati ieri dalla Cgil. Il minimo sindacale, verrebbe da dire.

Repubblica 3.12.17
Bersani: "Destra regressiva è stata sottovalutata. Dobbiamo tenere alta bandiera dei nostri valori"
A Roma 1500 delegati all'assemblea della Sinistra unitaria: applausi all'arrivo di Pietro Grasso
qui

Repubblica 3.12.17
Il nuovo movimento
Grasso battezza “Liberi e uguali”
Oggi l’investitura da leader per il presidente del Senato: “ Ora i delusi dalla sinistra possono votare per noi”
di Giovanna Casadio Liana Milella

Roma «È il giorno di Grasso, da parte nostra solo un grazie » . Alla vigilia della convention di “ Liberi e uguali” – salvo ripensamenti dell’ultima ora, è il nome scelto – Pierluigi Bersani ritaglia per sé e per gli altri leader storici della sinistra il ruolo di ascoltatori. Saranno tutti in platea, senza neppure i posti assegnati. La scena stamani all’Atlantico live dell’Eur sarà tutta sua, di Piero Grasso, il presidente del Senato, che ha accettato di guidare l’avventura della nuova sinistra unita ( Mdp- Si- Possibile) alternativa al Pd di Renzi.
Mille e 500 delegati, più 150 parlamentari, 50 rappresentati degli italiani all’estero, oltre un migliaio tra richieste di accredito e invitati, tra cui spiccano i due esponenti del Labour Party e la segretaria della Cgil Susanna Camusso. Sul palco tre vele – rossa, gialla e blu, per dare il senso della partenza – e un maxischermo.
Ma che dirà stamattina Piero Grasso? Ancora ieri sera, nel suo studio a palazzo Giustiniani, giusto alle spalle del Senato, dove c’è la stanza in cui è stata firmata la Costituzione italiana, il presidente era al lavoro sul suo discorso, tra aggiunte e rifiniture. Il “ragazzo di sinistra” – che dedicherà anche un capitolo a questa sua stessa frase pronunciata a Napoli, alla festa di Mdp, ormai due mesi fa, spiegandone il senso e l’intreccio con la sua vita – lancerà una precisa parola d’ordine: « I delusi della sinistra adesso possono votare per noi».
Grasso offre questo, una «prospettiva politica per chi, oggi, non si sente più o sufficientemente rappresentato dai partiti in corsa » . Una piattaforma « per chi, in questi anni, deluso dagli uomini e dai programmi, si è allontanato dalla politica » . Il suo sarà un invito « agli elettori del centrosinistra, i più delusi di tutti, a votare per lui e per “Liberi e uguali”».
Quello di Grasso sarà un discorso ancora in equilibrio tra il suo essere tuttora il presidente del Senato, quindi una figura fortemente istituzionale, la seconda carica dello Stato che deve rispettare anche nel linguaggio il suo ruolo, e il Grasso del prossimo futuro, quello di candidato presidente del nuovo soggetto politico. Un Grasso che in questi anni, nei suoi discorsi ufficiali, non ha mai omesso di citare, accanto al rispetto della legalità e all’obbligatorio auto rigore che un uomo politico deve imporsi, le necessarie politiche di accoglienza, che lo hanno portato a spingere per il sì allo Ius soli.
Ha voluto Grasso la presenza di testimonial della società civile, proprio a significare che non si tratta di far nascere una “Cosa rossa”, bensì di rimettersi in sintonia con i cittadini. Ecco quindi sul palco, il medico di Lampedusa, Pietro Bartòlo, la vice presidente di “ Libera”, l’associazione contro le mafie, Daniela Marcone, la presidente dell’Arci, Francesca Chiavacci e quella di Legambiente Rossella Muroni, il sindaco di Cerveteri, Alessio Pascucci che ha avuto anche un attentato incendiario per le sue battaglie per l’ambiente. E poi, racconterà la sua storia una ricercatrice del Cnr. Testimone della volontà di non arrendersi sarà una operaia della Melegatti, dove i lavoratori si sono rifiutati di chiudere l’azienda mantenendo vivo il lievito madre e hanno ripreso a produrre ora pandoro e panettoni lanciando una campagna sui social. Tante storie di vita. Solo i tre giovani leader Roberto Speranza, Pippo Civati e Nicola Fratoianni prenderanno la parola tra un intervento e l’altro dei testimoni della società civile.
Nel parterre i big tutti presenti, da Bersani a Massimo D’Alema, Nichi Vendola, Guglielmo Epifani, Antonio Bassolino, Massimo Paolucci, Nico Stumpo, Francesco Laforgia, Stefano Fassina. Non ci saranno impresentabili, questo è il supplemento di attenzione di cui la nuova sinistra ha discusso ieri dopo il caso, sollevato dal Fatto quotidiano, della presenza dell’ex assessore regionale calabrese Nino De Gaetano coinvolto in un’inchiesta sui fondi regionali. A sollevare invece la “ questione Boldrini” è Pippo Civati. Il leader di Possibile le rivolge un invito: « Laura Boldrini è importante nel nostro progetto ». Ma la presidente della Camera, per ora impegnata nella sessione di Bilancio, non ha ancora deciso se candidarsi con “Liberi e uguali” o con “I progressisti” di Pisapia che stanno trattando per una coalizione con il Pd.
Appello del dem Gianni Cuperlo in una lettera aperta: « Non marciamo divisi, non posso rassegnarmi che questo accada».

Corriere 3.12.17
Camilleri e il dialogo con D’Alema: «Il futuro? Da orbo lo vedo nero»
Pubblichiamo alcuni stralci della conversazione tra l’ex premier Massimo D’Alema e lo scrittore Andrea Camilleri, tratti dal numero 6/2017 di «Italianieuropei», la rivista diretta da Peppino Caldarola, in edicola dal 20 dicembre

Massimo D’Alema « Mi ha colpito una tua dichiarazione di qualche tempo fa in cui confessi di non vederci quasi più, ma di continuare a sognare a colori. (...) In questa fase di trasformazioni molto radicali e non sempre positive nell’economia e nelle relazioni internazionali, in quest’epoca di conflitti, intolleranze, razzismi, chiusure che noi venti o trenta anni fa non avremmo immaginato più possibili, tu il futuro lo vedi a colori? C’è uno spazio per la speranza?».
Andrea Camilleri «Questo è un dilemma che mi porto dentro da un po’ di tempo a questa parte. C’è un bellissimo episodio in cui Leonardo Sciascia racconta che, verso il 1922, chiesero a un contadino completamente cieco: «Compa’, ma voi questo fascismo come lo vedete?». E lui rispose: «Cu tutto che sugnu orbo, la vio nivura». La vedo nera. Ecco, io da orbo direi, come il contadino, la vedo nera. Però nutro anche una sorta di profondissima fede nell’uomo. Credo che nei momenti peggiori venga poi il tempo in cui le qualità migliori dell’uomo riemergono. (...) Quello che però mi porto addosso in questi ultimi anni è piuttosto una specie di rimorso. Il rimorso di lasciare ai miei nipoti un’Italia con un futuro problematico. Mi sento come se la mia generazione avesse fallito nell’impegno civile. Io appartengo alla generazione che aveva venti anni quando l’Italia è stata liberata dal fascismo e sono stato educato male. Perché ai miei tempi la politica era fatta da gente come De Gasperi, Togliatti, Nenni, Sforza, Parri. Si riscopriva la politica democratica come una cosa nuova, si gioiva della possibilità di esporre liberamente le proprie idee e di confrontarsi con gli altri, che non erano nemici ma avversari. E c’era una gran voglia di rifare l’Italia. Ora, a 92 anni, sento come se mancasse un autentico slancio nel tentare di rifare l’Italia. Vorrei quindi che la mia eredità fosse presa con beneficio di inventario. Quando qualche tempo fa ho incontrato alcuni studenti di un liceo romano e abbiamo parlato di cosa è stato il fascismo, ho detto loro di non abbandonare la politica, ma di rifarla: non state ad ascoltare più noi, noi siamo già morti. Trovate parole nuove per la politica. Ridate alla politica quella “P” maiuscola che negli ultimi tempi ha perso». (...)
D’Alema «Noi siamo cresciuti in una società in cui il mondo cattolico e la sinistra avevano fatto affermare e vincere alcuni valori di solidarietà: che non ci potevano essere quelli troppo ricchi accanto a quelli troppo poveri, che le diseguaglianze andavano ridotte, che bisognava avvicinare le persone. Il logoramento di queste grandi culture democratiche ha portato al prevalere dell’individualismo».
Camilleri «Da questo individualismo mi sembra discenda la posizione che abbiamo oggi di fronte all’accoglienza, il rifiuto totale che nutriamo rispetto a questo grande e prevedibilissimo fenomeno che è l’immigrazione. Anche su questo noi italiani, che ci definiamo brava gente, facciamo un bel po’ di omissioni. Mi ricordo che, negli anni Sessanta, quando mi trovavo a Torino per lavorare alla Tv (...), ho visto con i miei occhi — allora che c’era la migrazione interna — i cartelli sui portoni che dicevano: “Non si affitta a meridionali”. E non è razzismo quello? Figurati se oggi si affitta agli iraniani, ai magrebini ecc. (...) Per qualcuno questi poveri disperati non dovrebbero mettere piede in Italia.(...) Se così si vincono le elezioni provo terrore, perché capisco quanto sia diffuso l’individualismo. Il “particulare” emerge su tutto». (...)
D’Alema «È vero che nella Chiesa c’è un animo conservatore. Però guardo anche con una certa invidia alla tensione sociale della Chiesa di Bergoglio, perché nella sinistra italiana sento poche voci che hanno la stessa sensibilità. Ma poi, cosa è diventata oggi la sinistra italiana?».
Camilleri «Mi sembra che in questo momento parlare di centrodestra e di centrosinistra sia un po’ un modo di barare al gioco. Perché il centrosinistra in realtà è centro, ed è già tanto che non sia solo destra. (...) Avevo sperato che si riuscisse in Italia a ripetere il miracolo che in Grecia fece Tsipras quando riuscì a riunire vari gruppi della sinistra. Ma la vedo difficile».
D’Alema «Non è facile, ma penso che oggi sia l’unico tentativo che vale la pena provare a fare. Perché oggi la realtà del Pd è quella di una forza che appare prigioniera di una guida personale. È diventato il partito di una persona».
Camilleri «Si adegua a una tendenza. Come il partito di Grillo è di Grillo e il partito di Berlusconi è di Berlusconi. Si è adeguato anche il Pd».
D’Alema «Bisognerebbe cercare di fare emergere in Italia una possibilità diversa. È lo sforzo di queste settimane, di questi mesi: mettere in campo una possibilità diversa. Incontro molte persone che mi dicono: datemi qualcosa per cui votare, perché altrimenti rimango a casa».
Camilleri «Per la prima volta, a 92 anni, per poter votare al referendum sono dovuto andare alla Asl, dove ho sostenuto una visita medica per avere la possibilità di farmi accompagnare in cabina da una persona di fiducia. Ho passato due visite per andare a votare. Ora, farei fatica a rifare tutta la trafila, perché non saprei onestamente per chi votare ».

il manifesto 3.12.17
Di Maio: ripristineremo l’art.18 e stop al jobs act
5 Stelle. L’annuncio a sorpresa del candidato premier il giorno dopo il licenziamento da parte dei grillini di 39 dipendenti della camera attuando proprio l’«odiata» riforma del governo
di Giuliano Santoro

«Vogliamo abolire il Jobs Act. Quanto all’articolo 18, crediamo che sotto i 15 dipendenti non serva per imprese che sono a conduzione familiare. Per il resto, vogliamo ripristinarlo». L’annuncio è arrivato ieri da Luigi Di Maio, nel corso della tappa milanese del lungo tour elettorale. Le sue parole giungono nel giorno della protesta della Cgil. E dopo che da giorni Alessandro Di Battista, in giro a presentare il suo libro e a promuovere la sua prossima nuova vita di «politico fuori dal parlamento», cita come un tormentone proprio l’abolizione dell’articolo 18 ad opera del Pd come prova che non ci sia motivo di parlare ancora di destra e sinistra.
C’è da dire che la promessa di Di Maio suona tutt’altro che scontata. Il M5S aveva rifiutato di convergere in Commissione lavoro della Camera dalla proposta delle formazioni a sinistra del Pd sull’articolo 18. Le motivazioni parevano pretestuose. I grillini si ritiravano per questioni più di posizionamento che di merito, in quella fase interessati a sfilarsi dal corteggiamento di Mdp per marcare la loro autonomia. Di Maio, oltretutto, da alcune settimane pare più intenzionato a rassicurare l’establishment che a marcare distanze. Aveva esordito, all’indomani della sua nomina a capo politico e candidato premier del M5S, lanciando l’idea dell’Italia come «smart nation», definizione analoga a quella utilizzata da Emmanuel Macron. Allo stesso Macron, peraltro, il leader 5 Stelle aveva scritto per manifestargli vicinanza circa la sua idea di Europa rinnovata. In seguito, da Washington, Di Maio si era detto interessato alla riforma fiscale di Donald Trump. Carla Ruocco, Laura Bottici e Carlo Sibilia avevano incontrato i rappresentati di alcuni dei più grossi fondi d’investimento e di banche d’affari.
C’erano Brevan Howard Asset Management, Moore Capital Management, Wellington Management Group, Bank of America e Amundi. «Ci stanno trattando come una potenziale forza di governo» ha commentato a Bloomberg Ruocco, che viene considerata una delle referenti tra i grillini sui temi economici. Sulle stesse questioni, Di Maio ha cooptato nella sua squadra Stefano Buffagni, consigliere regionale lombardo considerato in buoni rapporti con il mondo delle imprese. È lui che ha accompagnato l’aspirante premier a incontrare le associazioni di categoria di imprenditori ed esercenti del nord. Lo stesso Buffagni non ha partecipato alla corsa delle regionarie, tenutesi nei giorni scorsi: ha fatto sapere che non ha intenzione di ricandidarsi in Lombardia, pronto al salto verso il parlamento nazionale. Del resto, appena cinque giorni fa la Cgil aveva incontrato una delegazione di deputati grillini, registrando sintonie nella critica al provvedimento del governo sull’età pensionabile.
Nel «programma lavoro» approvato sulla piattaforma Rousseau nell’aprile scorso, peraltro, si menzionano la riduzione dell’orario, la democrazia sindacale e la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’azienda ma non si fa nessun riferimento all’articolo 18.
Soltanto il giorno prima dell’annuncio di Di Maio, la Federazione nazionale della stampa lamentava il licenziamento da parte dei 5 Stelle di 39 dipendenti della Camera, reso possibile proprio grazie alle norme dell’odiato Jobs Act, attaccando duramente la «doppia morale» dei grillini. Reazione altrettanto dura dal M5S, che ha invitato il sindacato dei giornalisti a occuparsi dei «giovani precari senza contratto».

