Repubblica 1.12.17
La metamorfosi dei fascisti
di Ezio Mauro
Non
c’è bisogno di pensare a un impossibile ritorno del fascismo
organizzato sulla scena politica italiana, per preoccuparci oggi. Basta
chiedersi quanto fascismo disorganico, sciolto, quasi naturale è già
ritornato a circolare nella nostra società. Proprio il fatto che sia
veicolato dalle notizie di cronaca spicciola dimostra che è tornato a
vivere spontaneamente fuori dal Palazzo, qua e là, senza una linea di
pensiero teorico che lo indirizzi e lo definisca. Anzi, non ha bisogno
del Palazzo, perché si muove sotto la linea d’ombra della politica
ufficiale, con blitz situazionisti che testimoniano quasi fisicamente la
radicalità di un’alternativa che non ha uguali, perché viene non da un
altro schieramento ma da un altro mondo: che consideravamo sepolto dalla
storia, mentre improvvisamente ritrova un mercato, più sociale che
elettorale.
Proprio questa alterità totale definisce la
metamorfosi del fenomeno, diverso dal nostalgismo del dopoguerra, col
culto della memoria nei presepi sepolcrali, e dalla marcia dentro Roma
attraverso le istituzioni, negli ultimi decenni. La novità del fascismo
2.0 sta nel suo essere pura presenza, azione e antagonismo. Una formula
post- politica perfetta per raggiungere le fasce più ribelli della
popolazione, convincendole che l’azione è la forma estrema della
semplificazione populista dei problemi complessi che il Paese ha
davanti. La teoria non serve, nascerà a posteriori dal gesto esemplare,
che spiega se stesso mentre si compie.
Denudato a puro gesto,
fuori da ogni orizzonte culturale e ogni progetto politico, il fascismo
torna così a farsi presenza originaria, senza cautele e senza mimetiche
parlamentari. Una citazione esemplare, una derivazione integrale, una
riproposizione esplicita, fuori dalla storia dunque al riparo dal
giudizio del secolo, dalle sconfessioni della realtà europea, dalla
memoria della tragedia italiana. Quello che torna è un fascismo pop,
surreale, che cerca una cornice forte per fiammate testimoniali, più che
un progetto politico una strumentazione pronta per un conflitto
latente, evocato, sceneggiato, predisposto.
Il nemico naturale,
simbolico, è naturalmente il migrante. Agendo contro di lui si
raccolgono gli istinti, le inquietudini, le pulsioni profonde di una
parte della popolazione infragilita dalla crisi e di un’altra parte
indurita da una inedita gelosia del welfare. Un risentimento identitario
che questo fascismo sparso trasforma in un inedito sentimento indigeno,
risalendo istintivamente fino al mito del sangue come garanzia perpetua
dell’identità in pericolo, della purezza da preservare contro le
contaminazioni, con un concetto di popolo che torna a essere sostanza di
carne e di sangue, comunità biologica più che Stato o nazione: infine
razza.
Germinando nel conflitto sociale sospeso sulle nostre
periferie, questa predicazione istintiva che torna ad unire razza e
Patria, contro i “non-popoli”, può trovare spazio in un nuovissimo
egoismo del benessere, del lavoro, della salute pubblica, quando lo
smarrimento della crisi porta a non voler più dividere nulla di tutto
questo, a distinguere tra “ noi” e “ loro”, come se l’uomo bianco fosse
l’unico titolare dei diritti umani e civili: non parliamo dei diritti di
cittadinanza.
Tutto questo è stato possibile per tre ragioni: il
riduzionismo del fascismo storico banalizzato in vizio italiano,
trasportato dalla sua eccezionalità novecentesca in un curioso capriccio
del carattere nazionale, trasformato in aneddoto, nella citazione
“innocente” del “ credere, obbedire, combattere”; mentre parallelamente
si demoliva il nesso che collega l’antifascismo della Resistenza alla
nascita della Repubblica democratica, proprio per questo non interamente
octroyée ma riconquistata. Poi il mancato rendiconto della destra
italiana (con l’eccezione di Fini) con l’eredità fascista, nel silenzio
della cultura liberale che non ha speso a destra un centesimo del
pedagogismo democratico giustamente impiegato per decenni a sinistra con
il Pci. Infine, la coscienza ottusa della sinistra italiana, nelle sue
ultime incarnazioni, che non ha saputo formulare un’obiezione critica,
un dubbio culturale al pensiero dominante durante gli anni della crisi,
lasciando così spazio all’idea che l’alternativa può nascere solo fuori
dal sistema, nell’antipolitica di Grillo e Salvini, o nella destra di
Trump. E ora, di fronte al fascismo che sdogana se stesso, non sa
leggere il pericolo, così come non sa leggere se stessa. Quanti centri
di solidarietà sommersa esistono nel nostro Paese come quello di Como
assaltato dai naziskin, con le macchine da cucire negli scaffali per
sistemare gli abiti d’emergenza ai migranti, e i volontari umiliati
dalla violenza del blitz? La sinistra lo sa? Bisognerebbe avere il
coraggio di dire che è qui e non nel sangue che si forma il tessuto
connettivo di una comunità civile, di una democrazia occidentale, della
Repubblica.