domenica 3 dicembre 2017

Cosa è successo alla Silicon Valley, ha perso la sua umanità o quella di cambiare il mondo è stata solo sempre una bella favola?
pagina 99 2.12.2017
C’era una volta la Silicon Valley 
Due protagonisti ne raccontano la crisi d’identità, dall’utopia ai monopoli
Hi-tech | La Valle prometteva un capitalismo umanista capace di risolvere con la tecnologia i problemi del mondo. Ora si ritrova sul banco degli imputati. 
Abbiamo chiesto a Noam Cohen e Ankur Jain che fine ha fatto quell’utopia
L’élite digitale ci ha traditi?
di Gabriella Colarusso 

Nel giorno dello Yom Kippur, il giorno dell’espiazione, festa sacra per gli ebrei, Mark Zuckerberg, fondatore e Ceo della più estesa comunità digitale del mondo – due miliardi di utenti attivi ogni mese – ha chiesto perdono: «Per i nostri errori. Per come il mio lavoro è stato usato per dividere le persone anziché unirle». Il “pentimento” di Zuckerberg ha sorpreso solo in parte. Da più di un anno Facebook è al centro di una tempesta perfetta, accusato di aver taciuto sulla propaganda russa durante la elezioni americane, di contribuire a polarizzare l’opinione pubblica, di favorire la diffusione di notizie false, di manipolare le nostre psicologie fragili (copyright: l’ex presidente di Facebook, Sean Parker, non proprio uno qualunque), e persino di “minacciare la democrazia”. Ma non si tratta solo di Facebook né tantomeno solo di fake news. In America, dove il dibattito sulle conseguenze politiche, sociali, economiche della rivoluzione digitale è più maturo e in corso da tempo, sul banco degli imputati ci sono tutti i grandi colossi dell’economia digitale: Google, Twitter, Uber, Amazon, l’intera Silicon Valley, a cui si imputa di aver dato vita a un’industria globale dominata da pochi monopoli che fondano il loro potere sulla gestione dei nostri dati e hanno accumulato ricchezze stratosferiche, finendo così per alimentare le diseguaglianze
Si discute di violazioni della privacy e di sorveglianza diffusa, dell’inganno di servizi offerti gratuitamente ma che in realtà ci costano un monitoraggio costante e profilato dei nostri comportamenti online, dell’automazione che stravolge il mondo del lavoro, del confine saltato tra politica e mercato: può un’azienda, per quanto grande e potente, rifiutare di fornire dati all’Fbi che indaga su un attentato? Dieci anni fa sarebbe stata impensabile una “rivolta” del genere. L’élite tecnologica della Valle rappresentava l’avanguardia di un nuovo capitalismo umanista, che vedeva nella tecnologia uno strumento per risolvere i problemi del mondo. La cultura libertaria e antistatalista dei suoi leader era fonte di ispirazione: puoi essere imprenditore di te stesso, e puoi cambiare le cose. Quello storytelling era ideologia buona per un mercato desideroso di nuovi miti, vero, ma anche il discorso apocalittico di questi mesi sembra strabico ed esasperato. Zuckerberg&Co non erano i salvatori del mondo dieci anni fa, non sono diventati oggi quelli che lo distruggeranno. Pure l’influenza politica che viene attribuita loro andrebbe ridimensionata, ricondotta alle giuste proporzioni, ha fatto notare di recente, in un articolo sul Guardian, uno dei critici più severi del capitalismo digitale, Evgeny Morozov: Goldman Sachs o le grandi compagnie petrolifere restano più potenti e influenti sulla politica di Alphabet o di Facebook. Questo non significa che i problemi non ci siano. Se Zuckerberg ha chiesto scusa è perché la crisi della Silicon Valley non è un’invenzione – gli stessi ex dipendenti di Google o di Facebook fanno pubblica ammenda per le tecnologie che hanno contributo a creare – e ha conseguenze su tutti noi che sulle piattaforme digitali passiamo gran parte del nostro tempo, socializziamo, ci informiamo, lavoriamo, amiamo. L’utopia è finita? Per capire cosa sta succedendo abbiamo parlato con due personalità che da anni vivono e analizzano le mutazioni di Palo Alto, seppure da due prospettive molto diverse: Ankur Jain, imprenditore, venture capitalist e fondatore della Kairos Society, e il critico dei media, ex collaboratore del New York Times, Noam Cohen.