il manifesto 3.12.17
Tutti per Grasso: Mdp, Si e Possibile oggi lo incoronano
Parte la Lista Unitaria. All’Atlantico di Roma arrivano 1.500 delegati per ascoltarlo Il nome più probabile per la nuova lista è: «Liberi e uguali»
di Nina Valoti

Ieri in piazza con la Cgil c’erano (quasi) tutti tranne lui. Pietro Grasso però è stato il più evocato, citato e coccolato. Oggi è il suo grande giorno: il presidente del Senato terrà a battesimo il nuovo soggetto unitario della sinistra. Al palazzetto Atlantico dell’Eur ci saranno i 1.500 delegati da tutta Italia di Mdp, Sinistra Italiana e Possibile. E ci sarà anche Susanna Camusso, sebbene solo come «ospite che risponde all’invito ricevuto».
La vera incognita è quella del nome. Fino a ieri mattina il più accreditato era «Liberi e Uguali», ma ancora ieri sera Grasso stava vagliando altre ipotesi come «Italia di tutti» con sotto la scritta «con Grasso presidente» e come possibile simbolo una rosa rossa.
Stando alla scaletta che è stata perfezionata fino a tarda notte, sono una quindicina gli interventi di testimonianza iniziali, inframmezzati in ordine sparso da quelli dei segretari o portavoce dei tre partiti che l’11 novembre lanciarono con una lettera aperta il percorso che oggi si concretizza: Pippo Civati, Nicola Fratoianni e Roberto Speranza. A Pietro Grasso sono affidate le conclusioni. Il presidente del Senato, infatti, come aveva annunciato, scioglierà la riserva ora che la legge di bilancio ha incassato il primo «Sì» a palazzo Madama. E dunque può considerare ultimato il suo ruolo super partes istituzionale.
L’obiettivo invece è certo: lanciare una nuova proposta elettorale, una lista per le prossime elezioni politiche. La condizione posta da Grasso negli incontri di questi giorni era quella di «non fare una cosa rossa» e le ultime mosse si muovono in questa direzione.
A metà dicembre poi si teranno le assemblee sul territorio per definire il programma e sui punti fondamentali della prossima campagna elettorale.
Se su eventuali sorprese sui partecipanti la consegna è quella del silenzio, di sicuro non ci sarà la terza carica dello Stato, Laura Boldrini. Impegnata alla Camera per Montecitorio a porte aperte, la presidente ha già fatto sapere che le sue scelte politiche saranno rese note solo dopo che i deputati avranno licenziato la legge di bilancio. Molti sperano ancora che anche lei faccia parte della nuova avventura. Lo scorso 12 novembre infatti all’assemblea di Campo Progressista con Giuliano Pisapia, la Boldrini fece il pieno di applausi quando sottolineò che «allo stato attuale non ci sono le condizioni per una coalizione con il Pd».
Mdp, Si e Possibile non hanno nessuna intenzione di tirare per la giacchetta la terza carica dello Stato, cosi’ come non lo hanno fatto con il presidente Grasso. Le porte sono, tuttavia , aperte ed il dialogo non è chiuso. Civati sottolinea: «Il nostro a Laura Boldrini è un invito politico di grande valore e significato».
Dal Pd arrivano solo accuse, l’unico a cercare di tenere aperto un dialogo è Gianni Cuperlo che con una lettera aperta a Fratoianni, Speranza, Civati, scrive: «Non marciamo divisi».
La risposta di Fratoianni è secca: «Noi presentiamo una nuova proposta che ha il coraggio del cambiamento. Da domani siamo in campo per dire che si può cambiare e si deve cambiare».
Gran parte di chi era al teatro Brancaccio il 18 giugno oggi non ci sarà. Se la coppia Tomaso Montanari e Anna Falcone ha deciso di non partecipare alle elezioni, una lista certamente la presenterà Rifondazione Comunista. «Faremo una lista antiliberista» – annuncia il segretario Maurizio Acerbo – . Abbiamo lavorato per mesi nel percorso del Brancaccio per costruire un vasto schieramento capace di parlare a milioni di persone che non vanno più a votare o sono state dalla rabbia spinte verso il M5S. Purtroppo Mdp, Sinistra Italiana e Possibile hanno preferito un accordo di vertice», conclude amaro.

Il Fatto 3.12.17
Le 10 domande – Quello che Renzi e Boschi devono dire su Etruria&C.
Dai tempi della riforma delle Popolari alle riunioni a casa del papà della ministra; da Mps che “è un affare” all’anno buttato aspettando il referendum
di Stefano Feltri

Per Matteo Renzi e Maria Elena Boschi la questione banca Etruria è chiusa con la testimonianza in commissione banche di giovedì del procuratore di Arezzo Roberto Rossi: è stata tutta colpa della Banca d’Italia. Ma ci sono ancora dieci domande alle quali la coppia renziana dovrebbe rispondere.
1. Renzi & Boschi. Tra il 3 gennaio e il 9 febbraio 2015 le azioni di Banca Etruria, allora quotata, sono salite del 57 per cento, come se qualcuno avesse saputo che anche quell’istituto sarebbe stato toccato dalla riforma delle Popolari approvata il 16 gennaio. Lei, Boschi, ne ha parlato con qualcuno, magari in famiglia? E lei, Renzi? Che cosa ha raccontato al procuratore di Roma Pignatone quando l’ha ascoltata in merito agli investimenti di Carlo De Benedetti, che sulle Popolari ha fatto 600 mila euro di plusvalenze grazie a un formidabile intuito o a qualche informazione privilegiata?

2. Renzi & Boschi. Vi siete tanto entusiasmati per le dichiarazioni del procuratore Rossi in Commissione banche, così funzionali alla vostra linea di difesa (cioè: è tutta colpa della Banca d’Italia). Non trovate che le parole di Rossi potrebbero essere condizionate dall’essere stato consulente del vostro governo fino al 31 dicembre 2015, proprio mentre indagava su Banca Etruria e su Pier Luigi Boschi?

3. Boschi. A che titolo lei, da ministro delle Riforme, partecipava a vertici tra banchieri nella sua casa di famiglia di Laterina, ad Arezzo? Come nel marzo del 2014 quando lì si sono riuniti l’allora presidente di Etruria, Giuseppe Fornasari, suo padre Pier Luigi, membro del cda, Flavio Trinca e Vincenzo Consoli, a capo di Veneto Banca, per discutere delle pressioni della Banca d’Italia su una fusione con Popolare di Vicenza. Lei conosceva quindi le reali condizioni dell’istituto in cui lavoravano suo padre e suo fratello, ha condiviso queste informazioni con i suoi colleghi di governo?

4. Boschi. A che titolo lei, priva di delega sui temi bancari, a inizio 2015 ha chiesto all’ad di Unicredit Federico Ghizzoni di intervenire per salvare Etruria, a poche settimane dal commissariamento richiesto dalla Banca d’Italia? Se non ha nulla da nascondere, sottosegretario Boschi, perché non chiede di essere audita dalla Commissione banche?

5. Renzi & Boschi. Perché il vostro governo ha atteso fino al novembre del 2015 per recepire la direttiva europea sul risparmio “con oltre dieci mesi di ritardo sul termine previsto di inizio 2015”, come osservò l’agenzia Reuters? Dieci giorni dopo l’approvazione, avete dovuto usare quelle norme per azzerare azioni e obbligazioni subordinate di quattro banche, tra cui Etruria. Se aveste rispettato i tempi, molti risparmiatori avrebbero saputo per tempo che il loro investimento era diventato più rischioso. Cosa rispondete alle loro giuste lamentele?

6. Renzi. Il 22 gennaio 2016 a proposito del Monte dei Paschi, lei dichiarava: “Oggi la banca è risanata e investire è un affare. Su Mps si è abbattuta la speculazione ma è un bell’affare, ha attraversato vicissitudini pazzesche ma oggi è risanata, è un bel brand”. Da allora il valore delle azioni della banca è crollato, poi è stata sospesa dalla Borsa e alla fine ha avuto bisogno di un intervento pubblico da 5,4 miliardi. Per quali ragioni lei ha dato un’informazione chiaramente falsa e fuorviante agli investitori?

7. Renzi. A che titolo lei ha deciso il cambio di amministratore delegato di Mps quando questa ancora era una banca privata? Nell’estate del 2016, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan comunicò al presidente di Mps, Massimo Tononi, che al posto di Giuseppe Viola doveva arrivare Marco Morelli, garante di un piano di ricapitalizzazione di mercato curato da Jp Morgan che poi è fallito. Padoan disse a Tononi: “Io adesso sto parlando a nome del presidente del Consiglio”.

8. Renzi & Boschi. Il governo Gentiloni giura al Quirinale il 12 dicembre 2016 e il 19 dicembre deve approvare un pacchetto di misure di intervento pubblico sul settore bancario da 20 miliardi, soprattutto per finanziare il salvataggio di quello che resta di Veneto Banca e Popolare di Vicenza, oltreché di Mps. Perché avete fatto incancrenire i problemi invece di affrontarli durante la campagna referendaria? Il timore di perdere consensi era tale da mettere a rischio la tenuta del sistema bancario e i risparmi di migliaia di italiani?

9. Renzi & Boschi. Avete attaccato spesso il governatore di Bankitalia Visco. Perché non avete mai proposto una riforma dei poteri di vigilanza bancaria o della Consob che si occupa della Borsa?

10. Renzi. Come emerso in molti retroscena di queste settimane, mai smentiti dall’interessato, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco aveva comunicato da mesi al Quirinale e a Palazzo Chigi di non essere interessato a un secondo mandato. Poi è arrivata la mozione del Pd da lei ispirata che ne chiedeva la testa e, solo a quel punto, la riconferma di Visco è diventata inevitabile perché Quirinale, Bce e premier non potevano lasciare che un segretario di partito decidesse da solo il vertice di una Banca centrale indipendente. Si è trattato di una colossale ingenuità o di un atto di cinismo, perché a lei serviva un capro espiatorio a cui attribuire tutte le responsabilità dei disastri bancari, anche quelle del suo governo?

Repubblica 3.12.17
Le elezioni e il fantasma del governo impossibile
di Eugenio Scalfari

