il manifesto 1.12.17
Argentina, dure condanne ai massacratori dell’Esma
Desaparecidos
e voli della morte. Il processo a 40 anni dalla dittatura Videla ha
portato a 48 condanne, 29 sono ergastoli. La sentenza di ieri è anche un
lascito dell’era Kichner in un paese che teme ritorno al passato
di Claudio Tognonato
Ieri
si è concluso il processo più importante e più lungo di tutta la storia
dell’Argentina. Dopo 5 anni di udienze che hanno coinvolto 54 imputati e
789 vittime la causa è arrivata a sentenza con 48 condanne: 29
ergastoli, 19 colpevoli con pene da 8 a 25 anni e 6 assolti. Il processo
ha giudicato la violazione dei diritti umani nel principale campo di
concentramento della dittatura militare (1976-1983), la famigerata Esma,
la Scuola di Meccanica Navale in cui venivano portate le persone
sequestrate dal regime.
Le vittime dell’Esma sono migliaia, il
processo ha riguardato solo i casi di alcuni superstiti e di molti che
furono uccisi durante la tortura o gettati vivi in mezzo al mare da
aerei della Marina nei tristemente celebri «voli della morte». Con
queste condanne all’ergastolo si è chiuso un processo esemplare in
materia di diritti umani non solo per l’Argentina ma per l’intera
umanità.
Sono passati ormai 40 anni dai fatti, ma il processo ai
responsabili del principale centro illegale di detenzione, tortura e
morte di dissidenti politici o presunti tali, vuole rappresentare un
altro passo verso il consolidamento della memoria storica. I militari
condannati non si sono mai pentiti, non hanno mai collaborato con la
magistratura e soprattutto non hanno mai rivelato la fine di migliaia di
desaparecidos.
Ora si sa che molti desaparecidos sono in fondo al
mare. Si calcola che solo con «i voli della morte» dell’Esma siano
state gettate in mare vive oltre 5.000 persone. Purtroppo il patto di
sangue tra i militari ha funzionato e i familiari delle vittime non
sapranno mai quale fine abbiano fatto i loro cari. L’impassibile
silenzio degli assassini è stato una costante in tutti i processi che si
sono susseguiti in questi anni. L’impunità della dittatura però è stata
possibile grazie alla complicità di molti argentini.
L’arroganza
militare giocava a un doppio messaggio, da una parte nascondeva
centinaia di campi di concentramento disseminati in tutto il territorio,
si calcola oltre 360. Dall’altra, davanti alle telecamere, si
rappresentava la normalità di un governo militare affiancato dalle più
alte autorità della chiesa cattolica. Si parafrasava con insolenza
Bertolt Brecht dicendo «Prima uccideremo tutti i sovversivi; poi
uccideremo i loro collaboratori; poi i loro simpatizzanti; poi chi
rimarrà indifferente, e infine uccideremo gli indecisi». Come dichiarò,
senza scomporsi, il generale Iberico Saint-Jean, governatore della
provincia di Buenos Aires, parole pubblicate in Francia da Le Monde
all’inizio della dittatura. Così, la complicità di un ampio settore
della società e l’indifferenza internazionale hanno reso possibile un
genocidio.
La riparazione storica continua, la memoria è la
facoltà che dimentica e deve essere continuamente ripresa per non
ritornare all’oblio. Questo lungo percorso è iniziato nel 1985 durante
il governo di Raúl Alfonsín, che condannò i membri delle Giunte militari
per delitti di lesa umanità. La dura sentenza non fu però definitiva:
calmate le acque, i carnefici furono beneficiati dall’indulto nel 1989
durante il governo di Carlos Menem. Ma prima ancora, nel 1986, lo stesso
Alfonsín aveva fatto retromarcia e sancito le norme di «Punto finale» e
«Ubbidienza dovuta», per fermare la valanga di processi aperti contro i
militari. S’impedì l’apertura di nuovi processi e furono scagionati gli
autori materiali di torture e omicidi sostenendo che i quadri intermedi
non avevano potere decisionale. I processi sono rimasti bloccati dalle
leggi dell’impunità fino al 2005, anno in cui la Corte suprema dichiarò
finalmente l’incostituzionalità di quelle norme.
Grazie alle
pressioni del governo di Néstor Kirchner si sono riaperti in Argentina
centinaia di processi e molti imputati sono stati condannati. Lo stesso
generale Jorge Videla morirà in carcere nel 2013 ammettendo la necessità
della «disposizione finale» che ha lasciato 30.000 desaparecidos. Nei
governi di Néstor e Cristina Kirchner la promozione dei diritti umani è
rimasta al centro delle loro politiche. Néstor Kirchner si era definito
nella prima assemblea delle Nazione Unite come figlio delle Madri di
Piazza di Maggio.
La sentenza ora arriva in una Argentina sconvolta dal ritorno al passato con le politiche del presidente Mauricio Macri.
La
dirigente indigena Milagro Sala rimane in carcere anche se la
Commissione diritti umani dell’Onu, Amnesty e l’opinione pubblica
internazionale considerano arbitraria la sua detenzione. Il ritorno alle
politiche neoliberiste è accompagnato da politiche repressive di ogni
tipo che hanno perfino provocato la scorsa settimana la morte di Rafael
Nahuel, indigeno che rivendicava l’ancestrale proprietà delle terre
mapuche oggi proprietà del nostro Benetton.
Sono passati 40 anni,
ma le ferite non si sono mai rimarginate e il clima che si respira con
il governo Macri dimostra quanto sia difficile nella storia dei popoli
considerare acquisito quell’agognato «mai più», quel Nunca más che si
declamava ieri in aula ed è un impegno per un futuro che non sia un
ritorno al passato.