«Abbiamo rimosso i bisogni veri» 
di Ankur Jain

«La Silicon Valley è sotto attacco, e ce lo meritiamo. Abbiamo dimenticato i problemi che stanno schiacciando i giovani e la classe media americana». Ankur Jain ha 27 anni, è un tipino elegante e sorridente, è nato a Bellevue, contea di Washington, da genitori di origini indiane entrambi noti imprenditori tecnologici. Quando aveva 22 anni ha fondato la sua prima startup, Humin, poi acquisita da Tinder, di cui è stato vice presidente di prodotto per un anno prima di decidere che si sarebbe dedicato a tempo pieno alla sua nuova creatura, la Kairos Society Venture, un fondo di investimenti lanciato a metà novembre per sostenere imprese con una specie di “missione sociale”: risolvere i problemi concreti della classe media impoverita. Cose come affitti, debiti, disoccupazione. Qualche settimana fa Jain ha annunciato il lancio del fondo (che è un braccio della più grande Kairos Society, una organizzazione internazionale di giovani imprenditori) con un post molto duro sulla crisi della Silicon Valley, in cui puntava il dito sulle responsabilità – anche – dei grandi investitori: quelli, per capirci, che stanno dietro la nascita di Facebook, Google e di altri colossi e che hanno fatto grande Palo Alto nel mondo. «Più di 160 miliardi di venture capital vengono ogni anno investiti in startup», ci spiega Jain, «ma la maggior parte delle innovazioni che queste producono sono guidate dall’ulti - ma moda, non dai problemi reali che dobbiamo affrontare». Mentre noi pensiamo alle criptomonete, dice Jain, le «nostre comunità devono affrontare difficoltà sempre più pesanti. Il debito studentesco ha raggiunto livelli disastrosi, gli affitti sono a livelli record, i costi per mantenere i bambini sono alle stelle. È questa la crisi della Silicon Valley. La tecnologia impatta sulla vita delle persone come mai prima nella storia, più dei governi. Il mondo tech ha un potere crescente ma insieme ad esso viene la responsabilità. Dobbiamo sviluppare nuove tecnologie e allo stesso tempo occuparci dei problemi che queste creano». Ma perché i capitani di impresa che volevano cambiare il mondo hanno finito per interessarsi più delle consegne a domicilio di “burrito” che non degli ultimi, dei dimenticati? Cosa è successo alla Silicon Valley, ha perso la sua umanità o quella di cambiare il mondo è stata solo sempre una bella favola? «Più di qualsiasi altra cosa, è una storia di offerta e domanda. Dieci anni fa semplicemente non c’era così tanto denaro o talento nell’ecosistema della Silicon Valley. Non c’erano ancora quei ritorni massicci che hanno creato decine di milionari “in una notte”. Oggi ci sono così tanti soldi che confluiscono nei venture capital che le persone inseguono risultati e vittorie immediate. Prima, gli investitori avevano piani di investimento a lungo termine, e così erano in grado di evitare i cicli di hype. Inoltre, in passato non c’erano così tanti tech incumbents in cui investire, come Facebook, Google, Amazon. Senza la garanzia di opzioni di ritorni a breve termine, i finanziatori erano più orientati a risolvere i problemi delle loro aziende sul lungo periodo. Ora c’è bisogno di orizzonti e sguardo lungo». Il Kairos Fund metterà sul piatto 25 milioni di dollari per sostenere le imprese che sceglieranno di occuparsi di debito studentesco, riqualificazione del lavoro, spese delle famiglie. Soprattutto, per chi deciderà di fare i conti con l’altra grande paura collettiva che la parola Silicon Valley si porta dietro: l’automazione, la fine del lavoro. «Il timore che i progressi nel campo dell’intelligenza artificiale distruggeranno posti di lavoro è fondato, senza dubbio l’automazione avrà implicazioni sulla sicurezza lavorativa per milioni di persone, ma non sarà la “fine del lavoro”, sarà piuttosto un suo radicale cambiamento», spiega Jain. «Perciò è cruciale identificare ora quali saranno le nuove opportunità, in modo tale da formare le persone per i nuovi bisogni delle aziende. Ma è necessario occuparsi anche di chi il lavoro lo perde. Oggi un americano ha in media meno di cinquemila dollari di risparmi, perdere il lavoro può essere devastante, come possiamo assicurarci che le persone cadano in piedi e abbiano un percorso chiaro di reinserimento nel mercato?». Finanziare qualche startup con spirito sociale è obiettivo utile e nobile, ma non sembra la soluzione. Di nuovo: monopoli, diseguaglianze crescenti, concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, come se ne esce senza nuove regole? «Il bisogno di regolazione dipenderà da quale livello di responsabilità la Silicon Valley deciderà di assumersi: continuare a alimentare le diseguaglianze o invece impegnarsi per ridurle. La tecnologia può essere un alleato formidabile della democrazia, ma dobbiamo volerlo. Io credo che la prossima generazione di grandi imprenditori non vivrà a San Francisco, ma in giro per il mondo», conclude Jain, «e il denaro seguirà. Il nostro compito ora è trovare i migliori e più brillanti e assicurarci che abbiano le risorse necessarie per riuscire».