Scrivo da tempo che il problema più grave del nostro Paese è l’ingovernabilità: tre aree politiche maggiori che oscillano ciascuna attorno a un terzo dei voti disponibili, di fronte a una massa di astensioni mediamente arrivate al 40 per cento, anche al 50 per cento e oltre in alcune occasioni e in alcuni luoghi.
Questo problema rimane e non si vede il modo per superarlo. Uno dei tre partiti, il Movimento 5 Stelle, non può fare alleanze con altri perché le regole previste da Beppe Grillo lo escludono. Un altro, il Pd, vorrebbe riassorbire la sua sinistra dissidente che sarà d’ora in avanti un partito presieduto da Pietro Grasso, ancora presidente del Senato e che tale rimarrà fino a gennaio cioè tra un mese quando avrà termine la legislatura. Infine il raggruppamento di destra, formato da tre partiti: Forza Italia di Berlusconi, la Lega di Salvini e i Fratelli d’Italia di Meloni. Questi tre partiti sommati insieme arrivano — secondo gli attuali sondaggi — al 35 per cento.
Alleanze tra queste tre forze politiche maggiori sono dunque impossibili. A guardar bene la sola praticabile potrebbe essere quella tra un Pd che non sarà riuscito a riassorbire i dissidenti e Forza Italia purché si separi da Salvini. Berlusconi però è un appestato, politicamente e giudiziariamente parlando. In realtà appestati son tutti, ma lui lo è al massimo grado, senonché la destra, da lui in gran parte rappresentata, raccoglie la maggioranza dei voti.
Soprattutto dalla Lega di Salvini e dal partito di Meloni. Quand’anche quella ipotesi (Pd e Forza Italia) si verificasse l’ingovernabilità resterebbe e dunque, in queste condizioni, è del tutto inutile oltre che estremamente scomoda. Avverrà in tal caso il proseguimento dell’attuale governo Gentiloni, opportunamente rimaneggiato e mantenuto in carica dal presidente Mattarella come governo di ordinaria amministrazione, come un tempo furono Mario Monti ed Enrico Letta e perfino Renzi, nominati tutti e tre da Giorgio Napolitano.
Quanto potrà durare un Gentiloni prorogato? Forse un mese o forse un anno e poi di nuovo elezioni? È un futuro del tutto incerto, le ipotesi si intrecciano e si escludono a vicenda. Molto dipende anche dalle forze sociali e dall’andamento dell’economia; in tal caso tuttavia l’ingovernabilità dell’Italia si aggiungerà a quella di gran parte dell’Europa, a cominciare dalla Germania e dalla Spagna. Ma si estende perfino all’Inghilterra, a Trump e alle due Coree. Mezzo mondo, o se volete tutto il mondo democratico, ivi compresa l’Africa del Sud e il Sud America brasiliano e quello caraibico. Infine il Medio Oriente sconvolto da guerre e dal terrorismo dell’Isis che si infiltra ormai nelle periferie del mondo intero.
Dell’Africa non parliamo neppure: Mugabe a parte, l’Africa intera è un caos politico ma al tempo stesso è il continente più giovane di tutti, potenzialmente capace di un elevato sviluppo economico e di bloccare le migrazioni attirando tecnologie e capitali adeguati dall’Europa e soprattutto dall’Italia ( piano Minniti) e perfino dagli Stati Uniti d’America.
C’è però, accanto a questo problema che rafforza il tema dell’ingovernabilità, un altro argomento di analoga importanza che riguarda soprattutto i governi, in Italia in particolare.
« Un’Italia dei rancori —** * così ha scritto ieri sul nostro giornale Guido Crainz — ci balza incontro dalle pagine del rapporto Censis, quasi a contrasto con una ripartenza del paese che pure viene segnalata. Questo fenomeno incrina drasticamente la coesione sociale: la sensazione sempre più drammatica che i figli non vivranno meglio dei loro padri, tutto al contrario (ed era stato questo invece il cemento solido dei primi decenni della nostra storia repubblicana). Un paese incapace di offrire realmente pari opportunità di lavoro e al tempo stesso segnato dal drastico ridursi dei giovani, con in più il rischio che il lavoro dequalificato diventi per loro una gabbia duratura. A questo bisogna aggiungere una diminuzione della popolazione sempre meno bilanciata dall’afflusso di immigrati. Eppure i segni positivi sono indubbi: una crescita del Pil che supera le angustie dello “zero virgola” dell’ultimo biennio; una produzione industriale ai più alti livelli europei e un’occupazione che sta realmente aumentando. Si aggiunga poi una crescita dei consumi che sembra talora una “compensazione” del persistente blocco dell’ascesa sociale. In questo complesso e contraddittorio quadro è impossibile ricostruire un reale futuro senza un progetto convincente e un immaginario collettivo coerente con esso, ma i dati che vengono proposti confermano la sfiducia dilagante nella politica e nel ceto politico; a influire sull’immaginario non è più quello che si chiamò “ miracolo economico” dei nostri anni Sessanta. Di qui la radicalità delle scelte che sarebbero necessarie su tutti i terreni per invertire realmente la rotta e proprio l’attenzione del Censis sia agli elementi di ritrovata vitalità sia a quelli di drammatica fragilità ce ne fa comprendere l’assoluta urgenza».
Fin qui Crainz e il Censis da lui citato. Il tema principale che emerge da questa diagnosi è quello dei giovani. Abbiamo già constatato che stanno peggio dei padri e molto peggio dei nonni che vissero ai tempi del “ miracolo economico”. Vari autori collaborarono a quel “ miracolo” a partire dalla metà degli anni Cinquanta del Novecento, ma l’autore principale fu il governatore della Banca d’Italia Guido Carli e poi i suoi successori Paolo Baffi e soprattutto Carlo Azeglio Ciampi. Non a caso oggi Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea (Bce) somiglia molto ai predecessori sopra citati e sta lavorando non solo per l’Italia ma per l’Europa con esito positivo. La sua politica monetaria e la politica economica che ne deriva sono ampiamente costruttive rispetto alla debolezza ed anzi all’assenza d’una politica europea. Non solo sul piano economico ma anche su quello politico e sociale: rigore contro flessibilità, nazionalismo contro europeismo, ingovernabilità contro stabilità. C’è soltanto Macron che regge il timone rafforzando la Francia con i poteri che ha sull’Europa per quanto possibile (poco).
Macron da un lato, Draghi dall’altro. Sul piano economico Macron non è in grado di operare in chiave europea mentre Draghi opera non soltanto sull’economia ma anche su una visione politica: l’Eurozona come cuore dell’Europa politica ed economica. Purtroppo nell’Eurozona ci sono anche la Spagna che sembra tuttavia in grado di placare la rivoluzione dell’indipendenza catalana e la Germania che invece è ancora lontana dall’aver superato la sconfitta elettorale di Merkel e quello che ne è seguito.
Draghi e Macron, come abbiamo già detto, sono i punti centrali per salvare una visione dell’Europa unita. Avrebbero bisogno di un’Italia politicamente stabile e governabile, d’un Renzi che si ponga come il collaboratore del rafforzamento europeo. Purtroppo Renzi sembra assai meno innovativo se non addirittura incapace di inventare un progetto e tanto meno di collaborare alla sua esecuzione. Una vera e operante classe dirigente c’è nel partito e nel governo: Veltroni, Franceschini, Minniti, Orlando, Calenda, Fassino, Delrio e molti altri. Ma Renzi non li riconosce come classe dirigente, talvolta si avvale dell’uno o dell’altro ma poi li mette in disparte, se ne dimentica, una classe dirigente mobilitata in permanenza, la disconosce. Questo è il vero guaio per l’Italia ed anche per l’Europa ma lui, Renzi, non sembra rendersene conto: il fascino di comandare da solo lo possiede, è il suo modo di pensare ed è anche un malanno per lui e per il partito da lui guidato.
Quanto alla sinistra dissidente, che ormai si fregia come bandiera di Pietro Grasso, ancora presidente del Senato, non è interessata a nessuno dei temi che abbiamo fin qui esaminato. Vuole soltanto che esista un partito nuovo, creato tuttavia da persone politicamente assai vecchie. D’Alema è il più vecchio di tutti, ma anche Bersani non scherza e Vendola neppure. Hanno un progetto politico di respiro nazionale ed europeo? Non sembra, non l’hanno ancora coniato ma se lo avessero immaginato sarebbero poi in grado di attuarlo? Con chi? Qual è la loro classe dirigente? Civati? Sarebbe il migliore ma è uno solo. Il loro obiettivo è unico: far fuori Renzi. Ho definito domenica scorsa una lite tra comari. Lo ripeto: così sembra e purtroppo così è.
Post scriptum. Debbo * p*u* rtroppo chiarire una mia frase, scritta e detta in una trasmissione televisiva: « La politica e la morale sono due entità in certi casi contrapposte ma in altri stanno invece insieme». E cito in proposito Platone e Aristotele. Però non sono stato evidentemente chiaro e di conseguenza non compreso, perciò mi spiegherò ora con maggiore chiarezza. La politica è il governo dei pochi che hanno come compito quello di fare il bene dei molti, cioè di quelli che sono il popolo. La morale invece si può anche definire la visione della politica o, se volete, l’ideologia di quella politica. Il bene degli altri per i fratelli Rosselli era definito Giustizia e Libertà. Per Marx era il superamento (ma non l’abolizione) delle libertà borghesi e la rivoluzione del proletariato il quale doveva instaurare un regime comunista che, era la parola d’ordine, doveva far lavorare tutti abolendo la proprietà privata dei beni. La proprietà doveva passare allo Stato che si limitava a garantire il bene del popolo. Quando questa operazione fosse stata portata a termine lo Stato sarebbe stato di fatto abolito, limitandosi a far funzionare quel sistema di totale libertà. Questo tipo di regime comunista avrebbe dovuto gradualmente estendersi a tutto il mondo e a quel punto la pace e il benessere sarebbero stati mondiali. Potrei fare altri esempi ma questi mi sembrano ampiamente sufficienti e così lo ripeto e concludo: la politica si occupa di instaurare governi destinati al bene del popolo; la morale invece è la visione ideologica di quel bene e spera che la politica lo attui. Alle volte la visione è molto utile, altre volte è tardiva e contrastante con il compito della politica.
Spero che queste due parole siano state sufficientemente chiarite. La speranza è che politica e morale siano in pieno accordo. A volte capita e a volte no.

Il Fatto 3.12.17
Nessun anatema su Twitter ferma la rabbia sociale
di Antonio Padellaro

“Io vado parlando da anni di ‘democrazia recitativa’, ossia di una finta rappresentazione dove il popolo non decide mai”.
In un testo dal titolo: “I giovani infelici”, scritto nei primi giorni del 1975 (l’anno del suo assassinio), Pier Paolo Pasolini osservava tra l’altro: “Non c’è gruppo di ragazzi, incontrato per strada, che non potrebbe essere un gruppo di criminali. Essi non hanno nessuna luce negli occhi: i lineamenti sono lineamenti contraffatti di automi, senza che niente di personale li caratterizzi da dentro (…) Sono regrediti – sotto l’aspetto esteriore di una maggiore educazione scolastica e di una migliorata condizione di vita – a una rozzezza primitiva. Se da una parte parlano meglio, ossia hanno assimilato il degradante italiano medio – dall’altra sono quasi afasici: parlano vecchi dialetti incomprensibili, o addirittura tacciono, lanciando ogni tanto urli gutturali e interiezioni tutte di carattere osceno”.
Forse se fosse ancora vivo, Pasolini avrebbe potuto aggiornare il ritratto antropologico dei “giovani infelici” osservando in quel video i ragazzotti naziskin del Veneto Fronte Skinheads mentre occupano a Como la sede del gruppo di volontari pro migranti e leggono il triste proclama sulla “patria rovinata” dall’“invasione” degli extracomunitari. Forse lo scrittore avrebbe colto in quei volti gli stessi “lineamenti contraffatti di automi”, dei giovani di quarant’anni fa, “senza che niente di personale li caratterizzi da dentro”.
Ma, sicuramente, Pasolini avrebbe affrontato le domande che, nella ovvia esecrazione generale per il gesto violento, in troppi evitano di porsi. Chi sono davvero costoro? Da quale regressione culturale e sociale provengono?
Ecco: la “democrazia declamatoria” di cui parla lo storico Gentile consiste anche nel coro stentoreo dell’indignazione politica via tweet (e guai a chi non strilla abbastanza). Si processano cioè gli effetti mentre sulle cause che li hanno prodotti, i medesimi esponenti di partito preferiscono nascondere le loro chilometriche code di paglia. Basterebbe, per esempio, che leggessero con attenzione (e capissero) l’ultimo rapporto Censis, là dove si segnala la crescita costante del rancore sociale, della rabbia di chi si sente escluso, di chi è rimasto indietro. E di chi percorrendo la scala sociale in una sola direzione, quella in discesa, scarica le paure contro immigrati, “negri”, zingari, i nuovi appestati a cui dare la caccia. Loro e i volontari che li aiutano, la colonna infame del Terzo millennio.
Il dramma, sostiene Gentile, “è che è venuta meno la passione della democrazia come forma di convivenza”, e per questo “si finisce per accettare ogni sorta di malattia infettiva, anche quelle che scatenano aggressività e violenza”.
E mentre le sigle della galassia nera si moltiplicano (e raccolgono sempre più voti come CasaPound a Ostia) chi avrebbe dovuto asciugare l’acqua dove l’eversione razzista alligna, cominciando a dare qualche risposta concreta alla generazione “infelice” dei senza futuro, si accontenta di lanciare anatemi dal divano di casa.

Il Fatto 3.12.17
Franceschini cede musei e arte di Ravenna senza gara ai privati
Lo Stato si ritira - Dalla Basilica Sant’Apollinare in Classe al Mausoleo, dal Palazzo di Teodorico al Battistero, si prende tutto “Ravvennatica”
Franceschini cede musei e arte di Ravenna senza gara ai privati
di Vittorio Emiliani

A Ravenna, dove nacque e si formò lo storico dell’arte e archeologo Corrado Ricci, creatore nel 1907 della rete nazionale di Soprintendenze statali, lo Stato non c’è più. Al suo posto subentra, per i monumenti ravennati, il Comune. Che però lascia subito il posto alla Fondazione privata Ravennantica, fondata dall’attuale assessora comunale alla Cultura, Elsa Signorino, che l’ha presieduta fino a due anni fa.
Il ministro Dario Franceschini a Ravenna ha battezzato quel trasferimento imponente di beni e di funzioni: anzitutto la Basilica di Sant’Apollinare in Classe “gallina dalle uova d’oro” con circa 650.000 euro di ingressi. Per la verità Comune e Ravennantica sarebbero stati ben lieti di ricevere dal ministero solo questa visitatissima Basilica. Ma Franceschini non poteva far loro un favore tanto sfacciato. E ora, dove troverà il Comune personale e risorse? Non si sa. Il parco di monumenti trasferiti è di proporzioni tali da suonare come l’anticipo di una mini-riforma che pasticcia ancor più la caotica riforma generale: la municipalizzazione cioè, a pezzi e bocconi, della valorizzazione (scissa dalla tutela) del patrimonio storico-artistico dello Stato e il suo successivo trasferimento a Fondazioni private locali. Un banchetto di proporzioni gigantesche che rischia di trasformare i siti culturali in altrettante Pro Loco più moderne e ambiziose. Al Museo Egizio di Torino, il più privatizzato d’Italia, non si è tenuta forse, fra mummie e sarcofaghi, una serata di Zumba? Qui avremo una gara di liscio, magari di massa.
Oltre a Sant’Apollinare in Classe vengono trasferiti il Museo Tamo sul mosaico, il Mausoleo e il cosiddetto Palazzo di Teodorico, il Museo Nazionale di Ravenna (con la più bella raccolta italiana di icone bizantine e i magnifici affreschi di Santa Chiara), il Battistero degli Ariani, la Cripta Rasponi, le Domus dei Tappeti di pietra e altro ancora. Il tutto senza alcuna gara d’appalto per i servizi di caffetteria, libreria, guide, ecc. Possibile? Sì secondo la direttiva Ue 2014/24, “gli Stati membri, anziché affidare a terzi o esternalizzare la prestazione dei servizi, possono prestare o organizzare i medesimi con strumenti diversi dagli appalti pubblici.” Specie se si tratta “di cooperare con altre autorità pubbliche”.
Non basta. Secondo la convenzione franceschiniana, anche il Codice dei contratti pubblici, per assicurare la fruizione del patrimonio culturale, prevede che il ministero “possa attivare forme speciali di partenariato con soggetti pubblici e privati (…) attraverso procedure semplificate di individuazione del partner privato”. In un Paese di poteri e clientele locali inossidabili, quanti pasticci saranno possibili con le “semplificazioni”, quanti scadimenti di qualità. In nome, s’intende, della “valorizzazione” del bene culturale da sempre in cima ai pensieri di Matteo Renzi nemico dichiarato delle Soprintendenze da lui definite insopportabili “poteri monocratici” che non rispondono al volere degli “eletti dal popolo”.
Ma, prima, le cose funzionavano così male? Per la verità no. Le Soprintendenze (allora non c’era ancora quella Unica voluta da Franceschini) esercitavano la tutela e una cooperativa di giovani storici dell’arte e archeologi assicurava con un ticket di 10 euro la visita guidata a otto siti artistici della città (d’estate fino alle 23) e, poiché essa lavorava costi-ricavi, i profitti trasferiti allo Stato per manutenzioni e restauri erano ogni anno ingenti.
Ma le cose chiare e semplici, si sa, in Italia non hanno fortuna. Il Consiglio di Stato discute i ricorsi dopodomani. Vedremo. Ma il dato politico di fondo in ogni caso resta: la Soprintendenza quasi scompare. Con buona pace di Corrado Ricci e della tutela.

La Stampa TuttoLibri 2.12.17
Caporetto, fatale la forza nemica non lo sciopero dei soldati italiani
Un’analisi della clamorosa disfatta della Grande Guerra tra documenti militari e testimonianze di scrittori in trincea
di Giovanni De Luna

Nella guerra italiana, il 1917 fu segnato dalla gravissima sconfitta militare di Caporetto. Con un’offensiva cominciata il 24 ottobre, le truppe austrotedesche dilagarono in profondità per 150 chilometri verso la pianura padana, in una travolgente avanzata che si arrestò soltanto sulla linea del fiume Piave. Caporetto fu una sconfitta militare ma anche una catastrofe dalla enorme portata simbolica. E ancor oggi quella battaglia emoziona, divide, indigna. Alessandro Barbero ha scelto il suo ultimo libro (Caporetto) per confrontarsi con tutti gli interrogativi che si addensano su una delle più clamorose disfatte italiane, proponendone una sorta di anatomia – fredda e distaccata- senza negarsi una forte simpatia umana verso alcuni dei suoi protagonisti. Lo ha fatto attingendo ad alcuni classici della storiografia militare (Pieri, Rochat), agli atti della Commissione parlamentare di inchiesta, che su Caporetto indagò già nel gennaio 1918, e incrociando le fonti italiane con quelle nemiche: una pluralità di voci, alcune segnate dall’immediatezza e della spontaneità della cultura popolare, altre lasciateci da grandi scrittori (Gadda, Comisso, etc…) che- queste ultime in particolare - ci aiutano a capire il passaggio dall’incanto di una guerra fortemente voluta al disincanto di una guerra stolida, combattuta senza slanci e con una rassegnata apatia.
Barbero descrive accuratamente i piani austro tedeschi per sfondare il fronte nella zona di Plezzo e Tolmino, la colpevole incredulità dei comandi italiani di fronte alle dettagliate informazioni ottenute dai disertori; ci informa sul numero delle divisioni impiegate e dei pezzi di artiglieria dislocati sul campo di battaglia, ci accompagna in una ricognizione puntuale del terreno, delle singole montagne e dei fondovalle. E ci offre una cronologia dello scontro, ora, per ora, assalto dopo assalto, a partire dalle 2 del mattino, quando cominciarono i primi tiri di artiglieria austriaci. Un simile approccio analitico gli consente di ottenere alcuni risultati interpretativi che fanno giustizia di molti luoghi comuni, come ad esempio, quelli sul comportamento delle nostre truppe, a lungo descritte come incapaci di battersi. Proprio il comandante del nostro esercito, Luigi Cadorna, a suo tempo indicò la causa di Caporetto nella «propaganda disfattista» e nel comportamento dei soldati della II Armata («vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico»), accusandoli di aver messo in atto una sorta di sciopero militare. E anche la Commissione parlamentare segnalò l’esistenza di una vera «armata di fuori legge» tra disertori, latitanti, renitenti alla chiamata. In realtà, spiega Barbero, si trattò soprattutto del successo strepitoso ottenuto dalla tattica di infiltrazione adottata dal nemico: i capisaldi italiani erano fortificati e furono molto ben difesi dalle nostre truppe, non così i varchi che erano stati lasciati tra l’uno e l’altro; aggirando i capisaldi, in quei varchi si infilò il nemico che ignorò i focolai di resistenza, lasciandoli in pace, salvo poi accerchiarli alle spalle cogliendoli di sorpresa e costringendoli alla resa. Furono trecentomila i prigionieri italiani alla fine della battaglia!
Anche per quanto riguarda il ruolo del «generalissimo» Cadorna, Barbero, senza demonizzarlo, insiste su un aspetto decisivo, sottolineando i guasti provocati da uno dei concetti tattici basilari adottati dal Comando italiano nei primi anni di guerra: l’impiego dei medesimi reparti fino al conseguimento del risultato utile; i soldati dovevano sapere che per loro non ci sarebbe stato riposo o avvicendamento fino a quando non avessero eseguito la propria missione. Le conseguenze di questo criterio erano gravissime: una disponibilità ridottissima di uomini freschi al momento dell’attacco, un clima di sfiducia e di esasperazione, che giustificava atti di eroismo individuale ma anche una sorta di sfiduciata apatia, una ripetizione meccanica e ossessiva degli attacchi, una disperata volontà di auto annientamento. Il tutto in un quadro di pesante repressione, con un regime disciplinare che, rinunciando a priori a stimolare ogni forma di consenso attivo da parte dei soldati, puntava a ottenere soltanto un’obbedienza cieca e immediata.
Nel racconto di Barbero Caporetto è stata anche una pagina importante di una italianissima «autobiografia della nazione». Non ci furono solo errori militari in quella sconfitta. Analizzando l’entourage di Cadorna, il libro descrive un mondo fondato su cerchie familiari, clientele, appartenenze massoniche, cooptazioni e dilaniato da conflitti intestini tra generali, in competizione per il grado, l’anzianità, la pensione. Emerge così una tara genetica delle classi dirigenti dell’Italia liberale, asfittiche, rinchiuse nei riti di una casta statica e inamovibile, di lì a poco destinate, per il loro immobilismo, a soccombere nei confronti del fascismo.

Corriere 3.12.17
«In India non si muore di fame Ma per lo spreco delle risorse»
di Gabriele Principato

Uzmi, reporter di un paradosso: cibo abbondante, non riusciamo a distribuirlo
«Sono oltre 194 milioni le persone che soffrono la fame in India. Eppure, alcuni mesi fa, in un villaggio nel Nord del Paese, nell’Uttar Pradesh, ho visto dei contadini buttare via una grande quantità di sacchi di grano. Quando ho chiesto il perché, mi hanno risposto che stavano arrivando quelli del nuovo raccolto e bisognava fare spazio per conservarli. E a questa scena si può assistere quotidianamente».
Uzmi Athar, 27 anni, è una giornalista della Press Trust of India (PTI) di New Delhi, la principale agenzia di stampa indiana, e si occupa di tematiche legate allo sviluppo rurale. Lei è anche uno dei finalisti del Food Media Award, creato dalla Fondazione Barilla Center for Food & Nutrition per dare un riconoscimento ai media internazionali impegnati ad approfondire il rapporto fra cibo e sostenibilità.
«Molto spesso si pensa all’India come a un Paese povero. Ma questa è una percezione errata», spiega. «Ha la seconda più grande popolazione del mondo, con 1,25 miliardi di bocche di cui oltre il 15 per cento è denutrito, eppure la sua è una delle economie in più rapida crescita del Pianeta e produce oltre 15 milioni di tonnellate di grano alimentare in eccesso, abbastanza da sfamare tutti».
Questo paradosso è al centro dell’articolo «Food Loss», fra i tre lavori finalisti per la categoria unpublished del riconoscimento promosso dalla Fondazione Barilla, la cui cerimonia di premiazione si terrà domani nel corso del all’ottavo Forum Internazionale su Alimentazione e Nutrizione a Milano.
«È necessario cambiare l’idea comune della fame in India e uscire da una visione solamente critica, cercando delle soluzioni. E in questo — racconta la giornalista specializzata — noi media abbiamo un ruolo fondamentale per diffondere la consapevolezza che non sia la reale mancanza di cibo a uccidere, ma lo spreco di 13 miliardi di dollari di alimenti ogni anno».
Nel 2017 il Paese si è classificato centesimo tra le 119 nazioni in via di sviluppo dell’Indice Globale della Fame (GHI), configurandosi così come una delle zone del mondo dove la problematica è più grave, dietro persino a Corea del Nord, Bangladesh e Iraq.
Una piaga che colpisce soprattutto i bambini: tremila muoiono ogni giorno, oltre il 30 per cento di quelli sotto i cinque anni è sottopeso, mentre uno su due è malnutrito, secondo il rapporto «Una fame da morire» di Save the Children. «Le principali cause di questa situazione — spiega Uzmi — sono la mancanza di pianificazione nella distribuzione degli alimenti (l’India, ad esempio, è la seconda produttrice al mondo di frutta e verdura dopo la Cina, ma ne spreca oltre il 50 per cento, ndr ) e la carenza di strutture in cui stoccarlo. Spesso infatti, conservato in luoghi inadeguati, finisce per andare a male o venire attaccato da topi e insetti».
Altro grande tema è la logistica. «Il governo indiano ha iniziato a investire in impianti di stoccaggio moderni — dice Uzmi — e ha anche avviato un programma per incoraggiare i privati a costruirne, inoltre sta favorendo lo sviluppo di colture più resistenti, ma tutto questo è inutile senza un sistema di distribuzione funzionante che permetta di far circolare il cibo fra le diverse aree di campagna (dove risiede un quarto della popolazione, ndr ) e le metropoli.
E perché ciò sia possibile servono investimenti in infrastrutture, come strade e ponti, o per molti agricoltori i costi di trasporto continueranno a essere proibitivi e resterà più conveniente eliminare parte degli alimenti prodotti, piuttosto che a portarli dove ce ne sarebbe bisogno e salvare delle vite».

Corriere Salute 3.12.17
I pazienti oggi sono chiamati a partecipare alle decisioni sulla cura. Ma spesso questa opportunità è vissuta come un peso e si preferirebbe che il professionista si assumesse l’onere della decisione per intero. Nella medicina però, ora più che mai, questo è raramente possibile
Il medico e il malato di fronte all’incertezza
di Luigi Ripamonti

Diagnosi di carcinoma spinocellulare alla lingua, paziente di 76 anni, donna. «Signora ci sono due opzioni: la chirurgia o la brachiterapia. Nel primo caso porteremo via un pezzo di lingua e lei avrà difficoltà a mangiare e a parlare. Nel secondo le infileremo nella lingua due aghi radioattivi che dovrà tenere una settimana, durante la quale resterà chiusa in una stanza e non potrà ricevere visite. Sarà doloroso ma se il trattamento riuscirà potrà conservare la lingua».
Il caso è reale e paradigmatico. A dispetto di quello si potrebbe pensare, i medici sono stati empatici e professionali nel porre la questione. Ma la malata ha risposto: «Per favore ditemi voi che cosa devo fare, io non so che cosa sia meglio». Chiedeva certezze, ma non ce n’erano.
La medicina è passata da una versione «paternalistica» a una «condivisa» in cui il malato ha il diritto di partecipare alla scelta della cura. Ma questo diritto talora è vissuto come un peso, di cui si farebbe volentieri a meno.
Del resto William Osler, considerato il padre della medicina moderna, diceva che «La medicina è la scienza dell’incertezza e l’arte della probabilità». E allora come uscirne? Per esempio dando percentuali precise di successo che si possono attribuire alle diverse alternative?
«Potrebbe essere utile, ma un recente articolo del New England Journal of Medicine , la più prestigiosa rivista medica del mondo, sottolineava come ciò non aiuti il paziente a gestire la componente emotiva legata alla malattia. Serve invece comprendere le priorità personali del paziente, le sue convinzioni e i suoi valori per aiutarlo a decidere» ha sottolineato Alan Pampallona,della Fondazione Giancarlo Quarta durante un convegno recentemente organizzato a Milano dalla stessa Fondazione su «Relazione di cura e gestione dell’incertezza in medicina».
Ma come può il medico trovare un equilibrio fra un’onesta informazione, che deve comunicare l’incertezza, e infondere allo stesso tempo la dose di fiducia necessaria nella terapia?
«È molto più difficile che in passato» ha spiegato nella stessa occasione Alberto Giannini, responsabile della Terapia Intensiva Pediatrica della Clinica De Marchi di Milano. «Non solo perché è cambiata la posizione del paziente, ma anche perché la medicina si è trasformata, e al concetto d’incertezza va aggiunto quello di limite: anche oggi non siamo sempre in grado di dare una risposta a qualsiasi bisogno, nonostante i media spesso spaccino una medicina onnipotente, con le patologie sconfitte e la morte saldamente imbrigliata». «Se dimentichiamo questa realtà entriamo a vele spiegate nel delirio di onnipotenza — rinforza Giannini. — Cito anch’io una pubblicazione del 2016 del New England Journal of Medicine, nel quale gli autori dicevano che dobbiamo confrontarci con la dimensione dell’incertezza, anche se i pazienti vogliono da noi certezze granitiche. È rischioso che i medici siano solo “guerrieri” perché devono essere capaci anche di affrontare e gestire i limiti della professione».
«Per poter uscire dall’empasse si dovrebbe forse ricorrere di più al colloquio con il paziente, che è differente dalle domande che gli si pongono durante l’anamnesi, e che può aprire un circuito di comunicazione differente» propone Michele Oldani, sociologo, psicanalista, e membro del comitato scientifico della Fondazione Quarta. «Se si domanda al malato a che squadra tiene e gli si dice anche a che squadra teniamo noi, attraverso quell’informazione produciamo nel curato la certezza che la sua vita ha ancora un valore, che invece sembra scomparire dopo la diagnosi di una malattia grave e dal momento in cui lui è diventato solo oggetto di anamnesi. L’arte della cura è tale quando trova un percorso assolutamente soggettivo di relazione e comunicazione».
«L’unica certezza che si può dare è la presenza umana: nessuno chiede al medico di guardare nella sfera di cristallo e predire il futuro, però il medico può assicurare la sua presenza lungo tutto il percorso di cura, comunque vada» rinforza Pampallona. «Molti dei pazienti che abbiamo incontrato ci hanno detto che la malattia era stata per loro un’opportunità per riscoprire valori importanti e vivere più pienamente l’esistenza. Conducendo una ricerca sul tema abbiamo riscontrato che questa capacità dipendeva da molti fattori ma uno dei più rilevanti era la qualità della relazione con i medici. Siamo in una fase nuova delle medicina, ipertecnologica, molto protocollare, con moltissime linee guida. La ricerca del senso della cura non riguarda solo il paziente, ma anche il medico».
In un mondo che si sta tramutando sempre più nella propria rappresentazione, fatta di immagini, dati, comunicazioni virtuali, avremo bisogno di medici tecnologicamente evoluti, ma anche capaci di ricordare che quando si ha bisogno di loro non si desidera trovarsi davanti solo una figura tecnica ma anche un uomo capace di conoscere, comprendere e condividere.