«Sono aziende non nostri amici»
di Noam Cohen

Come ha fatto un gruppo di hacker idealisti che voleva migliorare il mondo a trasformarsi, agli occhi di una buona fetta dell’opinione pubblica e in poco tempo, in una forza oscura della democrazia? O siamo tutti preda di un’isteria neoluddista? «La Silicon Valley non è nostra amica, le grandi compagnie tecnologiche non hanno come priorità i nostri interessi e le persone cominciano a rendersene conto», ha scritto Noam Cohen, critico dei media e giornalista, che dal 2009 racconta sulle colonne del New York Times, nella rubrica “Link by Link”, quello che accade nella culla dell’innovazione, gli uomini che contano, gli interessi e le strategie, l’influenza delle Internet company sulla società. Il suo libro, The Know-It-Alls, pubblicato da poco negli Stati Uniti (edizioni The New Press) è la storia di un innamoramento collettivo seguito da un brusco risveglio, la perdita dell’innocenza. «L’idealismo degli inizi non c’è più», mi dice. «La Stanford University e i venture capitalists che si sono raccolti intorno alla Silicon Valley hanno spinto quelli che una volta venivano chiamati “hackers” con un afflato positivo – prima che venissero identificati con i ladri di files – a trasformare la loro ossessione per i computer in grandi business, che oggi hanno delle gravi ricadute sulla democrazia. Si pensi ai fondatori di Google, Page e Brin, per esempio: avevano concepito la loro invenzione come libera dalla pubblicità. Raccoglievano dati solo per migliorarla. Quando poi si sono trovati in mano un grande business, quei dati si sono dimostrati incredibilmente potenti per la pubblicità profilata. Discorso diverso per altri come Jeff Bezos e Peter Thiel, che venivano dal settore bancario e hanno sempre avuto in mente il business. Non c’era innocenza da perdere». 
Sta dicendo che la crisi della Silicon Valley è una crisi culturale della sua élite? 
Per molti americani, compreso Zuckerberg, l’elezione di Donald Trump è stata l’occasione di un serio esame di coscienza, soprattutto quando è venuto fuori che Facebook, Google e Twitter sono rimasti a guardare mentre i russi usavano le loro potenti piattaforme per fare propaganda a favore di Trump. Paragono queste ricche e influenti società tecnologiche a quelle che inquinano i fiumi a valle. I benefici sono facili da vedere, i costi sono nascosti e vengono pagati da tutta la società. Il Paese si sta ribellando contro questo, e ciò sì, rappresenta una crisi profonda per l’élite tecnologica. 
Lei mette sotto accusa l’ideologia libertaria che è alla base del successo della Silicon Valley, eppure è la stessa che ci ha regalato Internet. 
Ma è anche quella di chi crede che le regole decise dai governi siano negative e ostacolino l’ “innovazione” e l’efficienza. Il libertarianesimo immagina un mondo in cui siamo tutti impegnati in un combattimento mortale per portare a casa il pane quotidiano. Quello che Reid Hoffman descrive nel suo libro The Start-Up of You: èl’uberizzazione del lavoro, in cui ognuno di noi è responsabile del proprio welfare – “se non riesci ad adattarti”, scrive Hoffaman, “nessuno –né il tuo datore di lavoro né il governo ti raccoglieranno quando cadrai”. Una vita feroce. 
Servono nuove regole, dice, ma quali? 
Alcune società sono diventate troppo grandi, e la loro dimensione sta danneggiando la società. Bisogna capire se abbiamo ancora gli strumenti normativi e la coesione sociale necessari per frenare questi monopolisti. L’urgenza di diventare sempre più grandi – fai qualsiasi cosa perché le persone si connettano alla tua piattaforma –ha molti effetti dannosi perché significa che le aziende devono usare l’automazione per avere a che fare con le persone. Non esiste un servizio clienti a misura d’uomo: se Facebook ha due miliardi di utenti, come può rispondere ai problemi e ai bisogni umani di tutti questi individui? Accettiamo funzioni impensabili – per esempio che venga bloccata la foto della guerra in Vietnam con la bambina nuda che scappa dopo un attacco col Napalm, mentre consentiamo che vengano indirizzate pubblicità ai bambini. Questo perché un computer non discerne. 
In Europa il dibattito sugli, diciamo così, effetti indesiderati degli sviluppi tecnologici è in larga parte concentrato sulle fake news. Consentire agli Stati di regolare questo aspetto non rischia di aprire la strada alla censura? 
Certamente, è pericoloso pensare che sia il governo a decidere cosa è una notizia vera. Ed è certamente pericoloso che lo decidano Facebook, Google o Amazon. 
La soluzione è non cercare nessuna soluzione. 

È alquanto bizzarro doverlo dire, ma quello di cui abbiamo bisogno è sostenere istituzioni come i giornali e le università per farle crescere in modo che possano svolgere bene il loro ruolo. Le nostre istituzioni sono state così danneggiate che ora ci troviamo a chiederci: “come facciamo a essere d’accordo su cosa è vero?”Beh, una società sana dovrebbe avere gli strumenti per scoprirlo. Sembra quasi che la disruption della Silicon Valley stia decostruendo i nostri valori condivisi.