Corriere Salute 3.12.17
Comunicare (bene) prima di sperimentare
di L.Rip.

Una delle occasioni in cui l’incertezza è parte inscindibile, costitutiva del processo di cura, è la sperimentazione di un farmaco. In questo caso a un malato si prospetta l’occasione di giovarsi di una nuova opportunità terapeutica, di cui però almeno l’efficacia è, appunto, da provare e proprio sulla sua pelle.
«Efficacia è la parola giusta se si parla della cosiddetta fase III di una sperimentazione — precisa Filippo de Braud, direttore dell’oncologia medica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano — perché nelle due fasi che la precedono a essere testate sono più l’attività e la sicurezza che non l’efficacia della nuova molecola».
Che differenza c’è fra attività ed efficacia?
«Un farmaco può essere attivo, cioè agire, per esempio, su un tumore riducendone le dimensioni, ma non essere efficace perché non in grado di guarire davvero o allungare la vita del malato in modo significativo. E questa proprietà la si verifica nella fase III, quando si confronta il farmaco sperimentale con il golden standard , cioè con la migliore terapia disponibile in quel momento».
Quindi la maggior incertezza si dovrebbe provare quando si riceve la proposta di partecipare a una delle prime due fasi della sperimentazione clinica?
«In effetti è sempre stato così fino a pochi anni fa. Oggi, quasi paradossalmente, per un medico e per un malato ci può essere una percezione di minore incertezza in uno studio di fase I o II dove, almeno, c’è la sicurezza che il farmaco che verrà somministrato sarà quello sperimentale, mentre nella fase III il protocollo esige che né il malato né il medico sappiano a chi verrà dato il nuovo medicinale e a chi quello che servirà come termine di paragone, cioè il golden standard cui si è accennato».
Ma se nelle prime due fasi non si sa se il farmaco nuovo è attivo e nemmeno se è sicuro, come si può essere meno incerti?
«Il motivo è che oggi, almeno in oncologia, le nuove molecole agiscono su precisi bersagli molecolari, per cui la popolazione che si seleziona per le prime fasi è più probabile che possa comunque beneficiare della sua eventuale attività biologica».
In ogni caso il malato è sempre posto di fronte a una scommessa.
«Bisogna tenere presente che se una persona non ha più opzioni terapeutiche può essere un vantaggio importante partecipare a una sperimentazione, mentre negli altri casi bisogna invece soppesare con molta attenzione i pro e contro per il paziente».
Insomma lo sperimentatore deve essere sempre onesto e trasparente.
«Ci mancherebbe altro, ma non basta nemmeno questo. È necessario che la scelta sia davvero condivisa con il malato e questo lo si può ottenere soltanto con una buona comunicazione. Quando parliamo con un paziente per discutere se farlo entrare o meno in uno studio sperimentale dobbiamo capire non solo quale può essere il suo reale vantaggio in termini clinici, ma anche come ciò può impattare sulla sua vita in termini progettuali».
Che cosa intende per impatto della sperimentazione sul progetto di vita di un candidato?
«La malattia in qualche caso abbatte, fa perdere ogni interesse per le proprie attività e porta a pensare solo alla cura. In altri casi, al contrario stimola reazioni di sfida, che non investono solo la patologia in sé, ma l’intera esistenza e induce a fare cose che prima non si erano mai tentate, per esempio una maratona se prima ci si limitava a una corsetta alla settimana. È chiaro che bisogna comprendere a chi si sta proponendo che cosa. Per questo è importante conoscere il malato, capire quali sono i suoi hobby, le sue ansie, le sue occupazioni, i suoi desideri. Non basta conoscere l’esito della sua Tac. Quando si propone un trattamento, che sia sperimentale o meno, bisogna collocarlo in una strategia terapeutica complessiva».
Chi paga per le sperimentazioni cliniche?
«In genere se si prova un nuovo farmaco è l’azienda che lo produce a fornirlo all’ospedale a cui è affidato lo studio. Quindi la spesa non è a carico del Servizio Sanitario nazionale, almeno per quanto riguarda il medicinale. Ciò talvolta può creare qualche paradosso. Per esempio può capitare che l’amministrazione dell’ospedale non sia “contenta” perché la terapia non viene fatta “su ricetta rossa”, come si dice in gergo, quindi non ci sarà rimborso per la prestazione da parte della Regione. Insomma, è una forma di assistenza che non viene “contabilizzata” all’istituto, ma rimane una cura, anche se con incognite, e di fatto comporta un risparmio per la spesa sanitaria».

Corriere Salte 3.12.17
l consenso davvero «informato» può fare una differenza decisiva
di L.Rip.

Un passaggio importante nella comunicazione fra medico e paziente che può essere sfruttato per gestire il problema dell’incertezza è quello del “consenso informato” , il documento che si fa firmare ai pazienti per autorizzare le cure.
«Nel nostro centro abbiamo dispositivi per la simulazione dell’intervento chirurgico che permettono di pianificare l’operazione in modo molto accurato» spiega Francesco Di Meco, direttore del dipartimento di Neurochirurgia dell’Istituto Besta, di Milano. «Abbiamo allora pensato di illustrare ai candidati a un intervento, prima della firma del consenso, la tecnica che avremmo usato e relative difficoltà e possibili complicanze».
«Abbiamo anche condotto uno studio confrontando i malati cui era stato proposto il modulo di consenso tradizionale con quelli a cui era stata mostrata anche la simulazione dell’intervento» specifica il neurochirurgo. «E abbiamo constatato che l’ansia e la comprensione soggettiva non erano molto diverse, mentre la comprensione oggettiva migliorava significativamente, Per comprensione soggettiva si intende la risposta a una domanda generica, come, per esempio, “ha capito bene?”, mentre la comprensione oggettiva si misura ponendo quesiti precisi per verificare se c’è stata reale comprensione». «È solo un’idea per contribuire a entrare meglio in contatto con il paziente e instaurare un rapporto fiduciario» conclude Di Meco. «E può aiutare anche a ridurre i contenziosi medico-legali»

Repubblica 3.12.17
Walter Veltroni
“In piazza per fermare l’onda nera la democrazia è a rischio”
intervista di Stefano Cappellini

«Nutro una profonda inquietudine sul futuro della democrazia. Si stanno creando condizioni politiche e persino antropologiche per le quali la più grande conquista del Novecento, costata il sangue di Auschwitz e la prova dei gulag, e cioè la democrazia, può essere rimessa in discussione». È stato Walter Veltroni a suggerire a Matteo Renzi l’idea di convocare a Como, teatro della famigerata incursione nazi, una grande manifestazione.
Ma a preoccupare l’ex segretario del Pd non è solo il singolo episodio, e neppure la catena di eventi simili che lo hanno preceduto, bensì il timore che siano tutte tessere di un puzzle il cui minaccioso soggetto politica e società civile stentano a riconoscere: «Un’onda nera – dice Veltroni a Repubblica – sta squassando l’occidente. Ci sono momenti della storia in cui i cittadini non possono essere spettatori ma devono mobilitarsi con volontà e coscienza. La bandiera nazista nella caserma dei carabinieri dimostra che dobbiamo vigilare anche su chi la democrazia dovrebbe difenderla.
Spero davvero che le forze democratiche e di sinistra vogliano dare un segno di unità sui valori fondamentali».
Il centrodestra, in larga parte, non si esprime o giustifica.
«Come si può? Ciò che mi ha più colpito di Como non è tanto il delirante testo letto. Ma quella chiosa finale: “Ora potete proseguire”. Nell’idea che qualcuno sia arbitro delle decisioni di qualcun altro c’è il germe della violenza e dell’intolleranza».
Dice Salvini che le parole non sono violenza.
«Al contrario. Tutto comincia dalle parole. E ormai certe parole vengono pronunciate senza trovare contrasto: così si slitta verso l’abisso. Settant’anni fa in Germania e Italia si è potuta sostenere la tesi che la conformazione del viso degli ebrei ne segnalasse l’alterità. È successo, ed è cominciato dalle parole».
Il M5S non ha aderito alla manifestazione. E per Di Battista l’antifascismo è retrò.
«Trattare queste vicende come fossero pagliacciate è un altro grave errore. Basta aprire Internet e imbattersi nei centinaia di siti che inneggiano al fascismo. O vedere ciò che accade fuori dai nostri confini. Cosa altro deve succedere perché l’intelligenza della politica si dedichi alla decifrazione di questi segnali? Per non averlo fatto, negli anni Trenta siamo finiti nella guerra».
Ma se il rischio è così grande, cosa si può fare oltre a scendere in piazza?
«Una risposta possibile è mettersi in trincea e difendere ciò che c’è.
Così provarono a fare negli anni Trenta, senza successo. L’altra soluzione è capire che libertà e democrazia vanno declinate in modo da accendere l’entusiasmo. La democrazia deve rassicurare, garantire, appassionare. Come diceva Walt Withman, “ il suo fascino essenziale non si svilupperà se non prende radice nei cuori umani”. La democrazia si difende innovandola».
Ma proprio nel “nuovo”, l’era digitale, si annidano alcuni dei rischi più grandi.
«Nell’ultimo rapporto Censis c’è questa parola: rancore. Rancore che nasce dalla semplificazione estrema. E in queste ore assistiamo allo spettacolo disumano di chi si augura in rete la morte della inviata delle Iene colta da malore, una ragazza di 39 anni. Siamo in un tempo rappresentato dal simbolo del pollice in su e in giù. Ma quello era il gesto degli imperatori romani nelle arene, è il gesto che Sami Modiano ha visto ad Auschwitz dove un ufficiale nazista decideva della vita o della morte degli internati. La società è complessa, è fatta di sfumature, confronto, la superficialità della società dell’algoritmo ci mette in una situazione di enorme rischio».
La politica italiana, a proposito di semplificazioni, teorizza da anni il ricorso all’uomo forte.
«Non dimentichiamoci che la democrazia è una parentesi nella storia dell’umanità. Per l’effetto combinato della crisi politica ed economica e dell’ambiguità delle nuove tecnologie sta crescendo nelle nostre società una domanda autoritaria. Si chiede di privilegiare la decisione alla libertà. Ma così si minano due pilastri della democrazia: la processualità, cioè la ricerca anche faticosa del consenso e della mediazione, e il principio della delega».
La nostra destra di governo si è caratterizzata per il rifiuto costante di celebrare il 25 aprile.
«Questa ambiguità era e resta pericolosissima. Ho vissuto un tempo in cui un ragazzo di destra e di sinistra non potevano convivere, l’obiettivo era l’eliminazione dell’altro. Negli appelli firmati da intellettuali progressisti dopo l’uccisione dei fratelli Mattei a Roma o in quelli più recenti a favore di Battisti abbiamo conosciuto l’ambiguità sulla violenza di una parte della sinistra.
Oggi succede lo stesso a destra, dove per una manciata di voti non si ha coraggio di levare barriere contro questi fenomeni».
Sicuro che la sinistra non abbia contribuito al cedimento di alcune barriere? Ricorda la frase di Violante presidente della Camera sui “ragazzi di Salò”?
«I morti di una guerra, ovviamente, sono un dolore per tutti. Per me lo spartiacque è il 43, l’occupazione nazista. Chi fin lì aveva creduto nel fascismo poteva aggrapparsi al fatto che quella era la condizione nella quale era nato e cresciuto.
Dopo no. Salò non ha più giustificazioni, è l’esito feroce di una stagione tetra. Non ho mai accettato l’indistinto: tutti responsabili. Quando Vittorio Foa incontrava il missino Pisanò in Parlamento gli diceva: “ Vedi, noi abbiamo vinto e tu sei senatore, quando c’eravate voi io stavo in galera”».
La corsa di molte forze politiche a teorizzare il superamento del confine tra destra e sinistra non ha contribuito a indebolire gli anticorpi?
«Se togliamo la differenza tra destra e sinistra, o tra fascismo e antifascismo cosa resta?
Basterebbe Trump a testimoniare tutta intera la differenza che c’è ancora oggi».
La destra italiana, intanto, si prepara a tornare al governo.
«Come sempre in questi momenti, la destra cavalca al meglio i sentimenti di paura. La sinistra invece che fa? Si divide, classico del novecento. Invece deve ritrovare il suo rapporto con il malessere sociale, con il dolore e la precarietà delle persone. Sa come diceva Thomas Mann? “Il rinnovamento sociale della democrazia è condizione e garanzia della sua vittoria”. Rinnovamento sociale. Le due parole chiave del pensiero democratico, per me. Il vero dramma è che non siamo sicuri che uscirà un governo dalle elezioni».
Forse servirà un accordo parlamentare. Ma da anni ogni accordo in Parlamento è definito «inciucio». Anche questo non aiuta la democrazia.
«Resto alla democrazia dell’alternanza e alla possibilità dei cittadini di scegliere chi governa.
Questo potrebbe accrescere nei partiti la responsabilità di presentare programmi e persone degne e compiere scelte all’altezza dopo il voto, ma senza precipitare sul terreno del trasformismo, vero male odierno. Il principio è che si cambiano le regole insieme e si governa separati. In Italia si tende purtroppo a fare il contrario».

Repubblica  3.12.17
Se il testo ci va alla testa
Gli occhi o la voce? Che cosa conquista di più il nostro cervello? E in che modo cambia la percezione nel passaggio dalla lettura all’ascolto? La neuroscienza ha una risposta per (quasi) tutto.
A partire da una figura ormai dimenticata
di Alberto Oliverio
Alberto Oliverio (Catania, 1938) è professore emerito e docente di Psicobiologia alla Sapienza di Roma e insegna Neuroscienze all’ateneo Salesiano di Roma. Autore di numerosi testi divulgativi e specialistici, il suo ultimo libro è Il cervello che impara (Giunti, 2017)

Che differenza c’è tra leggere un libro e ascoltarlo? Il nostro cervello è più coinvolto da una voce che narra o dai nostri occhi che scorrono sul testo scritto? E quale delle due esperienze ricorderemo meglio?
Per rispondere è bene partire dalle nostre radici. Sin dalle lontane origini dell’umanità l’ascolto è stato al centro dei rapporti tra persone, la parola è stato il mezzo con cui raccontare, condividere informazioni, trasmettere emozioni. È la parola che incanta i bambini quando i grandi raccontano loro una fiaba, un racconto che viene ripetuto più volte a richiesta dei piccini che amano immergersi nel mondo delle rievocazioni visive, negli scenari fantastici che prendono vita dal racconto. Ed è stata la parola trasmessa dagli aedi, gli antichi divulgatori di canti epici che narravano storie accompagnandosi al suono della cetra, a connettere il passato col presente attraverso la narrazione di fatti e leggende istruttive o stupefacenti. D’altronde, la parola parlata, l’oralità, fa capo alla struttura biologica del nostro cervello in cui sono presenti centri del linguaggio di antica origine: centri che controllano la produzione di parole attraverso appropriati movimenti dei muscoli dell’apparato fonatorio e centri che trasformano i suoni del linguaggio in significati. Così è fatto il nostro cervello, impostato sulle parole e sulla loro immediatezza, sulle emozioni che queste suscitano, sulle immagini che creano nella nostra mente.
La scrittura, nella storia dell’umanità, è venuta dopo: mentre le origini del linguaggio affondano la loro storia naturale in centinaia di migliaia di anni e dipendono da aree cerebrali selezionate per farci parlare e ascoltare, le origini della scrittura sono ben più recenti, un nulla in termini di storia naturale degli esseri umani. È per questo motivo che la scrittura, inventata poco più di seimila anni fa, non dipende da strutture del cervello scritte nei nostri geni: in tempi talmente brevi non è possibile che siano evolute delle reti nervose in grado di sostenere queste attività mentali.
Se scriviamo e leggiamo, lo dobbiamo al fatto che gli esseri umani hanno utilizzato per queste funzioni delle aree della corteccia implicate nelle funzioni spaziali: aree che rispondono a parametri quali in alto, in basso, a destra o a sinistra, criteri che sono al centro della nostra abilità di tracciare i segni elementari della scrittura, da quella cuneiforme ai geroglifici e via dicendo.
Dunque la parola parlata ha una sua naturalità più antica, è caratterizzata da un’immediatezza che suscita reazioni forti mentre la parola scritta implica un maggior distacco emotivo: attraverso l’alfabetizzazione gli esseri umani hanno sviluppato la capacità di reagire con distacco ponderando il significato, parola dopo parola. La lettura in prima persona fa sì che la mente si impossessi di informazioni critiche o si apra sugli scenari immaginari suscitati dalle opere letterarie mentre l’ascolto implica una sorta di presa diretta, ha un’immediatezza che dipende anche da un più semplice coinvolgimento del cervello.
Per quanto ci sembri semplice, infatti, leggere significa attivare la rappresentazione fonologica delle parole dipendente dai centri del linguaggio, la loro articolazione che implica l’attivazione di una specie di “voce interna” — la ripetizione subvocalica delle parole, cioè i movimenti virtuali di labbra, bocca e lingua che spesso i lettori meno esperti utilizzano apertamente anche nella lettura “muta” di un testo — e un processo di ricodificazione attraverso cui le lettere scritte, percepite tramite la visione, vengono tradotte in rappresentazioni fonologiche. Quando invece gli stimoli sono presentati nella modalità uditiva (ascolto delle parole) la ricodificazione fonologica, ovviamente, non è necessaria.
La lettura implica perciò un uso massiccio della cosiddetta memoria di lavoro (la capacità di mantenere per breve tempo un’informazione nella nostra mente per poterla elaborare), l’ascolto è meno impegnativo e richiede, per usare un’analogia informatica, meno risorse mnemoniche.
Rispetto alla lettura, insomma, la mente è meno impegnata nell’ascolto: ma è anche legata all’interpretazione dell’attore che legge, alla sua capacità di sottolineare emotivamente una frase, di sottintendere e alludere. In qualche modo, quando ascoltiamo, siamo condizionati dalla versione di chi legge come quando, al cinema, assistiamo alla trascrizione cinematografica di un romanzo. La lettura ci confronta invece con la fisicità del testo, comporta un’interpretazione fortemente soggettiva, dà più spazio ad associazioni mentali individuali. Leggere richiede un maggiore impegno, non ammette distrazioni mentre l’ascolto può implicare un’attenzione fluttuante, come avviene per molti aspetti della comunicazione orale… Un tempo non erano soltanto i bambini a beneficiare dei racconti di fiabe, della lettura ad alta voce ad opera degli adulti: nella letteratura ottocentesca troviamo frequenti accenni alla lettrice, una persona in grado di intrattenere le signore agiate o gli anziani dalla vista indebolita. Oggi, in un’epoca tecnologica, il posto della lettrice — o del lettore se preferite — è stato preso dall’audiolibro, dove la voce narrante, ricca di intonazioni, pause, sottintesi, vibrazioni emotive, ci riporta a una modalità di ascolto tipico dell’infanzia e del passato, al mondo degli aedi e dei narratori che, nelle campagne, intrattenevano i contadini raccolti nel tepore delle stalle, i filò del passato.
Ascoltare significa abbandonarsi al flusso delle parole, rilassarsi senza dover compiere il “lavoro” della lettura, un lavoro che continuerà ad appassionarci e a svolgere un ruolo centrale: ma il tempo della lettura può ben coesistere col tempo dell’ascolto, una pausa in cui è un’altra voce a occuparsi di noi.

Repubblica 3.12.17
Dal suono al silenzio (e ritorno)
Gli antichi declamavano ogni cosa.
Poi venne l’uomo che McLuhan definì “tipografico”: e lo studio diventò un fatto interiore. Oggi la tecnologia ci riporta alle origini. Perché leggere, in fondo, è anche un po’ pregare
di Franco Cardini
Franco Cardini (Firenze, 1940) è uno storico e saggista italiano, specializzato nello studio del Medioevo. Autore di numerosi saggi, insegna Storia medievale presso l’Università di Firenze e collabora con vari quotidiani italiani. Tra gli ultimi libri, I Re Magi (Marsilio, 2017)

Gli utenti abituali delle ferrovie sono per la massima parte gente che viaggia in “seconda”: specie i funzionari statali, per pochi dei quali è previsto il rimborso della “ prima”. Càpita però che il modesto viaggiatore debba comunque prendere il treno in una giornata di speciale affollamento: e debba quindi farsi per forza il biglietto di “prima”. Il top di tale esperienza è il viaggiare nella “ zona silenzio”: ma chi si sente giunto in un’isola felice, può andar incontro a imbarazzanti sorprese. Anzitutto non si può telefonare, neppure a voce bassissima; quanto alla conversazione poi, c’è sempre qualcuno che protesta. Sembra che il giudicare sul “tono di voce” sia una delle cose più arbitrarie al mondo. E allora, se il malcapitato ch’è stato più volte redarguito chiede al capotreno: “Ma insomma, cosa posso fare senza che qualcuno si lamenti?”, la risposta arriva naturale: “Leggere, ovviamente”.
Si potrebbe obiettare che no, che non è ovvio per nulla. E ricordare l’ormai classica lezione impartitaci da Marshall McLuhan nel suo celebre Galassia Gutenberg, laddove si contrappone “l’uomo tipografico” alla cultura orale tradizionale e si conclude con l’attribuire buona parte della schizofrenia che ormai da ogni parte ci minaccia all’abbandono di un metodo di lettura che, a voce alta, metteva in gioco almeno due dei cinque sensi — la vista e l’udito — a vantaggio di uno che utilizza soltanto la vista. Peraltro la lettura dei giorni nostri, che spesso si confronta non già con qualcosa di scritto con l’inchiostro su un supporto cartaceo bensì con labili segni che compaiono su un display, fino ai suoni che oggi ci rimandano gli audiolibri, ci ha disabituato a un mondo nel quale avevano il loro bravo ruolo anche il tatto e l’olfatto, e perfino l’udito era stuzzicato dal fruscio delle pagine. Chi ha avuto la fortuna di vivere nelle biblioteche d’una volta non dimenticherà l’odore, anzi il profumo delle vecchie carte e la gioia quasi sensuale che si provava accarezzando il duro cartone e il buon vecchio cuoio delle copertine. Quanto al gusto, le metafore sono quanto mai eloquenti: “assaporare le parole”, “gustare una pagina”, “divorare un libro”… Ma tutto ciò, non si può fare anche leggendo in silenzio, con i soli occhi? Chiunque s’intenda sul serio un pochino di lettura vi risponderà in termini perplessi. Per esempio, il vecchio Alessandro Manzoni consigliava di “leggere con la penna”, e aveva ragione: non c’è nulla di meglio di un passo copiato, cioè trascritto, oppure anche semplicemente riassunto, per penetrare sul serio negli anfratti e nei misteri di un testo. Certo, bisogna metterci attenzione e concentrazione: copiare con l’anima, non solo con gli occhi e le mani. Ma anche quando si legge in silenzio ci accorgeremo che, magari impercettibilmente, stiamo ripetendo quanto leggiamo. Non riusciamo a restar perfettamente muti. La parola letta con attenzione s’insinua sottile dagli occhi alle corde vocali e sale fino alle labbra, un po’ come succede quando ascoltiamo la musica. E, in fondo, proprio di musica si tratta. Peraltro, non è necessario pensare alla lettura monastica o a quella coranica nelle madrase, o a quella degli scolaretti cinesi che si addestrano a leggere in un idioma nel quale il tono e l’accento sono fondamentali. Chi ha udito leggere in coro dei bambini che stanno affrontando i primi rudimenti della lettura conosce la musicalità dei segni tradotti in emissioni vocali. D’altronde, leggere solo mentalmente fa risparmiare un sacco di tempo. Qualcuno di voi ricorderà le sensazioni che — era appena arrivato il fatale Sessantotto — ci vennero comunicate dal manuale di Lecture rapide
propostoci nel 1969 da François Richaudeau e da Françoise e Michel Gauquelin: e il disprezzo, che sapeva un po’ di futurismo, per tutto quel che procedeva lentamente, che faceva perder tempo. Il “buon lettore” doveva arrivare a leggere quindicimila parole l’ora: i metodi di “lettura rapida” prospettati, ancor avveniristicamente, nella Physiologie de la lecture et de l’écriture di Émile Javal, che è del 1905, sembravano divenuti necessari e obbligatori.
Eppure, fra noi, c’era pur qualche reazionario che ricordava ancora la lezione del Louis Lambert di Honoré de Balzac: il prodigioso lettore veloce, alla lunga, diventa matto. A parte il fatto che a leggere in silenzio e troppo in fretta si rischia spesso di non capirci o di non ricordare nulla: e di dover ricominciare da capo. Leggere lentamente, quindi; tornare a una lettura assaporata. Ciò rimetterà in circolo i metodi di lettura “a voce alta”? Non è detto. Esiste anche una lettura muta che, proprio in quanto tale, è più intima, più profonda, più preziosamente meditata. Quella domenica 17 giugno del 385 il trentenne rètore Aurelio Agostino di Tagaste, nella basilica che poi sarebbe stata detta “ ambrosiana”, s’incontrava proprio con lui, col grande terribile Ambrogio: e, come ha narrato nelle sue Confessioni (VI, 3), si stupiva nel coglierlo immerso in una lettura silenziosa, una lettura che somigliava alla preghiera del cuore. Perché leggere e pregare — il termine lectio, appunto, ce lo ricorda — sono operazioni profondamente affini: specie nelle religioni che conoscono una Scrittura Sacra e dove quindi il saper leggere (o l’ascoltar chi legge) è la necessaria porta d’accesso alla parola di Dio. Parola scritta, parola pronunziata; segno veduto, segno ascoltato. Proprio partendo da ciò si andò sviluppando, nella tarda antichità e nel medioevo, una letteratura “da leggere” alla quale se ne accompagnava — e non necessariamente come ripiego dinanzi all’analfabetismo — una “da ascoltare”. Sul piano dei generi letterari, per esempio, “ da leggere” intimamente, in silenzio, erano soprattutto i romanzi: specie le scene d’amore; mentre “ da ascoltare” — e quindi, per chi leggeva, da declamare — erano le “canzoni di gesta”, i poemi epici. Scandite, e magari gridate, se fate la guerra; tacete, o sussurrate, se vi apprestate a fare l’amore. Ma sussurri e grida, lo sapevamo anche prima di Ingmar Bergman, più che opposti sono complementari: e il rumore assordante della cascata può produrre silenzio. Ricordate Paolo e Francesca, che leggevano un giorno “ per diletto”, “ di Lancillotto, e come amor lo spinse”. Era lui che leggeva a lei sempre più piano, sempre più vicino; o lei che leggeva a lui sempre più intima, sempre più commossa? O tacevano entrambi, seguendo lo stesso rigo col cuore in gola, con gli occhi e con le dita che si sfioravano? Non lo sapremo mai. ?

L’autore
Franco Cardini (Firenze, 1940) è uno storico e saggista italiano, specializzato nello studio del Medioevo. Autore di numerosi saggi, insegna Storia medievale presso l’Università di Firenze e collabora con vari quotidiani italiani. Tra gli ultimi libri, I Re Magi (Marsilio, 2017)

Il Sole 3.12.17
Grecia. Domani all’Eurogruppo ultime verifiche e poi il 22 gennaio arriverà il disco verde alla tranche di 5,5 miliardi
Atene «archivia» la crisi
L’uscita del Paese dal piano di aiuti è in vista mentre il Pil cresce del 2,5%
di Vittorio Da Rold

L’uscita della Grecia del premier Alexis Tsipras dal suo ultimo piano di aiuti è ormai in vista. L’Eurogruppo di lunedì a Bruxelles confermerà gli ultimi progressi della maggiore operazione di salvataggio della storia moderna e il ritorno alla normalità con l’accesso ai mercati dei capitali. E da autorevoli fonti finanziarie di Atene arriva il messaggio rassicurante che «la liquidità nelle banche greche sta andando molto bene».
Il solito falso annuncio destinato a venir smentito da vecchie abitudini? No, questa volta è diverso: i greci possono vedere la fine del tunnel dopo otto anni di durissima austerità sul fronte dei tagli al welfare e dell’incremento della pressione fiscale che, come ha attestato l’Ocse di recente, ha toccato il record di aumento negli ultimi cinque anni. Certo, i ministri delle Finanze dell’Eurogruppo riuniti a Bruxells non convalideranno questo lunedì la “revisione” definitiva delle riforme strutturali del Paese e non erogheranno la sospirata tranche di aiuti prevista di 5,5 miliardi di euro; gli esperti della troika a cui si sono aggiunti i tecnici dello Esm, il fondo salva stati europeo di Klaus Regling, sono ancora negli uffici dei ministeri di Atene a controllare i dossier e il governo Tsipras non ha ancora messo in atto i due terzi delle cosiddette 95 “azioni prioritarie” richieste alla Grecia entro la fine dell’anno nell’ambito del terzo piano di aiuti da 86 miliardi di euro. Mancano ancora pezzi importanti sulla riforma della pubblica amministrazione e sulla concorrenza nel settore strategico dell’energia e delle privatizzazioni. Gli esperti comunque prevedono il via libera per il prossimo Eurogruppo che si terrà in Belgio il 22 gennaio. Ma poi sarà una strada finalmente in discesa e nulla dovrebbe ostacolare la chiusura dell’ultimo programma di sostegno per la Grecia entro il prossimo agosto.
In una recente intervista rilasciata al quotidiano “Efimerida Syndakton”, il premier Alexis Tsipras ha detto che «tra dieci mesi, nell’agosto 2018, la Grecia uscirà dai Memorandum of Understanding che l’hanno di fatto commissariata negli ultimi sette anni, e diventerà nuovamente un Paese normale». Ma Tsipras è preoccupato dei sondaggi che lo vedono soccombere rispetto a leader di Nea Dimokratia, Kyriakos Mitsotakis, ex studente di Harvard, e sostenitore di politiche liberiste. «Il mio mandato è chiaro: espansione e rinnovamento - ha detto Mitsotakis - per offrire una soluzione alternativa di governo al Paese».
Dopo aver messo sul piatto 240 miliardi di euro dal 2010 in un Paese senza accesso ai mercati dei capitali, i creditori ora sperano che la Grecia sia in grado di liberarsi dalla tutela e di tornare a finanziarsi nonostante un debito pari 180% del Pil e il taglio del 25% del Pil. Dopo una stagione di austerità senza precedenti, i fondamentali dell’economia sono tornati sotto il segno positivo: il governo della sinistra radicale ha continuato a fare il lavoro “sporco” rimettendo in ordine i conti pubblici devastati da anni di clientelismo e corruzione ma perdendo consensi. Oggi Atene vanta un surplus primario (prima del rimborso del debito) che dovrebbe permettere di allentare un po’ l’austerità. Gikas Hardouvelis, economista ed ex ministro delle Finanze nel governo Samaras, stima una crescita dell’1,3% quest’anno. La Commissione europea prevede un Pil al 2,5% nei prossimi due anni.
È con questa ritrovata crescita che il governo di Syriza intende finanziarsi a prezzi convenienti sui mercati. L’Agenzia del debito pubblico greco spera di raccogliere 10 miliardi nel 2018 e 15 miliardi nel 2019 per coprire il suo fabbisogno di finanziamento e uscire dal pesante giogo esercitato dalla troika.
Naturalmente i creditori internazionali di Atene (tra cui l’Italia sotto varie forme) intendono continuare a monitorare il mantenimento della disciplina finanziaria e l’avanzamento delle riforme. Infine, dopo che la Germania avrà formato il nuovo governo, insieme al recalcirante Fondo monetario, bisognerà affrontare il tema spinoso del taglio del debito. La soluzione di allungare la durata del debito dipenderà proprio dalla ritorno della crescita in Grecia, senza ricadere però nei «vecchi vizi» clientelari.

Il Sole 3.12.17
Commissione banche. Sono 250 milioni le sofferenze esaminate che avrebbero portato allo stato di insolvenza
Etruria, faro sui crediti inesigibili
di Ivan Cimmarusti e Sara Monaci

Nel mirino della Commissione di inchiesta sulle banche anche i crediti inesigibili di Banca Etruria. Quelli che, già secondo gli inquirenti e il commissario liquidatore dell’istituto aretino, avrebbero portato allo stato di insolvenza e quindi all’apertura di un’inchiesta per bancarotta fraudolenta.
L’ammontare delle sofferenze esaminate è pari a 400 milioni, ma in particolare gli aspetti fraudolenti riguardano 250 milioni di crediti. I principali gruppi che riportavano una forte esposizione debitoria, emersi già durante l’inchiesta della procura, sono: Sacci (con 50 milioni di fidi e 45 milioni di sofferenze); Acqua Mare, Acqua Pia Antica Marcia, Acqua Marcia Turismo, del gruppo Francesco Bellavista Caltagirone (con 79,3 milioni di fidi complessivi, di cui 45 milioni in sofferenza); Energia Ambiente (a cui si registrano 24,5 milioni di sofferenze); Sogeim (con 29 milioni di fidi e 23 milioni di sofferenze); Privilege Yard (a cui si registrano 20 milioni di sofferenze); Sanatrix e Villa Pini, del gruppo Angelini (con, rispettivamente, 15 e 13,5 milioni di fidi e, rispettivamente, 10,6 e 14,5 milioni di sofferenze); Interporto di Roma (con 19 milioni di fidi e 17 milioni di sofferenze); Abm (a cui si registrano 16 milioni di sofferenze); Rossi (con 24 milioni di fidi e 13,5 milioni di sofferenze); Cardinal Grimaldi (si rilevano 12,3 milioni di sofferenze); Casprini Holding (con 15,5 milioni di fidi e 9,4 milioni di sofferenze); Immobiliare Pascucci (con 16 milioni di fidi e 11,5 milioni di prestiti). Per la questione dell'erogazione dei crediti senza garanzie è in corso ad Arezzo l'udienza preliminare del processo per bancarotta fraudolenta.
Durante l’audizione in Commissione, il procuratore capo di Arezzo Roberto Rossi ha spiegato come sono arrivati a individuare le situazioni più critiche: valutando le erogazioni al di sopra dei 500mila euro e l’operato del cda, del comitato esecutivo e del comitato crediti, soffermandosi sui crediti in sofferenza e usando come parametro lo stesso regolamento bancario per la concessione dei prestiti. La maggior parte delle presunte condotte distrattive sono avvenute tra il 2008 e il 2010. Le obiezioni che sono state mosse in Commissione al pm - che ha spiegato di non aver incluso tra i consiglieri colpevoli di “prestiti facili” Pierluigi Boschi - riguardano il fatto che non sono stati presi in considerazione i rinnovi dei crediti, che presumibilmente sarebbero avvenuti negli anni successivi (e quindi anche con Boschi padre in cda).
Secondo quanto depositato in udienza ad Arezzo, la linea della procura si basa però sulla constatazione che «a fronte della già intervenuta sofferenza del credito...la revoca immediata avrebbe prodotto effetti a catena repentini che conducono alla insolvenza e al fallimento». Pertanto, dicono i pm, la scelta di non rivedere i crediti già erogati sarebbe dipesa dalla volontà di salvaguardare lo stato della banca. Altra cosa sono invece le rinegoziazioni successive che hanno aumentato il valore del credito: in questi casi è stata presa in considerazione l'ipotesi di bancarotta fraudolenta.
Sul fronte romano dell’inchiesta, presunte irregolarità nella decisione di eliminare gli “scenari di rischio” dai prospetti informativi di Banca Etruria sono intanto al centro del fascicolo dei pm di Roma, in un procedimento che non conta indagati né ipotesi di reato specifiche. Ma i carteggi acquisiti in Consob nasconderebbero aspetti tutti da chiarire sui tecnici della vigilanza che hanno gestito il dossier sulle obbligazioni subordinate 2013 dell’istituto popolare toscano, fallito a novembre 2015.
Gli inquirenti avrebbero individuato alcuni spunti che potrebbero sollevare più di un’ombra. L’interrogativo riguarda il motivo per il quale furono tolti dai prospetti - con il presunto benestare di Consob - i rischi connessi all’acquisto delle obbligazioni subordinate. A questo si aggiunga che, stando a numerosi documenti in mano dei pubblici ministeri, ad alcuni piccoli risparmiatori sarebbero stati modificati i profili Mifid, facendoli risultare illecitamente “investitori professionisti”. Il fascicolo lo stanno gestendo il procuratore aggiunto capitolino Rodolfo Sabelli e il sostituto Stefano Pesci, i due magistrati titolari di altri procedimenti che riguardano le autorità di vigilanza, relativamente a Veneto Banca e Popolare di Vicenza.

Il Sole Domenica 3.12.17
neurochirurgia
Divulgazione senza cervello
di Arnaldo Benini

Questo libro é il cinquantottesimo volume della Biblioteca Scientifica della casa editrice Adelphi. Un libro di divulgazione scientifica deve osservare criteri rigorosi di informazione circa ricerche, dati e discussioni, senza fronzoli, chiacchiere inutili e divagazioni letterarie che, oltre che inutili, sono spesso penose. In un lavoro serio d’informazione scientifica (come sono molti testi della collana dell’Adelphi), ogni frase deve comunicare , nel testo e nella bibliografia, dati ed eventi precisi.
Il titolo del libro di Kean, che desta curiosità, non c’entra nulla col contenuto, e questo non è che il minore dei suoi difetti. Due dei neurochirurghi duellanti sarebbero il fiammingo Andrea Vesalio e il chirurgo di corte del re Enrico II di Francia, Ambroise Paré. Non ebbero motivo di duellare perché concordarono che il re, per il trauma cranico subito in una giostra nel 1559, sarebbe comunque morto. Vesalio eseguì, forse, l’autopsia, trovando un ematoma intracranico che aveva schiacciato il cervello. Erano entrambi, soprattutto Vesalio, uomini eminenti, ma chiamarli neurochirurghi è fantasia.
Del neurochirurgo di Harvard Harvey Cushing si raccontano bizze e sfuriate con i collaboratori, senza dare il giusto rilievo alla leggendaria mole di lavoro e all’immensa responsabilità che comportava. Ancor oggi la chirurgia cerebrale segue i suoi principi e criteri. Tanta era la delicatezza del suo lavoro e la disciplina in sala operatoria che non ebbe mai un’infezione chirurgica. Un secolo fa propose l’approccio all’ipofisi attraverso il naso, molto meno rischioso della tradizionale craniotomia. Oggi si opera attraverso il naso non solo l’ipofisi ma gran parte della base cranica. Il suo testo sull’ipofisi The Pituitary Body and Its Disorders, di cui Kean benevolo riconosce la fama, ha fondato l’endocrinologia. Per tutto questo, e non per le fanfaluche di cui parla Kean, Cushing rimane nella storia della cultura.
Wilder Graves Penfield di Montreal e William Beecher Scoville del Connecticut per anni si dedicarono alla psicochirurgia e alla chirurgia dell’epilessia. Fra loro non ci fu un duello, ma un dissidio sulle indicazioni a simili interventi, che da Scoville erano eseguiti molto più di frequente che da Penfield e spesso senza criterio. Scoville, nel 1953, operò il giovane H.M per epilessia, senza conoscenze dell’anatomofisiologia del sistema limbico, e lo ridusse a un pover’uomo, visitato poi per decenni per il suo massiccio difetto della memoria. L’intervento, nella descrizione di Kean, è quanto di meno chirurgico si possa immaginare, a partire dalle spatole, strumento chiave delle operazioni intracerebrali, paragonate a «calzascarpe».
Kean non ha afferrato il senso del disaccordo: si trattava della liceità medica ed etica di nuove operazioni, che non si possono simulare in animali e cadaveri prima di eseguirle nell’uomo. Solo con nuove operazioni si ha un progresso della chirurgia e un vantaggio per l’umanità. Il dilemma è quando sia lecito intraprenderle, se nessuna simulazione può anticipare il risultato. E come informare paziente e familiari per averne il consenso? È un cruccio metodologico ed etico della chirurgia, da sempre.
Kean parla dell’americano Daniel Carleton Gajdusek, premio Nobel per le scoperte dei prioni e per gli studi sulla malattia infettiva kuru in Nuova Guinea, con due pagine sulla sua pedofilia. A che cosa serve diffondere, in un testo che vuol essere scientifico, le malefatte di uno scienziato molto benemerito? Parlando dell’anatomia del cervello, sostiene che «i perversi anatomisti di un tempo hanno costellato il cervello di natiche, testicoli, vulva e ano» senza citare nomi e opere: incredibile. Uno sfondone è l’accenno allo stato vegetativo, in cui, scrive Kean,« diversamente dal coma si è svegli, ma è impossibile concentrarsi o elaborare pensieri complessi»: stato vegetativo e coma (vigile, sindrome apallica, coma dépasse, Wachkoma ed altro) sono sinonimi in tutte le letterature. Basta un’occhiata in Wikipedia. Che la mente, in quello stato, vaghi «senza meta, come foglie al vento» e che «il talamo e la rete prefrontale parietale non danno la scintilla alla coscienza ma tengono acceso il fuoco» sono quanto di più insensato si possa immaginare, tanto più che una «rete prefrontale parietale» non esiste, stando il lobo parietale dietro a quello frontale.
Altro sfondone, nel disegno anatomico di pag. 154: corteccia motoria e somatosensoriale sono scambiate. Nel testo italiano (non abbiamo visto quello originale) c’è una bibliografia di 15 pagine, che ha pochissimi riferimenti nelle note e nessuno nel testo, e quindi è quasi inutilizzabile. Di W. Penfield ci sono 5 lavori, ma manca il libro suo con H. Jasper Epilepsy and the Functional Anatomy of the Human Brain del 1954, che è una pietra miliare della neurologia clinica e della fisiologia cerebrale. Come può un libro del genere trovare posto in una “biblioteca scientifica”?
ajb@bluewin.ch
Sam Kean, Il duello dei neurochirurghi. Il cervello: una storia di traumi, medici e follie , Adelphi, Milano, pagg.450 € 32


Il Sole Domenica 3.12.17
Chiara Frugoni
Essere bambini nel Medioevo
di Maria Bettetini

Un mondo alla rovescia: le donne più fortunate, sane e colte sono le monache. Le mogli, povere o ricche, serve o principesse, erano minacciate e spesso uccise dal parto, anche uno ogni due anni, tanto più numerosi quanto alta era la mortalità dei bambini. Il Medioevo sembra stupire, eppure ancora oggi così vivono e muoiono donne e bambini non in pochi casi isolati, e un secolo fa così andava in diverse zone d’Europa. Ora però quello che desideriamo è un’immersione nella quotidianità del Medioevo, per conoscere, per osservare, anche per fare paragoni sul modo di prendere la vita e la morte. La nostra è una guida d’eccezione, molto nota anche ai lettori non specialisti per la grazia con cui da anni ci accompagna nelle case e nelle vite dei Medievali, dei grandi, come San Francesco, dei piccoli, come i bambini cui è dedicato questo ultimo suo lavoro. Vivere nel Medioevo ha infatti come sottotitolo Donne, uomini e soprattutto bambini. Lo studio di fonti scritte e, soprattutto, iconografiche è sufficiente a renderci partecipi della vita delle famiglie, in particolare dei bambini, vissuti nei secoli che vanno dal quinto al quindicesimo, all’incirca. Ancora non sappiamo bene come definire cronologicamente questa Età di Mezzo, questi mille anni che spesso si vorrebbero eliminare dai programmi scolastici, che sembra siano stati solo una sgradevole interruzione tra lo splendore dell’Impero romano e la riscoperta dei classici. Frugoni non usa mezzi termini: i bambini morivano, i genitori lo sapevano e a loro si affezionavano solo col tempo. Nessun sogno durante l’attesa, nessuna aspettativa per il futuro, la gravidanza di “dolce” aveva poco, anche in termini sociali. Se poi sopravvivevano, allora sì, a poco a poco diventavano amati, forse coccolati, però per breve tempo: le femmine erano subito messe a lavorare in casa, quasi servette del resto della famiglia, dei fratelli e del padre. I maschi, molto presto, forse a sette-otto anni, andavano a bottega o nei campi, niente scuola, niente vacanze, pochi giochi. Eppure lunghe pagine sono dedicate dall’autrice proprio ai giochi dei bambini in epoca medievale, complici dettagliate miniature di bimbi che vanno in slitta su mascelle di cavalli e su altre ossa pattinano, che corrono sui trampoli, volano in altalena, catturano farfalle con l’ausilio di strani cappucci. Complice soprattutto un dipinto di Peter Brueghel del 1560, oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Tardo, rispetto al Medioevo “tecnicamente” inteso, ma non discosto dalla realtà dei secoli precedenti: il quadro rappresenta circa ottanta giochi, usati da più di cento bambini. Non c’è tenerezza, i bambini non sono belli, né paffuti, né rosei, hanno piuttosto l’aria goffa di chi non è ancora del tutto umano. A Frugoni interessa mostrare, tra le altre cose, la quasi assenza di oggetti costruiti apposta per il gioco: i cerchi sono presi dalle botti, i sassi non han bisogno altro che di essere raccolti, le trottole e le girandole potevano essere fatte anche dai bambini più grandi. Per nuotare si usava come salvagente una vescica di maiale gonfiata, per giocare al mercante una bilancia sottratta forse ai genitori. Non erano capaci, i medievali, di costruire giocattoli? Non è certo questo il problema. Ma perché dedicare tempo e fatica a un “mercato”, come diremmo oggi, così instabile (come sapere se questi bambini sarebbero arrivati all’età del gioco) e, soprattutto, così poco durevole, considerati i pochi anni che intercorrevano tra lo svezzamento e l’impiego nel lavoro. Oggi, le famiglie si modellano sull’arrivo, sulla crescita, sulla costruzione del futuro dei figli. Nel Medioevo, l’arrivo di un figlio era accettato solo come metafora della imponderabilità del volere divino: quale dei bambini sarebbe nato sano e poi sopravvissuto, avrebbe la madre superato infezioni e altre problematiche legate al parto, chissà. Vita e morte non erano sentite come realtà lontane e antitetiche, necessariamente vivere comportava un continuo incontro col morire. Se qualcuno avesse inteso non pensarci, sarebbe stato richiamato alla realtà dalle danze della morte di cui abbiamo ancora superbi esempi a Pisa, a Palermo, nelle chiese alpine. Alle malattie si devono poi aggiungere le scellerate abitudini di costringere il neonato in fasciature strettissime, di nutrirlo spesso in maniera inadeguata, di farlo dormire nello stesso letto della balia, una pigrizia che spesso portava al maldestro soffocamento del piccolo. Erano tristi e soli, per questo, i bambini? Non sembrerebbe, da come giocano, nuotano, si arrampicano, danzano nelle immagini a noi giunte. Erano abbandonati a se stessi, forse sì. Ma per poco, a breve un superiore, forse un parente, forse un padrone, avrebbe tolto definitivamente quelle ore d’aria di cui era bene godessero finché potevano. E madri e padri? Curiosi, per noi, alcuni aspetti della vita familiare. Il letto era il centro della quotidianità, di giorno come di notte. A letto, oltre a svolgere le attività che ci sembrano consone al luogo, si mangiava, si riceveva, si dava ospitalità, era normale dormire almeno in tre o quattro per letto, anche negli alberghi. Non, o forse non solo, in vista di promiscuità che i novellieri hanno saputo ben raccontare, ma soprattutto in fuga dal freddo e dagli spifferi, vero e proprio incubo di case senza vetri, protette da legni e tendaggi. Ecco perché le pitture, che pur rappresentano una coppia legittimamente nuda nel letto, non mancano di dipingere i due sposi con in testa un pesante cappello di lana. Si può capire come la vita tra le mura di un convento fosse ritenuta più calda e sicura. E, come si diceva in apertura, di maggior soddisfazione per la donna. Chiara Frugoni paragona il ruolo delle regine, al grado massimo della scala sociale però sempre e solo in quanto mogli del re, a quello delle monache. Nel caso, per esempio, della moglie di Carlo il Calvo, abbiamo il frontespizio di una Bibbia, datata circa 870. Carlo, il re, è grande il doppio dei quattro personaggi che gli sono accanto, tra questi la moglie, non sappiamo nemmeno se la prima, Ermintrude, o la seconda, Richilde. Ben differente la pagina vergata da una innominata monachella di Essen, in cui chiede alla superiora Felhin di poter rimanere sveglia tutta la notte per continuare a studiare con la maestra Adalu. Fehlin lo concede, entrambe scrivono in perfetto latino. Siamo nel decimo secolo, ancora le università non hanno proibito l’istruzione alle donne, ancora i magistri non temono la rivalità delle magistrae.
Chiara Frugoni, Vivere nel Medioevo. Donne, uomini e soprattutto bambin i , ill., il Mulino, Bologna, pagg. 320, € 40
Il libro sarà presentato domani
a Mantova alle 18, al Cinema del Carbone (Via Oberdan 11), in collaborazione
con l’associazione Filofestival

Il Sole Domenica 3.12.17
La rivoluzione d’ottobre
Il 1917 e la sinistra italiana
di Gennaro Sangiuliano

Lenin era stato a Capri in due periodi, tra il 1908 e il 1910, ospite dello scrittore Maksim Gor’kij , presso la cosiddetta “Scuola di Capri”, sigla che sintetizza quella della “Scuola della tecnica rivoluzionaria del socialismo russo”. All’epoca Vladimir Il’i? Ul’janov, al secolo Lenin, appare agli italiani come uno dei tanti studiosi marxisti che si alternano nell’isola Azzurra.
Quando a febbraio del 1917 si metteranno in moto gli eventi che porteranno alla Rivoluzione le notizie che giungono in Italia sono frammentarie ma l’ambiente socialista comincia a ricordarsi di quell’intellettuale che era stato a Capri.
All’inizio la posizione del Partito Socialista Italiano appare prudente e articolata, i socialisti sono fortemente influenzati, soprattutto il leader riformista Turati, dalla Spd tedesca che ha forti riserve sui bolscevichi. Molti pensavano che la punta più avanzata e organizzata del socialismo fosse in Germania e in Gran Bretagna e che la Rivoluzione si sarebbe realizzata in queste due nazioni. Su «L’Avanti!» gli eventi russi vengono raccontati dagli articoli di “Junior”, pseudonimo di Vasilij Vasilevich Suchomlin, un esiliato. Lazzari e Bombacci, rispettivamente segretario e vice segretario dei socialisti, si schierano a favore e vengono pure arrestati, agli inizi del 1918, per aver manifestato il loro entusiasmo.
A capire meglio e prima di tutti la portata di quello che sta accadendo nella lontana Russia è Antonio Gramsci, che all’epoca lavora come redattore del quotidiano torinese «Il Grido del Popolo» e collabora a «L’Avanti!». Fa tradurre e pubblicare una serie di scritti di Lenin e Trockij e il 24 novembre del 1917 in un articolo pubblicato su «L’Avanti!», si esprime in termini perentori: «La rivoluzione dei bolscevichi si è definitivamente innestata nella rivoluzione generale del popolo russo». Nella Torino dove Gramsci vive, si va coagulando quel gruppo di intellettuali marxisti (Togliatti, Tasca, Terracini) che animerà «L’Ordine Nuovo», il gruppo più deciso nell’abbracciare la causa dei rivoluzionari russi.
Le reazioni alla Rivoluzione d’Ottobre travalicano, però, di molto il perimetro della sinistra e mostrano sorprendenti adesioni. Tra gli intellettuali italiani che guardano ai bolscevichi c’è Piero Gobetti. Il giovane intraprende addirittura lo studio della lingua russa, insieme alla fidanzata Ada Prospero. Gobetti ritiene che Lenin e Trockij abbiano suscitato forze positive di un «liberalismo sostanziale», tenuto conto del contesto storico del loro immenso Paese. Su «Energie Nuove» scrive che Lenin a suo modo sta creando uno «Stato liberale» perché c’è una moralità complessiva nella Rivoluzione. In una famosa lettera a Giuseppe Prezzolini del giugno del 1920 definirà la Russia come «centro delle nuove speranze e della nuova azione». I più entusiasti per quello che sta accadendo in Russia sono i sindacalisti rivoluzionari, gli eredi di Filippo Mario Corridoni che era morto nel 1915, quel gruppo che in buona parte confluirà nel fascismo. Attivo nell’esaltare i bolscevichi è Alceste de Ambris, protagonista dello sciopero dei contadini di Parma nel 1908.
Nel 1912, quando Mussolini è protagonista della svolta massimalista al congresso socialista di Reggio Emilia, la «Pravda» scrive che finalmente i socialisti italiani sono sulla «strada giusta». Nel febbraio del 1917 il «Popolo d’Italia», il quotidiano di Mussolini, è tra i più convinti nello schierarsi dalla parte dei bolscevichi e titola: «La vittoriosa rivoluzione russa contro i reazionari tedescofili». Una delegazione dei Soviet fa un giro delle capitali europee e viene anche a Roma e a Milano. Gli interventisti di sinistra De Ambris e Giuseppe Giulietti consegnano ai russi un memoriale di sostegno redatto nella sede del «Popolo d’Italia».
La Rivoluzione avrà concrete conseguenze nella sinistra italiana. Le divisioni che porteranno alla nascita del Partito Comunista si consumeranno proprio attorno alla questione del rapporto con i bolscevichi, quando il Partito Socialista - non accettando le 21 tesi di Lenin - si ritirerà dal Comintern. Ne sarebbe scaturita la scissione dell’ala sinistra guidata da Amadeo Bordiga che porterà, a Livorno, alla nascita del Partito Comunista.